Quando ci incontriamo con Nicolas Philibert l’Orso d’oro è ancora una aspettativa. Sur l’Adamant, che lo ha vinto in uno dei migliori palmarès di ogni festival degli ultimi anni con la giuria presieduta da Kristen Stewart, era appena passato in concorso, quasi verso la fine: un delicato ritratto di una realtà di cura psichiatrica in un barcone sulla Senna, lungo il Quai de Repèe, che fa riferimento al Polo Psichiatrico del centro di Parigi. Lì pazienti e curanti si incontrano ogni giorno e vivono insieme una dimensione di scoperta attraverso la relazione umana, la cultura, la musica, i libri, i film.
Una sfida, nata diversi anni fa da un progetto curato dalla psicologa e psichiatra Linda De Zitter che aveva messo insieme architetti, pazienti e curanti perché questo sogno divenisse realtà. «Conoscevo l’Adamant da tempo, poi mi è capitato di andarci, mi hanno invitato a alcuni workshop mostrando i miei film» racconta il regista.
Da cosa sei partito per filmare la vita sull’Adamant? Non è la prima volta che ti confronti con una istituzione psichiatrica, «La Moindre des choses» parlava della clinica di La Borde.
Mi interessava l’idea della cura che non può essere ridotta all’amministrazione quotidiana di visite, medicine e così via, e che invece dovrebbe mettere al centro della sua pratica la relazione umana, la singolarità di ciascuno. La psichiatria mi ha sempre interessato, è uno spazio che inquieta e al tempo stesso pone delle sfide, che fa pensare a noi stessi e ai nostri limiti. È uno specchio che ci dice molto sulla nostra vita. Purtroppo negli ultimi venticinque anni nel settore pubblico ha subito un decadimento dovuto ai tagli di budget, a promesse disattese, a situazioni che pian piano hanno demotivato chi vi lavora. L’Adamant è un luogo di resistenza rispetto a questo, ogni paziente ha un suo peso specifico, perché la psichiatria non è una scienza esatta. C’è chi pensa sia giusto riempire i pazienti di medicine per normalizzarli, e chi invece prova altre strade. Lì appunto non si cerca di «normalizzare» i pazienti ma si lavora su come ciascuno è, considerandolo nella sua unicità. Alcuni di loro sono ospedalizzati, altri no, ma al di là delle situazioni sull’Adamant trovano un’umanità che in altri casi è preclusa. Quella realtà ci dimostra anche che tutte le istituzioni, oltre alla sanità anche la scuola e la famiglia, devono essere curate.
In che senso?
Si deve evitare la routine, la burocrazia, la ripetizione che uccidono il desiderio necessario a praticare qualsiasi forma di cura. Ci vuole invenzione, passione, non ci si può affidare a gesti meccanici, stanchi, di chi non è coinvolto in quello che fa e perciò non riesce a coinvolgere neppure chi cura. Non si tratta solo di professionalità, ci possono essere stagisti di primo livello che hanno capacità meravigliose di curare, di attenzione, più di tanti iper-specialisti. Nella realtà dell’Adamant questa energia, questa invenzione costante sono vive; e non significa confondere lo statuto professionale né le funzioni di curante e curato ma è rilanciare questa relazione all’interno di una dimensione collettiva dove la cura è anche un scambio, curare fa bene a chi lo fa, permette di scoprire delle cose insieme. Sull’Adamant non ci sono etichette: chi cura non è identificato da una divisa o da un distintivo.
Come ti sei avvicinato alle persone? Ci sono alcune figure che tornano più spesso mentre il paesaggio intorno, e gli abiti, suggeriscono un movimento che ha attraversato diverse stagioni.
In realtà ho lasciato passare un po’ di tempo tra una ripresa e l’altra per prendermi una distanza e per non stare troppo addosso alla gente. Volevo far respirare le persone che filmavo, non prenderle in ostaggio. Se qualcuno si avvicinava e parlava un po’ con me allora filmavo, li seguivo, poi li perdevo. Ci sono molte questioni che ci si pone filmando un disagio, una malattia, come fare per non utilizzare un potere della macchina da presa, come porsi in modo da non «sfruttarli». Ho cercato di essere il più aperto possibile alle suggestioni intorno, anche perché credo, e ancora di più oggi, che il cinema sia una dialettica tra ciò che vedo o che penso io come regista e quello che si aspetta lo spettatore. Mi piace lasciare spazio, creare dei fuoricampo mentre adesso si cerca di spiegare ogni dettaglio dicendo al pubblico cosa deve pensare, che deve vedere. Questa idea di mostrare tutto, di rendere tutto visibile e evidente appartiene molto del nostro tempo, basta guardare i social network: la gente mette quello che mangia a cena, dove va in vacanza, ogni istante. Fa vedere tutto per non dire niente.
Articolo di Cristina Piccino per ilmanifesto.it