E intanto in Italia il consumo di cinema, non solo di qualità, continua a calare o, al meglio, ristagna. I dati parlano chiaro. Mentre sui giornali rimbalza la polemica su Natale a Beverly Hills titolo “d’essai”, i film d’autore, quelli veri, sono respinti sempre più ai margini di un mercato immobile. Basta guardare al resto d’Europa o agli Stati Uniti per rendersene conto. 
L’America festeggia una stagione record. La Francia brinda addirittura ai 200 milioni di spettatori annui, un dato che non raggiungeva dal lontano 1982. L’Italia invece resta inchiodata intorno ai 100 milioni, malgrado la rivoluzione dei multiplex, che in Gran Bretagna ha raddoppiato il numero di biglietti venduti in pochi anni. Inoltre mostra segni di disaffezione verso la fascia alta del cinema, che una volta contava su spettatori competenti e appassionati.

Non bastano i successi dei film di Clint Eastwood, Woody Allen o Gus Van Sant, infatti, a salvare il cinema d’autore. Quest’anno sono andati maluccio o malissimo, per fare solo pochi esempi, Motel Woodstock di Ang Lee, Frost/Nixon di Ron Howard, The Informant di Steven Soderbergh, Appaloosa di Ed Harris, e parliamo di bei film firmati da nomi arcinoti. Ma anche titoli che hanno vinto Venezia e Cannes, come Lebanon e Il nastro bianco (certo non facili), devono accontentarsi di risultati molto più modesti di una volta. Perché?

«Inutile fare l’esempio francese», risponde Valerio De Paolis della Bim. «Là fioriscono da sempre iniziative in sostegno del cinema. C’è una borghesia colta ed estesa che frequenta il cinema di qualità. E c’è, anche, una legge che proibisce di pubblicizzare i film con gli spot in tv, come si fa invece in Italia», favorendo di fatto i più forti. «Se vuoi lanciare Avatar basta la parola o il concetto del 3D. Ma per far scoprire Lebanon - il bellissimo film israeliano che ha vinto Venezia - cosa ci metto? La guerra, Israele, il nome del regista o degli attori, tutti sconosciuti?».

Certi film vanno male anche perché chiudono le sale di città. E in decenni di strapotere tv, nessuno ha formato una nuova generazione di spettatori. «Da noi i multiplex hanno semplicemente operato un travaso di pubblico» dice Lorenzo Ventavoli, storico esercente piemontese e presidente del Torino Film Festival. «Ma il problema è anche anagrafico e culturale. La fascia che seguiva un certo cinema è la più colpita dalla crisi. Sono intellettuali, precari, insegnanti. Così, anziché differenziarsi, il grosso del consumo si concentra intorno a pochi titoli, sempre quelli. Ma è colpa nostra che non sappiamo usare i nuovi mezzi. Se porti 500.000 persone in piazza per il “no B day” solo con Internet, senza stampa né tv, vuol dire che c’è un mezzo eccezionale per comunicare con i giovani che il cinema non sa ancora usare».

Web significa anche pirateria, un vero flagello ma anche un facile babau per il nostro cinema. Anche se forse il vento sta girando. «Non diamo tutte le colpe ai pirati», ammonisce il presidente dei produttori, Riccardo Tozzi. «Ci sono intere regioni d’Italia, sguarnite di sale, in cui la pirateria è per così dire obbligatoria. Ma non si può parlare di pirati se non dai un’alternativa al downloading illegale. Per questo sta nascendo una piattaforma digitale che fra pochi mesi offrirà musica e cinema a prezzi e in tempi competitivi, del tutto legalmente».

Rincara Andrea Occhipinti, Lucky Red: «Il futuro è il Video On Demand, il film dove vuoi quando vuoi. La sala sarà essere sempre meno centrale. In questo senso la pirateria, che ha quasi ucciso il cinema, diffondendo certe abitudini potrebbe farlo rinascere, se metteremo a punto gli strumenti giusti. E poi mi secca ammetterlo ma ci sono intere generazioni di registi, che so, in Cina, che si sono formate piratando il grande cinema europeo sul web...». E Fabio Fefé di Circuito Cinema, rete di sale d’essai, ricorda il ruolo dell’istruzione. «Se anziché chiedere tanti piccoli aiuti allo Stato ci fosse un’ora di storia del cinema nelle scuole, cambierebbe tutto». Difficile dargli torto.

di Fabio Ferzetti

 

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