Gli effetti speciali, i tre mesi di riprese per una scena finale lunga dieci secondi, la protagonista all'ospedale con un collasso nervoso. Mezzo secolo fa una pellicola cambiò per sempre la nostra idea di gabbiani, corvi e passerotti. ... Contro ogni previsione dello stesso Hitchcock, che nel 1960 ancora non pensava al film successivo: Gli uccelli uscirà nel 1963, dopo sei mesi di riprese (di cui tre per i dieci secondi finali) e un anno di postproduzione, e qui l'ornitologia maniacale e la pulsione assassina dell'implume Bates sarebbero diventate incubo seriale. Gli uccelli, moltiplicazione a catena d'un innocente, ma non innocuo, automatismo omicida, ampliano su un'intera comunità la deviata aggressività domestica di Psycho.
"Ma lei mangia come un uccellino!". Già speculare in Psycho, dove "l'uccellino" rivelerà la sua rapacità nella scena della doccia, il paragone di garbo davanti ai sandwich anemici dell'impacciato Norman Bates (Anthony Perkins) trionfa in tutto il suo humor macabro, se riascoltato alla luce del film successivo di Alfred Hitchcock, Gli uccelli, che capovolge di colpo il menu: il volatile che mangia come l'uomo. Anzi, mangia l'uomo. Passerotti, gabbiani, corvi, tortore, cornacchie, lovebirds ("inseparabili" in italiano): ali, becchi, artigli, un'altra metà del cielo improvvisamente minacciosa, scatenata su un'umanità rimpicciolita, vista dall'alto, in fuga. Quasi un riscatto, la resurrezione vendicativa degli uccelli, impagliati o riprodotti in stampe ossessive in ogni angolo del motel di Psycho. Contro ogni previsione dello stesso Hitchcock, che nel 1960 ancora non pensava al film successivo: Gli uccelli uscirà nel 1963, dopo sei mesi di riprese (di cui tre per i dieci secondi finali) e un anno di postproduzione, e qui l'ornitologia maniacale e la pulsione assassina dell'implume Bates sarebbero diventate incubo seriale. Gli uccelli, moltiplicazione a catena d'un innocente, ma non innocuo, automatismo omicida, ampliano su un'intera comunità la deviata aggressività domestica di Psycho. Quante docce? Gli scolaretti in corsa sotto la pioggia di becchi stizziti nell'incalzante "sequenza dei corvi", la nube voracemente distruttiva che piomba sulla cittadina in relax e, soprattutto, nel granaio, l'assalto sadicamente "maschio" dello stormo accanito sul corpo di Tippi Hedren, algida bionda di turno: è la furia di cento coltellate, metafora, ancor più chiara che in Psycho, dello stupro, reso esplicito da Hitchcock nel film di dieci anni dopo, Frenzy, dove alla vittima finita in un "contorno" di patate fa da piano alternato l'ispettore che inforchetta una quaglia all'uvetta, eco sardonica dell'incrocio uccidere-fagocitare, delitto-banchetto.
Per il bis pennuto della doccia, trentadue inquadrature diverse (meno della metà di Psycho: settantadue), ma altrettanti giorni di lavorazione (sette) per una sequenza di poco meno d'un minuto che diventerà anch'essa un cult. E analogo ricorso a una controfigura, stavolta per collasso nervoso dell'attrice, ricoverata in ospedale con un occhio pesto e contusioni varie. Perché gli uccelli meccanici inizialmente previsti (costati duecentomila dollari sui due milioni e mezzo del budget totale) furono scartati dal regista che preferì ricorrere agli originali, pazientemente attaccati con fili (quasi) invisibili dalla costumista Rita Riggs al tailleur della Hedren. Gli uccelli, insomma, sono stati il vero problema de Gli uccelli. Per tentare di addomesticare almeno parte d'un esercito di migliaia di volatili d'ogni specie, catturati con grandi difficoltà tra gli scarichi di Bodega Bay, fu impiegata un'équipe al comando di Ray Berwick, addetta poi a nutrirli e curarli fino all'ultimo ciak. Tra i trucchi più ingegnosi per trasformarli in diligenti interpreti, le mini-calamite attaccate da Robert Boyle alle zampe delle cornacchie perché si allineassero in buon ordine su una grondaia prima dell'attacco mortale: con il risultato che, nel tentativo di volar via, i pennuti ruotarono in avanti, restando appiccicati a testa in giù in bella fila, spiedino pendulo.
Più pragmatico, Hitchcock adotta soluzioni elementari, basate sulla semplice illusione ottica, mescolando silhouette piatte ai corvi veri o posticci: "Lo spettatore non può accorgersene, perché l'occhio capta prima di tutto il movimento: vede uccelli vivi e inconsciamente gli pare che lo siano tutti". Per gli effetti speciali più complessi, ricorre invece al falso più dichiarato: il disegno animato con tutte le tecniche del momento (rotoscopio, vapore di sodio e pittura di sfondi). Suo complice è il veterano Ub Iwerks, antico papà, con Walt Disney, di Topolino, che nei numerosi piani d'attacco incorpora tra gli uccelli le sagome animate, meritandosi per gli effetti visivi l'unica nomination agli Oscar, soffiatogli da Emil Kosa jr. per Cleopatra. In una recensione mingherlina dopo l'anteprima mondiale a Cannes 1963 - evocata ora dalla Cinémathèque Française che celebra i cent'anni degli Universal Studios - François Truffaut definisce Gli uccelli un "film d'effetti speciali ma realistici" (371 piani sui 1400 del film, un record allora, anche per il budget a disposizione) e promuove il regista, d'affermata maestria, "atleta completo del cinema".
Atletismo non solo ottico ma anche sonoro. L'autore ottiene finalmente quel che non gli era riuscito in Psycho: evitare l'obbligo della musica e sfruttare le valenze emotive del suono, per accrescere nello spettatore un senso di malessere. Con i compositori Remi Gassmann, Bernard Herrmann (qui solo supervisore) e Oskar Sala, che aveva perfezionato il Trautonium, sintetizzatore dei suoni naturali, il regista innesta strida d'uccelli alterate elettronicamente proprio quando ci si attenderebbe la musica. Risultato: picchi di suspense e d'angoscia. Perché, spiega Hitchcock, "per rendere al meglio un suono, occorre immaginarne il dialogo equivalente. E nel granaio, che cosa direbbero gli uccelli alla donna? "Ora lei è nostra. E noi le stiamo addosso. Non abbiamo bisogno di lanciar grida di trionfo né di cedere all'ira: commetteremo un assassinio silenzioso"". Come dire: "Me la mangio come un uccellino".
di MARIO SERENELLINI per repubblica.it