So che ti consideri, prima di tutto e innanzitutto, un poeta. Puoi raccontarci come è nato l’interesse per la poesia?
È vero, io mi considero innanzitutto un poeta, per me il cinema è un gioco laterale anche se, a occhio e croce, penso di aver scritto una novantina di film, guadagnando molti premi e diverse nomination all’Oscar: Amarcord l’Oscar lo ha vinto. Per capire però bisogna sempre partire dal fatto che io sono stato prigioniero in Germania durante la guerra. Lo sono stato dall’agosto del 1944 all’agosto del 1945. Durante quest’anno di prigionia, gli altri prigionieri, che erano quasi tutti romagnoli, per superare quei momenti difficilissimi mi chiedevano la sera di raccontare qualche cosa, fossero storie o poesie. Si trattava in gran parte di contadini che parlavano in dialetto romagnolo. Così ho cominciato a pensare a qualche cosa e a memorizzarla, perché non avevamo né matita né penna. Ogni giorno durante i lavori forzati che ci facevano fare, od altro, pensavo una poesia usando gli endecasillabi per poterla ricordare meglio, e quando veniva la sera, e stavamo nel mondo davvero squallido delle baracche, io, la declamavo. Naturalmente erano sempre diverse l’una dall’altra. La cosa ebbe subito un grande successo. Un giorno m’accorgo che un prigioniero, un dottore anziano anche lui romagnolo, che i tedeschi usavano come infermiere e che aveva matita o penna, trascriveva queste poesie. Alla fine dell’anno di prigionia me le ha consegnate tutte. Si chiamava Stronchi, Gioacchino Stronchi, … una persona eccezionale.
Tornando a casa, ho ripreso gli studi universitari presso l’Università di Urbino. Il Rettore era allora Carlo Bo, un grande della letteratura morto purtroppo l’anno scorso, al quale consegnai queste poesie con la loro traduzione in italiano. Gli piacquero molto e accettò di fare una piccola prefazione per una pubblicazione incaricata – con i miei soldi – a un editore di Faenza. Si intitolava “Scarabòcc”. Sono seguiti tanti altri libri, che hanno anche vinto diversi premi. Ho scritto anche una commedia “A Pechino fa la neve” che ha vinto il premio Pirandello. Due libri me li hanno tradotti anche qui in Portogallo.
Quel mio primo libro comunque ebbe successo, tant’è vero che Fusco, Giancarlo Fusco, ne parlò in un articolo sul giornale e l’articolo arrivò alle orecchie di un giovane regista romagnolo che si chiama Aglauco Casadio, che stava preparando il suo primo film con Mastroianni intitolato “Un ettaro di cielo”. Poiché si doveva svolgere in Romagna, pensarono di rivolgersi a me per la sceneggiatura. La scrissi insieme a Elio Petri e al regista. La cosa piacque e il film, “Un ettaro di cielo”, ebbe un notevole successo.
Iniziano così i tuoi primi passi di sceneggiatore….
Sì, il produttore mi invitò a Roma. Io ero professore e prendevo allora 39 mila lire, lui me ne offrì 300 e io, diciamo pure in modo puttanesco, accettai di trasferirmi a Roma. I lavori però finirono e mi feci 10 anni di fame. Una volta fu Fellini che stava cominciando a fare i film, ad aiutarmi.
Lui, poiché da tempo abitava a Roma, aveva più possibilità di chiedere qualche soldo. Lo aiutava molto Giuseppe De Santis, che, dopo “Riso Amaro”, era il regista di punta di quel momento. Cominciai così, con difficoltà, la mia carriera di sceneggiatore…
…ma come sono nati i rapporti con Fellini?
Con Fellini c’è stato prima di tutto un lungo rapporto d’amicizia, perché Fellini era di Rimini, e io di Santarcangelo, che dista appena 10 Km. Si è trattato praticamente di un rapporto tra paesani. Allora lui aveva i suoi sceneggiatori, erano Pinelli e Faiano, due grandi. Però mi portava a fare delle passeggiate in macchina, a vedere Ostia e le spiagge romane, quasi per ricordare la Rimini invernale. Erano quindi semplici rapporti di amicizia. Il momento giusto venne successivamente, quando insieme decidemmo di fare un film sulla nostra giovinezza. Nacque “Amarcord” e da quel momento io ho lavorato per una ventina d’anni con Fellini.
Rapporto professionale sempre lineare e facile?
Non sempre. Per esempio ho strappato il contratto per “Casanova” perché mi ero innamorato della donna che ho poi sposato in Russia. In quell’occasione mi disse “ma come, per un paio di mutande, tu lasci una cosa di questo genere?”. Appena ritornato da Mosca, lui mi chiese una poesia sulla figa, che con traduzione di Zanzotto, finì poi in “Casanova”. Non ho voluto fare neppure “La città delle donne”. Ho lavorato invece molto in “Prove d’orchestra”, però sono partito un’altra volta e quindi non ho voluto firmare la sceneggiatura.
Tutti sanno però che il finale del film, la palla che rompe il coso….. è cosa mia. Ecco questo é. C’è stato un piccolo distacco anche quando sono tornato da Mosca dopo essermi operato al cervello. Volevo ritrovare i miei ricordi in Romagna e lui ha fatto un film “La voce della luna” mi sembra, a cui non ho partecipato. Lui poi è stato quattro anni, fino alla sua morte, a organizzare un film che voleva fare su un attore. Venne anche a trovarmi in macchina e mi disse “Tonino ricordati che noi stiamo facendo gli aeroplani e non ci sono più gli aeroporti”. So attraverso un articolo di Enzo Biagi che due giorni prima di morire Federico gli confidò che il suo desiderio era di “innamorarsi ancora una volta”. Era stupendo questo suo valorizzare quei momenti della vita dove uno è preso da un grande sentimento. Forse pensava addirittura di morire e di innamorarsi o di Dio o di un nuovo soggetto cinematografico, magari qualche storia da girare in una zona o del paradiso o dell’inferno o del purgatorio.
Il rapporto umano con Federico Fellini non ha mai avuto dei momenti autenticamente critici?
No, È stato un rapporto grande, che permetteva a me – per esempio – di capire molti momenti segreti che non dirò mai…….. un rapporto che mi ha insegnato molto, ad esempio la cosa sicuramente più importante: siccome nei primi anni, quando io arrivavo verso le sette o le sette e mezza della mattina a casa sua, trovavo sempre due persone: Fred, un ex ballerino, che aveva vinto, subito dopo la guerra, un campionato del mondo di resistenza, credo che abbia ballato continuativamente per 27 giorni, e un ex boxer, un lottatore ormai un po’ suonato, che lo aiutava a fare dei piccoli esercizi, come alzare un peso per tre volte prima con la mano destra e poi con la sinistra, ecc. Dopo gli esercizi vuotavano puntualmente il frigidaire. Una volta gli dissi “ma Federico, tutte le mattine questi due, sai….”. Mi rispose “capisco che…. ma ricordati che anche nei mondi più oscuri ci sono delle scintille di luce”. Capii subito perché anch’io mi rendo conto che tenere a delle amicizie forse ignoranti, ma cariche di grandi sentimenti, di grande lealtà, di grande premura, fa molto bene… A qualsiasi persona io dico “guarda che se stai morendo avere vicino una persona molto ignorante fa bene, perché hai come l’affetto di un animale il quale è misterioso e ha una carica molto magica”.
Parlaci un pò dei tuoi rapporti con Antonioni.
Antonioni è un altro emiliano, abbiamo avuto un rapporto lungo, forse il più lungo perché con lui ho fatto tredici film. Non so come dire, era come un rapporto con qualcuno che voleva togliermi le giacche di velluto, togliermi la mia aria contadina e paesana. Era un uomo pieno di eleganza, un uomo che, in pieno neorealismo italiano, con tutta l’attenzione rivolta verso il mondo dei poveri e degli operai e le storie di cui erano protagonisti, volgeva i suoi occhi ai racconti di Pavese, all’esistenzialismo francese, alla borghesia italiana. Lui rappresentava queste donne in scialli bianchi…… Era l’unico che arginava questa povertà… cioè faceva crescere anche quella parte della borghesia che per gran parte dei film del neorealismo era non vista e trascurata.
Veniamo più vicini a noi: che giudizio dai degli ultimi 10 anni di cinema italiano?
Ma … io abito a Pennabilli da più di 10 anni… Mi pare che ci siano dei giovani molto interessanti, ma il problema è questo : nel dopoguerra e per molti anni, gran parte del mondo aveva avuto le stesse sofferenze e quindi le stesse disperazioni, le stesse allegrie, eravamo cioè tutta una comunità sulla terra che si assomigliava… Il cinema italiano potevi farlo in Italia e le storie andavano bene anche in America, andavano bene in tutto il mondo. Poi è venuta la rottura e ognuno ha dovuto pensare al mondo proprio e in questi ultimi dieci anni è anche cresciuta la tecnica di fare film, fatta molto bene dagli americani, con grandi attori, ma che è lontana da noi….
Noi abbiamo un cinema più umano, più legato ad un racconto semplice ma profondo e io poi ho sempre detto che la lingua inglese è un altro elemento che può dare fastidio per la vendita all’estero di un film fatto in Italia, perché il doppiaggio può far lievitare molto i costi. Tuttavia ci sono dei giovani bravi, lo è Tornatore e lo sono tanti altri.
C’è qualche film che in questi ultimi 10 anni ti ha colpito particolarmente?
Purtroppo devo dire che quelli che mi colpiscono di più, sono film che vengono da lontano, da Paesi come la Corea, o la Persia, insomma dei film di una cinematografia che noi ritenevamo spenta o poco attiva, poco viva. Invece ci sono film che, secondo il mio punto di vista, continuano la poetica il neorealismo italiano, in maniera magari più raffinata – più poetica appunto – come l’ultimo di questo Kim Ki Duk mi pare si chiami… un regista coreano che ha fatto “Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora Primavera”, un grande film.
Tra la cinematografia italiana invece qual’è il fim che ti ha colpito di più?
Purtroppo io non vado al cinema. Ho sentito parlare di Giordana… anche Moretti è bravo… Ce ne sono di bravi registi, ma mentre prima si poteva parlare di gruppo, c’era cioè uno specchio, forte, adesso ognuno ha delle sue piccole storielle o belle o grandi storielle da raccontare, ma non hanno più quegli effetti dirompenti… Difficile paragonare qualcuno a un Tarkovski o a Anghelopulos, che io credo sia tra i più grandi registi del mondo con il quale mi vanto di lavorare.
Credi che la “battaglia” con il cinema americano sia persa definitivamente o c’è qualche speranza che la situazione possa prima o poi, in qualche modo, riproporre la cinematografia italiana in luogo di preminenza?
È difficile, perché qui noi parliamo del cinema americano, cominciamo a dire una cosa: se un americano fa un film, ha l’Australia che guarda il film, il Sud Africa che guarda il film, la Norvegia che guarda il film, l’Inghilterra che guarda il film, dico, ci sono continenti che parlano e conoscono quella lingua, perfino in Russia è così. Nonostante Colombo, non c’è nessuna parte dell’America che parla italiano. Anche gli spagnoli hanno una loro forza, perché esistono 10/15 stati che parlano spagnolo…. Noi esercitiamo un’influenza linguistica significativa solo sull’Argentina, sul Brasile, poca roba comunque. Però bisogna dire che non è corretto affermare che la causa è che “non abbiamo un forte impatto commerciale”, che “se facciamo un buon film, è grave il fatto che gli altri non si preoccupino di circuitarlo e di distribuirlo”.
Anche piccoli film provenienti da piccole nazioni orientali vengono tradotti. Ai nostri film questo accade raramente. Noi, per esempio, non abbiamo più produttori… produttori come quelli di una volta, magari a volte anche ignoranti, ma che avevano una voglia fantastica di fare film. Sia Ponti che De Laurentis partirono per l’America con le sceneggiature sottobraccio per vendere queste cose, i primi film….. Sono stati bravi, sono stati mendicanti pur di lanciare i nostri film. Adesso i giovani produttori mirano esclusivamente al guadagno… Se faccio questo film, quanto mi da la televisione, quanto posso prendere da qui e quanto di là…?
Il problema è questo.
Intervista raccolta da Giovanni Biagioni
Pubblicato su Imprensa da Universidade de Coimbra
Le foto sono state scattate a casa di Tonino Guerra da Renato Francisci che ha avuto l'onore ed il piacere di essergli amico.