A fronte di 328 film prodotti solo 156 sono usciti nelle sale. Gli sgravi fiscali cadono a pioggia su tutti e gli imprenditori guadagnano anche se nessuno vede le pellicole. L’Italia, dopo la pandemia, è in ripresa, tranne un settore fortemente radicato nel Lazio: l’audiovisivo. È il mondo dove si fabbricano sogni e paradossi: gli incassi segnano meno 72 percento, le sale sono vuote (il primo vero e inatteso successo è il Pirandello di Roberto Andò che ha superato 4 milioni e 800 mila al botteghino), ma si continuano a sfornare film; nel 2021 in Italia se ne sono prodotti 328, nelle sale ne sono usciti 156 (e su 100 film, appena 17 sono italiani).
La «colpa» è degli sgravi fiscali voluti dal ministero della Cultura (una misura nata con le migliori intenzioni per attivare risorse), che si riversano a pioggia su tutti; il risultato è che in molti si sono improvvisati imprenditori (o affaristi) di cinema: tra sgravi, e fondi delle Film Commission, loro ci guadagnano, e amen se i film non si vedono.
È questo il quadro che emerge da conversazioni avute con i protagonisti del cinema. «Si produce troppo, per prendere finanziamenti, e con poca qualità», ha ammonito il direttore della Mostra di Venezia Alberto Barbera. «Si scrivono film in una settimana e i risultati si vedono», afferma Carlo Verdone. E Francesca Archibugi: «Sono andata al cinema, in sala c’eravamo solo mio marito ed io. Che rito collettivo è?».
C’è un secondo tema, slegato ma che agita le acque: i principali produttori italiani, film e soprattutto serie tv, Lux Vide, Cattleya, Groenlandia, Palomar, Wildside, hanno venduto all’estero. Il rischio è che in futuro si mostrerà un’Italia da cartolina, un po’ come in To Rome with Love di Woody Allen. Un’Italia che (s)vende la sua anima, laddove la forza del cinema italiano, dal neorealismo in poi, è nell’originalità del nostro sguardo. È il tema dell’identità, di cui tanto si parla in altri ambiti. Dice Giampaolo Letta di Medusa: «I proprietari di alcuni prodotti simbolo, come I Medici o Doc, sono diventati anglo-tedeschi, Gomorra è inglese, Montalbano è di proprietà francese. Queste operazioni di acquisizione e aggregazione di produttori italiani effettuate da grandi gruppi europei- collegati a broadcaster - emittenti tv, agli italiani sono però di fatto inibite. Se da una parte è un segnale importante di attenzione dall’estero per la nostra creatività e le nostre professionalità, è evidente l’asimmetria competitiva che si è creata. Un ulteriore rischio è che, nel tempo possa essere messa in discussione la nostra identità».
Per Verdone, «l’Italia è un paese in svendita su tutto, non siamo più padroni di niente, dalle acque minerali ai prodotti alimentari, è tutto in mano a holding straniere, dobbiamo trovare la nostra identità, che non è quella degli Anni ’60, il mondo è cambiato e le comparse sono indiane e cinesi, ma c’è il rischio dell’oleografia, di raccontare luoghi comuni che nemmeno esistono più. Il film di Woody Allen? Quella è un’Italia che non aveva capito: non la capiamo noi, figurati lui. Ha esaltato dei luoghi comuni che manco esistono più».
Roberto Andò dice che «l’omologazione di format narrativi deriva dalle piattaforme che creativamente si pongono in modo invasivo, controllano, decidono. Serie e film si fanno secondo algoritmi e creano standardizzazioni, è un effetto della globalizzazione ma c’è il rischio dell’esotismo, raccontando solo certi aspetti italiani o piegandoli a come li vedono gli stranieri».
Riccardo Tozzi, che fondò Cattleya ora venduta a una società inglese, al contrario dice che «la rivoluzione digitale ha cambiato i rapporti di forza, lo sviluppo delle tv a pagamento e delle piattaforme ha portato a una crescita senza precedenti. Per questo grandi distributori internazionali, o gruppi tv investono nell’acquisto delle migliori società di produzione, scelte per la loro capacità di generare il prodotto che tutti cercano: il glocal. Opere radicate nelle culture nazionali che possono viaggiare internazionalmente. L’investimento estero è volto a rafforzare le società nazionali, non vuole dirigerle, e restano società nazionali che pagano le tasse nel paese, quindi non un centesimo esce, al contrario affluiscono investimenti esteri, crescono le esportazioni e aumenta l’occupazione. Ma c’è un segno di declino nei gruppi italiani che non acquisiscono società all’estero». «Questa è una forte anomalia - dice Sergio Rubini – l’Italia è in svendita, e parlando di cultura parliamo di identità, sforniamo prodotti glocal. La seconda anomalia è che spariscono i piccoli produttori indipendenti, che garantiscono eterogeneità, ed è una forte identità nostrana. Vogliamo bloccare gli stranieri? Magari no, ma regolamentiamoli, e soprattutto diamo incentivi agli indipendenti che si portano la croce dei prodotti italiani».
Ancora Letta: «I due punti da chiedere al legislatore sono: incentivi fiscali straordinari, per i distributori e per gli esercenti. E poi la finestra, il periodo di uscita in sala e la messa a disposizione sulle piattaforme: in Francia è 18 mesi, da noi 90 giorni, ma per un film americano anche meno. È fondamentale che siano uguali per tutti. Non esiste poi un’equazione tra quantità e qualità, oggi gli incentivi alla produzione sono automatici, andrebbe messo un criterio selettivo per migliorare l’utilizzo delle risorse pubbliche». Ma (fermo restando l’aumento dei posti di lavoro), il paradosso è, lo ripetiamo, che mentre il mercato crolla, si fanno più film.
Articolo di Valerio Cappelli per roma.corriere.it