Costanzo è senza dubbio uno dei registi “giovani” (lo è davvero, avendo superato da poco la soglia dei 30) più interessanti del nostro cinema. Ha al suo attivo le sceneggiature di spot sociali e cortometraggi e la regia di alcuni documentari come “Caffè Mille Luci”, “Brooklyn”, “New York” dove si descrive la comunità italo-americana partendo dai clienti di un piccolo bar e “Sala Rossa” (2001), una docu-fiction in 6 episodi sulle lotte e le tragedie vissute in un pronto soccorso ospedaliero, presentato con successo al Torino Film Festival. Il passaggio al lungometraggio è felice e viene subito notato anche in ambito internazionale: i suoi due lavori vengono proiettati al Festival di Locarno e al Festival di Berlino.
Per la felicità di voi lettori e per testimoniare l’esperienza artistica di un uomo di cinema, lo scrivano si defila e, grazie alla disponibilità di Saverio, cede spazio alle sue parole.
I tuoi due lungometraggi analizzano le dinamiche personali tra uomini costretti all’interno di quattro mura. Un caso o una dimensione narrativa che senti familiare?
Non parlerei di caso ma piuttosto di un meccanismo (che ho già utilizzato anche nei miei lavori documentari) che mi permette di trattare il tema della libertà umana con le sue costrizioni e aspirazioni che tutti noi sentiamo.
Tu dimostri nel film In memoria di me un indiscutibile talento visivo, capace di creare immagini davvero coinvolgenti. La stessa storia si configura come un thriller metafisico girato in un convento. Quali i tuoi riferimenti figurativi?
Per alcune scene mi sono rifatto al ricordo di maestri di un cinema che ben raffigura le inquietudini umane, come il Kubrick di “Shining” e “Full Metal Racket” o gli ultimi lavori di David Lynch. Per una sequenza particolare (una camminata dei novizi visti frontalmente in un’atmosfera chiaroscurata), ho attualizzato una scena vista in “Platoon” di Oliver Stone (in quel caso si era trattato di marines al ritorno da una battaglia in Vietnam).
Effettivamente ho voluto usare gli stilemi del genere thriller per avvicinare lo spettatore a temi ben più alti, quali quelli che coinvolgono i novizi. L’operazione è stata anche molto rischiosa: sarebbe stato più facile compromettersi con un thriller a discapito dell’intima natura del film, che è ben altro che un film orrorifico. Sono davvero felice perché molti spettatori mi dicono che alcune scene restano impresse e ritornano alla memoria dopo giorni dalla visione del film. Uno dei problemi che vedo nell’attuale cinema italiano è riuscire a trovare fette di pubblico attento all’interno di un mercato cinematografico che brucia i prodotti in un tempo brevissimo.
Il film ha avuto recensioni davvero entusiaste (La Repubblica e Il Sole 24 ore in primis) mentre l’Osservatore Romano è stato critico. Inevitabile la domanda sul tuo pensiero nei confronti della spiritualità e sulla Chiesa cattolica come istituzione.
Attualmente la Chiesa mi appare come il convento del film (sull’isola di San Giorgio a Venezia): un’isola perduta nel mare. I novizi vedono il mondo intorno a loro (le navi che passano sui canali e i fuochi artificiali sparati dalla terraferma) ma non interagiscono mai con esso. La stessa scelta di far parlare alcuni attori in un italiano dall’intonazione straniera è stato un mezzo per accentuare ancor di più la distanza tra i novizi e la società che li circonda. Io sono davvero pessimista. Da non credente quale sono, penso che la Chiesa non avvicini l’uomo moderno alla sua dimensione spirituale, ma lo spinga ad avvicinarsi a spiritualità diverse come quelle orientali.
Intervista di Davide Bracco per sermig.org