Ricordo di un geniale, visionario e immaginifico regista a vent’anni dalla scomparsa. “Le sue opere sono tra i più importanti contributi alla cinematografia mondiale del Ventesimo secolo” (Michel Ciment). “Amato o odiato, Stanley Kubrick è forse l’unico regista della vecchia generazione, quella di Orson Welles per intenderci, che è riuscito a fare esattamente ciò che voleva fare con il cinema in un sogno megalomane e solitario di onnipotenza. “ (Marco Giusti).
Stanley Kubrick muore e va in Paradiso. Anche Steven Spielberg è appena morto (è solo un exemplum fictum, ché il grande regista è vivo e gode di buona salute) e viene accolto dall’Arcangelo Gabriele, che gli dice: - “Dio ha apprezzato moltissimo i tuoi film e vuole esser certo che ti troverai bene qui da noi. Per qualsiasi cosa tu abbia bisogno, chiamami pure.” E Steven: - “Vedi, mi piacerebbe tanto incontrare Stanley Kubrick. Pensi di poterlo fare?”. Gabriele lo guarda e fa: - “Ma Steven, con tutte le cose che potevi chiedermi, perché proprio questa? Lo sai che Stanley odia i meeting”. - “Ma tu mi avevi detto che per qualsiasi cosa...”- “Mi dispiace davvero, ma questo non mi è possibile.” Così, Gabriele lo accompagna in giro per il Paradiso e a un certo punto Steven vede un tizio con la barba, capelli lunghi, una divisa militare e scarpe da tennis, che se ne va in giro in bicicletta. Allora Steven dice a Gabriele: -“Mio Dio, guarda, quello è Stanley Kubrick! Possiamo salutarlo?!?...”. Gabriele prende da parte Steven e gli dice: - “Ma no! Quello non è Stanley Kubrick; è Dio! Dio che crede di essere Stanley Kubrick!...”.
Questa barzelletta, che non si sa come nacque, ma che fu raccontata a Kubrick da Matthew Modine (l’attore protagonista di Full Metal Jacket), a Kubrick piaceva moltissimo. E non c’è da meravigliarsi, se si considera la sua personalità: megalomane, maniaco della perfezione, ingegnoso, oltre che – specie negli ultimi anni, quando dalla nativa New York si trasferì in Inghilterra – paranoico, misantropo, ossessionato dalla propria “privacy” e dal desiderio di vivere isolato nella sua fattoria; anche se – come dice Peter Bogdanovih – molti amici lo consideravano, al contrario, sereno, divertente ed affettuoso. In ogni caso, stiamo parlando di un grande maestro del cinema, di un genio, di cui ricorre il ventennale della scomparsa, essendo nato a Manhattan / New York (Usa) il 26 luglio 1928, e morto ad Harpeden (Regno Unito) il 7 marzo 1999, all’età di 70 anni. Ricordiamo, en passant, titoli come Orizzonti di gloria, Spartacus, Lolita, Dr. Stranamore, 2001 Odissea nello spazio, Arancia Meccanica, Shining, che sono entrati nell’immaginario collettivo della gente (non solo dei “cinefili” e degli “addetti ai lavori”) e impreziosiscono la sua filmografia, composta solo da 13 titoli, che, però, hanno lasciato tutti una traccia indelebile nella storia del cinema mondiale.
Kubrick ebbe una personalità eclettica, poliedrica: fu regista, direttore della fotografia, montatore, scenografo, creatore di effetti speciali, ecc.; ma anche un bravissimo fotografo, con cui iniziò la sua carriera prima di passare dietro la macchina da presa. E fu un perfezionista ai massimi livelli: basti pensare che seguiva i suoi film interamente, in tutte le fasi della produzione, che faceva ripetere una scena della quale non era soddisfatto anche centinaia di volte (Tom Cruise e Nicole Kidman ne sanno qualcosa relativamente al suo ultimo film, Eyes Wide Shut; e vi furono attori, anche famosi, che esasperati dalla sua meticolosità, abbandonarono il set a riprese iniziate e dovettero essere sostituiti); inoltre, seguiva le sorti dei suoi film anche nei vari Paesi in cui uscivano, quindi – praticamente – in tutto il mondo, occupandosi perfino del doppiaggio. Ecco perché, quando si dice “un film di Stanley Kubrick”, parliamo davvero di un’opera che è tutta sua, interamente sua!... Una caratteristica che contraddistingue la sua breve, ma intensa carriera è la sua abile capacità di reinventare, reinterpretare secondo la sua visione del mondo tutti i “generi” cinematografici: i “film di guerra”, con il suo primo lungometraggio, Paura e desiderio (Fear and Desire, 1953), film sulla psicologia dei soldati in guerra, in bilico tra follia ed orrore, e prima metafora filosofica sulla realtà drammatica della guerra, che, però, Kubrick detestava, ritenendolo un immaturo esercizio di stile, “noioso e pretenzioso”; stupendo, invece, Orizzonti di gloria (Pants of Glory, 1957), prodotto ed interpretato da Kirk Douglas, film anti-militarista e pacifista, che si svolge nelle trincee francesi della grande guerra (anche se, per il divieto della Francia, è girato in Germania); e Full Metal Jacket (1987), che, invece, fa vedere la drammatica crudeltà della guerra attraverso l’intervento armato degli Americani nel Vietnam.
Ed ancora: il “noir”, con Il bacio dell’assassino (Killer’s Kiss, 1955); il “thriller”, con Rapina a mano armata (The Killing, 1956), incentrato stilisticamente sulla frammentazione narrativa, in cui non viene più seguito l’ordine cronologico, temporale, di svolgimento delle azioni (anticipando, in tal modo, il Tarantino de Le Jene, di Pulp fiction e di altri suoi film); il “peplum”, con un ”kolossal” come Spartacus (1960, tratto dall’omonimo romanzo di Howard Fast), una delle produzioni più imponenti di Hollywood, con un budget di 6 milioni di dollari, divenuti, alla fine 12 (quindi, esattamente il doppio dell’investimento preventivato), che si avvale dell’interpretazione di un cast eccezionale di attori (Kirk Douglas, Jean Simmons, Tony Curtis, Laurence Olivier, Peter Ustinov, Charles Laughton, Woody Strode, John Gavin ed altri) e che vinse un “Golden Globe” e ben 4 Premi Oscar (Scenografia, Fotografia, Costumi, Migliore Attore Non Protagonista Peter Ustinov); la “commedia nera” o “dramma” che dir si voglia, con lo “scandaloso” (per quei tempi) Lolita (1962), tratto da un romanzo di Vladimir Nabokov, con James Mason, Sue Lyon e Shelley Winters; la “satira politica”, con Il Dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove…, 1968, dal romanzo Red Alert di Peter George), interpretato da un eccezionale Peter Sellers (che dà vita a diversi personaggi); la “fantascienza”, con lo stupendo (e, quando uscì, poco capito) 2001 - Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968), riflessione “filosofica” sul significato stesso dell’esistenza, sulla natura dell’uomo nella sua evoluzione e sul suo futuro in rapporto con l’universo che ci circonda, che si avvale di una serie di avveniristici “effetti speciali”, da lui stesso realizzati (insieme con Douglas Trumbull) e così ben congegnati che coloro i quali, ancora oggi, ritengono che l’uomo non abbia mai messo piede sulla luna, attribuiscono alla maestrìa di Kubrick le scene dell’allunaggio e del paesaggio lunare (e fu l’unica “categoria” per la quale Kubrick vinse un Premio Oscar; il film, nel 1969, ha vinto anche il “David di Donatello” come migliore film straniero); memorabile la sequenza iniziale in cui, con un salto di millenni, nell’ellissi più ardita della storia del cinema, l’osso lanciato in aria da uno scimpanzé si trasforma in un’astronave, che si libra, quasi danzando, nello spazio, accompagnata dalle musiche di Strauss (notevole l’influenza delle musiche scelte, in genere dal repertorio classico, che accompagnano tutte le opere di Kubrick); il soggetto era dello scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke, basato sul suo racconto La Sentinella; ma Kubrick lo stravolse a tal punto che Clarke, dopo l’uscita del film, ne trasse un suo romanzo, in cui, in maniera meno ermetica rispetto all’opera cinematografica, spiegava il significato e l’assunto del racconto; ricordiamo, inoltre, che il film è stato restaurato nel 2018, a cinquant’anni dalla sua uscita nei cinema, proposto a Cannes ed uscito di nuovo nella sale, per le “nuove generazioni, che si spera l’abbiano adeguatamente apprezzato; il genere, per così dire, “sociologico”, con un altro film “cult”, come Arancia meccanica (Clockwork Orange, 1971, dal romanzo di Anthony Burgess), che fu perfino proibito in alcuni Paesi per l’impatto e l’influenza negativa che avrebbe potuto avere sulle giovani generazioni; il film “storico”, in costume, con l’immaginifico e scenografico Barry Lyndon (1975), che si svolge in un Settecento, di cui Kubrick, con la meticolosa preparazione che sta alla base delle sue opere, ha studiato i quadri, i paesaggi, la musica, dando vita ad un’opera in cui nulla è lasciato al caso (basti pensare che gli interni sono davvero girati a lume di candela, senza il supporto di altre luci, grazie alle super-luminose ottiche avute dalla Nasa e dalla Zeiss); l’”horror” con Shining (1980), rivisitazione geniale di un romanzo di Stephen King, in cui tre soli personaggi (marito, moglie e figlio), chiusi nell’ambiente circoscritto di un hotel, in seguito allo svilupparsi degli eventi e alla crescente follia del protagonista (un superbo Jack Nicholson), riescono a creare negli spettatori un profondo senso di inquietudine, un’atmosfera da incubo; il “dramma psicologico”, con Eyes Wide Shut (1999, dal romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler), ultima, ermetica, ma suggestiva opera del grande Maestro.
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dall'articolo di Nino Genovese per DiariCineclub_071