Riccardo Faggin era un ragazzo di 26 anni, studente universitario di Scienze infermieristiche. Era, perché pochi giorni fa Riccardo ha deciso di togliersi la vita simulando un incidente stradale. Il giorno dopo avrebbe dovuto laurearsi. O almeno, questo era quello che aveva detto ai genitori, che avevano preparato tutto l’occorrente per festeggiare l’occasione. Solamente dopo l’incidente mortale, i genitori di Riccardo hanno scoperto che quella seduta di laurea il giorno dopo non si sarebbe mai tenuta. “Penso e ripenso a qualche particolare, a cui non davamo peso. Ci sembrava che Riccardo avesse soltanto qualche giornata strana, magari solo le scatole girate. Invece aveva indossato una maschera. E noi non ce ne siamo mai accorti”, ha dichiarato la madre di Riccardo in un’intervista, in qualche modo attribuendosi la colpa della morte del figlio.
La storia di Riccardo è in un certo senso molto simile a quella di molti altri coetanei che trascorrono gli anni della propria vita professionale e universitaria schiacciati dal peso delle aspettative. A fare la differenza è l’epilogo, che nel caso di Riccardo è drammatico. Le aspettative. Tanti di noi trascorrono la vita cercando costantemente di soddisfarle, spesso finendo per impedirsi di esprimere la propria vera essenza e le proprie attitudini.
Io non credo che la morte di Riccardo sia colpa dei genitori, credo piuttosto che molto spesso anche i genitori subiscano la pressione psicologica del soddisfare le aspettative degli amici, dei conoscenti, dei familiari. In una parola: della società. Viviamo in una società che ci alleva fin dalla più tenera età inculcandoci il concetto di successo a tutti i costi, dove per successo non si intende certo la fama, ma la necessità di aderire perfettamente a determinati canoni professionali e di istruzione. Il diploma, la laurea nei tempi corretti, lavorare con sacrificio, farsi una famiglia, tutto per ottenere una qualche sorta di posizione nella società. Il fallimento non è concepito, la caduta momentanea è considerata un segno di debolezza. Solo i deboli subiscono battute d’arresto o commettono errori. La fragilità non è ammessa, anzi va insabbiata.
Sullo sfondo rimangono molto spesso attitudini, inclinazioni, abilità e volontà della persona, che se non rispondono perfettamente ai desiderata della società vengono immediatamente bollati come capricci o perdite di tempo. A scuola così come nel mondo del lavoro. La passione? Che risate. Un’inutile ostinazione da sopprimere se non comporta un concreto ritorno economico in tempi brevi.
Sin dal primo giorno di scuola ci viene insegnato con accanimento che dobbiamo diventare un utile ingranaggio di una società, che dobbiamo essere in grado di produrre un valore economico per le imprese che avranno bisogno della nostra manodopera. Questo è il nostro scopo sulla terra. Non conta la qualità della vita e infatti le rimostranze, le ondate di Great Resignation e quelle di Quiet Quitting che in questi ultimi anni hanno iniziato a partire soprattutto a partire dai più giovani vengono reputate inutili lagne di ragazzi svogliati da molti imprenditori e numerosi politici.
I ragazzi non hanno voglia di lavorare, di impegnarsi, di sacrificarsi. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Tutti i santi giorni. Perché è più facile porre l’accento sul fatto che certi settori non riescono più a trovare manodopera anziché sul motivo per cui queste imprese non trovano più persone disposte a lavorare: salari infimi, totale assenza di equilibrio tra vita privata e professionale, incapacità di coltivare i diversi talenti dei collaboratori. Ma è molto più semplice puntare il dito, molto più complesso andare in profondità per analizzare le cause che hanno portato a questo scollamento tra le parti. La verità è che le cause non interessano perché sono viste come un ostacolo alla produttività e alla produzione di ricchezza, le uniche cose che contano. Come se la vita di un individuo debba ridursi solamente a questo.
Articolo di Charlotte Matteini per today.it