La televisione compare in cinema molto prima della sua diffusione di massa. Nel film Futurista L'Uomo Meccanico di André Deed (1921) è presentata come una sorta di cinema in diretta. Nella fabbrica dei robot si possono seguire a distanza i movimenti degli "uomini meccanici" su un grande schermo a parete (simile agli ultrapiatti da 70 e passa pollici di oggi). La televisione è presentata come dotazione della Fabbrica, tra leve, manometri, valvole, quadri comandi. E' uno strumento di controllo della produzione pienamente inserito nello sviluppo della civiltà meccanica. In Maciste all'Inferno di Guido Brignone (1926) è invece una sorta di "specchio magico" attraverso il quale, dall'Inferno, i diavoli possono seguire gli avvenimenti del mondo. Queste due opposte versioni del mezzo, tecnologica e favolistica, si fondono nei primi film e telefilm televisivi americani non solo di fantascienza, ma persino western, come nella serie The Phantom Empire (1935) definita dalla critica come "uno dei più pazzi serial della Storia della TV" , nel quale il singing cowboy Gene Autry, titolare e animatore di una piccola stazione radio country, si trova a dover combattere contro una civilità superiore e cattivissima che abita la città sotterranea di Murania. In questa cittadella nascosta nel sottosuolo convivono abbigliamenti fantastici che richiamano i costumi di antichi popoli scomparsi e tecnologie avveniristiche tra le quali schermi che possono mostrare immagini dall'intero pianeta come in un cinegiornale dal vivo. La televisione si presenta dunque in cinema sotto questo duplice aspetto: l'antico sogno delle favole dello specchio fatato che consente al mago o stregone di turno di spiare/controllare gli altri (come un Grande Fratello) o come/anche un mezzo di osservazione/documentazione degli eventi reali esterni fonte di un'informazione visiva dai tempi molto più accorciati della stampa, perché in simultanea con il verificarsi degli eventi stessi,e insieme molto più "oggettiva" della radio o del telefono perché ci mostra gli eventi senza costringerci a interpretarli. Gli eventi appaiono in queste proto-televisioni come "già montati", cioè in forma di notiziari, per quanto silenziosi, espliciti, come se il medium televisione di per sè, mostrando i fatti, mostrasse una verità autosufficiente, di per sè evidente, che non richiede esercizio critico. E' come se ci si volesse convincere che mentre le parole (udite o lette) richiedono una decifrazione, le immagini si possono tranquillamente subire senza doverle analizzare perchè in quanto "apparenti" sono vere. Difatti l'inganno/ambiguità dell'ideologia televisiva sta proprio in questo: alimentarci di immagini deprivandoci della capacità di decifrarne il linguaggio. E' la simultaneità stessa ad impedirci una lettura critica. Mentre siamo consapevoli che il punto di vista della cinepresa è orientato dal regista, che si tratta cioè di uno spettacolo, ci sembra (anche se a torto) che il punto di vista della telecamera sia neutro, oggettivo, una mera finestra sul mondo e sulle cose, dunque non "racconto", ma "documentazione".
Tutto ciò che nel cinema è "costruito", in televisione appare "spontaneo". Questo riguarda anche il taglio e la natura delle immagini. In cinema possiamo vedere ciò che il nostro occhio normale non potrebbe vedere, la percezione ottica viene insieme segmentata e ricostruita, vediamo una situazione in un'alternanza continua di punti di vista, angolazioni e campi. In televisione l'inquadratura tendenzialmente fissa, gli stacchi ripetitivi tra due/tre camere piazzate in studio con piani obbligati, uniti all'effetto "diretta" che pare escludere predeterminazione e promette un "tutto può accadere" (proprio mentre non accade quasi nulla che non sia previsto e prevedibile, e in ogni caso infinitamente meno di quanto non acca da in un film) simulano un mero "mostrare", non costruito, nè "narrato", e neppure ricreato esteticamente, semplicemente "riprodotto".
Ora, qui non parleremo dei film che hanno per argomento la televisione, nè di quelli che usano moduli espressivi televisivi, ma del semplice uso del televisore (l'apparecchio televisivo) in un film e di quali problemi ne nascano per il regista e per lo sceneggiatore. Inserendo nel nostro film un televisore (e ciò che trasmette) noi inseriamo un'immagine in un'immagine, e in particolare un'immagine che ha un suo e "altro" codice, nel racconto per immagini che è il nostro film.
Il primo rischio che si corre e che bisogna tener ben presente, è che ciò che si vede nella televisione attira inevitabilmente lo sguardo, tende cioè a diventare che lo vogliamo o no, il focus della scena. In una scena ambientata, per esempio in cucina, non ci capita da spettatori di distrarci dagli attori e dall'azione per soffermare lo sguardo su un frullatore. Ma se c'è nella stessa cucina un televisore acceso, il pubblico si distrarrà inevitabilmente dagli attori e si concentrerà sulla televisione, anche se quelle immagini non hanno alcuna importanza nella vicenda. Insomma: la televisione non è un comune elettrodomestico, reclama (e ottiene) attenzione. L'uso del televisore in cinema deve essere di conseguenza accortamente limitato. Nella nostra vita quotidiana il televisore ha assunto col tempo un'importanza dominante, ci passiamo davanti ore della nostra giornata, abbiamo televisori in quasi tutte le stanze, spesso accesi anche se non li guardiamo. Questa ossessiva presenza e lo spazio che si è preso la televisione nelle nostre vite, ben di rado viene mostrato in cinema. Nei film vediamo un'infinità di salotti senza televisione o con televisioni spente o disposte in angoli defilati e "zone morte". I protagonisti dedicano pochissimo tempo alla televisione. Magari lo fanno, o si suppone che lo facciano, ma da quelle scene si tende a prescindere per "scelta".
Vediamo ora due esempi recenti, che possono chiarire questi problemi e ne offrono delle brillanti soluzioni.
a) La ragazza del lago di Andrea Molaioli (2006). Il film racconta dell'uccisione di una giovane ragazza (tra l'altro un'apprezzata atleta) in un piccolo centro di montagna. Ora, sappiamo tutti che quando nella cronaca si verificano eventi di questo genere, sul posto accorrono troupe televisive a frotte, i locali vengono intervistati, si guardano essi stessi in televisione, spesso ritrovano distorte le loro parole o come viene rappresentata la realtà del loro paese, inoltre la presenza ossessiva e continua della televisione ha non poche conseguenze sull'indagine stessa e sulla serenità degli inquirenti. Ma non è questo l'argomento del film, dunque il film ne prescinde nel modo più assoluto e noi da spettatori non ne sentiamo affatto la mancanza. Se, da sceneggiatori, per scrupolo realistico, trattandosi oltretutto di un film realistico, avessimo fatto arrivare la televisione (o anche semplicemente mostrato la televisione nelle case) avremmo commesso un grosso sbaglio, spostando e alterando il centro narrativo del film, distruggendone la "poetica". La televisione viene usata solo per mostrare delle cassette che ci illustrano in minima parte il passato sportivo della vittima, e in massima parte l'atteggiamento morboso del padre autore delle riprese della figlia. In altri termini, nel video famigliare, si mostra che esso esprime un "punto di vista" molto ben definito e avvertibile. Scoprendo e sottolineando il "punto di vista" la televisione scompare in quanto tale, grazie a lei vediamo in realtà un film, e la verità non coincide affatto con la pretesa oggettività del mezzo, ma con la soggettività dell'autore delle riprese. L'autore in questione (cioè il personaggio che ha creato i filmati) è così ingenuo espressivamente (come tutti gli autori dilettanti e amatoriali) da non rendersi conto che non sta affatto riprendendo sua figlia, ma rappresentando senza mascherature di sorta se stesso, il proprio intimo sentire, attraverso la figlia. Il film dunque in questa scena non si limita a usare un mezzo, ci aiuta da spettatori a decifrarlo.
b) Funny Games di Michael Haneke (2007). Due giovani squilibrati sequestrano, seviziano e uccidono una famiglia nella sua isolata residenza di campagna. L'ambiente predominante è il salotto. C'è ovviamente una televisione nella zona divani. E a un certo punto, uno dei giovani criminali la accende. Passano immagini diverse (vorticosi cambi di canale) e ci si ferma infine sulle immagini e sul suono chiassoso di una corsa automobilistica, immagini decolorate, di una pasta diversa dalla fotografia del film, e ripetitive. Notate come viene inqudrato il televisore: sul fondo, mentre in PP vediamo Naomi Watts seminuda, ammaccata, in tensione, legata e imbavagliata sul divano. Difficilmente possiamo distrarci da lei. E' più il rumore della corsa automobilistica che non le immagini televisive a dominare, fino a diventare colonna sonora di una situazione angosciante, violenta e ossessionante.
Tant'è che quando Naomi Watts, lasciata temporaneamente senza sorveglianza, si solleva dal divano, la prima cosa che fa è contorcersi per spegnere la televisione. E lo fa nonostante suo figlio giaccia cadavere di fianco alla televisione stessa. Liberarsi da quel rumore ossessivo, è più importante per lei che compatire la sorte del figlio. Il televisore stesso, mostrato in precedenza in dettaglio, acquista altra valenza quando sul suo schermo schizza il sangue del ragazzino ucciso. Non è più un contenitore di immagini, è un mobile particolare, tipicamente da famiglia, ma un mobile. Lo schermo non è più un visore di immagini, ma una lastra di vetro. Il sangue che macchia quella lastra è più forte delle immagini trasmesse. E' la vera, terribile realtà che non vogliamo vedere. Questo è un esempio perfetto (per quanto estremo) di come un televisore possa venire usato nel nostro racconto. Dobbiamo fare in modo che non sia un punto di fuga dall'immagine del film verso "altre" immagini, ma che sia pienamente inserito nel nostro scenario e racconto visivo. Dobbiamo fare in modo che non distragga affatto lo spettatore, ma sia anzi un elemento aggiuntivo della drammatizzazione. Dobbiamo insomma rendere questa presenza espressiva. E per farlo bene, dobbiamo avere qualcosa da esprimere, cioè non limitarci a rappresentare un mezzo, ma offrirne un' interpretazione simbolica. E' così che quella immagine diventa compiutamente immagine del film, non semplicemente ospitata dal film.
Gli esempi sopra citati sono piuttosto rari ed "elevati". L'uso prevalente della televisione, in cinema, è di tipo informativo. Cioè come una radio che mostra, oltre a descrivere, dei fatti di cronaca. L'informazione, per esempio un frammento di telegiornale, può rivelarsi semplicemente utile al nostro racconto, ma non è quasi mai puramente strumentale perchè ingenera delle conseguenze (che pesano di più dell'informazione stessa) . Ad esempio può creare un clima di suspense. Un ricercato entra in un bar e all'improvviso la sua faccia, una sua fotografia, compare sul televisore. Il volume è spento, i clienti distratti, ma potrebbero accorgersene... Quante volte l'avete vista questa scena? Anche qui, il realismo va a farsi benedire. Quando mai in un vero bar la televisione è sintonizzata su un notiziario? Di solito è su un canale sportivo o musicale o di intrattenimento. Quando poi il volume è azzerato, quello che conta è il colore e il movimento delle immagini che possono consentire ai clienti di bere in tranquillità, posando lo sguardo su qualcosa di animato. Che senso avrebbe stare sintonizzati sulle news a volume azzerato? Ma il racconto cinematografico da questo genere di realismo prescinde. Il realismo in cinema è realismo utile al racconto. Il realismo inutile non lo si mostra affatto, distrarrebbe e basta. La televisione in questo caso assume il ruolo che aveva la carta stampata nei vecchi film di gangster. Allora accadeva che il ricercato entrava nel locale e trovava sul banco un giornale con sopra la sua fotografia. La televisione, come quel giornale, è un puntello per la narrazione, non viene usata espressivamente, anzi si ha cura di mostrarla solo a "colpo d'occhio". Come non ci si ferma troppo a lungo su un titolo in prima pagina, così sarebbe sbagliato soffermarsi sul poco attraente stand up o mezzobusto di un giornalista televisivo, meglio vedere per un istante l'immobile foto del ricercato che appare sullo schermo e staccare sul nostro personaggio e le sue emozioni. Egualmente in molte scene di famiglie o di amici riuniti sul divano a guardare la TV, godendosi un film o uno spettacolo sportivo, quello che conta è il nostro gruppo di personaggi. La televisione in genere viene mostrata da dietro. Le immagini le intuiamo solo fugacemente, tanto per far capire cosa stanno guardando i nostri personaggi, ma bisogna evitare che attraggano la nostra attenzione sostituendosi al film.
Accenno infine a un altro uso della televisione che nei film contemporanei si riavvicina allo "specchio magico" cui abbiamo accennato all'inizio, ma non a caso capovolgendone il senso e l'esito. Non vediamo più un mago-stregone che usa la televisione per controllare il mondo. Vediamo invece la televisione stessa che controlla, domina e aggredisce lo spettatore. Arriva ad inghiottirlo, cannibalizzarlo, in Videodrome (1983) di Cronenberg. A rapirlo in un altro mondo, come in Poltergeist (1982) di Hooper. A sprigionare fantasmi, che escono dallo schermo per minacciare lo spettatore, come in The Ring (2002) di Verbinski. Non si tratta soltanto di effetti speciali, ma di metafore. Non si tratta soltanto di uso narrativo del televisore, ma di un discorso sulla televisione e sulla sua natura invasiva della quotidianità. Da sceneggiatori è importantissimo considerare questi elementi "filosofici" e simbolici.
Come ho detto riguardo al telefono nella precedente lezione, quando noi mettiamo in scena uno strumento di comunicazione, offriamo (o dovremmo offrire) anche un punto di vista su quel mezzo.