Nel cortometraggio di Alessandro Guida si parla di emofilia attraverso le vicende di quattro giovanissimi in un camping estivo seguiti da due educatori. Grazie al riferimento ad alcuni dei supereroi i due ragazzi cercheranno di far capire ai più piccoli cosa significa essere come loro.
Alessandro Guida è il giovane e promettente regista del cortometraggio I miei supereroi, prodotto da MP Film, in collaborazione con Medusa. Nato dal concorso A fianco del coraggio, il corto affronta un tema importante, quello dell’emofilia. Una malattia rara, ma ancora esistente vista attraverso gli occhi di quattro bambini e due educatori. Alessandro Guida ci invita (e invita anche i protagonisti stessi e tutti coloro che soffrono di questa malattia) a guardare il mondo da un’altra prospettiva. Grazie a degli ottimi dialoghi e a delle buonissime interpretazioni anche da parte dei più giovani, Alessandro Guida presenta il suo corto con uno stile particolare, rivolto soprattutto ai giovani, ma non solo.
Com’è nata l’idea di parlare di un argomento del genere, fra l’altro tratto da una storia vera, come appare al termine del cortometraggio?
Il corto in realtà nasce da un concorso A fianco del coraggio, al quale partecipano tanti racconti dedicati a volontari maschi che aiutano le persone che hanno malattie o patologie. In questo caso il racconto che aveva vinto era un racconto di Alessandro Marchello, dal titolo Il tuffo. La storia racconta di un gruppo di ragazzi che frequentano un campeggio in estate senza genitori e scoprono di avere l’emofilia. Si tratta di una malattia abbastanza rara, ma che esiste ancora e si ha fin dalla nascita. Ci sono due tipi di emofilia: A e B. In entrambi i casi, in parole semplici, non si producono abbastanza piastrine e quindi bisogna stare molto attenti perché qualsiasi tipo di urto o di ferita è molto più grave, non potendosi rimarginare. E quindi anche giocare e fare attività fisica come tutti è generalmente più rischioso. Però oggi, attraverso l’evoluzione della medicina, ci sono farmaci che permettono di essere più tranquilli. Una di queste cure è l’infusione, cioè i ragazzi ricevono trasfusioni di plasma. E la cosa bella è che in questi campeggi imparano a farsi queste trasfusioni anche da soli. Nel cortometraggio, però, non c’è questo aspetto. Perché il tirante sono i due giovani educatori che seguono i ragazzini. Sono un ragazzo di vent’anni, interpretato da Guglielmo Poggi (Il tuttofare – qui per l’intervista al regista Valerio Attanasio) e una ragazza coetanea interpretata da Neva Leoni. Loro seguono questi ragazzini ed hanno due filosofie di pensiero diverse: la ragazza è più preoccupata e tende a far fare loro attività poco rischiose, invece lui è un ragazzo che pensa che questi ragazzini debbano affrontare la vita con coraggio, facendo attenzione, ma senza essere “spaventati da tutto”.
Il salto finale che si ferma alla fine dà un segnale di speranza sia per chi soffre di questa malattia che per tutti coloro che guardano il corto e si rapportano con questa malattia.
La metafora è proprio quella con i supereroi che hanno superpoteri, ma anche debolezze. Il potere che li contraddistingue, però, è il coraggio. Quando l’educatore li porta a fare un tuffo gli dice che ha paura anche lui di qualcosa (di quello che c’è sott’acqua). La morale è, però, che, facendo attenzione, ognuno può affrontare ogni cosa. Il cortometraggio si conclude con questo loro tuffo con l’immagine che si blocca. E il film, in generale, ha due scopi: il primo è sensibilizzare sul tema che non è conosciuto soprattutto dai coetanei; il secondo è raccontare che esistono anche realtà come questo campeggio dove i bambini possono avere una vacanza simile ai loro coetanei.
Anche lo stile è particolare. Sembra quasi un’avventura.
Si può dire che il cortometraggio ha uno stile poetico e d’avventura, tipo Stranger things e non è didattico né noioso. Lo spettatore viene condotto e solo alla fine scopre qual è il motivo, come un segreto che viene svelato poco alla volta. E la vicenda è tratta, appunto, da un racconto di Alessandro Marchello che è proprio la sua storia: lui è un educatore in questi camping creati da lui stesso. Perché lui, a sua volta, che adesso, a 50 anni, fa l’educatore è stato un bambino emofiliaco e lo è ancora e ha creato questi camping avendo vissuto in prima persona l’esperienza. Mentre la sceneggiatura è di Marco Borromei, anche sceneggiatore di Skam Italia. Quindi partivamo da un bel racconto, poi Marco ha scritto i dialoghi, molto intelligenti, ed è riuscito a creare un corto così breve con profonde emozioni. E poi anche gli attori sono stati molto bravi. Con i grandi avevo già lavorato ed erano molto affiatati. In particolare il personaggio di Guglielmo Poggi è bello perché rappresenta un educatore che è un po’ un Robin Williams di Patch Adams. Va contro la figura del tipico educatore perché gli piace scherzare e porsi alla pari.
Un aspetto che mi ha colpito è che non c’è mai una spiegazione della malattia che viene solo accennata e nominata, rimanendo in superficie. Mi è piaciuta particolarmente questa scelta perché secondo me spinge inevitabilmente lo spettatore a documentarsi (anche io stessa sono andata a cercare informazioni al termine della visione).
È un po’ la sfida che abbiamo lanciato e ci siamo voluti dare, insieme a Marco Borromei. Ci siamo detti che dovevamo emozionare con questo corto e appena finisce chi sarà colpito andrà in prima persona a documentarsi. Quindi in base a quello che hai fatto vuol dire che siamo riusciti nel nostro intento.
Come mai l’idea dei supereroi? Dal momento che il corto si basa su un racconto, l’idea dei supereroi è nata dall’autore o magari c’è stato qualche episodio derivante dai ragazzini che ti ha fatto pensare di inserire questo elemento nella vicenda?
No, nel racconto non c’erano. Si faceva riferimento solo a ragazzi coraggiosi e il titolo era infatti Il tuffo, in relazione a una serie di prove di coraggio che dovevano affrontare i ragazzi e l’ultima prevedeva proprio un tuffo. L’idea, sia mia che dello sceneggiatore era diffonderlo il più possibile nelle scuole per avvicinare i coetanei perché spesso c’è tanto imbarazzo nel dire di avere questa malattia. Avremmo dovuto portarlo nelle scuole, ma a causa dell’emergenza covid non è stato possibile. La scelta dei supereroi è legata al fatto che si tratta di figure riconoscibili per un pubblico giovane.
E invece c’è un legame, secondo te, con il tuo corto precedente Pupone, nel quale per raccontare la storia di Sasha ti sei fatto ispirare da Francesco Totti? In questo hai preso spunto dagli X-Men, Wolverine e appunto dei supereroi. Credi che l’impatto di una storia, più o meno drammatica, possa essere diverso e magari maggiore se accostato ad elementi come questi, ormai facenti parte dell’immaginario collettivo?
Il corto è girato in un modo particolare, ispirandoci un po’, come detto prima, alla serie tv Stranger Things, anche se è un prodotto completamente diverso sotto tanti aspetti. Noi però ci siamo ispirati soprattutto a quel tipo di sfide: raccontare una storia attraverso l’avventura. Abbiamo girato a largo di Castel Gandolfo, in una cornice molto bella, in una location pazzesca. E volevamo creare un clima di avventura. Contemporaneamente è girato con uno stile che permettere di essere di facile lettura sia per i giovani, ma anche per i più grandi. Ad esempio il dialogo tra i due educatori apparirà più chiaro ai genitori perché ci siamo ispirati alle classiche situazioni tra genitori, dove ci sono, a volte, idee diverse su come educare il proprio figlio. Questo tipo di dialogo mi sono accorto che ha colpito molto gli adulti.
I ragazzini protagonisti, che mi dicevi hanno alle spalle molta esperienza, sono stati molto bravi. Com’è stato lavorare con loro?
Per un progetto così breve abbiamo avuto la fortuna di fare tanti provini, più di 150. E abbiamo avuto a disposizione tre/quattro incontri per fare delle prove, appena scelti i bambini. Loro erano bravissimi. Io, poi, lascio molta libertà agli attori, soprattutto a quelli grandi, di improvvisare. Anche loro li ho spinti a farsi guidare dalla scena perché così risultano più spontanei e naturali. Alla fine si sono trovati bene perché era un’esperienza diversa, più matura. Fino a quel momento erano abituati a ripetere, mentre qui si sono fatti guidare. Christian Monaldi recita anche nella serie Sara e Marti; Alessio Di Domenicantonio, il più piccolo, è stato Lucignolo in Pinocchio . Alla fine è stato divertente e ha permesso loro di legare molto. Hanno anche creato un gruppo whatsapp.
Anche l’altro tuo cortometraggio Pupone era nato da una storia vera? Era nato con la stessa modalità?
Quella era una storia vera raccontata da un educatore di una casa famiglia. L’età dei protagonisti è diversa. Il protagonista di Pupone è un ragazzo che diventa diciottenne e che deve lasciare la casa famiglia per diventare adulto. La vera domanda che poneva è “crescere vuol dire andare via?”. Lì si racconta cosa succede nelle case famiglia dove il ragazzo cresce e a 18 anni è veramente pronto ad andare fuori e lasciare quelli che sono diventati i suoi genitori (gli educatori), i suoi fratelli che sono i ragazzi con i quali ha condiviso l’appartamento e instaurato un legame. Anche lì, come in questo corto, ci sono i supereroi come elemento per poter accattivare il pubblico giovane. C’era il parallelismo con il capitano della Roma Francesco Totti, idolo del protagonista, che una volta sopraggiunti limiti di età ha dovuto lasciare il campo da gioco. Questo parallelismo, secondo me è stato molto riconosciuto ed è stato anche l’elemento che ha reso Pupone così visto e apprezzato. Ancora oggi stiamo partecipando a molti festival con questo corto. E sono molto contento di questo perché si tratta di un lavoro che pone un tema che in Italia è molto sentito.
dall'Intervista di taxidrivers.it i per