Ci sono film che nascono per scommessa e incuriosiscono come le sfide di varia specie. Nel cinema se ne sono visti più di uno. Ricordo un cortometraggio italiano degli anni Dieci in cui una storia d’amore e di adulterio era raccontata, filmando solo i piedi e le scarpe dei protagonisti: il primo incontro, la seduzione, la scoperta del marito, il duello con il rivale, la conclusione. Una prova di estrosità, innegabilmente.
In La spia di Russell Rouse, un thriller spionistico del 1952, la colonna sonora è riempita di musiche e rumori, ma non di parole, neanche una. Si sopprime il dialogo e il racconto è comprensibile dall’inizio alla fine con le sue giravolte e complicazioni. Delmer Daves in La fuga (1947) descrive l’evasione di Humphrey Bogart dalla prigione, condividendo il punto di vista del fuggiasco a lungo – almeno una ventina e più di minuti – finché, dopo aver superato svariati ostacoli, il protagonista, si imbatte in un conducente di taxi che lo mette nelle mani di un medico radiato dall’ordine professionale che lo sottopone a un intervento di chirurgia plastica per cambiargli i tratti fisionomici. Tolte le bende che coprono il volto di Bogart, la macchina da presa adotta la visuale oggettiva. Lo stesso procedimento è stato impiegato da Robert Montgomery in Una donna nel lago (1946), desunto dall’omonimo romanzo di Raymond Chandler. In questo caso, il film è interamente coniugato in prima persona, tranne un rapido prologo e un veloce epilogo e due brevissime immagini in cui Philip Marlowe si riflette in un paio di specchi. Come si vede, l’acclamatissimo The artist di Michel Hazanavicius, insignito dell’Oscar 2012, ha più di un precedente e ripropone gli stessi interrogativi che avevano suscitato gli altri film. Ci si domanda se ci sia una necessità espressiva per eliminare l’uso della voce, narrando di un divo al tramonto e di una giovane attrice, astro ascendente, mentre la rivoluzione del sonoro sconvolge Hollywood e il mondo del cinema. Ad essere schietti e immediati, non riesco a scorgerla, avendo il film la sua ragion d’essere in un esercizio mimetico, consistente nel dimostrare come sia possibile allestire un melodramma con l’appendice di un happy end, sfoderando modalità drammaturgiche, convenzioni linguistiche e stilemi di un’epoca lontana, tuttavia capaci ancora di reggere l’impatto con il pubblico odierno. Un’impresa mediata da un gusto cinefilo, consono a un approccio sentimentale e affettivo, adatto a un lavoro di ricalco. Un’esercitazione da eseguire senza contrappunto ironico o parodistico, ma nel compiacimento più assoluto per aderire in pieno all’essenza manieristica di un gioco fine a se stesso, che non per questo non richieda precisione di riferimenti, levità e pertinenza, una certosina cura dei particolari e ricostruzioni ambientali e atmosferiche insindacabili. Sono queste, virtù che The artist vanta, sfrutta e spreca in un intrattenimento che ha per scopo di “rifare il verso” a qualcosa che gli preesista e lo ispira a imitarne ritmi, movenze e contenuti piuttosto elementari. Scartando un’inclinazione critica e concependo il componimento come se fosse un’apparecchiatura tecnicistica, uno scherzo in punta di penna, un artifizio virtuosistico. Assente peraltro una impostazione metalinguistica, poiché per tale si spaccia soltanto l’autoreferenzialità, categorie, l’una e l’altra, diverse tra loro e non assimilabili. Quando eravamo studenti, io e i miei amici ci dilettavamo a scrivere qualche pagina alla maniera di Hemingway e di Caldwell per puro divertimento, ma non ci saremmo mai sognati di essere presi sul serio. Forse nemmeno il regista di The artist avrà avuto in principio pretese ambiziose, ma in parecchi gliene hanno prestate, rimanendo Hazanavicius un giocoliere che ha avuto abbastanza abilità per vincerla la sua scommessa, ma niente altro. Il film sta in piedi e risulta piacevole ai più, siano spettatori o critici, gli uni e gli altri troppo abituati a quel che scodella il convento per non accontentarsi facilmente e per scambiare lucciole per lanterne. Non azzarderei paragoni con Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen e Gene Kelly (1952), che inquadrava con esattezza di appigli una fase di transizione e riversava un fresco umorismo sui tic e sui vizi del divismo e della Hollywood leggendaria, oltre ad allineare una fantasiosa parte coreografico-ballettistica tradotta in una forma cinematografica innovativa nel genere del musical. Né reggerebbe il paragone con la commedia teatrale di George Kaufmann e Moss Hart (sono gli autori di Non te li puoi portare appresso da cui nel 1938 Frank Capra ha tratto L’eterna illusione), Una volta nella vita (1930), la più scoppiettante, mordace e indiavolata satira dell’industria cinematografica americana all’indomani della proiezione di Il cantante di jazz nel 1927 (dalla pièce la Warner ha ricavato un film in cui recitava il comico Joe Brown). Nessun parallelismo possibile nemmeno con Hugo Cabret di Martin Scorsese. Non bastano il fascino stregante della fotografia in bianco e nero, l’eleganza dei costumi, i cappellini a cuffia, le vecchie automobili, la verosimiglianza dell’enfasi emanata dalle didascalie e le musiche e le canzoni del sex age e del jazz age e le sovrapposizioni, a spostare su un gradino più alto una operazione gratuita, calligrafica, che riceve legittimazione estetico-culturale in un clima di postmodernismo declinante eppur sempre confusionario. Sarei perciò cauto nel consegnare accrediti eccessivi a un film che nella sua epidermica gradevolezza ed effervescenza cova una crisi dell’inventiva, la pochezza in cui spesso si dibatte il cinema d’oggi, soprattutto quello che ha a cuore la cassetta.

Articolo di Mino Argentieri da cineclubroma.it Diari di Cineclub

 

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