1. Tempo cinematografico e tempo reale
Uno dei più strenui detrattori del Metodo Syd Field che abbiamo analizzato nella scorsa lezione è il regista/autore brasiliano Ruy Guerra, che insegna cinema all’Università di Rio de Janeiro e lamenta, come molti autori europei del resto, l’influenza dominante di certi modelli industriali americani di narrazione cinematografica. Alla base dell’insegnamento di Ruy Guerra ci sono acute riflessioni sullo spazio e sul tempo nel racconto cinematografico. Qui lasciamo perdere lo Spazio che attiene a scelte di tipo registico più che di sceneggiatura e ci concentreremo sul Tempo. Traggo le informazioni dal documentario/intervista A linguagem do Cinema purtroppo non disponibile in italiano, ma se qualcuno di voi conosce il portoghese (o legge le didascalie in inglese) può trovarlo tra i contenuti speciali del Dvd Opera do Malandro (Coinceito Audiovisual), un musical del 1985 con musiche di Chico Buarque. Ruy Guerra osserva anzitutto che in un film, qualsiasi film, anche il più realistico, di realistico non c’è nulla. Di fronte alla proiezione di un film noi assistiamo ai fatti con una percezione assolutamente diversa da quella che abbiamo nella vita normale. Le diverse immagini sono inquadrate da più punti di vista (nella realtà noi ne abbiamo uno solo): la continuità e l’ordine tra questi differenti punti di vista è frutto del lavoro di montaggio. E’ inesatto sostenere che noi vediamo il film attraverso la macchina da presa. Noi vediamo un unico spettacolo che è il risultato della mescolanza di punti di vista differenti (inquadrature diverse), esperienza che non ci è dato vivere nella realtà e nemmeno sul set. Nel montaggio si attua una sintesi tra molti punti di vista, anche opposti (campo/controcampo) e tra tutti i punti di vista “girati” alcuni vengono scartati. Sullo stesso tema, ma da un’angolatura differente, anche Sergio Citti ebbe a dire: “appena si dice azione, la verità è finita.” Il regista romano, proprio lui per il quale le etichette di realismo, neorealismo, realismo grottesco, si sono sprecate, voleva con ciò intendere che un film, qualsiasi film, non è una riproduzione della realtà, ma la raffigurazione di una realtà
fittizia che ha regole diverse da quelle della vita quotidiana. Di questa realtà fittizia fa parte il Tempo del cinema, che non è lo stesso della vita reale. Nella vita reale, in cinque minuti non riusciamo a farci nemmeno un caffè, in un film in cinque minuti possono accadere moltissimi avvenimenti. Gli eventi in una sceneggiatura non potete raccontarli con i tempi della vita reale, bisogna stringere, concentrarsi sul momento focale della scena, sintetizzare il dialogo cercando la massima efficacia in poche righe. In altri casi, una sequenza che in sceneggiatura descrivete in due righe, può venire dilatata per esigenze espressive.
Voi scrivete per esempio: “Lo Sceriffo attraversa la Main Street deserta”, ma ciò può dar luogo nel film a un’alternanza di inquadrature che ci fanno vivere la tensione del momento, la solitudine dello sceriffo, la desolazione di una città già fantasma, anche se il peggio deve ancora venire. E il ticchettio inesorabile di un orologio scandisce l’attesa rendendola più angosciosa. (Il film è High Noon, cioè Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann, 1952).
Esercizio- Infilate il VHS o il DVD di un film qualsiasi nel vostro lettore e fatelo andare ad avanzamento veloce. Vedrete che mentre certe scene riuscite a coglierle, altre diventano illeggibili perché l’alternanza delle inquadrature nel montaggio è troppo rapida. Quasi sempre, sono le scene d’azione ad esigere un numero maggiore di punti di vista (e di inquadrature) montati in modo serrato.
Questo significa che il tempo di un film non è affatto uniforme: una scena ferma di dialogo tra due personaggi seduti al tavolo di un bar può durare di più di una scena d’azione nella quale all’improvviso delle bande criminali fanno irruzione nel bar e scatenano una sparatoria (un maestro di questa alterazione dei tempi è Michael Cimino, il film è Year of the Dragon del 1985). La durata del dialogo rispetto all’azione, non significa affatto, narrativamente, che il dialogo è più importante di quanto accade dopo. Il dialogo è dilatato perché ciò conferisce più potenza all’inferno che si scatena successivamente. Il contrasto tra questi due tempi rende trascinante l’intera scena. Essere presenti sui set dove si girano i film è un’esperienza che tutte le scuole di sceneggiatura giustamente raccomandano agli sceneggiatori debuttanti perché si abituino a capire cos’è un film in concreto, nel suo farsi giorno dopo giorno, frammento dopo frammento. Ma altrettanto utile, forse anche di più, è per un aspirante sceneggiatore frequentare una sala di montaggio per capire quale lavoro si fa sul ritmo delle immagini, sui tempi della narrazione ( e quante sequenze si scorciano per ottenere una resa più efficace). Il lavoro dello sceneggiatore è più vicino a quello del montatore (il quale monta le immagini con la sceneggiatura sotto mano) che a quello del regista. A sua volta il regista spesso si trova a ripensare una scena scritta e a girarla in un altro modo perché ha in mente un certo montaggio, un certo tempo della narrazione. Se lo sceneggiatore è consapevole di queste esigenze, potrà scrivere una sceneggiatura più adeguata.
2. Tempi del dialogo
Umberto Eco, nelle postille al Nome della Rosa e in diverse interviste, ha sostenuto che il suo romanzo si prestava particolarmente al cinema, perché scrivendolo aveva immaginato i dialoghi in tempo reale. Ad esempio si era raffigurato il cortile di un convento con una certa lunghezza e nel suo romanzo aveva condotto il dialogo tra due monaci nel tempo (reale) del loro percorso lungo il cortile. Secondo Eco, questo è cinema. No, questo è il contrario del cinema. Il cinema non basa i suoi tempi sui tempi reali, ma sul tempo scandito dal montaggio (e preparato in sceneggiatura).
Questo Tempo non ha nulla, ma proprio nulla di realistico. Riguardo specificamente al dialogo, ciò non vuol dire che il dialogo debba diventare un puro codice, un linguaggio neutro e/o di maniera, telegrafico e rivolto soprattutto a fornire informazioni essenziali alla comprensione della storia. Anche se la realtà del cinema è altra cosa rispetto alla vita, un film racconta comunque i rapporti tra persone, non tra burattini. Quando uno sceneggiatore scrive un dialogo “neutro” senza caratterizzazioni oppure troppo letterario, si sentirà quasi sempre dire dall’attore che deve interpretarlo: “adesso devo mettermelo in bocca”, il che significa che l’attore cercherà di fare propria la battuta, di darle un’espressività consona al proprio personaggio, un contento emotivo più evidente, di cambiarla rendendola meno scritta e più parlata. Nei “parlati” della vita reale ci sono una quantità di pause, ripetizioni, interruzioni, parentesi. Di rado il discorso è univoco, centrato su un obiettivo definito, spesso circoscrive un problema, ma non va dritto al suo centro. Questo nei dialoghi di un film risulterebbe noiosissimo: presumere che si possa tranquillamente trasferire un dialogo quotidiano in una scena cinematografica è in linea di massima sbagliato. Ma sarebbe sbagliato anche spogliare il linguaggio da ogni senso di veridicità, facendo adoperare ai personaggi una lingua di pura convenzione che non esiste in nessuna conversazione reale. Inflessioni, caratterizzazioni, pause, vanno sfruttate perché sono preziose sotto il profilo della veridicità e dell’espressività. Sui problemi del dialogo torneremo più avanti, ma suggerisco fin d’ora un esercizio utile ai fini di individuare i giusti tempi di un dialogo.
Esercizio – Infilatevi un registratore in tasca e registrate una conversazione di nascosto. E’ meglio se non siete coinvolti nella conversazione, anzi l’ideale sarebbe che le due o più persone che stanno conversando e che state registrando fossero per voi dei perfetti sconosciuti. In questo modo vi mettete dal punto di vista di un estraneo (lo spettatore) che cerca di capire non solo i contenuti della conversazione, ma la personalità di chi sta parlando, i retroscena, cioè quel non detto che tra le persone che dialogano è dato per assodato, ma che noi non conosciamo affatto.
Trascrivete la conversazione. Vi renderete conto anzitutto che una banalissima conversazione può nella realtà durare quanto un film intero, e poi che in molti passaggi il contenuto non è affatto chiaro, che la comunicazione spesso divaga, si avvita, che si impiegano troppe parole, qualche volta anche sbagliate, per esprimere concetti semplici. Noterete però che qua e là nel dialogo affiorano delle vere perle espressive: linguaggio non scritto e neppure abituale perché legato alla personalità di chi parla, ma capace di rendere una situazione, uno stato emotivo, in poche, efficaci parole. E i punti in cui l’altro interrompe, per sollecitare chiarimenti, per obiettare, non sono casuali. Nella conversazione tra due persone non c’è solo la comunicazione di un contenuto “oggettivo”, ma vi si esprime la relazione tra due caratteri, il loro interagire. Adesso prendete la trascrizione della conversazione e cominciate a ridurla, in modo da concentrarla progressivamente sul suo contenuto espressivo essenziale.
Se una conversazione a tavola nella vita può durare per tutta la durata del pasto, in cinema sarà una scena di un minuto. Non è un semplice riassunto/sintesi che dovete fare, ma una specie di “dado”: il brodo c’è lo stesso, ma concentrato. Dicendo che il brodo c’è lo stesso, voglio intendere che le pause, le caratterizzazioni, le incertezze,
le asperità di una normale conversazione devono restare, ma in un tempo ristretto. Il brodo va in qualche modo “solidificato”. Ma state anche bene attenti a non perdervi quelle “perle” che di per sé sono delle “epigrafi”, sono “scolpite”, cioè sanno rendere efficacemente il contenuto essenziale (della conversazione come del rapporto in atto tra le persone che conversano) attraverso una metafora, un motto, una definizione colorita che può assumere un valore esemplare (es: “i furbetti del quartierino”). E’ importante imparare dalle conversazioni reali, essere ladri di linguaggio. Proprio perché la lingua di un film è parte di una narrazione, cioè di una realtà fittizia, è essenziale che risulti credibile e che conservi quella stessa capacità di inventare linguaggio che è propria delle conversazioni quotidiane . Il doppiaggio ci ha abituati a un linguaggio di codice estremamente lontano dalla vita reale, una lingua che nessuno parla. Ma se ascoltate lo stesso dialogo in originale scoprirete facilmente quanto sia più ricco di sfumature, di inflessioni e di “veridicità” (insisto su questo termine perché “veridico” è in cinema l’unico possibile equivalente di “vero”). Se scrivete i dialoghi di un film scansate con cura la tentazione di scrivere nella lingua generica del doppiaggio: scrivendo nella nostra lingua, dobbiamo usare la lingua delle persone che ci circondano. La lingua è nostra in quanto collettiva, riconoscibile.
3. I tempi emotivi
Che la narrazione cinematografica debba essere rapida (abbiamo a disposizione un’ora e mezza o due per raccontare la nostra storia, non possiamo farla durare quanto pare a noi) non significa affatto che debba essere frettolosa e superficiale.
Prendiamo ad esempio due film, molto diversi e lontani tra loro. Il primo è The Penalty di Wallace Worsley, con Lon Chaney (1920). E’ stato pubblicato in Dvd dalla Kino Video e se anche lo ordinate in edizione originale senza conoscere l’inglese… è un film muto, dunque potete godervelo lo stesso. Se sapete l’inglese, però, è meglio perché nel Dvd , tra i contenuti speciali, c’è una Scene Comparison cioè un confronto tra le pagine del romanzo (da cui il film è tratto), quelle corrispondenti della sceneggiatura e le scene/inquadrature realizzate nel film. Questo confronto vi farà capire perfettamente i passaggi tra le differenti versioni della stessa storia (romanzo, sceneggiatura, film). (I film muti, sia detto per inciso, non vanno trascurati, perché la scansione dei tempi della narrazione cinematografica inizia da lì.
E lì si sono affrontate e vinte le battaglie in teoria più impossibili: ad esempio trarre un bellissimo film da un complesso capolavoro letterario come L’Uomo che ride, senza neppure potersi avvalere dei dialoghi. Altro che chiacchierate in tempo reale!).
Il secondo film è invece molto più recente e apparentemente non ha nulla a che vedere con il primo. E’ L’Uomo Ragno di Sam Raimi. Ma come cercherò di mostrarvi confrontando due scene di questi due film, ci sono regole della narrazione per immagini che a ottanta e passa anni di distanza non sono cambiate e che hanno a che fare con l’argomento di questa lezione: il Tempo del Cinema. E in particolare con un aspetto: come rendere i passaggi emotivi che caratterizzano lo sviluppo di un’azione.
a) The Penalty
Lon Chaney interpreta nel film uno spietato gangster incattivito con il mondo intero perché quand’era ragazzo, dopo un incidente che gli era occorso, un giovane medico inesperto, lo aveva curato con frettolosa imperizia, amputandogli le gambe. A distanza di anni, Chaney scopre che la figlia del medico (ormai diventato un rispettato professionista), appassionata scultrice, cerca un modello per un scultura molto particolare: un busto di Satana. Chaney riesce a farsi prendere come modello, in fondo chi meglio di lui: non solo è una figura davvero diabolica, ma è per tragica ironia un busto umano vivente. Chaney vuole attuare una sua strategia vendicativa: affascinare la figlia del dottore, magari suscitando la sua pietà, per legarla a lui e vendicarsi così dell’operazione subita da parte del padre della ragazza (il piano in realtà è più intricato, ma qui è inutile addentrarsi nella storia). La scena che analizziamo è assai complicata. Ormai il lavoro è quasi finito. La ragazza dice al suo modello: “Come posso ringraziarvi per l’aiuto che mi avete dato?” Lui ha un fremito, quasi di tenerezza ( dunque si è innamorato!) e ne resta confuso. Risponde: “A lavoro finito, restiamo in contatto.” Lei ha uno sguardo perplesso e diffidente. Lui si lancia in un’appassionata dichiarazione d’amore. Lei ne resta sorpresa e raggelata. Prova sentimenti contrapposti : incredulità, spavento, pietà… finché scoppia in una risata isterica. Lui incupisce. I suoi lineamenti si distorcono in un’espressione di odio.
Cerca di afferrare la ragazza e cade a terra. Si risolleva inferocito e si trascina verso di lei che fugge atterrita per poi bloccarsi sulla soglia, in ansia. “Quasi istantaneamente “ (precisa la didascalia) lui realizza d’aver perso il controllo, rivelando la sua natura malvagia e i suoi scopi vendicativi. Finge di sentirsi male, simula un’intensa sofferenza interiore, prende tempo cercando di rimediare all’errore commesso. Si batte il petto e si proclama disperatamente infelice, chiede perdono per aver pensato a lei come oggetto dei suoi impossibili desideri. Lei si calma. Lui spiega che la risata di lei per lui è stata come acido versato sulle ferite interiori. Scruta l’effetto delle sue parole. Lei si torce le mani, a disagio. Gli spiega d’aver riso nervosamente: lui l’aveva spaventata. Rientra nella stanza. Lui capisce d’avercela fatta. Di nuovo le chiede perdono.
Siamo dunque di fronte a un’azione molto barocca e difficile da rappresentare (nel Dvd potete confrontarla con la corrispondente descrizione del romanzo e con la prima traccia di sceneggiatura) dove si passa per stati d’animo contrapposti e per contrapposte azioni: è tutto un esprimere e un dissimulare. Quanto tutto ciò sia ben lontano dalla vita reale dovrebbe esservi evidente: nella realtà un simulatore contiene le sue emozioni, sempre, qui invece non si contiene affatto: è sincero quando si infuria, è esageratamente teatrale quando finge, è esplicito nei passaggi perché le sue passioni intime si rivelano nelle espressioni del suo volto e nel suo atteggiamento.
Questa non è solo la grammatica del cinema muto, è la grammatica del cinema: didascalie o meno, l’interiorità va esteriorizzata perché il pubblico possa capire.
L’atto rivela l’animo, il discorso interiore , i pensieri intimi, si fanno esteriori, manifestandosi in comportamenti ed espressioni. La scena è condotta su una dinamica emotiva. Nella sua brevità, non trascura nessun singolo passaggio. C’è in questa scansione sequenziale minuta qualcosa del fumetto: un congelare i singoli istanti in frammenti inequivocabili, ciascuno di quali descrive figurativamente un meccanismo psicologico in atto. Se l’azione è rapida, non è tuttavia sbrigativa. Ogni singolo passaggio viene espresso in un tempo concentrato. Non si cancella la dinamica psicologica, la si esplora per rapidi frammenti.
b) L’Uomo Ragno
Il giovane Peter Parker manifesta all’improvviso i suoi superpoteri. Non essendo ancora consapevole d’essere diventato un Uomo-Ragno, è talmente sconvolto dalla scoperta che fugge e si nasconde in un vicolo. L’espressione del suo volto rivela che non ha capito cosa gli è accaduto e che se lo sa chiedendo. Si guarda il polso, dove ha una strana cicatrice a forma di ragnatela. Là dove è stato punto da un ragno, è rimasto uno strano arrossamento della pelle. Cambia l’inquadratura, ora è più all’alto, con in PP una grossa ragnatela. Peter alza il capo e la guarda. Ha un sospetto. Torna a guardarsi la mano. L’inquadratura adesso è un macro-ingrandimento quasi da microscopio.Notiamo delle bizzarre inflorescenze che spuntano dai pori della mano di Peter: non sono esattamente peli, somigliano a zampe di ragno, con appendici prensili. Peter appoggia il palmo della mano contro il muro. Avverte che i suoi polpastrelli hanno acquisito un tocco “da ventosa”. Comincia a risalire il muro. Ci riesce. Esulta.
Come vedete, anche se siamo in un film sonoro, abbiamo anche qui una sequenza muta, persino più muta di quella di The Penalty, perché senza didascalie e perché c’è un solo personaggio in scena, in preda a turbamenti interiori. Uno sceneggiatore distratto probabilmente lo avrebbe fatto parlare da solo, perché esprimesse ad alta voce il suo sconcerto “cosa mi sta succedendo?” , “cos’è questa cicatrice?” “Sì, qui è dove mi ha punto il ragno” eccetera. Ma la sequenza avrebbe perso efficacia. Noi pubblico dobbiamo vedere quello che vede Peter Parker e fare lo stesso ragionamento che sta facendo lui. Così la rappresentazione è veramente efficace. Anche qui, come in fumetto, ogni singolo passaggio viene mostrato, ogni azione corrisponde a un tempo psicologico, a un ragionamento. Le singole fasi, dallo sconcerto iniziale alla riflessione, dalla rivelazione all’esultanza finale, ci sono tutte. Nulla di tutto ciò è realistico: nel tempo reale è un processo molto lungo e complesso passare dal trauma inziale alla scoperta che ciò che ci è capitato (e che ci ha spaventato) è invece una nuova opportunità, un potere acquisito di cui essere fieri e felici. Qui viene sbrigato in un minuto. Eppure è verosimile, ci appare tale, perché nessun passaggio viene trascurato. Questo è il tempo concentrato del cinema.
Esercizio – Riprendete il vostro protagonista. Qualunque sia il percorso narrativo che avete previsto per raccontare la sua storia, ci sarà senz’altro (deve esserci) un momento in cui il protagonista entra in conflitto non solo con le difficoltà esterne, ma anche con se stesso. E’ un momento cruciale, in cui egli affronta le proprie contraddizioni e le supera dopo un conflitto interiore. Provate a scandire i singoli momenti, le fasi di questo conflitto. In altre parole , scalettate una singola scena, frammentandola in istanti, e cercate di esprimere in ciascuno di questi istanti la soluzione che si fa largo nella mente del protagonista. Potrebbe essere una scena a due (le esitazioni, gli avanti e indietro, i passi falsi in una dichiarazione d’amore), oppure un “a solo” (cosa devo fare? Come posso uscire dalla situazione problematica in cui mi trovo?). Ma ricordate che questo conflitto dev’essere “esternato”, espresso in atteggiamenti esteriori che rendano chiaramente decifrabile al pubblico il percorso psicologico attraversato dal protagonista. In sceneggiatura, precisate i singoli passaggi.

di Gianfranco Manfredi

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