CINEMA PUBBLICO CINEMA PRIVATO, CONSCIO INCONSCIO
All’interno del convegno sul cinema privato c’è stata la partecipazione di un altro esperto: Adriano Aprà, del quale vorrei riportare la trascrizione di una parte della video-intervista realizzata da Luca Ferro promotore della manifestazione le Giornate del Cinema Privato a Siena nel novembre 2005:
La distinzione cinema pubblico, cinema privato, significa distinguere due campi; quello evidente, che nasce all’interno dell’industria, con fini commerciali anche se poi le opere possono essere artistiche; un altro che è enorme, ma sommerso che comprende non soltanto il cinema familiare o home movies, ma tante altre cose. Immagini e suoni che vengono prodotti al di fuori del meccanismo pubblico (nel senso che si prevede che c’è un vasto pubblico che lo andrà a vedere). Un pubblico c’è sempre, il problema è che può essere un pubblico specializzato. Il campo è enorme e merita un’indagine, perché effettivamente se ne sa molto meno, rispetto al cinema industriale e soprattutto al di la dell’informazione non c’è una riflessione. Io occupandomi, non tanto di home movies anche, quanto di cinema che non sa bene come definirsi, chiamiamolo non-fiction, mi sono reso conto come l’estetica che si può dedurre da questo cinema, consente di vedere diversamente il cinema main stream, e questo è molto interessate. E come se il documentario, la non-fiction, fosse l’inconscio del cinema pubblico, si esibisce, ma al proprio interno, le contraddizioni, i lapsus, le varianti storicamente rilevanti tenessero conto di questo sommerso che in alcuni casi viene fuori. Il segno dell’artista è sempre qualcosa che noi critici storici andiamo a leggere contro le apparenze, almeno dovremmo leggere dove altri non leggono e quello che si legge è ciò che non è la codificazione del linguaggio, almeno io così faccio. E sembrano altre cose, io sento che c’è anche questo elemento. Ovviamente il cinema privato ha condizionamenti diversi da quelli del cinema industriale, questi condizionamenti possono essere assunti come tali, oppure combattuti. Uno può voler fare come fece Nanni Moretti con Io sono un autarchico, un film in super 8 che in realtà si sente che voleva essere in 35 mm; donde un elemento un po’ spurio, cioè c’è qualcosa che non funziona. Ma ci può essere anche Rosselini che fa Siamo donne, con Ingrid Bergman in 35 mm, con lo spirito dell’home movie, e già la cosa diventa molto più interessante, però è chiaro che sono delle eccezioni, allora l’artista è qualcuno che apparentemente assume determinate regole, ma poi sotterraneamente le contraddice. Mi viene n mente qualcosa che mi raccontò Mario Camerini tanti anni fa, per cui io gli chiesi come mai i suoi film del dopo guerra sono così meno interessanti dei suoi film fatti durante il fascismo, con quindi censure molto rigide. “Ma perché io mi divertivo di più ad aggirare subdolamente dei canoni che non erano solo di censura erano anche di linguaggio cinematografico, quando si poteva dire tutto c’era meno gusto” che poi è il problema per cui un cineasta come Hitchcock, ha tardato tanto ad essere vissuto come autore, perché nessuno aveva pensato che dietro la maschera ci fosse un altro discorso.
Ci si era limitati alla maschera.Il motivo per cui se tu fai un film impegnato sembra più serio di una commediola che caso mai in se contiene tutta una serie di metafore. Quell’inconscio che viene fuori attraverso lo stile, questo significa anche che nel momento in cui io vedo un film a basso costo o un film ad alto costo che può andare dal kolossal al film familiare, non mi pongo problemi diversi. Naturalmente devo avere coscienza delle caratteristiche tecniche che condizionano quel modo di fare, perché sono opere pur sempre, ma in ogni caso con condizionamenti diversi. E’ evidente che il cinema ad alto costo ha avuto delle varianti nel momento in cui la tipologia delle macchine da presa è cambiata, quando il modo di registrazione del suono è cambiato e bisogna tener presente questi fattori per capire perché si faceva così e poi si è fatto cosà. Lo stesso problema che si pone nel momento in cui si passa nel cinema a bassissimo costo home movie dal 9,5mm, 16mm, 8 mm, super 8 e il video e che cosa cambia questo. Anche se l’artista non si è mai lasciato condizionare da queste cose, perché la storia del cinema è piena d’eccezioni. Come mai questa cosa che tecnicamente non si poteva fare è stata fatta? Perché quello la voleva fare a tutti i costi, nonostante gli impedimenti la fatta così come nonostante gli impedimenti della censura ci sono dei film…, ma come non c’era quella norma, come ha fatto a far vedere quella cosa che non si poteva vedere? La voleva talmente tanto che avrà fatto qualche cosa per poterlo ottenere.
…Vertov ha fatto un film in presa diretta negli anni ’30, (uno dei rari casi di presa diretta in quel periodo). Vuol dire che si è posto un problema. La maggior parte degli altri vuol dire che non si è posta il problema ha accettato i condizionamenti e quindi l’ha fatto con la voce fuori campo, più o meno bene secondo i casi.
…Non è che piccolo è bello rispetto a grande: è bello dipende, dipende sempre. Questo sollecita chi se ne occupa, a non partire dalla pregiudiziale: noi marginali siamo poveri e quindi tutto diventa più interessante; che era un po’ l’equivoco che c’era nell’underground americano, secondo me, dove non si volevano fare selezioni, perché c’era bisogno comunque di far vedere…Si, fino ad un certo punto va bene, però poi ci sono i brutti film sperimentali, ci sono i brutti film narrativi, ci sono i brutti home movies, ci sono gli home movies belli. Si può schematizzare così: il cinema narrativo è un cinema alla terza persona, loro fanno questa cosa, e questo limita la possibilità di espressione dell’uomo, che non può dire, già è difficile dire tu stai facendo questa cosa, figuriamoci poi dire io. Perché il cinema narrativo è in terza persona, se non addirittura impersonale, si fa così…Certamente un limite, è come se io dovessi per forza scrivere un romanzo nascondendomi, è un modo, uno stile, però il fatto che non si possa fare altrimenti, se non in maniera molto eccezionale…Dall’altra parte improvvisamente si è liberata la possibilità di parlare in prima persona. Questo ha enormemente aumentato la possibilità di dire. Con le immagini e con i suoni si sono aperti dei campi vastissimi e che ancora non sono stati codificati è difficile mapparli, capire quello che è. Ma tutto questo è successo in maniera rilevante secondo me, …negli anni ’80, in maniera ampia, ci sono al solito degli esempi precedenti, ma che erano eccezionali. Dagli anni ’80 in poi questa cosa è diventata abbastanza diffusa soprattutto nel cinema di non-fiction….E’ straordinario, perché le grandi novità, secondo me, il nuovo cinema. ..Quando io facevo Pesaro, io davo larghissimo spazio alla non-fiction, perché era lì che secondo me,si manifestava il nuovo. Quando dico conscio inconscio che sono pur sempre delle metafore però è chiaro che l’io è più inconscio che non il discorso del loro.
MICHELANGELO BUFFA
Nel gennaio 2006 ho video-intervistato Michelangelo Buffa, al quale ho fatto alcune domande sul suo percorso di cineasta, su alcune opere della sua produzione e sull’evoluzione della sua poetica. Buffa, classe ’48, si avvicina al cinema con una passione “doppia”, da una parte la passione per il cinema proiettato, una passione istintiva immediata dall’altra subisce il fascino per la macchina da presa. Un’attrazione verso la mdp, per l’oggetto meccanico e misterioso, che diventa molto presto il piacere di riprendere, il piacere di possedere un mezzo che permette di ricreare la vita. Il momento in cui Michelangelo riceve dal padre la prima macchina da presa è all’età di quattordici anni (una Bolex Paillard 8mm a fuoco fisso). Per Buffa il fatto di possedere una mdp, rappresenta «la compagna della sua vita, il suo terzo occhio» un’occhio privilegiato con il quale osservare il mondo, ma soprattutto se stesso. In questo primo periodo, introspettivo e autobiografico (come viene definito dall’autore), inizia a auto-filmarsi, si racconta le proprie angosce esistenziali, il proprio disagio giovanile i propri sogni. Questo primo periodo ben si rappresenta nel film Alphaville ,di cui la scheda redatta dall’autore, dice:
ALPHAVILLE
1972-2000,8mm-MINIDV.B/N-COL.39’
MICHELANGELO BUFFA
L’attuale Alphaville è per così dire un ibrido: ha un corpo in pellicola 8mm colore e bianco e nero(girato con due 8mm Bolex Paillard di cui una con zoom e con possibilità di fare sovrimpressioni e dissolvenze) ed un’ampia premessa attuale girata con videocamera digitale. In origine il film in 8mm era muto e come titolo aveva: Il dio, il diavolo e l’angelo nella terra di Alphaville; ed era dedicato a “pochi intimi cinefili” !
Già il titolo rimanda al mondo del cinema vissuto da me in quegli anni in una dimensione totalmente cinefilica ( almeno tre film ogni giorno per alcuni anni, esclusi sabato e domenica). La “terra di Alphaville” è “ il “ Cinema, che a quei tempi coincideva simbolicamente col cinema o metacinema di J.L.Godard, colui che ha reinventato, forse per l’ultima volta , il cinematografo. Il mio 8mm contiene appunto immagini da l’Alphaville di Godard, come citazione amorosa in movimento immersa in un mare di altre immagini cinematografiche (foto) riprese da riviste, essenzialmente dai Cahiers du Cinema, rivista cult del periodo, da me letta, tradotta, studiata negli anni settanta.
Il dio, il diavolo e l’angelo sono un riferimento emblematico all’altro polo fortemente ideologico del periodo: la lotta di classe, la lotta di liberazione…e quindi l’impressionante mitico ed arcaico cinema di Glauber Rocha, simbolo del risveglio del “terzo mondo” .
Il mio Alphaville quindi è un groviglio di tensioni dove mescolate fra loro troviamo la cinefilia totalizzante, le simpatie politiche e rivoluzionarie, le angosce esistenziali striscianti, l’esistenzialismo ribelle, l’onirismo psicoanalitico….è per tutti questi aspetti che lo amo molto, che lo sento profondamente mio e che lo considero in un certo senso il mio “capolavoro”! Un film fatto quasi in stato di trance!
Quasi tutto il film funziona su immagini doppie, sovrapposte, per una ragione inconscia e pratica: da un lato avevo poca pellicola e volevo girare molto quindi (l’8mm lo permetteva perché la pellicola si presentava in piccole bobine che potevi reimpressionare, cosa non possibile col Super8 la cui pellicola si presentava chiusa dentro caricatori di plastica) reimpressionavo la stessa pellicola a volte creando consapevoli immagini sdoppiate, altre volte impressionando immagini su immagini il cui rapporto diretto era spesso casuale pur fermo restando il tema di fondo, ma inconsciamente era il mio tormentato sdoppiamento che volevo rappresentare, questo mio conflittuale amore-odio per il cinematografo: lo amavo perché era per me un territorio omnicomprensivo, tutta la realtà veniva da me decodificata, letta attraverso le immagini del cinema, dall’altra però il cinema mi privava delle materialità del reale, mi toglieva quella vita che “sognavo” nella sala buia.
Per questo il mio Alphaville è un film tragico che non potevo non finire con una morte ( una morte citata da un film di Franju, L’amante del prete).
Dopo aver ritrovato il film attraverso la riedizione in digitale è nata subito la necessità di musicarlo con una musica amata in quel periodo che mantenesse il film in quella dimensione ossessiva che è sua propria. Nello stesso tempo ho sentito il bisogno di fare questa attuale premessa/introduzione che inquadra il film , lo giustifica, lo mette a distanza, non senza un filo di nostalgia per quella pellicola che oggi non c’è più e da un punto di vista autobiografico/esistenziale questa premessa crea continuità e discontinuità nel medesimo tempo! Discontinuità nella dimensione mentale ( oggi la mia posizione è più contemplativa, armonica, centrata…) ma continuità nella pratica filmica( come prima oggi continuo ad autoriprendermi, ad usarmi come attore di me stesso in un gioco che non sembra finire). (Buffa)
Inedito nello stato attuale, solo la parte più antica in 8mm proiettato ad Ivrea una ventina di ani fa nel corso di una grande esposizione non accademica.
Buffa nell’intervista afferma che per i primi anni andava al cinema senza una dimensione critica. La dimensione critica è stata acquisita attraverso un coetaneo cinefilo, che lo ha introdotto alla lettura delle immagini, alla lettura simbolica e critica dei film, alla lettura di riviste di cinema. Da quel momento la passione si sviluppa cresce si consapevolizza, una passione che lo porterà ad esercitare l’attività di critico, condotta per alcuni anni sulle pagine di Filmcritica e su altre riviste cinematografiche.
Vedere film, amare il cinema e scrivere di cinema ad un certo punto diventò una cosa sola: scrivendo ripensavo il film nel contesto del cinema, ne rileggevo i tratti lo analizzavo; scrivere aveva una funzione razionalizzante, edificante (edificava la mia consapevolezza del linguaggio filmico). Anche qui all’inizio non scrivevo che per me stesso, per approfondire e rispondere alle domande che ogni film mi poneva… solo più avanti, diventando consapevole che essere pubblicato su di una rivista specializzata significava essere letto, mi posi nelle condizioni di colui che aiutava a capire e ad approfondire il senso di un’opera. (Buffa)
Probabilmente prosegue Buffa, l’autore che più lo ha influenzato è stato John Ford, ma anche il New American Cinema, ricchissimo di stimoli e di invenzioni, «è stata la felice scoperta di un mondo nuovo liberato e liberatorio»
Se il cinema industriale era il sogno codificato i film underground americani rappresentavano la fuoriuscita dagli schemi, si era nella concretezza pura della pellicola: impressionata, bruciata, rigata,rallentata...ecc.. La sperimentazione regnava e a volte era pura poesia . Era un cinema fatto in casa per gente di casa, cerchie di amici, film prossimi ai corpi, alla vita quotidiana, erano i documentari di se stessi anche quando erano finzione, gli autori erano tutti uomini “con la macchina da presa”. Ogni evento nella vita dell’autore lasciava una traccia sulla pellicola che era spechio di pensieri, emozioni dirette.
L’immagine che ho ancora di loro è di libertà creativa incondizionata e amore vero, incarnato, per il cinematografo.
Colui che faceva il film era anche colui che prendeva in mano la cinepresa, c’era unità di corpi e d’intenti un solo respiro. (Buffa)
Nel cinema più attuale i riferimenti di Buffa sono i film di Straub-Huillet. Buffa privilegia un tipo di inquadratura di derivazione fordiana tipicamente cinematografica, poco usata nel video (il video è più fluido), un’inquadratura vissuta come « spazio simbolico della rappresentazione». Buffa è da subito consapevole di fare del cinema, non un cinema dei grandi, professionale, commerciale, ma un cinema che lui definisce «tascabile ad uso e consumo di me stesso» (Buffa). Un cinema tascabile, immediato, pronto all’uso, istantaneo, del quotidiano, con la camera in tasca. Buffa nel modo di effettuare le riprese, non pensa ad un pubblico. Nella realtà autoriale di Buffa non c’è stato un movimento verso lo spettatore, lo spettatore entrava in gioco casualmente, quando qualcuno chiedeva di vedere la sua produzione. Secondo l’idea di questo autore è lui stesso l’unico spettatore di se stesso, i suoi film sono un residuo della sua vita, delle sue emozioni, una traccia di ciò che resta, del tempo che passa, una visione privata che non necessariamente deve interessare qualcun altro. «Filmo per me, non ho mai pensato allo spettatore, non ho mai pensato di saper o dover raccontare storie a qualcuno» (Buffa).
Nel secondo periodo intorno agli anni ’80 c’è una modificazione «mi sono messo a guardare gli altri affascinato dagli altri, dai volti. Da questi esseri che io facevo parlare ma che in realtà non ascoltavo affatto. Ciò che mi interessava era il piacere di guardarli esistere davanti alla cinepresa.» (Buffa). Lo spettatore lentamente entra nell’inquadratura, ma solo apparentemente, perché quell’immagine degli altri può essere più facilmente condivisa. Nell’opera di Buffa ogni film è un frammento di un film più grande, parti diverse di uno stesso film che è la storia della vita dell’autore. Una vita in cui entrano ed escono personaggi, il tempo, le cose che cambiano. Una vita di cui il film è il residuo, quello che resta, che si ingrandisce si gonfia, ma è sempre la stessa storia che in fondo non ha bisogno di nessuno spettatore. Buffa come tratto costante della sua pratica di film-maker, rivendica sempre il piacere di filmare senza secondi fini, solo seguendo il proprio istinto, il desiderio, il piacere di filmare. Di questo secondo periodo, più rivolto verso l’esterno verso la realtà, verso gli altri ci sono due esempi Andy Warhol’s Films e 8 Volte Godard di cui la scheda redatta dall’autore:
Andy Warhol's films e 8 volte Godard sono due Super 8 (girati con una cinepresa Nizo sonora) realizzati agli inizi degli anni 80,subito posteriori a Coppie, che appartengono al periodo, successivo a quello decisamente autobiografico, dedicati alla scoperta degli "altri". Uscendo dal mio egocentrismo esistenziale avevo voglia di incontrare gli altri da me: in particolare ero attratto dai volti, dagli occhi, volevo filmare l'Essere che era in loro, tentare di riprenderne l'anima.
Operazione perdente fin dall'inizio eppure la tensione verso quell'obbiettivo era fortissima.La preparazione era faticosa ed estenuante: bisognava convincere i soggetti a mettersi davanti alla cinepresa, fissare incontri, appuntamenti, cogliere al volo l'occasione. Li osservavo come fossero insetti, mi annientavo di fronte a loro, passiva la cinepresa registrava la loro presenza, le loro reazioni, il loro imbarazzo. Non potevo svelare loro il vero scopo della ripresa perciò ho escogitato dei pretesti che mi interessavano ben poco rispetto al mio obiettivo primario che era appunto quello di coglierne l'essere. Il pretesto per Andy Warhol furono appunto i film di A.W. che all'epoca quasi nessuno conosceva anche perchè lo stesso Warhol, ancora in vita, era poco noto, non era ancora l'icona oggi nota quanto Picasso!
Così molti inventano, immaginano...ma ciò che mi attraeva di più era il momento in cui cessavano di parlare e restavano interrogativi di fronte alla macchina da presa che inspiegabilmente(da loro punto di vista) continuava a riprendere.
Speravo si creasse un buco, una fessura per arrivare all'anima...ma nessuno ha mai sopraffatto la cinepresa, l'ha annichilita col suo Essere...sono tutti restati inermi nella loro impotenza, nei loro limiti che a quel punto io volevo cogliere non senza un certo sadismo: così li volevo amare ma finivo quasi col disprezzarli! Uno degli ultimi soggetti ripresi non ha da dire nulla, così per "segnare" il senso del film, gli propongo di ripetere questa frase: " Sono uno spirito incarnato".
Stesso discorso vale per 8 volte Godard: qui il pretesto erano otto dichiarazioni su Godard espresse da otto registi italiani. Ho così messo in bocca ad amici e conoscenti queste otto dichiarazioni lasciandoli liberi di giocarsele come pareva loro.
Tecnicamente i due Super8 sono difettosi soprattutto nel sonoro, aspetto che curavo poco anche perchè dovendo controllare molte cose insieme e lavorando da solo( non ho mai provato desiderio nel lavorare con altri anche perchè¨ ancora identificavo il punto di vista della cinepresa come il "mio" punto di vista, il mio occhio!) e dovendo appunto cogliere il momento al volo finivo col dimenticarmi sempre di qualcosa, per esempio lo stato delle batterie del microfono o della cinepresa! Ma in fondo questo non mi ha mai preoccupato molto: non ho mai cercato la perfezione tecnica né tantomeno la trasparenza, per quanto adorassi sentire la presenza del reale in proiezione. Mi è sempre bastato sapere di essermi avvicinato alla realizzazione dell'idea che avevo in mente se poi quest'idea non era perfettamente trasposta non ne soffrivo, l'idea comunque veniva espressa.
Che si senta la pellicola, la materialità dell'immagine, questo mi piace.
Questo passaggio all'osservazione degli altri coincide con l'abbandono molto sofferto del film muto.Acquistando la Nizo sonora la mia domanda angosciosa era: ..ed ora quali parole, quali discorsi ? Se i rumori del mondo reale mi affascinavano le parole mi mancavano e mi mancavano anche perché ero legato all'idea purista del cinema muto come cinema assoluto, visione pura non "sporcata" dal discorso, dalla parola consueta che spesso detestavo, dal teatro. Lasciavo così agli altri il peso e la responsabilità della parola, se la volevano: d'altronde restare ammutoliti di fronte alla cinepresa, sfidarla, non nascondersi dietro a delle parole, era cosa eroica, che nessuno ha osato propormi e che io avrei anche desiderato ed ammirato.
Comunque questo passaggio dal muto al sonoro è stato all'inizio come una perdita di purezza, come un confondermi con la volgarità del quotidiano, dell'apparenza del mondo reale. Ancora adesso il solo rapporto immagine/musica mi sembra il più emozionante ed affascinante: in questo senso Scarti di memoria è un video perfetto per me! (Buffa)
A proposito di questa tipologia di video costruito sull’incontro degli altri, Buffa afferma che oggi non è più possibile per lui, fare dei film in questo modo, perché è decaduta la magia del caricatore della pellicola a tempo chiuso. «Diventerebbe tutto arbitrario insensato, con quale criterio dovrei decidere la durata della ripresa? Con il video non esiste più la dimensione finita del tempo, la fragilità, la temporalità»(Buffa). Il cinema come la “morte al lavoro” (Cocteau). Buffa sostiene che la pellicola filma la “morte al lavoro”, il video non filma più niente di definitivo. Ma la costante è sempre il piacere di filmare senza secondi fini, una caratteristica che secondo Buffa non solo appartiene alla sua esperienza, ma attraversa in modo trasversale tutto il cinema privato. Buffa la definisce un’intima necessita, ed è una caratteristica fondamentale (il piacere di filmare) che trova la sua collocazione nell’etichetta di “cinema privato”, che dà finalmente un riparo a tutti quei cineasti che come Buffa, non avevano una collocazione, e che vivevano in una sorta di limbo, di indefinitezza e adesso grazie a questa definizione hanno trovato un luogo, una collocazione, un riconoscimento per quello che credono di essere.
A proposito del cinema privato secondo Buffa le differenze che intercorrono tra il cinema commerciale e il cinema privato, sono nella rappresentazione del quotidiano. Nel cinema commerciale il quotidiano scompare, diventa leggendario, onirico, Buffa sostiene che al cinema oggi manca la realtà, manca Lumière. Forse l’unico esempio di realtà rivissuta dal cinema è quella di Straub-Huillet o di Godard, tutto il resto del cinema è fantasia onirismo surrealtà. Buffa sostiene che è nel cinema privato che ritroviamo una certa quotidianità un’immediatezza una dimensione riconoscibile, in cui è possibile riconfrontarsi. Secondo Buffa l’elemento della quotidianità (che a sua volta era una tematica del New American Cinema, di Mekas di Brahckage) è prezioso «dal momento in cui la televisione che dovrebbe mostrarci la realtà, non ce la mostra affatto, ci mostra universi di finzione, programmi manipolati che non hanno niente a che vedere con la realtà pura, essenziale delle cose, con l’etica del vero o lo “splendore del vero” (Rosellini)» (Buffa).
La terza fase della produzione di Michelangelo Buffa è quella che viene definita da un lato etnografico-antropologico, ma dall’altro (dentro la definizione della visione soggettiva dell’autore) rientra nella nostalgia della fine del mondo contadino e dell’inevitabile esaurirsi delle cose. Ritorno a Bringuez (1995-2005) è un documentario su un villaggio abbandonato, che l’autore considera un simbolo, un monumento alla vita contadina, un villaggio dalle case cadenti, in una magnifica posizione. Un luogo meta di pellegrinaggio da parte dell’autore, legato affettivamente non tanto ai personaggi che compaiono nel corso del filmato, quanto alle pietre di quel villaggio. Un documentario che riletto dentro la soggettività dell’autore diventa una cosa privata, e si ricollega alla dimensione dell’unico grande film della sua vita. Ogni film è un frammento, un pezzo che si ricollega ad un altro, come le tessere di un mosaico, fino a formare il grande affresco della propria vita. Dentro l’ottica della famiglia che svanisce, della vita che decade, del cinema che documenta il tempo che passa. Buffa intervista più volte sua madre, nel video Una Metressa a Grand Ville (1993-2002), Buffa riprende la madre che racconta la sua avventura del primo anno d’insegnamento nel 1932 in questo villaggio di montagna ( Grand Ville). Il video cattura la capacità dell’anziana maestra Liberata Biasini di far rivivere quei momenti di vita passata. Nella semplicità della messa in scena, racconta Buffa, il video è risultato uno tra i più visti e tra i più apprezzati della sua produzione, il più coinvolgente.
Nella produzione di Buffa il video Benares, per certi aspetti di carattere etno-antropologico, rappresenta un’estremizzazione del genere. Girato in occasione di una visita alla città di Benares, allo scopo di incontrare il Gange, il “fiume sacro”. L’immagine che l’occhio della telecamera esplora, è un riflesso dell’interiorità dell’autore, il quale si sofferma sugli aspetti meno consolatori del genere documentario, e ci restituisce particolari, rumori, situazioni che diventano la soggettività dell’autore più che l’oggettività dell’ambiente. L’insistere su particolari, l’autofilmarsi, la voce off che parla dell’esperienza intima dell’autore, sono la cifra di un reale di cui l’immagine diventa la superficie. Paradossalmente diventa più oggettivo il documentario soggettivo che il documentario tradizionale. Nel documentario tradizionale (non-fiction) c’è sempre una componente di fiction, un’inquadratura da rifare, una piccola messa in scena, nel documentario privato c’è un’esigenza di riprendere autonoma da condizionamenti esterni anche da condizionamenti di carattere estetico, non ci sono messe in scena.
La ripresa è dettata da autentiche motivazioni interiori, il guadagno non è la ricompensa per un lavoro svolto, ma l’aver soddisfatto ad un bisogno che nasce dal proprio interno.
Costante nella produzione dell’autore valdostano è la sua soggettività che si esprime nella gioia di filmare il proprio punto di vista. Un punto di vista che rispetta sempre la realtà, la cronologia di ripresa (montaggio in macchina) «Non potrei mai invertire l’ordine della riprese […]è qualcosa che mi ripugna. La troverei una sorta d’inganno per il mio estremo rispetto della realtà nella sua dimensione spazio temporale» (Buffa). Il piacere di filmare introduce anche la scelta consapevole nei confronti del non-professionismo. «Il piacere di filmare anche nello scegliere il momento, le condizioni, i modi, il tema, lavorare su condizione non mi è favorevole»
Credo che per fare i professionisti del cinema bisogna essere battaglieri,decisi, ambiziosi, fortunati...quasi dei generali!Io non lo sono! Il amo il cinema tascabile, quello che porti sempre con te,che registra la tua vita in tutti i dettagli esteriori o simbolici. Amo l'indipendenza, filmare quando voglio, ciò che voglio e nel modo in cui voglio, essere il "creatore" assoluto senza compromessi soprattutto sul linguaggio: non fare questo, non lo capirebbero; questo è troppo fuori dalla norma, non puoi; questo modo di raccontare non rispetta i canoni stabiliti...ecc. Filmo per me, non ho mai pensato allo spettatore, non ho mai pensato di saper o dover raccontare storie a qualcuno...sono molto anarchico in questo senso o forse è meglio dire autarchico. In fondo non cesso di stupirmi sul fatto che a questo mondo esistano anche" altri al di fuori di me", com'è possibile ciò? Seguo mie pulsioni, mie visioni secondo miei tempi, mie fasi di sedimentazione . Per tornare al cinema professionale che spesso amo negli autori veri: ho l'impressione che il dispiego di forze e di energie consumate per realizzare il film siano una sorta di spreco enorme di fronte al prodotto che poi ne esce, destinato a scomparire dagli schermi in breve tempo, visto da pochi e magari massacrato da compromessi.
Riconosco anche però che le costrizioni a volte sviluppano creatività, ti obbligano a trovare soluzioni.
Il cinema professionale è fatto per chi è riuscito a produrre una sintesi razionale sul senso del mondo e la vuole comunicare: io vivo nel mondo senza vederne i confini e quindi senza poterlo sintetizzare e razionalizzare
simbolicamente.
Oggi poi le nuove tecnologie digitali ti vengono incontro... puoi raggiungere il professionale stando a casa tua… fare ciò che ti pare senza elemosinare consensi o denari a produttori preoccupati dei risultati. (Buffa).
Il cinema, il tempo, la visione, lo sguardo soggettivo sulla realtà, sono l’orizzonte osservato da Buffa con la macchina da presa. L’obbiettivo della camera appare rivolto verso l’esterno, alla ricerca di luoghi, di personaggi, del tempo che diventa attore e soggetto delle sue visioni. La contrapposizione fra la pratica di critico cinematografico e l’amatorialità radicale, la libertà insita nel proprio istinto di filmare in contrasto con un rigore formale, lo colloca compiutamente nella tradizione cinematografica. Il continuo giocare con le immagini del proprio vissuto come in una sorta di gioco di specchi favorisce esperienze di forti visioni originali che sono la cornice del suo cinema interiore, autonomo, espressivo.
Immagini, frammenti che si spostano sulla superficie del visibile in un gioco spazio temporale mimesi perfetta del cinema.
SCHEDE
BENARES
Documentario privato
2005 MINIDV- COL. 60’
MICHELANGELO BUFFA
La caratteristica più importante di questo lavoro consiste nel ribaltamento dell’oggettività, in quanto è un documentario che documenta il soggetto e non l’oggetto. Il viaggio a Benares la città dove si viene a morire, è il pretesto per una discesa dentro il proprio stupore, le immagini documentano l’impensabile, il traffico, il caos, il rumore, un muro, un’apparente ostacolo che aspettava solo di essere filmato.
«Mentre filmavo mi rendevo conto che c’erano questi personaggi isolati. Questi volti che vagavano e che mi affascinavano cercavo questi volti. La ricerca di un incontro. Alla fine quando uno di questi uomini si accorge di essere filmato, mi guarda, mi sorride.
Quel sorriso è stata una cosa bellissima». ( Buffa)
All’interno del video c’è un episodio (bolla onirica) «sorta di sogno contenuto nel mito di Benares, perché a Benares si va per morire» L’episodio d’estinzione, è un tipo di ripresa con la tecnica della dissolvenza. Episodio che verrà riutilizzato e inserito in un altro film appena concluso Prove di estinzione.
Inedito
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SCARTI DI MEMORIA
Sperimentale
1970-2002, 8mm, 27’, B/N-COL.
Michelangelo Buffa
Se il cinema privato è l’inconscio del cinema pubblico, allora Scarti di memoria è l’inconscio del cinema privato. Dieci capitoli improbabili, resuscitati dal buio di una scatola, restituiti alla dignità dell’immagine casualmente. Rulli di pellicola rifiutata dall’autore, perché giudicata inutilizzabile tecnicamente insufficiente, ma non rifiutata definitivamente, semplicemente riposava in una scatola. Come un pensiero che ci accompagna e poi appare all’improvviso. Questi scarti di riprese, azzardi visivi, sperimentazioni, impulsi momentanei sono riemersi finalmente liberi.
Il film è composto di dieci tracce di memoria accoppiate con la musica. «Ritrovate sotto l’etichetta di scarti, visionate, riscoperto il loro fascino è così nato il desiderio di ridar loro vita…ecco i dieci episodi musicati, dieci episodi che sono stati una sfida a trovar loro la musica giusta.» (Buffa)
Proiettato a Infinity Festiva di Alba nel 2003 e a Siena nel novembre 2005
UNA “METRE’SSA” A GRAND VILLE
DOCUMENTARIO
STORICO/ANTROPOLOGICO
1993-2005 S-VHS- MINIDV.COL. 45’
MICHELANGELO BUFFA
Le immagini del villaggio semiabbandonato di Grand Ville sono lo sfondo del racconto di
Liberata Biasini maestra elementare. La lunga video-intervista ci immerge in un mondo che non c’è più, ma rivive attraverso l’inesauribile capacità dell’anziana maestra di evocare quell’avventura lontana.
«L’intervista è stata realizzata in certo periodo le riprese del villaggio sono state effettuate un anno o due dopo» (Buffa)
Proiettato Festival Milano 2002- Effetto Donna 2004- tre passaggi televisivi dal 2002 al 2005 RAI REGIONALE AOSTA, fascia oraria domenica mattina.
CONCLUSIONI
Il dibattito sulla definizione del termine cinema privato, i punti di riferimento entro cui meglio comprenderlo, i generi cinematografici che può accogliere e perché, la collocazione all’interno del dibattito accademico, il bisogno di definire nel dettaglio gli aspetti e la complessità del suo alquanto inesplorato territorio , sono gli elementi di un percorso appena iniziato.
Odin ha il grandissimo merito di avere riportato all’attenzione del dibattito accademico una parte di questo sommerso e dunque poco visibile continenete del 70%. Nel fare questo ha elaborato alcune teorie massimamente condivisibili, ma che pure naturalmente lasciano ampi spazi al dibattito, a riprova della molteplicità e complessità della comunicazione audiovisiva.
Un passaggio importante è la sua insistenza sul problema dell’autenticità rispetto alla verità, ovvero quello esemplificato da una comunicazione basata sull’emozione e non sulla dimostrazione. A mio parere questo concetto di verità legato all’emotività mi sembra più legato ai meccanismi produttivi dei programmi realizzati per la televisione, per la pubblicità che non dentro il territorio, per quanto ancora non completamente definito del cinema privato.
Un'altra questione è anche il confine tra cinema e non-cinema.
Odin, nel momento in cui dice che colui che gira un film familiare non starebbe facendo del cinema, in quanto non in possesso di un’autonomia di sguardo, perché lo sguardo non è attribuito al singolo ma il ruolo di autore spetterebbe all’intero gruppo familiare, esclude a priori una possibilità, seppure molto debole, di valenza comunicativa, di valenza cinematografica. Sembra quasi che, nell’escludere valenza cinematografica al cinema familiare, si schieri a favore di una forma-cinema, invece di mantenere una neutralità, una equidistanza.
Le intuizioni di Adriano Aprà all’interno di questo cinema sommerso, di cui il cinema privato è una parte ancora da definire compiutamente nella sua molteplicità e ampiezza, ci offrono lo spunto per una riflessione oltre l’uso di terminologie come: main stream, non-fiction, musica e immagini, ecc.; arrivando ad una similitudine che io ho trovato particolarmente felice, ovvero che il “cinema privato è l’inconscio del cinema (di sala, commerciale, pubblico)”. Ma nella misura in cui l’inconscio è un territorio vasto e complesso e spesso per imparare a conoscere noi stessi siamo costretti ad attraversarlo, così per conoscere il cinema nella sua complessità e completezza non possiamo rifiutare di esplorare il territorio del cinema privato.
La particolarità del percorso di Michelangelo Buffa, da una parte la sua forte dimensione amatoriale unitamente alla sua profonda cultura cinematografica, dall’altra; la sua espressività nel modo di utilizzare e ri-utilizzare il materiale cinematografico, il gusto per un rigore formale unito alla forte componente autobiografica, lo pone dentro il territorio del cinema privato. Un territorio attraversato da Buffa in un modo personalissimo che non si pone come confine del genere, ma più semplicemente e dunque umilmente e creativamente, come la sua soggettività non esclude le altre, così il suo modo di fare cinema è uno dei tanti possibili.
BIBLIOGRAFIA
Roger Odin Il cinema amatoriale, Gian Piero Brunetta (a cura di ), Storia del Cinema Mondiale, vol.IV, Einaudi
Roger Odin, Il film di famiglia,”Bianco & Nero” ,a. LIX ,n.1 gennaio-marzo 1998
Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Pombiani , Milano1976
Adriano Aprà (a cura di), New American Cinema, Ubu libri, Milano, 1986
Alfredo Leonardi, Occhio mio dio,Il New American Cinema, Feltrinelli, Milano, 1971
FILMOGRAFIA
Alphaville di Michelangelo Buffa 1972-2000
Andy Warhol’s film di Michelangelo Buffa 1982
8 volte Godard di Michelangelo Buffa 1984
Ritorno a Bringuez di Michelangelo Buffa 1992-2000
Una “metrèssa” a Grand Ville di Michelangelo Buffa 1993-2000
Scarti di memoria di Michelangelo Buffa 1970-2002
Benares di Michelangelo Buffa 2005
SITOGRAFIA
WWW.HOMEMOVIES.IT
APPENDICE: INTERVISTA (qui il Link)
Michelangelo Buffa intervista del 29.01.06
effettuata da Fabrizio Fuochi a Milano