Domanda: quali sono le origini del tuo lavoro con il cinema… della tua passione per il cinema.
M.B.: Le origini come tutte le origini è un pò incerta, inconsapevole direi e anche doppia. Da un lato la passione per la visione dei film per il cinema proiettato, che credo nasca dal fatto…Non lo so, in realtà non so da dove nasca questa passione. C’è stata si è sviluppata è stata travolgente, ma non
saprei dire l’origine è stata una passione istintiva immediata.
Mentre invece per quanto riguarda la ripresa credo che…di aver subito il fascino della machina, della meccanica, della meccanica dell’oggetto. La cinepresa come oggetto, credo che sia stato il motore di tutto. E certamente poi il piacere di riprendere, di filmare, però il piacere soprattutto di avere questa specie di motorino in mano che ricreava la vita, era una sorta di mondo parallelo che veniva fuori dalla macchina
Domanda: ma c’è stato un momento particolare, per esempio ti hanno regalato…
MB:Certo, certo, si avevo circa quattordici anni è ho chiesto a mio padre di regalarmi una cinepresa, e così la scelsi ed era una piccola Bolex-Paillard 8mm a fuoco fisso che è stata per alcuni anni la mia cinepresa.
Poi in seguito me ne feci comprare un’altra sempre una Bolex-Paillard 8mm,
questa volta con lo zoom perché dovevo andare in Spagna e volevo filmare la corrida…e allora volevo lo zoom.
Domanda: Ma l’hai filmata dopo la corrida?
M.B.: Certo, certo.
Domanda: Bene… e poi dopo la corrida cos’è che hai continuato a filmare?
M.B.: Poi mi sono reso conto che la cinepresa stava diventando la compagna della mia vita, stava diventando il mio terzo occhio. Un occhio privilegiato con cui io guardavo il mondo, guardavo gli altri. In realtà subito ho cominciato aguardare me stesso, perché il primo periodo della mia filmografia, se così vogliamo chiamarla, è un periodo dedicato alla osservazione di me stesso. Io mi auto-filmavo, mi raccontavo le mie angosce esistenziali, il mio onirismo, il mio disagio giovanile che come già ho avuto modo di dirti, andavo spessissimo al cinema. Avevo poco tempo per la vita normale. Molto parte della mia giornata la passavo nella sala buia, soprattutto al pomeriggio, la sera. Per cui questo creava anche un certo disagio esistenziale, perché dicevo “io dove vivo? Vivo nella finzione dello schermo e cesso di vivere la vita che fanno tutti gli altri”. Questo m creava una dimensione un po’ schizzoide che credo di aver ben rappresentato nel film Alphaville.
Domanda: Quando facevi queste cose le prime riprese le portavi a sviluppare e poi? Montavi da solo?
M.B.: I primi tempi ovviamente avevo pochi soldi. Le pellicole costavano abbastanza. Mi ricordo che a quel tempo una pellicola 8mm costava 2500 lire e durava 2 minuti e mezzo. Per cui compravo, mi facevo comprare due o tre pellicole e quindi centellinavo le inquadrature, non sprecavo nulla, e poi mandavo tutto a sviluppare. Dopo quindici, venti giorni mi ritornava la pellicola sviluppata. I primi tempi la guardavo contro luce, poi finalmente mi sono fatto comprare il proiettore e la potevo proiettare. Il montaggio è intervenuto dopo quando ho incominciato a fare dei film a tema, a raccontare delle storie, benchè siano state delle storie autobiografiche.
Domanda: Quando vedevi il tuo girato e facevi delle proiezioni del tuo girato, le vedevi da solo o in compagnia?
M.B.:In genere questa è stata tutta una attività diciamo molto individualista, solitaria molto privata. Direi totalmente privata. Si ci sono state occasioni in cui io facevo vedere questi film ad amici conoscenti, ma tutta l’attività produttiva , diciamo così, era completamente solitaria e individuale e non avrei saputo condividerla con nessuno. Era un’attività molto narcisista anche.
Domanda: Ci sono autori di riferimento? E se si che cosa ti ha colpito di questi autori?
M.B.: Per i primi anni, devo dire che io andavo al cinema per il piacere del cinema, non avevo ancora acquisito una dimensione critica. La dimensione critica l’ho acquisita incontrando un mio amico, un mio coetaneo, con il quale si è stretto una forte amicizia. Cinefilo, era stato il mio compagno di cinefilia che mi ha introdotto in una dimensione critica del cinema. Essenzialmente mi ha fatto leggere il cinema da un punto di vista simbolico. Mentre io prima non giungevo a questo livello di lettura. Da quel momento in poi, è nata la mia vera passione cinefilica, quando io ho incominciato a interpretare a leggere le immagini ed è iniziato anche tutto il discorso della lettura critica dei film; quindi la lettura di riviste, come ad esempio le Cahiers du Cinèma che mi hanno aperto nuovi orizzonti di lettura, hanno buttato giù tante barriere.
Io mi ricordo che nel primo periodo, diciamo di spettatore inconsapevole, io non andavo mai a vedere le commedie americane, perché le consideravo delle stupidaggini, mentre per esempio andavo a vedere i western all’italiana o i film di spionaggio che erano poca cosa rispetto al cinema di autore. Quindi in questo secondo periodo più critico il livello si è innalzato tantissimo, e ho conosciuto quindi tutta una serie di grandi registi che ho amato… In realtà io amo il cinema in generale, non posso dire di amare più John Ford rispetto a Bunuel, o Fellini più di Bergman. Io li amo tutti quanti, e da tutti o preso qualcosa credo. Soprattutto direi chi forse mi ha segnato di più, da un punto di vista della mia pratica, è stato John Ford nell’idea di inquadratura. Io sento molto questa idea di inquadratura che è tipica del cinema ed è molto poco usata nel video. Dove il video è più fluido, dove questo concetto di inquadratura quasi non esiste, ma che io continuo a praticare, anche usando la video camera, proprio perché sono legato a questo concetto di scrittura che nasce molto dal concetto di inquadratura, come spazio simbolico della rappresentazione. Dicevo John Ford e per parlare di un cinema più attuale il cinema di Straub-Huillet che io trovo un cinema assolutamente sublime.
Domanda: Facendo un passo indietro mi interessava capire…questo amico che ti apre la via alla lettura simbolica del film, potresti essere più preciso?
M.B.: Si potrei fare un’esempio. Ricordo benissimo che stupendomi, mi parlava dell’erotismo del vampiro, mi parlava della bellezza del cinema di Terence Fisher, disquisendo sulla dimensione erotica del vampiro. “Il vampiro è una figura erotica, nella sua pratica vampiresca”. Io sono caduto dalle nuvole quando mi raccontava queste cose. Poi andando al cinema e vedendo questi meravigliosi film di Terence Fisher Dracula il vampiro, La mummia, ecc., ho veramente verificato che non mi stava raccontando stupidaggini che il livello simbolico esisteva in questi film e funzionava proprio così.
Domanda: quale è stato il momento in cui tu hai realizzato che potevi fare del cinema?
M.B.: A parte il primo periodo di pratica inconsapevole, in cui io filmavo qualsiasi cosa, qualche scenetta familiare, l’amico o qualche immagine di vita contadina che mi sembrava interessante, un matrimonio, piccole cose del genere senza la presunzione di dover raccontare una storia conclusa.
Nel secondo periodo, io sono sempre stato convinto e lo sono ancora, di fare del cinema. Io ho sempre creduto di fare un cinema. Io ho sempre creduto di fare un cinema, non un cinema dei grandi, il cinema professionale, il cinema commerciale, ma un “cinèma de poche” lo chiamerei. Un cinema tascabile, un cinema a mio uso e consumo anche perché…dico a mio uso e consumo, perchè non ho mai pensato a degli spettatori. Quando giravo delle cose o raccontavo la mia storia, le mie storie, lo facevo per me l’ho sempre fatto per me questo cinema che poi qualcuno l’abbia visto, questo era un fatto secondario.
Domanda: Quando entra in gioco lo spettatore?
M.B.: Lo spettatore entra in gioco casualmente, quando qualcuno mi chiede di poter vedere, mi chiede che vengano proiettate queste cose. In realtà io non sono mai andato verso lo spettatore. Ritenendo il fatto che ogni film fa parte come in un puzzle di una grande unità. Io in fondo faccio sempre lo stesso film, o faccio parti diverse di uno stesso film. Frammenti di uno stesso film, faccio un unico grande film che in fondo è il film della mia vita. Quindi personaggi che sono entrati e usciti dalla mia vita, il tempo che passa, le cose che cambiano. E’ sempre la stessa storia che si ingrandisce si gonfia, si arricchisce che in fondo non ha bisogno di nessuno spettatore. Sono io il primo spettatore forse l’unico. C’è una sorta di totale…un circolo vizioso, una forma di narcisismo, non so…si può chiamare come si vuole…Ma essendo la cinepresa la mia compagna privilegiata, il mio terzo occhio, ciò che ne è scaturito è questa dimensione un po’ ombelicale se vuoi, della pratica filmica privata.
Lo spettatore non poteva esistere come funzione prima, perché ciò che volevo raccontare, volevo sintetizzare erano le mie emozioni, le mie storie personali, le mie visioni. Questo non necessariamente doveva interessare qualcun’altro. Diciamo che questi video sono una sorta di residuo della mia vita, ciò che resta, una consapevolezza anche di ciò che il tempo ha consumato.
Domanda: E’ anche vero che questo rapporto con lo spettatore un po’ si è modificato, è entrato nell’inquadratura, se mi concedi il paragone.
M.B.:Si, lentamente lo spettatore è entrato, non su tutti i film, direi su alcuni.
Per esempio su quei film…, finito il primo periodo autobiografico, mi sono rivolto verso gli altri. Mi sono messo a guardare gli altri, affascinato dagli altri, affascinato dai volti soprattutto. Da questi esseri che io facevo parlare, ma che in realtà non ascoltavo affatto, perché ciò che mi interessava era semplicemente il piacere di guardarli esistere davanti alla cinepresa. Ecco da
quel punto di vista lì lo spettatore può essere coinvolto, perché quella visione può essere condivisa facilmente con altre. Così come anche alcuni documentari che ho realizzato su i racconti di mia madre, oppure il villaggio di montagna abbandonato o un viaggio in India.
Domanda: Ecco volevo parlare un momento di questa evoluzione: la nascita di questa passione, poi la passione si trasforma in un’azione di riprendere, poi c’è questa presa di coscienza del gesto di riprendere e quindi c’è anche il bisogno di mostrare il proprio percorso di sguardo…
M.B.: Tutto questo è vero, però come forma primaria impulsiva c’è solo quella di filmare proprio per il piacere, per la necessità di riprendere e di filmare, al di là del fine, della finalità, di chi avrebbe guardato queste cose, non ho mai pensato a quello. Il primo impulso è proprio il piacere di riprendere il piacere di arrivare a filmare quella cosa lì che magari mi ossessionava da tanto tempo.
Domanda:Vorrei che tu mi parlassi del tuo bisogno di uscire da te e come attraverso i tuoi film hai realizzato questa cosa, il percorso, come hai vissuto questo momento.
M.B.: La mia attrazione verso gli altri e qualcosa che sta all’interno della mia attrazione in generale per la realtà, quella che noi chiamiamo realtà. Chi sono questi individui, come si muovono cosa fanno?E’ comunque un’attrazione per la forma del documentario, cioè il documentario come documentazione, come lettura della realtà. Quindi io potevo essere affascinato da alcuni temi, ad esempio il mondo contadino, le memorie, il tempo che passa, le cose che si dissolvono. Oppure gli impatti violenti con le realtà altre, come ad esempio nel caso dell’India: in cui io mi trovo immerso in un mondo che mi è completamente estraneo, e nel quale cercavo di avere una sorta di collocazione, di collocarmi in qualche maniera, cercare di farmi accettare e nello stesso tempo, cercare di assorbirlo completamente di sentirne tutta l’emozione nella sua intensità.
Domanda: In questo senso gli approcci verso gli altri si possono sintetizzare nei film 8 volte Godard e Andy Warhol…
M.B.: Poi c’è Coppie poi Io,io e gli altri. In Io, io e gli altri il pretesto era quello per cui queste persone che sono conoscenti amici parenti dovevano parlare di me. Mentre invece in Coppie, io filmo semplicemente delle coppie, frammenti di tempo di una coppia.
Domanda. Presupposti generali di Andy Warhol film’s e 8 volte Godard…
M.B.: Andy Warhol viene prime di 8 volte Godard. Andy Warhol come artista mi ha sempre affascinato, l’ho sempre considerato un grande artista e ho sempre amato i suoi film. Questa idea geniale di registrare la realtà di lasciare scorrere la pellicola di filmare i tempi morti, mi ha sempre affascinato.
Per cui volevo fare qualcosa alla “maniera di”, nel piccolo dei miei caricatori super 8. Quindi ogni personaggio aveva a disposizione quei tot. Minuti, corrispondenti alla durata di un caricatore, circa due minuti e mezzo. Il pretesto era i film di Andy Warhol che la maggior parte di questi personaggi ripresi non conosceva affatto. Alcuni di questi non conoscevano neanche Andy Warhol. Perché? Perchè volevo camuffare attraverso le loro parole il mio desiderio di osservarli, di scrutarli. Io volevo quasi nella mia illusione, catturare l’anima di questi personaggi. In realtà fra me e loro, fra loro e la cinepresa, creavano questa barriera di parole, tanto vero che quando finiscono le parole e la cinepresa continua a girare, sono quelli i momenti più eccitanti per me, più straordinari. Loro sono come degli acrobati che cadono senza la rete di protezione, non sanno più come esistere, come affrontare la cinepresa che continua a filmarli. Perché tutti hanno bisogno di protezione di crearsi delle barriere. Io avrei voluto incontrare qualcuno che proprio in quei momenti li, sapesse superare l’impatto dell’obbiettivo della cinepresa, e sfolgorante di energia e di vitalità, mostrasse la propria anima, ma questo non è mai successo.
Domanda: Qui c’è già una parte di audio?
M.B.: Si questi sono super 8 sonori certo. Per me è stato traumatico il passaggio dall’8mm al super 8, perché è stato il passaggio dal muto al sonoro. Quando ho comprato questa Nizo sonora, mi sono detto: “adesso cosa incido su questa pista sonora? Quali mai saranno le parole dei miei film?”. E infatti io non ho mai saputo mettere delle mie parole, ho sempre cercato le parole degli altri, ho sempre cercato, stimolato negli altri un discorso, ho creato dei pretesti perché qualcuno parlasse. Ma io non sono mai stato in grado di mettere delle mie parole sulle mie immagini, solo ora sto cercando, faticosamente di mettere delle parole molto centellinate, molto brevi, appena accennate, come commento di certe mie immagini. Perché non ho fiducia nella parola trovo che abituati alla televisione che è un frullatore di parole che ci sommerge di parole inutili, oggi ritrovare il valore della parola sia una operazione difficilissima da farsi.
Domanda: In questo senso anche 8 volte Godard ricalca un po’ questa idea di Andy Warhol Film’s…( l’autore offre un testo, una sorta di copione, il commento di altri registi su Godard, in modo tale che le persone intervistate, leggendolo possono rispondere)
M.B.:Ovviamente anche qui c’è un ventaglio di situazioni diverse, perché c’è colui che semplicemente ha memorizzato questo testo e lo dice, c’è quello che lo recita lo interpreta. Ovviamente chi lo recita lo interpreta sono i primi che sono caduti nella trappola, perché io non cercavo affatto degli attori. Io cercavo degli esseri, cercavo delle anime, cercavo delle persone, ancora una volta da guardare da osservare, non cercavo degli attori.
A proposito di Andy Warhol Fim’s, 8 volte Godard e di tutti gli altri, costruiti su questa tipologia; cioè coppie, Io, io e gli altri , India e America, (ne ho fatto anche uno sui viaggiatori in India e i viaggiatori in America), devo dire che oggi, purtroppo non mi sarebbe più possibile fare una cosa del genere, anche se mi piacerebbe molto, perché decade la magia del caricatore a tempo chiuso. Con questi nastri dei video: in base a che cosa dovrei decidere che filmo questo personaggio per 10 minuti, per un quarto d’ora, per venticinque minuti, diventerebbe tutto arbitrario, e non avrebbe più senso.
Io personalmente trovo che l’uso del video, per questa tipologia di filmati, diventa insensato perché il tempo diventa infinito. Si perde, la fragilità, la temporalità, la dimensione finita del tempo. Il cinema diceva Cocteau è “la morte al lavoro”, questo concetto mi ha sempre affascinato, e la pellicola filma “la morte al lavoro”, il video non filma più niente.
Domanda: Mi sembra che il piacere di filmare sia una condizione che ti contraddistingue.
M.B.:Si, io credo che questo sia un elemento trasversale di tutto il cinema privato, questo di filmare per il piacere di filmare e non per altri fini per altri scopi, su commissione. Questo sia l’elemento fondamentale che caratterizza il cinema privato, filmare per il proprio piacere, per un’intima necessità.
Domanda: come sei arrivato al cinema privato?
M.B.: Il cinema privato è un’etichetta che è stata coniata da qualcuno in maniera geniale trovo, e che ha dato riparo a tutti quei personaggi che come me, si sono trovati come in una sorta di limbo, perché non eravamo ne dei cineamatori familiari, quelli che fanno i filmini familiari, ne eravamo dei professionisti, quelli che fanno il cinema commerciale, o il documentario commerciale. Eravamo in questa situazione di mezzo molto indefinita molto vaga, in una sorta di limbo. Ora ritrovarci sotto questa etichetta di cinema privato, ci da una connotazione, ci da un senso di essere riconosciuti per quello che crediamo di essere.
Domanda: Quando noi guardiamo un film tradizionale, di sala la distanza tra noi e il film è una distanza molto grande, puoi parlarmi di questo?
M.B.: E’ una distanza molto grande, che però presuppone l’assenza totale di, distanza,perché se non c’è assenza di distanza tu che tipo di spettatore sei? Il coinvolgimento totale durante la proiezione fa si che la distanza venga annullata. Infatti se ci pensi bene la condizione dello spettatore è una condizione completamente assurda, perché sei in uno stato di ipnosi. A me piace a volte al cinema voltarmi, guardare il vicino guardare chi mi sta dietro. E vedo tutte queste teste immobilizzate con gli occhi sbarrati che guardano lo schermo, e mi spavento e dico “possibile che anch’io sono così?. Totalmente ipnotizzato per due ore da delle immagini che scorrono su uno schermo, è una follia questa?” E’ una follia meravigliosa.
Domanda: Il modo in cui un’immagine viene prodotta fa si che crei questa distanza tra te e l’immagine. Nel cinema privato non c’è questa distanza tra lo spettatore e l’immagine, perché è un’immagine molto più diretta, molto meno artefatta, non è costruita…
M.B.:E’ un’immagine più quotidiana, nel cinema commerciale il quotidiano scompare, viene epicizzato, diventa leggendario, diventa onirico. Al cinema oggi manca la realtà, manca la realtà primaria, manca Lumière. Lumière non esiste più, se vuoi vedere Lumière al cinema oggi dove vai? Non ti rimane che Straub-Huillet, forse Godard e qualcun altro che ti mostrano questa realtà rivissuta dal cinema. Tutto il resto del cinema è fantasia è onirismo è surrealtà. Nel cinema privato invece, ritroviamo una certa quotidianità un’immediatezza come dicevi tu, una dimensione riconoscibile in cui tu ti puoi riconfrontare, confrontare.
E’ anche prezioso (il cinema privato, nell’ottica della realtà) dal momento in cui la televisione che dovrebbe mostrarci la realtà non ce la mostra affatto. Ci mostra universi di finzione di programmi fittizi, manipolati che non hanno più nulla a che vedere con la realtà essenziale, pura delle cose.
A proposito di avanguardia volevo dire che tra i miei riferimenti iniziali, ho parlato di Andy Warhol, ma anche di tutto il New American Cinema che era ricchissimo di stimoli di invenzioni. E’ stato veramente uno scoprire un mondo nuovo liberato e liberatorio… Era la rivendicazione che era possibile fare un cinema tascabile, un cinema quotidiano, un cinema privato.
C’era la necessità del cinema diaristico che documenta la vita, Mekas Brakhage, e poi tutte le sperimentazioni tecnologiche di Michael Snow La Rrégion Centrale.
Domanda: Torniamo alle produzioni, I film a carattere etnografico che rientrano nel cinema privato in quanto cinema di prossimità, poiché parlano anche della vita dell’autore, delle sue esperienze. Potresti parlarmi di Ritorno a Bringuez ?
M.B.: Ritorno a Bringuez, se vogliamo portarlo all’interno della mia dimensione soggettiva, rientra in quella che in me potrei chiamare, la nostalgia della fine del mondo contadino. Mondo contadino che io ho vissuto e di cui ho visto la fine, e in particolare questo villaggio è un villaggio che io considero un villaggio molto simbolico, una sorta di monumento alla vita contadina, un villaggio abbandonato, un villaggio dalle case ormai cadenti, in una magnifica posizione. Un luogo che per me è diventato un luogo di pellegrinaggio, proprio perché queste mura queste pietre vibrano ancora della vita contadina che c’è stata e non c’è più. Per cui in questo senso questo documentario che potrebbe passare come un normale documentario, diventa qualcosa di mio personale di soggettivo, affettivamente legato non tanto ai personaggi che compaiono nel video, quanto alle pietre di quel villaggio.
Domanda: Hai fatto diversi lavori su tua madre, potresti parlarmi di Una metrèssa a Grand Ville?
M.B.: Mia madre, mio padre li ho filmati spesso proprio dentro quest’ottica della vita che decade, della famiglia che svanisce, della casa che va in rovina, dentro quest’ottica del cinema che documenta il tempo che passa, la vita che muore, “la morte al lavoro” di nuovo.
Una metrèssa a Grand Ville, è un’intervista un po’ a se che può funzionare benissimo in maniera isolata, perché li mia madre racconta un frammento della sua vita passata. In particolare il primo anno d’insegnamento nel 1932 in questo villaggio di montagna, lei che veniva dalla città, si trova immersa in una realtà completamente inconcepibile per noi oggi. Il video in realtà, è estremamente semplice, perché consiste in queste inquadrature su di lei che racconta, e di alcune immagini del villaggio rivisitato oggi. E’ uno dei video più semplici, però cattura la capacità di mia madre di raccontare, di far rivivere quei momenti di vita passata, descrivendoli in maniera molto articolata e molto divertita. Questo video, Una Metressa a Grand Ville è il mio video più visto e più apprezzato dagli spettatori, in realtà è il video che meno mi interessa personalmente, perchè per tutto l’affetto che ho per mia madre, non è un video che mi ha coinvolto più di tanto. Non ho messo in scena nessuna tipologia di racconto o di produzione particolare, e una cosa estremamente semplice che è andata bene.
Domanda: Che differenza c’è tra questa intervista Una metrèssa a Grand Ville e ciò che passa normalmente in televisione?
M.B.: In genere nei programmi televisivi poiché si teme di annoiare lo spettatore, si cambia spesso l’inquadratura, si cambia spesso argomento, si rende la cosa più fluida più veloce. Io quando ho fatto questo video non mi sono assolutamente posto questi problemi, anzi l’intervista l’ho fatta in un certo periodo, e poi forse un anno o due dopo, sono andato a filmare i luoghi di questo villaggio, come si trova nelle condizioni attuali, e poi ho messo insieme le due cose, e quindi ho fatto il video. Un po’ come sempre mi succede, io tengo sempre un po’ in tasca la cinepresa o la videocamera, improvvisamente la tiro fuori e comincio a filmare senza una premeditazione.
Sono sempre stato così impulsivo nelle mie riprese, improvvisamente, e da li derivano certe mie carenze tecniche, per cui non faccio mai a tempo a preparare tutte le cose bene, affinché tutto funzioni, perché mi butto improvvisamente sul soggetto, nel momento in cui mi sembra più opportuno, senza neanche pensare, se costruire una storia che magari verrà, oppure non verrà affatto. Moltissime immagini familiari io le ho girate per il solo gusto o piacere di registrarle, sapendo che poi avrebbero trovato una collocazione in questo grande puzzle che è la mia vita filmata.
Domanda: Puoi parlarmi della potenzialità del cinema privato come stimolatore di azione di filmare, (non essendoci più distanza tra lo spettatore e l’immagine che viene rappresentata), come stimolatore di soggettività. Lo spettatore attraverso queste immagini non artefatte del cinema privato, viene incentivato a utilizzare la telecamera, a raccontare qualcosa.
M.B. : Nel cinema commerciale nel cinema che andiamo a vedere sul grande schermo, non si sa mai bene di chi sia il punto di vista. Di chi è il punto di vista di queste inquadrature? Di Dio? Di chi? Non si sa. E’ un punto di vista indeterminato, non si sa chi sta guardando che cosa. Mentre invece, io sto parlando del mio caso, il punto di vista è sempre il mio punto di vista. Io non posso immaginare una neutralità, e ho sempre considerato l’occhio della cinepresa come il mio terzo occhio, il mio sguardo sulla realtà, sul mondo.
A proposito della stimolo della voglia di girare, non lo so. Sono già coinvolto. Dovrei azzerare tutto trovarmi vergine e poi risponderti.
Devo dire che quando io vedevo questi film dell’Underground americano, ne uscivo sempre stimolato, ne uscivo sempre pieno di idee di progetti che poi magari svanivano col tempo, però era un grande stimolo per me .
Mentre invece i film di finzione che vedevo sul grande schermo, erano un piacere e basta, non potevano esser uno stimolo. L’’idea di raccontare una storia mi è sempre sfuggita. Benché in tutti i film, i video che ho fatto, in qualche modo io racconto una storia anche non raccontandola. Raccontare una storia nei termini classici con degli attori dei personaggi, l’ho fatto forse una volta o due, però non è una cosa che mi abbia coinvolto o che mi attragga.
Penso che sarebbe bellissimo se tutti quanti possedessero una telecamera o una cinepresa e filmassero frammenti della propria vita. Tutte le vite sono fantastiche, sono bellissime, sono interessantissime da rivedere da vedere anche se apparentemente sembrano tutte uguali.
Domanda: Potresti parlare del video Benares?
M.B.: Dò per scontato che il mio punto di vista non può che essere soggettivo. Lo so che si può pensare…” questo qui è un folle narcisista”. Ma in realtà io non l’interpreto affatto così, che ci sia un po’ di narcisismo, soprattutto quando mi auto-riprendo, non lo posso negare. Ma io parto dal presupposto che l’unica consapevolezza che ho è la mia. Quale altra consapevolezza del mondo posso avere se non la mia? L’unico punto di vista non può che essere il mio, mentre filmo, sulla realtà.
Io mi trovavo a Benares in mezzo a questo traffico incredibile che mi ha affascinato immediatamente, anche se il mio desiderio era di lasciare l’albergo e di raggiungere il Gange. Fra me e il Gange c’era quella folla immensa, questo via vai di biciclette, di moto, di macchine, di pedoni così straordinario che io mi sono detto “devo filmarlo”. Mentre filmavo mi rendevo conto che c’erano questi personaggi isolati. Questi volti, questi esseri che vagavano in questo traffico e che mi affascinavano, cercavo questi volti. Per cui tutto il documentario diventa la ricerca di un’incontro. Un’incontro che si realizza alla fine quando uno di questi uomini in bicicletta, si accorge di essere filmato, mi guarda e mi sorride…, quel sorriso è stata una cosa bellissima.
Io mi trovavo a Benares con la mia maestra di Yoga e una discepola, alloggiavamo in questo grande albergo di lusso a Benares. Era tale la mia voglia di incontrare la realtà vera dell’India, e a Benares c’è un’India ancora autentica vera, non occidentalizzata. Era tale il mio desiderio di arrivare al Gange, di visitare questo mito, perchè ormai Benares era diventato un mito per me, e mi sono quindi tuffato più volte in questo mondo. L’idea centrale era quella di filmare il mio incontro, la mia soggettività che penetrava in questo mondo e voleva incontrare gli altri, questi volti, questi esseri, questi indiani, superando la mia alterità, superando il mio statuto mediocre di turista, di visitatore inconsapevole. Potevo fare questo attraverso l’occhio della telecamera.
Domanda: C’è l’aggiunta del testo nel video Benares che è una novità nell’ambito della tua produzione, vero?
M.B.: Si, ho sentito la necessità di mettere questa voce fuori campo per cercare di indirizzare l’eventuale spettatore, verso uno stato d’animo che assomigliasse un po’ al mio, affinché capisse la mia operazione, affinché capisse la mia insistenza su quei luoghi, perché capisse il mio modo di rapportarmi alla città
Domanda: Benares è montato in machina, vero?
M.B.: SI. Sempre io detesto le manipolazioni, sempre io rispetto la cronologia della ripresa, la si ritrova magari con delle sottrazioni di materiale, la stessa cronologia la si ritrova poi nel filmato. Io non potrei mai invertire l’ordine temporale delle riprese, è qualcosa che mi ripugna, la troverei una sorta di inganno proprio per il mio estremo rispetto della realtà.
Domanda: L’episodio di estinzione?
M.B.:L’estinzione è una bolla onirica è una sorta di sogno contenuto nel mito di Benares, perchè a Benares si va per morire, anche. Ci sono le cremazioni, i cadaveri vengono buttati nel Gange.
Domanda: Queste tre volte del Gance che senso hanno?
M.B.: E’ la ripetizione di questo desiderio un po’ ossessivo di arrivare sul “ fiume sacro”, l’abbiamo visitato di sera e trovi una certa realtà, l’abbiamo visitato all’alba e ne trovi un’altra, l’abbiamo visitato a mezzogiorno e ne trovi un’altra ancora. Una dimensione sempre cangiante, sempre nuova, sempre diversa, assolutamente affascinante.
Domanda: Una caratteristica del cinema privato è il rimettere le mani sui lavori precedenti, cosa ne pensi?
M.B.: E’ una possibilità straordinaria che ci viene offerta dal digitale. Nel senso in cui riversando i vecchi filmati aggiungendoli ai nuovi che sono già in digitale e inserendo tutto in un computer, praticamente tu hai tutti i filmati che
hai fatto nel corso del tempo della tua vita, ce li hai li presenti. Sono tutti compresenti nello stesso hard-disk, per cui puoi riprendere qualsiasi frammento, qualsiasi immagine, ricomporla e ricostruire delle nuove storie. Quindi questo discorso del grande puzzle continua a esistere e ad ampliarsi sempre più.
Domanda: Questo da un punto di vista tecnologico, ma c’è anche un aspetto che riguarda l’autonomia della ripresa e l’essere il committente di te stesso.
M.B.: Io sono il committente di me stesso. Ho provato ad avere un committente: ho fatto quindici documentari per la Rai d’Aosta, però non mi sono trovato affatto bene, nel senso che mi condizionavano tantissimo. Innanzi tutto c’era il condizionamento del tempo, dovevano durare tutti ventidue, ventitre minuti, dovevano essere in Francese o in Italiano, tutta una serie di condizionamenti anche tecnici per cui non mi sono sentito affatto libero. Il piacere di filmare sta anche nello scegliere il momento, le condizioni, i modi, il tema. Lavorare su condizione non mi è favorevole.
Domanda: Scarti di memoria è una bellissima sintesi del cinema privato, se puoi illustrare il processo creativo di questo video?
M.B.: Filmando come filmo io, sull’impulso del momento, ho filmato tantissime cose che poi non hanno avuto esito, non hanno avuto storia, non si sono collegate a niente altro, sono rimaste isolate. Ci sono immagini che sono tecnicamente dubbie, sfuocate, sgranate, discutibili, per cui questo materiale è finito in una scatola. Un bel giorno ricercando,rivedendo, digitalizzando, ecc,
ho rivisto queste immagini, e mi sono detto benché nella loro piccolezza, nella loro esiguità narrativa, potevano essere riutilizzate. Mi è sembrato che l’unico modo per riutilizzarle era quello di sposarle a dei commenti musicali, alla musica, e così ho fatto. Mi sono divertito molto. Il risultato mi è piaciuto molto. Mi sono molto divertito, però non gli ho dato quel peso, quel valore che gli stai dando tu adesso che però mi sembra effettivamente condivisibile.
Le immagini sono molto materiche, si vede la pellicola molto sgranata, molto lavorata,si sente la pellicola. Questo mi piace molto, quando l’effetto della trasparenza scompare, io non amo la trasparenza, queste immagini perfette, dove tu perdi la percezione dell’immagine, del mezzo, della materia ed entri nel rappresentato. Io detesto questo e lo trovo anche immorale, lo trovo un po’ osceno, pornografico. A me piace ia visione che si deve schiacciare sull’immagine, perché è quello che noi vediamo, la bidimensionalità dell’immagine. Invece ci facciamo irretire dalla tridimensionalità illusoria che è puramente onirica.
Se potessi righerei la pellicola la bucherei come facevano gli americani degli anni ’60 che ci facevano sentire la fisicità della pellicola.
Domanda: Cosa ne pensi del potere terapeutico del cinema privato, un cinema come terapia che serve per curare le proprie…
M.B.: Certo soprattutto nel mio caso, tutto il primo periodo quello autoreferenziale, quello esistenziale, con tutte le mie angosce giovanili, quello è stato fondamentale per me. Tirar fuori queste cose trasformarle in immagini, mi ha evitato di andare dallo psicanalista, su questo non c’è dubbio. Io mi liberavo continuamente attraverso le immagini di tutto un bagaglio psichico che cedeva nella mia mente, un potere curativo per chi lo pratica, anzi da consigliare.
Domanda: Un’ultima domanda quale potrebbe essere lo spazio, un luogo per il cinema privato?
M.B.: Questo è quello che dobbiamo inventarci. Probabilmente riproporre queste rassegne come quella di Siena, e cercare di coinvolgere qualche editore tipo Raro Video, visto che loro sono piuttosto aperti al cinema d’autore, al cinema sperimentale.
Grazie Michelangelo !
M.B.. Grazie a te.