Accade soprattutto in Italia, che una suicida politica assistenzialistica incoraggi la produzione di film vecchi che hanno scarsi contatti con i profondi mutamenti della società contemporanea […] e vengono quasi sempre rifiutati dal pubblico. Il nostro cinema sopravvive attorno a contenuti e a modelli estetici superati dai tempi. E alla lunga, come constatò Angelo Guglielmi ai tempi in cui dirigeva l'Istituto Luce, le piccole storie finiscono per ucciderlo.

Gli autori italiani hanno gli occhi sulla nuca, ma non lo sanno e credono di interrogarsi sul nostro futuro anche quando in realtà guardano soltanto indietro. I loro personaggi – ha ragione Bertolucci – parlano e si comportano come se su di essi non fosse mai passata la travolgente ondata di “novità” tecnologiche, ideologiche e mediatiche che negli ultimi trent’anni ha spazzato brutalmente usi e consuetudini secolari, non soltanto nel nostro vivere privato quotidiano, ma anche e soprattutto nel nostro modo di pensare.Il mondo di sentimenti, di rapporti e di problemi che esprimono nel loro lavoro sembra ancora immerso in un’atmosfera, in un profumo da tardo Ottocento o da primo Novecento.

Ma non è del tutto colpa degli autori. Nel nostro paese esiste un clima, si respira un’aria, vorrei dire una consuetudine, una tradizione di censura che, al di là o al di qua delle leggi vigenti e della loro applicazione, è ormai penetrata nel loro stesso DNA. Le idee si formano nella loro mente già mutilate da una sorta di congenito spirito di sudditanza, una sorta di istinto che funziona come un freno automatico e li avverte che si possono spingere fino a quel punto e non oltre.

I veri poteri forti, i “grandi” poteri che controllano la nostra vita sociale e politica – ma anche la nostra vita privata e dunque la cultura, lo spettacolo, – non sono mai stati chiamati in causa dal nostro cinema. Argomenti come il mondo dei grandi affari, delle multinazionali, delle banche, delle assicurazioni, del traffico d’armi e di droga, la grande corruzione della politica e quella delle “carriere” costruite sulla corruzione della politica, sono rimasti fuori, o quanto meno appena sfiorati, ai margini del nostro cinema, anche di quello migliore.
Con qualche eccezione, certamente. Ne voglio citare un paio a solo titolo indicativo, per spiegare meglio cosa intendo: Il caso Mattei, di Francesco Rosi e Tonino Guerra, e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri e Ugo Pirro, due opere che in qualche modo si sono sollevate da una dimensione angustamente “dialettale”, e hanno almeno tentato e in parte raggiunto un respiro più ampio. Potremmo trovarne, forse, un’altra dozzina. Piuttosto poco per oltre cinquant’anni di cinema.

E avete notato che, a giudicare dal cinema e dalla TV, solo gli autori statunitensi dispongono di una così fertile fonte di materiali narrativi come quella fornita dalla corruzione degli organi di polizia? In Europa siamo sfortunati: possiamo contare solo sulla incrollabile efficienza ed onestà di personaggi come l’ispettore Derrick, il maresciallo Rocca, il commissario Maigret. Che sventura sarebbe stata per il povero James Ellroy nascere, chessò, a Napoli, o a Marsiglia, o ad Amburgo, invece che a Los Angeles. Cosa diavolo avrebbe mai potuto raccontarci?

Anche ammesso che vi passassero per la mente, storie come quelle narrate nei film citati – o in altri come Wargames, Affari sporchi, Traffic, Virus letale, Codice d’onore, Full Metal Jacket, La conversazione, Insider, Liberty Stands Still, Indagini sporche, La figlia del generale e ne potremmo elencare ancora moltissimi – belli o brutti che siano, qui in Italia non vi potreste sognare di proporle a nessuno. E non per una mera questione di budget. Piuttosto (e se non ci arrivate da soli qualcuno vi aiuterà ad arrivarci) per una questione di opportunità. Farei meglio a dire: di “opportunismo”?

Un esempio tra tutti. In Scarface (1983), scritto da Oliver Stone e diretto da Brian De Palma, c’è una scena in cui l’ispettore dell’antidroga Mel Bernstein (l’attore Harris Yulin) avvicina in un locale pubblico il gangster Tony Montana (Al Pacino) per ricattarlo e costringerlo a pagare una tangente sul giro d’affari della droga. Gli offre i suoi servigi e nello stesso tempo lo minaccia dicendo: “… Ho otto killer col distintivo che lavorano per me…” Riuscite a immaginarvelo voi, un autore italiano che metta in bocca ad un commissario della nostra polizia una battuta del genere? Io no.

Certo, si può obiettare che nel nostro giocondo e illibato Paese certe cose non succedono. Ma ne siamo sicuri?
Ciò di cui possiamo essere assolutamente sicuri è che nel nostro giocondo e illibato Paese vi sono argomenti tabù anche a prescindere dalla loro concreta “possibilità di accadere”; argomenti sui quali è assolutamente sconsigliabile lavorare di fantasia.
Se per caso vi frullasse nel cervello la tentazione di raccontare addirittura – come negli Stati Uniti hanno fatto con Potere assoluto David Baldacci, autore del romanzo, e Clint Eastwood regista del film – che un ipotetico presidente della Repubblica, durante un appuntamento erotico con la moglie di uno dei suoi più importanti finanziatori elettorali, la uccide e tenta di soffocare il delitto e lo scandalo con l’aiuto dei servizi segreti, state attenti: ammesso che troviate un produttore disposto a produrlo, un noleggiatore disposto a distribuirlo e un circuito di sale disposto a programmarlo, in Italia rischiereste seriamente di finire in galera.
Ci è invece permesso di vedere tranquillamente il film di Baldacci e Eastwood perché il presidente di cui vi si parla, non è quello della Repubblica Italiana, ma quello degli Stati Uniti.

Sul presupposto che vi fossero in Italia alcune centinaia di creature chiamate da una prepotente e ineluttabile vocazione ad abbracciare il mestiere dell’autore di film, e fosse loro negato da rigorose prescrizioni mediche di tentare – pena gravi rischi per la salute – una qualsiasi attività diversa quale, ad esempio, un impiego nella difesa ambientalista, un servizio civile o altro incarico socialmente utile, il nostro Stato, il nostro provvido e paterno Stato, predispose alcuni decenni or sono una legge che rendesse loro possibile soddisfare la prepotente, ineluttabile vocazione.

In base a tale legge, tutti i contribuenti, lo volessero o no, fossero o non fossero disposti ad andare a vedere i film realizzati da quelle povere creature malate di cinema, erano obbligati a pagare una piccola invisibile tassa, o se preferite una sorta di tacito obolo, per rendere possibile quell’opera di caritatevole misericordia.

Mi sia perdonata l’ironia, nella quale, vi prego di credermi, non c’è niente di personale nei confronti di quanti hanno beneficiato di tale obolo; anche i produttori di un paio di progetti firmati da me ne fecero richiesta, e una volta persino con successo. La mia ironia ha come bersaglio il principio amministrativo, il “progetto” politico-culturale – chiamatelo come volete – che stava dietro questa legge.

Intanto va detto subito che non si trattava di un prestito regolato dalle consuete norme bancarie. La legge prevedeva che i beneficiari di quel contributo non fossero tenuti a restituirlo se il loro film non incassava, se cioè nessuno andava a vederlo.
La sostanza della legge, secondo la sintesi che ne forniva nel suo sito Internet il Ministero dei beni culturali, diceva che: “... La caratteristica di tali prestiti, per i film di interesse culturale, consiste nell’essere assistiti da un Fondo di Garanzia.” E precisava che, “… trascorsi due anni dall’erogazione, le somme eventualmente non restituite dal produttore alla Banca, per insufficienza di proventi di mercato, sono coperte da questo Fondo nella misura massima del 70% del prestito concesso. Il restante 30% deve essere restituito, in ogni caso dal produttore alla Banca Nazionale del Lavoro entro 5 anni dal momento della concessione del prestito, pena l’impossibilità di ricevere, per tre anni, qualsiasi altro prestito o beneficio di legge.”

Riuscite a vedere la magagna?... No?... Allora provo a spiegarvela io.
Poniamo che io sia un produttore e proponga un film che viene approvato dalla commissione esaminatrice e ottiene dal fondo di garanzia il prestito di un miliardo di vecchie lire. Vi sono stati casi di film finanziati con molti miliardi (fino a dieci, e in qualche caso, pare, anche oltre), ma noi semplificheremo facendo un calcolo dimostrativo sulla base dell’ipotetico, unico miliardo.
Dunque, io produttore incasso il miliardo, realizzo il film e lo distribuisco, ma (facciamo l’ipotesi peggiore) non incassa un soldo. Devo restituire un miliardo, ma so già che il 70% di questa cifra (settecento milioni) è coperta dal fondo di garanzia. Non sono tenuto a restituirla. Mai. So anche che per restituire il residuo 30% (trecento milioni) ho tempo cinque anni, scaduti i quali, se non ho assolto il mio debito, non potrò più godere per almeno tre anni di altri fondi di garanzia.

Niente paura. Ho già proposto un altro progetto di film alla commissione esaminatrice; mettiamo che anch’esso venga approvato, e io ottenga in prestito un altro miliardo. Mentre realizzo il mio secondo film, “distraggo” da questo secondo miliardo i trecento milioni necessari a saldare il mio debito precedente; con gli altri settecento milioni faccio il film e lo immetto sul mercato. Neanche questo fa una lira d’incasso, ma che importa? Ho sempre solo trecento milioni da restituire e cinque anni di tempo per farlo. E intanto, presento alla commissione esaminatrice il progetto di un terzo film... Divertente, no?

Vi state chiedendo come faccio a realizzare il secondo film con “soli” settecento milioni, avendo dovuto “distrarre” trecento milioni dal secondo finanziamento per pagare il debito del primo?... Beh, non occorre essere il mago Casanova. Qualunque “onesto” produttore potrà facilmente spiegarvi, se vuole, come si possa con settecento milioni produrre un film da un miliardo. Questi piccoli miracoli amministrativi sono il pane quotidiano di certa nostra brillante imprenditorìa cinematografica.
Si narra che qualcuno sia riuscito a ripetere questo giochetto fino a sei, sette... nove volte!...
Si narra anche – ma forse si tratta di leggende metropolitane – che qualcuno sia riuscito a farlo senza produrre effettivamente neanche un solo film!!...
Ma io non ci credo.
Mi rifiuto di crederci.
Sono quasi certamente fantasiose calunnie.
Anzi, lo sono assolutamente.

Estratti da “Sunset Boulevard”, editore Filema, di Ottavio Jemma

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