John Singleton è un ragazzo prodigio del cinema nero americano. E' l'autore di uno dei film che hanno segnato lo scorso decennio: Boyz'n the hood, raccontava per la prima volta sullo schermo, con impressionante realismo, l'ordinaria criminalità della Downtown di Los Angeles. Grazie a quel primo film, John Singleton è stato il più giovane regista che abbia mai ricevuto una nomination all'Oscar. La statuetta non l'ha vinta, ma per uno che ha la pelle nera il Premio Oscar è quasi un traguardo impossibile. John Singleton, del resto, è una specie di piccolo leader dei neri americani, e questo spiega perché ha firmato il remake di Shaft, vecchia bandiera del black cinema. Ma nonostante ciò, Singleton è un regista di scuola europea, che ha studiato Vittorio De Sica e François Truffaut, i suoi maestri preferiti insieme a Akira Kurosawa. Abbiamo incontrato John Singleton a Los Angeles nei luoghi di Boyz'n the hood, a Downtown, dove si trova il suo ufficio, proprio nel momento in cui esce in Italia il suo nuovo film Baby Boy.
John, il protagonista del tuo ultimo film, “Baby Boy”, è così mammone che sembra un italiano.
Ho sentito dire che in Italia ci sono molti uomini legati alle loro famiglie, alle loro madri. Quelli che voi chiamate “mammoni” in America vengono chiamati, appunto, “baby boys”.
E' molto diffuso il mammone nelle famiglie nere americane?
Abbastanza. In molte famiglie ci sono ragazzi che si sentono a loro agio solo con la madre. In questo film ho raccontato la storia di un ragazzo che si trova a metà strada tra l'uomo e il bambino. Il suo amore per la madre gli impedisce di crescere, di andarsene ed è alimentato dalla paura di essere ucciso per la strada.
Non credo che questo personaggio sia autobiografico, giusto?
Infatti non lo è. Io me ne sono andato di casa a 17 anni.
Quando eri ragazzino hai conosciuto qualcuno che assomigliava al tuo personaggio?
Sono cresciuto in mezzo a persone come Jody, il ragazzo di Baby Boy. Questo film è una specie di seguito di Boyz'n the hood ed è ambientato nello stesso posto, il ghetto di Los Angeles. E' un quartiere bellissimo, ma è una specie di Far West, sulle strade la gente si spara.
Ma immagino che in quel ghetto ci fosse di tutto, anche i ricchi...
Esattamente. Il film è iperrealistico. Il periodo è quello del dopoguerra, dell'avvento della televisione, quando le telecamere iniziavano ad essere più piccole e più leggere. E si girava nelle strade, si usavano attori che non erano attori ma persone comuni. Anch'io nel mio film ho fatto la stessa cosa. Ho utilizzato persone che non erano attori per conferire un maggiore realismo al film, come facevano De Sica e Rossellini...
Il tuo film ricorda il primo Spike Lee, “Lola Darling”.
Sì, sono d'accordo. Forse perché è un film centrale. In America abbiamo bisogno di film centrali. In questo film ho davvero cercato di creare una centralità totale. E' un film sull'amore e sul sesso, con scene esplicite, con bellissimi attori di colore. I film americani sono troppo tranquilli, troppo politically correct, non c'è quasi mai niente di stimolante.
E' come se avessero addosso un preservativo.
Esatto. C'è un preservativo sul cinema americano. E io l'ho voluto togliere.
Da tanto il cinema americano non riesce più ad essere sensuale...
Perché c'è molta più violenza che sesso. I registi europei fanno film sulle emozioni mentre quelli americani fanno film basati sugli effetti.
John, tu sei uno dei pochi membri di colore dell'Academy Award. Sei stato il più giovane regista ad ottenere una nomination. Ma non hai vinto l'Oscar. I neri non riescono quasi mai a vincere.
Succede ogni morte di papa, ma mai dire. Voglio dire, l'Academy è composta da 5000 persone. Si potrebbero mettere tutti su un palcoscenico se si volesse. Insomma, è solo un'Academy.
E quanti sono i membri di colore?
Non saprei, credo meno di 300.
Ecco perché non vincete mai, ecco perché Denzel Washington non ha mai vinto.
Denzel Washington aveva avuto una nomination per Hurricane. La sua interpretazione era fenomenale.
Come è possibile cambiare la situazione?
Penso che sia necessario stabilire un rispetto reciproco tra gli artisti, indipendentemente dal fatto che siano bianchi o di colore. E' questo che deve cambiare. E' una questione politica. Gli studios di Hollywood spendono un sacco di soldi per poter vincere un Oscar. E' come durante una campagna elettorale. Si spendono molti soldi per convincere la gente che quello è il candidato giusto. Purtroppo, anche l'Academy Award è diventata così.
Non credi che oggi non sia più utile fare del cinema nero, solo con i neri, solo per i neri?
Non faccio rientrare i miei film in nessun genere. I miei film parlano la lingua del cinema.
Perché non hai mai scelto attori bianchi?
Non so. Non si è mai presentata l'occasione. Dipende dai film che voglio fare. A volte voglio fare un film sull'Africa, altre volte voglio fare un film su New York oppure su Roma. Dipende solo da questo.
Se dovessi scegliere solo attori bianchi quali sceglieresti?
Non saprei. Mi piacerebbe dare un film con Robert De Niro, che è un mio amico. Me ce ne sono altri con cui vorrei fare un film. Penso che Edward Norton sia un bravo attore. E anche Giancarlo Giannini. L'ho visto in Hannibal. E' bravissimo.
Quand'è che hai deciso di diventare un regista?
Avevo soltanto 9 anni. Avevo visto Guerre Stellari. Credo di averlo visto almeno 10 volte. E più guardavo il film, più pensavo a come era stato fatto, come era stato costruito. Avevo cominciato a capire che un film doveva essere diretto, scritto, doveva essere curato, fotografato, e gli attori dovevano essere guidati. La persona che metteva insieme tutti questi elementi si chiamava regista. E così mi dissi: “Ecco cosa voglio fare. Voglio fare il regista”.
So che ti piace molto il cinema europeo. Chi è il tuo regista preferito?
François Truffaut. Mi piace Bernardo Bertolucci, ma François Truffaut lo adoro perché la sua vita rispecchia la mia. Il cinema mi ha strappato alla delinquenza. Ho scoperto che a François Truffaut è successa la stessa cosa. Allora ha iniziato a considerare il suo lavoro sotto questo aspetto, e mi sono completamente identificato nel personaggio dei suoi primi film, Antoine Doinel, il protagonista dei Quattrocento Colpi.
Nel tuo ufficio ci sono anche manifesti di Akira Kurosawa, di Sergio Leone...
Mio padre aveva l'abitudine di andare a Downtown per vedere i film non americani. Era un appassionato di cinema. Gli piaceva descrivermi il modo in cui Toshiro Mifune sferrava i calci. Io gli chiedevo: “E chi è Toshiro Mifune?”. Quando frequentavo la scuola di cinema, ho visto Toshiro Mifune in Sanjuro di Kurosawa e ho capito che quello era l'uomo di cui parlava sempre mio padre. Sempre alla scuola di cinema, ho scoperto che Sergio Leone è stato influenzato da Kurosawa. E' stata una bella avventura per me crescere con i film e con il cinema. Sono uscito dalla scuola a 22 anni e sono subito entrato nel mondo del lavoro. Mi sono diplomato nel maggio del 1990 e a giugno stavo già lavorando a Boyz'n the hood.
Come hai fatto?
Avevo sentito dire che Steven Spielberg aveva girato il suo primo film all'età di 26 anni e volevo fare come lui. Anzi prima di lui. E così, ho girato il mio primo film a 22 anni.
Sei un regista dalla personalità molto riconoscibile. Me ne sono accorto vedendo “Shaft”.
Shaft è il mio film pop-corn. Mi ha divertito molto farlo.
In Italia “Boyz'n the hood” si intitolava “Strade violente”. Sono cambiate quelle strade negli ultimi anni?
Sono cambiate, ma penso che cambieranno molto di più con la nuova generazione. I ragazzi neri hanno sempre meno paura. Era la paura a spingerli a fare le cose che facevano.
Intervista di David Grieco – L'UNITA' – 12/11/2001