“Le ombre rosse”
Uscita in Italia: venerdì 4 settembre 2009 / Distribuzione: 01 Distribution
Titolo originale: “Le ombre rosse”
Genere: drammatico
Regia: Francesco Maselli
Sceneggiatura: Francesco Maselli
Musiche: Giovanna Marini, Angelo Talocci
Sito web ufficiale (Italia): nessuno
Cast: Roberto Herlitzka, Valentina Carnelutti, Flavio Parenti, Lucia Poli, Luca Lionello, Carmelo Galati, Veronica Gentili, Eugenia Costantini, Roberto Citran, Federica Flavoni, Valerio Morigi, Letizia Sedrick, Giovanni Capalbo, Alessandro Averone, Gabriele Bocciarelli, Ninni Bruschetta, Laurent Terzieff, Daniela Piperno, Pino Strabioli, Ricky Tognazzi, Ennio Fantastichini, Arnoldo Foà
La trama in breve…
Un intellettuale di fama mondiale viene invitato nel centro sociale “Cambiare il mondo”, creato nei locali fatiscenti di un vecchio cinema romano. L’uomo resta profondamente colpito dal fermento e dalla vita che anima questo luogo. Da una intervista rilasciata alla “Tv di strada” nasce casualmente un’idea rivoluzionaria: da questi luoghi giovanili così vitali possono svilupparsi delle realtà socialmente e culturalmente innovative. L’idea raccoglie l’entusiasmo generale e diventa un progetto destinato a creare grande clamore mediatico. Si apre un caso internazionale. Tutti si mobilitano e vogliono cavalcare l’occasione. Ma quel fermento vitale che tanto aveva colpito l’intellettuale viene ben presto stravolto, fatto oggetto di diatribe e scontri tra le diverse anime della sinistra. Fino allo smarrimento.
Note di regia
A sessant’anni da quello che, con il documentario “Bagnaia paese italiano” proiettato e premiato nella Venezia del 1949, fu il mio esordio professionale, mi trovo davanti gli stessi identici problemi di allora. Avevo diciotto anni e mi ero cinematograficamente formato sul cinema francese degli anni Trenta e poi sul Visconti di “Ossessione” e “La terra trema”. E dunque già da quel mio piccolo documentario di esordio mi ponevo i due temi che soprattutto Jean Renoir ci aveva indicato: gli sfondi – e cioè l’importanza delle azioni che s’intravedono dietro l’azione principale dei protagonisti – e l’inquadratura legata che oggi si chiama piano sequenza…
…anche qui nel centro sociale che ci siamo reinventati con Dentici nel vecchio cinema Paris, mi trovo davanti questi due vecchi temi di regia: con la differenza che nel frattempo ho avuto la possibilità di parlarne direttamente sia con Renoir che con Visconti. E soprattutto con Antonioni di cui, giusto in quel 1949, ero stato aiuto regista ne “L’amorosa menzogna” iniziando anche a scrivere con lui “Cronaca di un amore”.
Perché gli anni e anche i mezzi secoli passano, ma le indecisioni su una determinata inquadratura – come la notte in bianco per decidere in angoscia come risolvere una scena che sai fondamentale – restano identici. Per me, poi, che fin da “Storia di Caterina” e “Gli sbandati” mi trovo sempre nell’impossibilità di mettere in scena quello che è stato scritto magari sei mesi prima nel chiuso di una stanza.
… così, per questi appunti di regia mi trovo oggi a dire l’ansia quasi infantile per quell’ultima scena che finisce con la vittoria delle destre che ho riscritto di notte nello studio fotografico che, con Dentici, avevamo trasformato in una specie di loft preparato dall’editore per Siniscalchi-Herlitzka. Era una scena difficile e non è un caso che, con Marzia Mete, l’abbiamo ancora rielaborata in fase di montaggio.
In fase di montaggio e di edizione, del resto, io rivedo sempre profondamente i miei film: me l’aveva insegnato Cristaldi durante le lavorazioni dei cinque film che abbiamo fatto insieme e, insieme al rapporto creativo che stabilisco tutte le volte che è possibile con gli attori, è diventato parte del mio modo di lavorare…
STEFANO RODOTÀ, FURIO COLOMBO e GIOVANNI BERLINGUER su FRANCESCO MASELLI
(dalle prefazioni tratte dal libro “Cultura e politica nel cinema di Francesco Maselli” di Giacomo Gambetti di imminente pubblicazione, CG Editrice elettronica)
Citto non sa quando per la prima volta cadde su di lui il mio occhio cinefilo. Uso questo termine (che non mi piace) perché con il cinema coltivo un vecchio amore, ne ho scritto in tempi lontani, ho presieduto quello che, negli anni ’50, era il più grande cineclub d’Italia, il Centro universitario cinematografico di Roma. E proprio qui, trovato forse da uno dei fratelli Leto o da Lino Del Fra, vidi il suo Bagnaia paese italiano, perché andavamo alla ricerca di cortometraggi di qualità (doveva essere una serata in cui vennero proiettati anche Nettezza urbana e L’amorosa menzogna di Michelangelo Antonioni). Venne di lì a poco l’esordio con Gli sbandati, e poi La donna del giorno, I delfini, Gli indifferenti: e io gli andavo dietro, sempre più convinto non solo dal suo modo di rappresentare la società italiana, ma proprio dal suo fare cinema, dal suo linguaggio forte (che pena guardare oggi le tante, piatte trascrizioni che ci affliggono!).
Non mi giunse inattesa, quindi, la Lettera aperta a un giornale della sera, che tuttavia mi parve una svolta per la capacità di penetrazione, la mancanza d’ogni compiacenza, che davano al suo realismo uno spessore che lo distingueva da tutti gli altri. Non è questo il luogo per seguire l’intera sua filmografia. Ma non posso tacere de Il sospetto, che per stile, asciuttezza, rigore della narrazione rimane profondamente impresso nella mia memoria. Né dell’ultimo suo lavoro, il fortissimo Civico 0, che spinge la sua scoperta dove nessuno si era avventurato: il mondo delle nuove oppressioni e solitudini, dell’umanità dei cassonetti e dei bordi delle strade, che oggi troppi vogliono nascondere attraverso i divieti, invece di avviare quella comprensione sociale che proprio il lavoro di Citto può contribuire a costruire. E ancora il linguaggio, il bianco e nero, il sonoro in presa diretta…
Stefano Rodotà
Citto Maselli è l’allegro e disperato autore italiano di un cinema che non c’è. È un carovaniere avventuroso che si spinge nei canyon del non detto e del non visto, non perché vada lontano, ma perché il suo esotico è dentro le case, le vite, i legami, le solitudini, le festose speranze e il precipitare brutale di qualunque percorso nelle nostre vite quotidiane. Col suo testardo rifiuto di invecchiare (tutto interiore, tutto di testa, ma che finisce per riflettersi non solo nel suo immaginare, ma anche in come noi lo vediamo in quel suo continuo andare) Citto Maselli riesce a vedere, riesce a filmare ciò che noi non vediamo, per esempio l’incrocio dei sentimenti con la politica.
Il punto in cui la più intima e la più privata delle storie si impiglia nella rete dei grandi eventi pubblici, il momento che trasforma in militanza o partecipazione o accettazione o consapevolezza un sentire (d’amore, di odio, di attesa, di rabbia, di disperazione, di routine, di festa) che – diresti – non ha niente a che fare con gli altri, non ha niente a che fare con il mondo. Invece c’è sempre il mondo, tutto presente, nelle messe in scena spesso intellettuali, spesso eleganti, spesso di sentimento apparentemente privato, di Citto Maselli.
È come se nella scena “borghese” e qualche volta “proletaria” – ma sempre storia di alcuni – del suo cinema fossero presenti l’Africa con la sua fame, l’America Latina con le sue sanguinose lotte contraddittorie, le ferite aperte delle guerre del mondo, gli Usa in cerca di un senso perduto del che fare e del dove andare, del che cosa essere.
Ecco, un cinema in apparenza da camera, in apparenza elegante e mite, a volte persino mondano, a volte duro e aspro, si svolge di fronte a una platea immensa, la Storia, ai nostri giorni, da cui l’autore non vuole, non sa separarsi. È ciò che fa diventare ogni volta un film di Citto Maselli – magari girato con due soldi – un grande spettacolo.
Furio Colombo
Quando venni a Roma dopo la Liberazione, per proseguire gli studi e l’impegno politico, il primo incontro fu con Carlo Lizzani, dirigente dei giovani e cineasta “in pectore”. Poco dopo conobbi Citto Maselli, chiaramente orientato verso la cinematografia: e fummo amici per sempre. Ebbi poi la gioia di conoscere altri giovani registi, come Giuliano Montaldo ed Ettore Scola, e fui da loro indottrinato verso i sogni, le difficoltà e le soddisfazioni di chi sa trasformare le idee e i progetti in persone, immagini e storie.
Anni dopo fui arricchito di conoscenze (e più ancora di sentimenti) da un’insegnante personale, Giuliana, che frequentava allora l’Accademia di arte drammatica. La sposai nel 1958, e abbiamo goduto mezzo secolo di felicità. Sposai anche Citto, ma non equivochiamo. Parlo del rapporto fra Citto e Stefania Brai, che sono convissuti a lungo con molto amore e con due abitazioni. Quando decisero di unirsi, non certo per ragioni condominiali, si ricordarono che io ero stato consigliere comunale di Roma, abilitato quindi a legalizzare matrimoni; e mi chiesero di officiare la cerimonia. Ci fu gioia e perfino commozione, e adesso c’è una sola abitazione e un solo cuore.
Ho da aggiungere, ovviamente, che la politica è stata sempre presente tra le persone di cui ho parlato. Ci ha aiutato a congiungere le nostre speranze e le nostre idee, e a ricercare i temi, i linguaggi e gli scopi da raggiungere, nell’interesse di tutti. Oltre che impegnarsi nella politica, Citto ha dedicato due terzi della sua vita a filmare, e un terzo a promuovere, stimolare, organizzare. E’ stato a più riprese (ed è ora) presidente dell’ ANAC, la prestigiosa Associazione nazionale degli autori cinematografici, e iniziatore di un’analoga istituzione sul piano europeo. Nel 2001, ha organizzato a Genova le riprese dei cineasti che hanno documentato gli scontri tra i giovani e le “forze dell’ordine”, e le preordinate violenze nei confronti dei manifestanti. E inoltre…Potrei parlare a lungo, ma concludo con un augurio dei sardi: “A zent’anni, carissimo Citto”.
Giovanni Berlinguer