Quattro personaggi, come nell'Aria serena dell'Ovest, sono i protagonisti dell'ultimo film di Soldini, quattro facce della stessa identità coniugata al femminile, punti cardinali di una bussola per orientarsi nella palude occidentale.
Come in Antonioni, al quale il cinema di Soldini si ispira sempre di più, le donne sono più ricettive degli uomini, il racconto tende a scarnificarsi a favore dei tempi morti, la composizione dell'inquadratura è attenta e rigorosa nel tradurre lo spazio in segno dei conflitti che assediano i personaggi. Con la stessa attenzione per la geometria compositiva del quadro filmico, la narrazione, apparentemente debole, è fortemente strutturata dalla specularità simmetrica delle due storie di Elena e Maria; i loro percorsi quotidiani sono egualmente scanditi dai luoghi: casa (status sociale, famiglia, eros), lavoro (ufficio, supermercato), spostamenti (con automobile, treno, a piedi).
Ambientata a Treviso, la storia di Elena, borghese, donna in carriera, è tutta in interni: nelle case che vede insieme all'agente immobiliare, nella sua abitazione dove incontra il suo compagno, nell'ufficio dove svolge il suo lavoro di chimico, nella sua automobile. Questi spazi chiusi connotano un sistema di vita claustrofobico. Le case sono opprimenti. Le automobili sono come le case. Al massimo si può cambiare la propria situazione passando da una casa all'altra, da un'automobile all'altra. Per questo, Anita vuole seppellire il suo gatto «lontano dalle case». Prima dell'incidente con l'automobile, c'è un'inquadratura ravvicinata sul volto di Elena, che non vede bene a causa della pioggia, del pianto e di un volantino pubblicitario attaccato sul tergicristallo. Poi investe Anita. Al grado più intenso di offuscamento della vista di Elena (una Licia Maglietta singolarmente somigliante alla Bergman di Europa '51), corrisponde una possibilità nuova, necessariamente traumatica.
A Taranto, Maria, proletaria, vive come tanti altri in angusti miniappartamenti dei palazzoni nuovi della periferia. I suoi spostamenti avvengono a piedi o in autobus, solo che lo spazio aperto non è meno opprimente di quello chiuso: Maria e sua figlia Teresa tra enormi cartelloni pubblicitari e gigantesche torri di cemento. Una modernità alienante al Sud come al Nord.
Il viaggio di Teresa, l'ultimo capitolo del film, è chiaramente una fuoriuscita da questa claustrofobia, un'entropia positiva del quotidiano mediata dall'immaginario di una bambina, che vuole vedere il Nord e conduce Elena e Maria fino al Monte Bianco. Le montagne svizzere alludevano già nell'Aria serena dell'Ovest a una diversa dimensione di vita e di lavoro per Veronica (l'unico dei quattro personaggi, non a caso femminile, che alla fine del film non rientrava nei ranghi).
Per la razionalità cartesiana conferita all'inquadratura, Soldini inizia Le acrobate con un bicchiere nel dettaglio grande come una montagna, sotto cui Teresa nasconde il suo dentino e termina con il Monte Bianco e la roccia detta Dente del Gigante, dove la bambina compie la stessa operazione. Chi ha fatto più strada di tutti è proprio il dentino di Teresa, su e giù per l'Italia per finire sotto la neve candida del monte più alto d'Europa.
Elementi di una reazione chimica, l'anziana Anita e la giovane Teresa sono i catalizzatori della crisi di Elena e Maria Con i loro desideri irriducibili, con la loro rudezza o testardaggine: Anita tratta male Elena, abituata nel suo ruolo di manager ad essere rispettata e ossequiata. Teresa si rifiuta ostinatamente di andare a scuola. Elena e Maria prestano loro ascolto. Hanno in comune la disponibilità e un sotterraneo bisogno di purezza. Per questo, in due diversi momenti del film, sia l'una sia l'altra sentono d'improvviso la necessità d'immergere il viso nell'acqua corrente. Si potrebbe discorrere a lungo di questa pulsione virginale (e battesimale) che caratterizza da un po' di anni la cultura occidentale. Del resto il viaggio di Teresa verso il Nord delle montagne è soprattutto il viaggio di Elena e Maria, la loro boccata d'aria e la loro reciproca scoperta, la complicità e l'allegria. E come nelle fughe adolescenziali - il cinema italiano uscirà mai dall'adolescenza? - sono partite senza avvisare nessuno, tanto meno i loro uomini. Sono le acrobate, la loro anima e la loro intelligenza vivono solo se capaci di volteggiare, camminare sulle mani, compier giravolte a mezz'aria e.... appoggiarsi coi piedi sulle tazze sporche dei cessi.
Film fragile e forte allo stesso tempo: forte per la freschezza di questi due personaggi, di Maria e di Elena, e della bambina Teresa, soprattutto nell'ultima parte in cui una scrittura felice in fase di sceneggiatura incontra la vivida interpretazione di Licia Maglietta (Elena) e Valeria Golino (Maria). Non altrettanto riuscito il personaggio di Anita, che non trova gli stessi accenti di autenticità. La fragilità del film nasce da problemi di sceneggiatura per la prima parte e da un limite interno connesso alla modalità di rappresentazione della crisi in cui si dibatte l'uomo occidentale. La fenomenologia del malessere ripete stancamente i suoi simboli di fronte allo specchio minimalista, e a volte diventa maniera: Elena che piange senza motivo apparente (Stefano che perdeva sangue dal naso in Un'anima divisa in due), il primo incontro con Maria, anche lei in lacrime, le coincidenze (lo stesso manichino, la stessa voglia di lavarsi, la cartolina delle acrobate) che rimandano meccanicamente a un destino comune e speculare delle due donne.
Il vivere male dell'Occidente è interiore: fragile posizione di partenza. Le corrispondono strutture narrative e compositive sempre a rischio di vacuità. Per esempio, la rinuncia a un intreccio narrativo forte e l'attenzione ai gesti quotidiani, si risolve spesso nel frammento naturalistico (la vicenda di Anita ed Elena, - singolarmente somigliante a una pièce teatrale messa in scena da Judith Malina, Maudie e Jane, da Doris Lessing). L'incontro con Anita, di origine slava, vorrebbe rappresentare l'incontro con una cultura altra, sepolta dentro la nostra, segregata e dominata (l'italianizzazione del nome, l'investimento da parte di Elena) ma appartenente a un tempo e uno spazio che fu più umano del nostro: poco più di un luogo comune.
L'alterità di Anita è inautentica e astratta, ne rimane, infine, la sola funzionalità narrativa, l'essere l'involontaria occasione per l'incontro tra Elena e Maria. Dovrebbe connotare questo incontro, mettere la casualità sotto il segno della necessità (andare «lontano dalle case»), ma tutto accade sul piano dei simboli astratti. Nel partire di Teresa e Maria, quanto è più imperiosa la necessità di questo viaggio!
Il personaggio quotidiano può essere artificioso e astratto (altrettanto falso) quanto gli eroi e le eroine delle più hollywoodiane avventure. Elena, una sera che il suo uomo non può portarla a cena, se ne rimane a casa a guardare il solito balletto in televisione, mastica pizza e piange silenziosamente. Sta male, senza sapere perché. L'uomo comune zavattiniano, ricco di storie per chi sa esserne partecipe, non ha più nulla da raccontare. È proprio l'assenza di una forte dimensione etica nello sguardo dell'autore, e della nostra cultura, a segnare la debolezza dell'approccio minimalista. Mi chiedo, e chiedo a Soldini, se questo genere di strumento conoscitivo non mostri i suoi limiti con chiarezza proprio in un film come Le acrobate il quale raggiunge la sua propria emozionante e fragile poesia solo quando l'autore si fa complice dei personaggi, nella vicenda di Maria e Teresa, nella loro necessità di partire e soprattutto nel loro viaggio verso il Nord insieme a Elena. Lo sguardo distaccato e l'oggettivismo della prima parte ci restituiscono un paesaggio umano che non parla, piange le sue lacrime di coccodrillo, irresponsabilmente. Il problema, ovviamente, non è nel metodo, ma nel suo modo di intenderlo; penso, ad esempio, all'oggettivismo dei racconti di Carver (indicato come caposcuola della letteratura «minimalista», etichetta che per altro ha sempre rifiutato), dove il quotidiano non è affatto la dimensione degli eventi irrilevanti, ma un concentrato di atrocità e disperazione continuata, diluita, tenuta a bada, conseguentemente raccontata con uno stile dimesso, impassibile ma proprio per questo pieno di tensione.
Questa tensione è il segno di uno sguardo sulla realtà carico di ethos: l'etico sostituisce il patetico, come nei film di Rossellini, di Antonioni, di Ozu, indubbi riferimenti dell'autorialità di Soldini. Mi sembra che questa tensione manchi alle Acrobate, e in generale è il limite attuale del cinema dell'indagine fenomenologica (e penso non solo ai cineasti europei, ma anche a certi autori delle cinematografie del Sud Est asiatico). Su questa via del minimalismo, il quotidiano è solo la dimensione del non accadere, se non dei segni stucchevoli di un'atrofizzata vita interiore. Non è che il dramma viene trattato oggettivamente, eticamente distanziato, ma semplicemente non c'è più dramma oppure è talmente inconsistente, che le zone morte, i tempi morti, i micro eventi precipitano in una banale pretenziosità, e per i nostri problemi non ci resta che piangere.
Antonio Medici
da PRIMA FILA in CINEMASESSANTA n. 3/1996