Quattro città diverse, altrettante storie, collegate dal personaggio di un regista-narratore tramite prologo, intermezzi ed epilogo. ... le storie inquietano, non solo per la scarna struttura narrativa, ma poiché restano aperte al dubbio, come svuotate dall'incredulità.
Al di là delle nuvole (Par delà les nuages) Regia: Michelangelo Antonioni, Wim Wenders Orig.: Francia/ItaL/Germ., 1995 Sogg.: dal libro Quel bowling sul Tevere di Michelangelo Antonioni. Scenegg.: Tonino Guerra, Michelangelo Antonioni, Wim Wenders. Fotogr.: Alfio Contini (per Antonioni); Robby Miiller (per Wenders). Musica: Lucio Dalla, Laurent Petitgang, Van Morrison, U2. Mont.: Claudio Di Mauro (per Antonioni); Peter Przygodda e Luciano Segura (per Wenders). Scenogr.: Thierry Flamand. Costumi: Ester Walz. Suono: Jean-Pierre Ruth. Interpr.: John Malkovich (il regista), Kim Rossi Stuart (Silvano), Ines Sastre (Carmen), Sophie Marceau (la ragazza), Fanny Ardant (Patrizia), Peter Weller (Roberto), Chiara Caselli (Olga), Irène Jacob (la ragazza novizia), Vincent Perez (Niccolò), Jean Reno (Carlo), Marcello Mastroianni (il pittore), Jeanne Moreau (un'amica del pittore). Prod.: Stephane Tchalgadjieff Philippe Carcassonne, Vittorio Cecchi Gori e Ulrich Felsberg, per Sunshine / Ciné. B / Cecchi Gori Group Tiger Cinematogr. / Road Movies / Frane 3 Cinéma / CNC / Canal Plus / ARD-Degeto Film / Eurimages. Distr.: Cecchi Gori. Durata: 108 min.
Quattro città diverse, altrettante storie, collegate dal personaggio di un regista-narratore tramite prologo, intermezzi ed epilogo.
Ferrara: Silvano e Carmen si innamorano, poi si perdono di vista. Ritrovatisi per caso, non riusciranno ad uscire dalle proprie solitudini. Dal racconto: Cronaca di un amore mai esistito.
Portofino: il narratore stesso segue e conosce una ragazza. Lei ha alle spalle un parricidio, lui le ricorda qualcuno. Tratto da La ragazza, il delitto...
Parigi: una italiana e un americano diventano amanti. La moglie di lui, Patrizia, se ne dispera finché, all'ennesima menzogna, lo lascia. Incontrerà un uomo nelle sue stesse condizioni. Da La ruota e Non mi cercare.
Aix En Provence: un giovanotto abborda una ragazza mentre questa va in chiesa. Dopo averla corteggiata fino a casa, scopre che lei entrerà in convento il giorno successivo. Da Questo corpo di fango.
Nuvole bianche per una volta guardate da sopra, dal finestrino di un aereo. Forse le prime "immagini in movimento" ad incantare l'uomo, ma anche il luogo vuoto dell'ipotesi, della finzione che prende forma narrativa e diventa racconto. E l'antefatto per eccellenza, preludio di uno sguardo che ci porta a vedere il mondo. Ma il narratore prende tempo, attraverso la voce recitante che ne svela l'identità di regista e la ricerca interiore: 'È al buio che la realtà si illumina, è nel silenzio che arrivano le voci da fuori". Metafora del cinema stesso, il narratore è condannato a raccontare ciò che vede, e a cercare ancora. "Tutte le volte che sto per incominciare un film me ne viene in mente un altro", confessa infatti Antonioni all'inizio della raccolta di appunti e soggetti Quel bowling sul Tevere (1983), da cui muove il film. Nel libro ritroviamo l'origine del regista-reporter usato come perno narrativo, sorta di osservatore esterno degli eventi: "Delle volte mi fermo su un verso che ho letto ( ...). Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? (...) Questo Eliot mi ha tentato molte volte. Non mi dà pace quel terzo che ti cammina sempre accanto". (pag. 169). Sappiamo dai titoli che il prologo, le scene di intermezzo tra gli episodi e l'epilogo (quattordici minuti in tutto), sono firmate da Wenders. Il "suo" narratore-viaggiatore introduce gli amori difficili proposti da Antonioni, tra dissolvenze incrociate e foto di sopralluogo, ma si ritaglia anche uno spazio di riflessione, scivolando a volte fino al commento didascalico.
Nonostante questo scarto, le storie inquietano, non solo per la scarna struttura narrativa, ma poiché restano aperte al dubbio, come svuotate dall'incredulità. Gli incontri amorosi di cui si narra, avvolti nelle luminose architetture di città marcatamente riconoscibili, hanno un risvolto sessuale esplicito, che a volte asseconda le attese create, mentre altrove lascia una tensione irrisolta. Nella storia ferrarese assistiamo a una rinuncia che sa di sconfitta, mentre nell'ultimo episodio la sconfitta si rivela impossibilità (nel racconto letterario lei si fa monaca di clausura). A Portofino, il turbamento di una bella commessa coinvolge senza scopo il narratore in un incontro sessuale passeggero. Si alternano, in un'incongruità di stili narrativi, ritmi serrati e primi piani ansiosi (l'incontro al negozio e quello d'amore) e ariosi campi lunghi, ritmi pacati, quando i due cercano di capirsi (sul molo). La commessa racconta, con una sorta di tragica, consapevole ironia (o follia) di aver ucciso suo padre con dodici coltellate, e non dà spiegazioni. Alternato, quasi in opposizione, un altro racconto orale viene fatto in un caffé parigino da una nuova figura femminile: bisogna saper fermarsi, nella fretta della vita, per "aspettare l'anima", e riprendersi tutto ciò che viene messo al bando come "inutile". Sembra una morale (nello stile poetico di Tonino Guerra), sulla differenza di ritmo tra lo sguardo calmo e attento, plastico, di Antonioni, e quello più girovago di Wenders che emerge fin dall'intermezzo del primo episodio, attraverso i rapidi movimenti di macchina e gli abbondanti dolly, seguiti da pause estetizzanti narrativamente inutili. L'incontro parigino si nutre dell'erotismo compiaciuto degli amanti che sfuggono alle responsabilità, ma questa storia in tre atti fonde due temi cruciali per Antonioni (basti pensare a L'avventura, 1960): l'amore come misera mistificazione, e la solitudine dell'abbandono. La moglie, straziata e disillusa, ricomincerà la sua vita andandosene di casa, entrando in una nuova storia d'amore di cui non sapremo il seguito. Nati da sguardi desideranti e sincopi del senso, proliferano negli interstizi degli episodi i possibili spunti narrativi (oltre alla stanca metafora del viaggio in treno, nel finale del film altre vite sono spiate dalle finestre dell'albergo). Nudi femminili sul letto come quadri di Matisse, storie aperte e subito richiuse, amori — forse — sprecati; eppure il film, per tutta la prima parte, soffre dei due respiri differenti e non riesce a convincere, o forse non vuole farlo. Non si esce vincitori, ma vinti, dalle nuvole del senso. Nei primi due episodi la finzione viene quasi spenta dalle recitazioni affettate, estraneanti, degli attori, dai dialoghi a volte sentenziosi, o da raccordi musicali incongruamente "leggeri" rispetto al-l'intensità voluta nell'immagine. In compenso, città e ambienti hanno colori dolci, coi muri scrostati di Ferrara, i blu e i gialli tenui, o i rossi incupiti dal tempo che si ritrovano nel sottoportico (e nella locanda), oppure i toni marini, grigio verdi, di Portofino. Si crea un netto contrasto coi colori accesi del caffè e degli appartamenti di Parigi (rossi e blu per l'amante, quasi una citazione di Kieslowski, così come Irène Jacob nell'ultimo episodio). L'uso delle luci è sempre attento a intensificare gli stati d'animo, come i toni freddi che investono Carmen quando Silvano se ne va senza aver fatto l'amore (per tranquilla follia o per orgoglio, dice — inopportuno — il narratore, e omette: "Per una maledetta discrezione o semplicemente per abulia", pag. 54). L'interiorità dei personaggi femminili si riflette sui vestiti che indossano, sull'arredamento delle loro case, persino sui quadri alle pareti (il lutto della solitudine della moglie tradita è una statua nera di donna ripiegata su se stessa). E i dialoghi sono rotti dal ritmo delicato dei silenzi in cui parlano i gesti e gli sguardi (ad esempio l'intenso Primo Piano di Fanny Ardant-Patrizia). In istanti di grazia avvolti nella luce della sera piovosa di Aix En Provence, l'amore terreno, curioso e incredulo, soccombe al silenzio senza fretta di quello mistico.
Prima dell'episodio finale, ecco l'intermezzo a scopo didattico di Wenders: Mastroianni, un po' allucinato, dipinge un paesaggio dall'alto di una collina (analogia con lo sguardo alato del narratore?). Alle sue spalle Jeanne Moreau commenta con ironia. Il quadro riprende un famoso Cézanne che ritroveremo all'inizio del nuovo episodio, con aggiunta di fabbriche: la modernità c'è, comunque. I due attori sono una sorta di citazione vivente del cinema, e della coppia disillusa (La notte, 1961). L'apprendista pittore spiega che "chiunque copi un quadro di un grande artista, ha la possibilità di ripetere l'atto di quell'artista, e forse anche di ritrovare, magari per caso, i gesti esatti", e conclude deridendo "quelli che si mettono alle spalle dei pittori" (i critici?). Ma chi copia chi? L'ipotesi del "plagio riconosciuto" da parte di Wenders sembra tesa a depistare dalle domande inevase poste dal film, non ultima la sua "capacità di deludere" le aspettative della critica (ma non del pubblico, pare). Proprio per i due ritmi narrativi visibilmente distinti si può invece ipotizzare un'operazione coerente e consapevole, che attua una strategia di sospensione del racconto: per Antonioni, da sempre, contenuto e forma sono storici allo stesso modo (Barthes). Il film rimane aperto, e nel finale suggerisce di andare al di là, "sotto l'apparenza dell'immagine rivelata".
di Nicola Dusi
da SEGNOCINEMA Gen./Feb. 1996