Quindici cortometraggi per la tivù. Da girare a colori tra Roma e dintorni, benché la Rai di allora trasmettesse ancora rigorosamente in bianco e nero. Gli spunti li forniva la cronaca nera ma ancor più il costume dell’epoca, con temi che ormai avevano fatto irruzione nell’Italia post-boom di fine Anni Sessanta: la moda, la grande distribuzione commerciale, gli sport d’élite, il turismo, la stessa televisione. Per quanto possa sembrar strano Giorgio Scerbanenco, il padre del noir italiano, autore strettamente legato all’immagine della mala milanese e agli orizzonti polizieschi della costiera adriatica veneto-romagnola, stava per dare una svolta romana alla sua carriera di scrittore. E soprattutto, dopo aver avuto rapporti controversi con il cinema, aveva deciso di puntare tutto sulla televisione, di cui aveva intravisto le grandi potenzialità narrative.
Lo conferma la figlia dello scrittore, Cecilia, che in occasione del festival letterario Grado Giallo, parlerà proprio del rapporto fra il padre e il piccolo schermo. Un rapporto appena abbozzato, che si interruppe il 27 ottobre del 1969 a causa della prematura morte dell’autore di origine ucraina. «Papà credeva molto nel mezzo televisivo – sottolinea Cecilia Scerbanenco, che sta curando una monumentale biografia sul padre – Dopo tanti anni trascorsi nel mondo della carta stampata, fra giornalismo ed editoria, forse aveva voglia di cambiare. Anzi, stava pensando di lasciare Milano e trasferirsi a Roma proprio per seguire meglio questo progetto televisivo e altre iniziative legate al cinema».
Difficile per i fan immaginare uno Scerbanenco che abbandona i navigli e la nebbia delle periferie milanesi per far muovere i suoi cupi personaggi in riva al Tevere. Eppure, per lui, sarebbe stato un ritorno a casa, nella città dove visse fino all’età di quindici anni dopo una travagliata e traumatica infanzia russa (il padre fu ucciso nel corso della rivoluzione sovietica).
Benché a Roma avesse trascorso gli anni dell’adolescenza, Scerbanenco non vi ambientò mai nessuno dei suoi numerosissimi romanzi a sfondo noir. «La Capitale compare solo in due titoli degli Anni Quaranta - conferma la figlia - Opere di genere “rosa”, non certo poliziesco: Si vive bene in due e Quando ameremo un angelo».
Nel 1969 l’incontro con il produttore cinematografico Gigi Martello convinse Scerbanenco a rimodulare la sua produzione letteraria. E soprattutto a dare una svolta televisiva alla sua carriera di scrittore. Il progetto «Televisione a colori» era già definito e le quindici sceneggiature pronte per essere girate. I soggetti originali si trovano ora nell’archivio della biblioteca civica di Lignano Sabbiadoro, la cittadina friulana che l’aveva «adottato» e dove vive la figlia.
Fitte pagine di appunti scritti a mano, forse al Bar Gabbiano, di fronte al mare, dove Scerbanenco trascorreva le sue mattinate. E poi ricopiati dall’autore con la macchina per scrivere.
Quindici sceneggiature con titoli che portano l’inconfondibile marchio del maestro del noir: A Fregene col cadavere, Come uccidere una giornalista, Supermorte al supermercato, All’Olgiata si muore meglio, Requiem per un cavallo, La clinica che uccide, Allah a Fiumicino, I milioni delle Mantellate.
La narrazione è volutamente scarna, sincopata, sommariamente descrittiva come si conviene a una sceneggiatura. Ma i lettori di Scerbanenco vi riconosceranno senza difficoltà lo stile dell’autore di Venere privata e I milanesi ammazzano il sabato. Ecco un breve estratto dalla sceneggiatura di A Fregene col cadavere:
«Antonio e Cristina sulla Mercedes, che vagano per Fregene. La povera Maria Giovanna è sempre nel baule. Sole, sole e frenesia di corpi e di nudo anche per la strada. Antonio: Ti ho detto che adesso vado dai carabinieri e gli consegno la ragazza. Io sono solo un ladro, non voglio aver niente a che fare con gli assassini. Cristina: ma ti mettono in galera per trent’anni. Antonio: Spero di no. Tu scendi e torna al tuo ente provinciale del turismo, scemetta – le fa una carezza, mentre lei ha una smorfia di pianto, e quasi la butta fuori dalla macchina. Poi Antonio riparte subito, MdP (macchina da presa, ndr) inquadra Cristina dall’alto, Cristina diviene sempre più piccola».
«Il muso della Mercedes adesso corre in un vialetto secondario, sullo sfondo si vede una targa: Carabinieri. Antonio guida deciso verso la caserma dei carabinieri, deciso a confessare tutto pur sapendo che saranno mesi e mesi di galera, se va bene, se no forse anni. Un uomo all’improvviso gli sbarra la strada. È Michelone che girella per Fregene alla ricerca della “sua” Mercedes, e ora l’ha vista. Antonio è costretto a fermarsi, Michelone sale, impugna la rivoltella, la punta contro Antonio – Vai senza storie. Dove hai trovato questa Mercedes? Sulla strada da Macconese (sic, probabilmente si tratta di Maccarese, ndr) a qui, a Fregene? Hai per caso guardato nel baule? Sì – Antonio sussulta per la rivoltella che Michelone gli affonda nel fianco. E cosa hai trovato? Una ragazza morta. È Maria Giovanna, ne parlano tutti i giornali... Bravo, sei informato. Adesso mi aiuterai a sistemare la ragazza...».
di Giorgio Ballario per lastampa.it