Riccardo, ti piace raccontare storie di piccoli uomini (e donne) che però arrivano a toccare i grandi temi della vita. Da un particolare la tua visione si allarga fino a diventare universale. Da dove trai ispirazione per le storie che scrivi?
Intanto mi lusinga il fatto che tu abbia visto le mie storie e i miei personaggi così universali, quindi “popolari”. Mi piace raccontare persone in modo più vero possibile, anche quando agiscono in modo totalmente inaspettato rispetto alla commedia di oggi, quindi anche politicamente scorretto, a volte. Cerco di ottenere massima empatia tra il pubblico e i personaggi che racconto. Sono i personaggi che mi consentono di entrare in empatia con lo spettatore, ancora più delle storie.
Da dove traggo ispirazione per le storie? Quando finisco un film, passa del tempo in cui lascio un po’ il cervello “decantare”, ad aspettare che, non solo arrivino le idee, ma anche che comincino a “spingere” i temi che voglio trattare. Straccio via 2, 3, 4, 5 soggetti e sceneggiature, finché non si “impone” spontaneamente quella giusta, quella che vuole essere raccontata. Così mi sono immaginato molto burino e padre di un diciannovenne col pallino del flamenco in “Giudizi universali” (2012) e ho cercato di trattare con rispetto e sincerità il rapporto difficile tra un padre e un figlio totalmente agli antipodi. Ho voluto raccontare la dannazione della provincia, vissuta da un ventenne puro e ingenuo che non riesce ad emergere nel mondo del cinema, dei ricchi e dei figli di papà in “Com’è bella la città”(2005) e così, in “Peggio per me” (2018), da un sogno cupo che ho fatto davvero (la scena del tentato suicidio che avvia la storia) ho tratto una sorta di favola moderna sul bambino che ci portiamo dentro, che viene a salvarci dalle nostre disperazioni quotidiane. Quindi, diciamo che, in genere, è la storia (con le sue tematiche) che ti prende e ti porta via, più che il contrario.
Il cinema italiano di che stato di salute gode? Quali sono i giovani talenti che meriterebbero più attenzione e che cos’è, secondo te, che tarpa le ali alla creatività e all’originalità delle nostre produzioni?
Sicuramente, rapportato a 10 e anche 20 anni fa, il cinema italiano, per me, è in evoluzione, seppur lenta. Ultimamente ci sono stati dei fenomeni, già ampiamente citati e “studiati”, come “Lo chiamavano Jeeg Robot” (per quanto riguarda un certo cinema “di genere” finito nel dimenticatoio per 30 anni) e “Smetto quando voglio”, che ha dimostrato che è possibile fare delle commedie che escano dalla formula sentimental/buonista dai finali rassicuranti e ruffiani (non se ne può più). Ci sono giovani registi che hanno dato grandi prove: Edoardo De Angelis, i fratelli D’Innocenzo, Alessio Cremonini, Gabriele Mainetti, Valerio Attanasio… Manca ancora una cosa troppo importante: il coraggio dei produttori e la relativa fiducia negli autori. C’è poca autorialità, e quella poca che c’è viene affidata ai film cosiddetti “impegnati” che però, spesso, peccano di lentezza, mancanza di contenuti e credibilità risultando spesso pretestuosi e autoreferenziali. Poi c’è la commedia, che non gode per niente di questa “autorialità”, sempre vista come un genere “minore”. Per questo annaspa sempre più in maniera ripetitiva e omologata. Le commedie italiane sono, in genere, ben girate, ben interpretate, anche ben strutturate …ma manca la “pancia”, la genuinità, l’autorialità. Se prendi una, due, tre commedie di uno, due, tre tali e le “scambi”, non te ne accorgi, non saprai chi le ha scritte e chi le ha dirette. Questo perché i produttori limano, semplificano, aggiungono happy ending a quintali e le commedie vengono un po’ tutte uguali (con le dovute eccezioni). Per farti un esempio: prova a pensare la stessa cosa negli anni 80: prova a mettere in mano a Troisi una sceneggiatura di Verdone o far girare a Verdone una sceneggiatura di Francesco Nuti. Erano Geni di altri tempi? Assolutamente sì (e sono i miei tre miti da sempre) ma avevano anche dei produttori che lasciavano loro carta bianca, sulle tematiche, sui tempi comici, sui silenzi (che oggi non esistono più, oggi, nelle commedie, si parlano tutti sopra).
Quali sono i tuoi registi preferiti?
In Italia, sono da sempre i miei riferimenti (malin)comici: come citavo, il Verdone degli anni 80, Francesco Nuti e Massimo Troisi. Ma sono cresciuto anche con i film di Paolo Virzì, adoro il suo modo di girare, di scrivere e di guidare gli attori. Per quanto riguarda altri generi, mi piacciono molto Garrone, Crialese, Mieli, alcuni film di Luchetti, Veronesi (quando non deve fare film per “fare cassetta”). E ovviamente molti classici: Risi, Scola, Monicelli. Internazionali ce ne sono tantissimi, ma vado più a film che non a filmografie intere. Fuoriclasse assoluti Stone, Scorsese, Tarantino… Mi piacciono i primi film di P.T. Anderson, Sam Mendes… E ci sono dei cult che rivedo mille volte come “Soul Kitchen”, “Il segreto dei suoi occhi”, “Magnolia”, “A proposito di Schmidt”, “Eternal sunshine of a spotless mind”… Ho un debole per l’horror anni 80, come la serie “Evid dead” di Sam Raimi , “A Nightmare on elm street”, “Hellraiser”… Per la commedia, anche se 1000 mondi distanti da me, adoro tutto Woody Allen fino a una quindicina di anni fa. Le commedie di Allen mi conciliano col mondo.
Hai un sogno?
Da sempre e ancora quello: vivere di cinema. E al momento sono ancora molto lontano.
Nei tuoi film spesso appare il tema della speranza. Una speranza che è una voce (o una nostalgia, una presenza) dal passato e che arriva per aggiustare le cose, per aiutare ad andare avanti. Tu da cosa trai forza?
Monicelli diceva: “La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti dicono ‘state buoni, state zitti, pregate Dio, che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà. Intanto, perciò, adesso, state buoni”. Questo è, diciamo, il modo buio e disincantato di esaminare la speranza. Di sicuro è un punto di vista che tengo sempre a mente, ma voglio pensare che la speranza aiuti davvero a rendere meno dura l’esistenza. La ricerca della felicità nelle piccole cose, sarà anche retorico, ma è ciò che da il senso alla vita stessa. Io, la speranza, la trovo nei momenti felici con le persone care e nell’avere sempre un progetto in mente, che spero emozioni qualcuno in futuro.
Puoi anticiparci qualcosa dei tuoi prossimi progetti?
Ho terminato di scrivere una sceneggiatura lo scorso dicembre, dal titolo Guarda chi si vede ed è una commedia amara quasi tutta al femminile, dove cerco, con il maggior tatto possibile, di parlare dell’elaborazione del lutto da parte di una giovane vedova, a seguito di uno dei tanti disastri italiani avvenuti per mala-manutenzione. Sto cercando di farlo leggere ad alcuni produttori di mia conoscenza, ma come spesso accade, si defilano tutti inventando le cose più assurde pur di non finanziarti un piccolo film (qui potremmo stare fino alla settimana prossima, ma meglio fermarci qui). Quindi temo che lo girerò da me, con le pochissime risorse che ho e con l’aiuto di attori dal talento e passione smisurati. Credo (e spero) che inizierò le riprese a novembre/dicembre di quest’anno, al massimo gennaio 2020. Nel frattempo scrivo, scrivo e scrivo… Ci siamo persi qualcosa? è un’altra sceneggiatura a cui sto lavorando da un po’, l’ho quasi terminata e sarà una commedia più sentimentale e divertente rispetto a “Guarda chi si vede”, che parla dei “bivi” che si prendono nella vita in modo precipitoso e incosciente e le relative conseguenze … Una sorta di “Sliding Doors” molto italiano. Anche questo spero di girarlo, non troppo in la’.
Cosa serve veramente per essere felici?
Domandone da un milione di euro.
Non ho le nozioni per certe risposte… Posso supporre, molto umilmente, che per essere felici, occorra mettere a fuoco chi si è e cosa si vuole. Poi, una volta fatto questo, fare tutto il possibile per metterlo in pratica. Non importa molto il risultato, l’importante è farlo bene. Può sembrare un pensiero “arrivista”, ma credo che quando fai qualcosa che ami davvero, riesci a vivere al meglio tutto il resto, gli affetti, la famiglia, l’amore, le piccole cose quotidiane.
Intervista di Emanuela Di Matteo per insidetheshow.it 22 lug 2019