Nella sua prefazione all’edizione completa dei Sillabari1, Parise si scusa con i lettori per non aver portato a termine il progetto originale di “scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z”, perché, a un certo punto, terminata la S, “la poesia [lo] ha abbandonato”. E continua: “E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore”.
Bene, non prendete per oro colato questa affermazione. Voglio dire: non dubito che per Parise le cose sia state in questi termini, tuttavia vorrei consigliare agli scrittori di guardarsi bene dal giustificare la propria pigrizia nascondendosi dietro al dito, assai smunto, della mancanza di ispirazione. Assolutamente, non è così che deve funzionare l’ispirazione per uno scrittore serio – tanto più se, poi, è anche aspirante, o, se vogliamo dir così “praticante”.
Ragionando in questo modo, infatti – convincendosi che la poesia va e viene come pare a lei senza che chi scrive possa averne il controllo – lo scrittore praticante correrà il rischio concretissimo non solo di non diventare un novello Parise, ma anzi di rimanere un semplice velleitario e per di più inconcludente.
No: della presenza o meno della poesia (ispirazione) lo scrittore praticante non deve occuparsi. Lei può esserci o non esserci, ma in ogni caso lui deve scrivere. Lo scrittore non può far altro, non deve far altro. Alla fine della giornata quando qualcuno gli chiederà: “Be’, che hai combinato oggi?”, la risposta “Non c’era la poesia” reggerà soltanto se, contemporaneamente, sarà in grado di presentare almeno cinque cartelle fitte fitte di un racconto fatto e finito, ma freddo e un po’ convenzionale.
Quindi...
Il Festival letterario di Vicenza, “Libriamo”, alla sua quarta edizione, propone un concorso che consiste nel “completare” i Sillabari di Parise scrivendo dei racconti di circa 5.000 battute l’uno il cui titolo sia costituito da una sola parola che inizi per una delle lettere che Parise non ha toccato. In realtà, a rileggere la prefazione che ho appena citato, sembrerebbe che le lettere mancanti siano solo quelle dalla S in poi, e quindi, direi: T, U, V, Z. Poi, a ben guardare nell’Indice, mi accorgo che non c’è la Q (e mi viene subito in mente un racconto che si intitoli “Quore”, ma poi c’è già, e ortografo per di più: peccato!), e gli astuti organizzatori del premio fanno notare anche che mancano J, K, X, Y, W. Non so se Parise sarebbe d’accordo nell’usare queste lettere un po’ foreste e moderne (ma non è neanche vero: c’erano le Kalendae, gli Juniores, Xenophon... nel Medioevo c’era anche l’Ytalia e Wiligelmo), però non importa: mi pare una sfida stuzzicante trovar sentimenti umani così labili, che comincino con J, K, X, Y, W.
Utilizzo l’edizione Adelphi, “Gli Adelphi”; maggio 2009. I Sillabari furono pubblicati sul Corriere della Sera dal 1971 al 1980. I primi 22 furono quindi raccolti in un volume Einaudi (1972), e i secondi 32 da Mondadori nel 1982. La riunione di tutti i racconti in un volume solo risale al 1984. È interessante notare che i racconti, nell’edizione in raccolta, non portano la data di composizione o di prima apparizione. Questo perché i racconti sono stati pubblicati (e quindi, presumibilmente, anche scritti), in ordine pressoché alfabetico (ci sono, in effetti, 4 racconti fuori ordine), e quindi il più antico è, effettivamente “Amore”, mentre l’ultimo è proprio “Solitudine”.
Ovviamente, com’è giusto che sia, il tema del concorso è un pretesto: si valuteranno (presumo) testi di qualsiasi genere e stile, basta che, almeno convenzionalmente, abbiano un titolo che cominci per una di queste 10 lettere mancanti e non superino di molto le cinquemila battute.
Eppure...
Eppure, lo confesso, apprezzerei molto un racconto in “stile Parise”. Cioè, insomma, un racconto che si proponga di star dentro la raccolta di Parise e contribuisca a completarla in modo coerente e dirò quasi, senza tema di scandalo, prevedibile.
Son sicuro adesso che tra i praticanti scrittori che si accingevano – o si erano già accinti – a scrivere il loro racconto per partecipare al concorso, ci sarà qualcuno che, sdegnosamente, rifiuterà questo che non è neanche un consiglio ma solo un modesto punto di vista, preferendo di gran lunga scrivere un racconto in “stile personale” (arciconvinto che sia l’unica cosa da fare).
Ma non sia presuntuoso, quel praticante: e glielo dico con quella benevolenza che è tanto più irritante quanto più bonaria: non pensi ancora di avere uno stile personale quando, probabilmente, non ha neanche uno stile.
Nelle accademie di pittura e nei conservatori di musica è prassi comune, salutare e vivificante,
esercitarsi a comporre “nello stile” di qualcun altro. E nessuno si azzarderebbe mai a proporre
un proprio stile senza prima aver mostrato di padroneggiare quello dei classici (neppure
Picasso si è azzardato, neppure Prokofiev). Quindi, ci ripensi un istante, il praticante, se si è
accinto troppo presto; posi la penna – e la pena –, si metta comodo, si procuri una copia dei
Sillabari e continui a leggere.
L’attacco
Una delle prime cose che si notano in questi racconti è che, in grandissima parte, i personaggi
vengono descritti con pochissimi cenni – a volte non hanno neppure un nome, o se l’hanno è
solo quello, senza cognome – e immersi in una situazione quasi favolistica; segno, questo
della favola, che spesso è sottolineato, nelle prime battute del racconto, dall’uso
dell’imperfetto (a volte di tipo “narrativo”) che è tipico, per l’appunto, della favola:
“Alle due di un pomeriggio di agosto del 1970 un uomo con un cappotto polveroso e un
cappello camminava spingendo una bicicletta su una strada asfaltata in mezzo alla campagna
piatta e verde di vigneti”. (“Lavoro”)
“Un giorno un uomo aveva un appuntamento con una donna al caffè Florian a Venezia, alle
sette e mezzo di sera”. (“Grazia”)
“Un giorno di grande caldo del 1944 un gruppo di ragazzi sguazzava in un canale di
campagna vicino a Padova”. (“Felicità”)2
In effetti, tutti e 54 i racconti dei Sillabari iniziano con una notazione temporale:
31 iniziano con il sintagma “Un giorno”
4 con variazioni su “giorno”: “Ogni giorno” (3) o “il giorno” (1)
4 con “Una sera” (3) o “La sera” (1)
4 con “Un pomeriggio” (2) o “Nel primissimo pomeriggio” (1) o “Alle due del pomeriggio” (1)
3 con “Una domenica”
3 con “Un mattino”
È da notare che l’effetto particolare di questi attacchi è dato da un contrapporsi di elementi
abbastanza eterogenei. Abbiamo, infatti, molta vaghezza (un gruppo di ragazzi, un uomo con
un cappotto e un cappello, un uomo aveva un appuntamento con una donna), temperata però
da elementi insolitamente precisi: “alle due di un pomeriggio di agosto del 1970”... “strada
asfaltata”... “al caffè Florian a Venezia, alle sette e mezzo di sera”.
Abbiamo insomma un personaggio senza nome, in una stagione o in un mese precisi, in un
giorno spesso non definito ma a un’ora esatta.
Ecco una tecnica interessante: giustapporre elementi molto vaghi ad altri particolarmente
precisi. In fondo, direi che è una tecnica teatrale: quando si solleva il sipario su una
commedia, di solito non sappiamo nulla dei personaggi che si trovano sul palcoscenico, ma
possiamo avere delle informazioni molto precise sull’ora, il colore dei divani e dei vestiti e le
dimensioni delle porte.
L’effetto che si ottiene è quello di un racconto puntuale, ma allo stesso tempo “esemplare”,
ovvero, “generale”, universale ma in senso quasi didascalico – proprio come sanno essere le
favole.
Questa tecnica di esordio, che è tipica dei 54 racconti di Parise (ma, ad esempio, la troviamo
anche in un suo libro di viaggio, L’eleganza è frigida: “Lasciato il paese della Politica, Marco
sbarcò in Giappone: l’aereo toccò terra alle 9.25 precise com’era stabilito dall’orario e Marco
si stupì...”), mi pare che si ponga all’opposto di quella di un autore che gli viene a volte
affiancato: Franz Kafka (accostamento su cui, personalmente, ho qualche dubbio). Lo cito qui
proprio perché mi preme mostrare, attraverso le differenze, l’effetto che si può dare a un
attacco.
Laddove Parise lascia nel vago i personaggi e specifica “gli arredi scenici”, Kafka,
all’opposto, identifica i personaggi e lascia nel vago il resto.
“Una mattina, dopo una notte di sogni inquieti, Gregor Samsa si destò trasformato in un
mostruoso insetto”. (La metamorfosi)
“Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. perché un mattino, senza che avesse fatto nulla
di male, vennero ad arrestarlo”. (Il processo).
“C’era un tempo in cui andavo un giorno dopo l’altro in una certa chiesa. Infatti mi ero
innamorato di una ragazza e lei vi andava la sera per pregarvi in ginocchio e, durante quella
mezz’ora, io potevo guardarla in pace”. (“Conversazione col mendicante”).
Se volessimo “parisizzare” questi attacchi kafkiani, potremmo scrivere:
“Un giorno di ottobre, dopo una notte di sogni inquieti, un uomo, che faceva di mestiere il
rappresentante di stoffe, si svegliò alle 7 e 35 trasformato in un triste scarafaggio nero e
marrone”. (“Metamorfosi”)
2 con “Una notte” (di seguito)
1 con “Il primo agosto”.
Inoltre, in 43 dei 54 esordi è indicata la stagione: 20 racconti si svolgono in estate – vi ho inserito anche
quelli in cui viene indicato il mese di giugno (1) e settembre (2); 15 in inverno; 6 in autunno (ma viene sempre
indicato il mese, mai il nome della stagione); 2 in primavera.
“Alle otto del mattino di un giorno d’autunno due individui con l’aspetto di impiegati statali,
o piuttosto di poliziotti in borghese, si presentarono fuori della porta della stanza da letto di un
uomo, con la risoluta intenzione di arrestarlo”. (“Processo”)
“Ogni giorno, tra la fine di un secolo e l’inizio del successivo, un ragazzo frequentava
quotidianamente la chiesa di san Venceslao a Praga. Il fatto è che, proprio nella mezz’ora in
cui lui vi restava, vi veniva anche a pregare – e restava inginocchiata come per farsi
contemplare indisturbata – una commessa con i capelli rossi e ricci di cui il ragazzo era
innamorato”. (“Conversazione”)
Per contro, se volessimo kafkizzare gli attacchi di Parise citati in precedenza, potremmo fare
così:
“Un giorno d’estate, Goffredo G. vide un uomo con un cappotto polveroso e un cappello che
spingeva, a piedi, una bicicletta su una strada di campagna tra i vigneti”. (“Il lavoro”)
“Una sera, Franz P. aveva appuntamento con una donna in un caffè”. (“La grazia”)
“Quattro ragazzi e una ragazza sguazzavano in un canale di campagna vicino a Padova”. (“La
felicità”)
Una digressione. Qualità nella Quantità e nell’Unità
Mi pare evidente che una delle ragioni del successo dei racconti di Sillabari sta anche in
questa costanza – o, direi quasi, formularità degli attacchi, che crea, nel tempo, un effetto,
diciamo così, di “qualità continuata”. Anche in questo caso vale una regola che in letteratura –
come in tutte le arti (e anche, in generale, nel lavoro scientifico) – la quantità, il numero di
repliche e varianti di un’opera, tende a trasformarsi in qualità, o comunque ne accresce la
percezione.
Come dire: un racconto bello acquista ancora maggior pregio se letto insieme ad altri racconti
della stessa qualità e ispirazione.
Del resto, lo potete verificare voi stessi con i Sillabari: rileggete i primi racconti, dopo aver
letto tutta la raccolta, e sicuramente vi suoneranno diversi sia i ritratti dei personaggi, sia le
vicende e il mondo che evocano.
Ma non solo: tra i racconti troverete collegamenti nuovi che vi permetteranno di scendere in
profondità nella loro struttura. Ad esempio, tra racconti contigui si scoprono connessioni:
“Sogno” ha uno spunto autobiografico (la stilografica a pompetta) e una piccola anticipazione
in “Poesia”, dove si cita per la prima e unica volta, appunto, una stilografica a pompetta;
stesso tipo di rimando (in questo caso, la caccia), tra il racconto “Caccia” e quello “Casa”, e
tra “Bambino” e “Bellezza” (il falcetto del contadino) – e questo ci fa capire che uno scrittore
lavora spesso nutrendosi delle sue idee, che germinano e danno alla luce nuovi spunti.
Ma collegamenti troverete anche tra racconti lontani: come, ad esempio, tra “Amore” (il
primo) e “Solitudine” (l’ultimo), in cui ritorna la medesima notazione dei “solchi agli angoli
della bocca” (“due rughe intorno alla bocca”), che conferma il tipo di attenzione che Parise
aveva per i volti e che, con il tempo, non è cambiato.
E, leggendo e rileggendo i Sillabari con gli occhi dello scrittore, troverete anche – e vi
daranno molti spunti, spero – sequenze di racconti che si trovano vicini e che, in questa
vicinanza, ci suggeriscono qualcosa: come, ad esempio, la sequenza degli ultimi 14 racconti,
che ha una sua ritmica molto particolare: Odio, Ozio, Paternità, Patria, quattro racconti un
po’ diversi dal solito, più sarcastici, scostanti, seguiti da uno classico e forte, Paura, da tre
classici e normali – Pazienza, Primavera, Poesia, Povertà –, quindi da due un po’ banali
(molto connotati e con temi un po’ troppo “giornalistici”, d’attualità), Ritorno e Roma, e
infine Sesso (che riprende i temi del romanzo L’odore del sangue), Simpatia, Sogno e
Solitudine, che sono racconti classici da Sillabari, ma con una punta di sconsolato pessimismo
che sembra giustificare la scelta di Parise di abbandonare il progetto senza concluderlo, ma
non per “l’abbandono” da parte della poesia, quanto per cambiamento di ispirazione: un
cambiamento che avrebbe portato a modificare troppo profondamente il tono dei racconti,
facendo perdere alla raccolta la sua unità.
Trovo questo tipo di riflessione particolarmente importante per gli scrittori esordienti che, a
volte, vorrebbero essere valutati su un singolo racconto e si stupiscono quando gli si dice che
ciò non è compiutamente possibile. In realtà, un singolo racconto non significa molto (come
dice uno scrittore italiano, “Tutti sono in grado di scrivere un buon racconto”). In un singolo
racconto, per quanto riuscito, si possono cogliere solo alcune doti – per lo più “di base”; la
qualità vera di uno scrittore, il suo talento, non si vede nel singolo racconto, ma nella raccolta
di racconti, nella sua capacità di riproporre le sue tematiche, le sue trame, il suo stile in un
mondo narrativo sufficientemente complesso e unitario, Qualità, appunto, nella Quantità e
nell’Unità.
Che cosa fa il protagonista
In quasi tutti i racconti, Parise indica subito quel che il protagonista sta facendo o il suo
obiettivo. Si tratta, molto spesso, di qualcosa di abbastanza semplice, non particolarmente
imprescindibile, a cui, tuttavia, vengono dati un’importanza e un rilievo unici.
“Un primissimo pomeriggio dell’estate del 1940 […] un bambino di 11 anni […] fu tentato da
un amico più libero di lui e scappò di casa per qualche ora con i pattini a rotelle che amava
più di ogni altra cosa al mondo”. (“Madre”)
“Un giorno di un’estate lontana, una donna di circa quarant’anni […] preparò il suo animo a
una gita...”. (“Nostalgia”)
Il personaggio agisce in linea di massima in maniera piuttosto meticolosa, precisa, ma allo
stesso tempo c’è qualcosa che non torna nel suo agire. Ad esempio, nel racconto “Caccia”,
l’uomo ancor giovane che sta dentro una botte in una palude di Venezia è senz’altro un
provetto cacciatore, eppure sbaglia spesso: spara a un’anatra, scopre che è una folaga e non la
uccide neanche, ma la ferisce malamente. Cerca di spararle ancora, per finirla, ma sbaglia
mira. Spara poi a un beccaccino, lo prende, ma se ne pente subito: “Ho fatto male a sparare al
beccaccino”, quindi spara a dei germani, ne colpisce uno, e “avrebbe potuto ucciderli tutti e
due ma aveva perso tempo a pensare”.
Un altro esempio di questa inconcludenza di fondo anche se, in realtà, non riguarda
direttamente il protagonista del racconto:
“‘Pelliccia di quale animale?’ aveva chiesto il bambino. La precisione nei dettagli, soprattutto
linguistica, era il suo dono: usava parole come ‘squisito’ e ‘delizioso’ con una ‘s’ un po’
sibilante e tuttavia roteando le manine e le dita in modo tutt’altro che preciso, anzi impreciso
e sognante”. (“Ozio”)
Questo modo di tratteggiare i personaggi ottiene un effetto molto particolare, che è in sintonia
con la tecnica dell’esordio di cui abbiamo parlato nel precedente capitoletto: creare una
grande vaghezza proprio attraverso l’aggregazione di elementi di distinzione. Quanti più
particolari l’autore aggiunge nella definizione dei personaggi, tanto più si infittisce la foschia
intorno a loro. Un risultato sicuramente notevolissimo e che è un modello (e una sfida)
interessante.
Cosa fa il deuteragonista
Innanzitutto, non sempre c’è un deuteragonista o un rivale. A volte i racconti narrano di un
personaggio solitario. In ogni caso, però, anche se non c’è un deuteragonista vero e proprio, al
protagonista si contrappone quasi sempre una controparte (magari anche una cosa, un
oggetto), che si comporta con la stessa meticolosità. Una meticolosità altrettanto limpida,
chiara, ragionevole, ma che – con la sua rigidità – ha un che di primordiale, istintuale,
altrettanto inevitabile.
Non c’è un vero, esplicito conflitto tra i due – piuttosto un ostacolarsi reciproco che viene
dall’ordine stesso delle cose. Come, ad esempio, in “Simpatia”, dove la reazione nei confronti
di un topolino divide tacitamente la giovane coppia formata da Bortolo e Papillon – che già
nei nomi ha molte ragioni del suo contrasto.
A volte l’ostacolo che il deuteragonista ha posto al protagonista si rivela insormontabile
(come in “Povertà”, quando la casuale notazione di una vecchietta impedisce a Paloma di fare
gli acquisti che desiderava). A volte, invece, viene superato, ma il successo del protagonista
non significa ipso facto che la storia vada a finir bene. Potrebbe darsi, ad esempio, che proprio
attraverso la sconfitta si scopra che poi le cose sono andate per il meglio (“Allegria”).
In questo eventuale conflitto, comunque, non par esserci cattiveria, vera volontà di far male.
C’è piuttosto tenerezza, compassione. Una compassione abbastanza sarcastica, venata da un
paternalismo ingiustificabile (“Pazienza, primavera”), o semplicemente ironica, come quella
che Mefisto ha per la protagonista del racconto “Donna”.
Dal punto di vista compositivo, quindi, un racconto alla Parise non porrà un contrasto di
volontà esplicito, ma più che altro una inadeguatezza degli obiettivi, una difficoltà di accordo
tra le parti.
I tratti caratteristici
Un altro particolare compositivo dei racconti di Parise è il ritorno, molto frequente, di alcuni
tipi di personaggio. Anzi, per essere più precisi, di alcuni tratti fisici.
Le donne, spesso, hanno capelli rossi o rossastri. A volte “lunghi e rossastri” (“Amore”); altre
“ricci corti e rossi” (“Affetto”); altre “crespi e rossicci raccolti a chignon” (“Cinema”), oppure
“rossi e cespugliosi” (“Nostalgia”) o, ancora, “corti, ricci e rossi” (“Donna”).
Gli occhi sono spesso “mongoli” – “occhi celesti e mongoli” (“Bambino”), “ragazza-donna
dai tratti mongoli” (“Amicizia”). Questo è un aspetto interessante. Immagino che, con questo
aggettivo, Parise intenda dire “a mandorla”. Ovviamente non c’è alcun risvolto negativo
nell’aggettivo (che viene riservato a personaggi di bell’aspetto). Eppure, in un caso (secondo
me significativo), gli viene preferito un’espressione diversa.
È il caso di “Estate”, “lei aveva i capelli gocciolanti e flottanti sull’acqua, e ciglia gocciolanti
sugli occhi a mandorla”... Mi limito a far notare che il racconto è dedicato a Natalia e
Alessandra Ginzburg, che il personaggio in questione prende sicuramente spunto da loro e che
“occhi a mandorla” nella raccolta è un hapax legomenon,3 ovvero un costrutto presente una
sola volta. Ognuno, poi, tragga le conclusioni che vuole. A me pare una modifica dettata
(consciamente o no) dalla buona educazione, che ti porta a essere estremamente prudente con
le persone e a evitare anche quei modi di dire che ti piacciono e a cui sei affezionato, ma che
temi (a ragione o no) che potrebbero essere fraintesi.
Quindi, concludendo la ricognizione su queste microstrutture: in un racconto “alla Parise”
sarebbe bello ritrovare qualche particolare del genere capelli rossi, occhi mongoli...
Le scelte linguistiche caratteristiche
Oltre a questi tratti tipici che tornano molto spesso nei racconti, Parise “marchia” gli stessi
con una cifra inconfondibile usando spesso termini o costrutti non perfettamente ortodossi o
consueti, o immagini ripetute ma non immediate.
“Naso più anziano”. (“Sogno”)
“era […] un po’ sudato, così emanava un odore di pane crudo lievitato pronto per essere
messo in forno”. (“Libertà”)
E questo elemento si sente tanto di più perché si situa in un impasto linguistico molto
omogeneo e di un’eleganza piuttosto semplice e mai artificiosa. Così, questi particolari
diventano l’elemento di originalità un po’ stravagante (un calzino di colore imprevisto; i
gemelli di disegno bizzarro, l’orologio sopra il polsino di sacra memoria :-)) che caratterizza
spesso persone molto eleganti ma, allo stesso tempo, di personalità spiccata.
L’attenzione al particolare
Parise non si ferma spesso a descrivere, e in questo applica magistralmente la regola secondo
cui, specialmente in un racconto breve, ma in generale in ogni narrazione moderna, non ci si
può permettere di bloccare il racconto per indugiare in una descrizione, ma bisogna fondere i
momenti descrittivi all’interno della narrazione.
E proprio per questa sua capacità di fondere descrizione e narrazione, i racconti dei Sillabari,
nonostante siano piuttosto brevi, sono anche ricchi di particolari assolutamente non superflui.
L’attenzione di Parise, ad esempio, si concentra molto sull’abbigliamento.
Ci sono racconti in cui all’abbigliamento viene data un’importanza molto particolare, ad
No, non è vero. Ritorna in “Bambino”, nell’ultima riga.
esempio “Donna” o “Grazia”. Ma la cosa fondamentale è che la descrizione
dell’abbigliamento non è mai fine a se stessa, perché contribuisce alla costruzione e alla
definizione del personaggio (anche se, ovviamente, non in modo banale). Ad esempio, in
“Amore”, osservando l’abbigliamento scatta l’innamoramento – ma in maniera imprevedibile:
“Indossava un pigiama nero, una cintura di metallo dorato appoggiata ai fianchi, scarpette di
vernice nera con una fibbia e tuttavia per una fulminea coincidenza di ragioni tanto misteriose
quanto causali era bellissima”.
E la forza narrativa della descrizione sta tutto in quel “tuttavia” che spiazza e, allo stesso
tempo, arricchisce la personalità del protagonista.
Incertezza, ambiguità
Sempre sulle microstrutture, è interessante il modo in cui Parise definisce alcuni suoi
personaggi o situazioni, di cui vuole sottolineare l’incertezza o la vaghezza.
“Un cane di nome Bobi che aveva e non aveva un padrone”. (“Anima”)
Questo tipo di costruzione ricorda abbastanza Pontiggia (in particolare quello di La grande
sera). Parise è meno sentenzioso (un tratto che Pontiggia stesso si riconosceva, e che, in parte,
un po’ lo stuccava), meno ricercato e più lineare: però il tipo di ricerca mi pare simile.
Quindi, anche qui, ricapitolando: in un racconto “alla Parise” si potrà cercare di definire
situazioni e personaggi in questo modo preciso e allo stesso tempo incerto.
Ed è proprio qui che, secondo me, c’è una delle ragioni della riuscita di questi racconti.
Racconti che, anche quando sono semplici e lineari, lasciano intravedere un aspetto oscuro,
qualcosa di leggermente inquietante.
Pensiamo, ad esempio, al racconto “Casa” (tra l’altro un racconto in cui si parla di caccia e
che vien dietro al racconto “Caccia”, come dire che l’ispirazione – la “poesia”, come dice
Parise – si nutre di lavoro, di idee e di se stessa). È un racconto all’apparenza molto lineare: in
una famiglia si cena, con un ospite, e si parla dell’ultimo acquisto – una stufa a gasolio – di
cui tutti sono molto orgogliosi. A metà serata si unirà al gruppo un prete amico di famiglia e,
tra gli argomenti delle chiacchiere, entrerà anche la caccia (il prete, tra l’altro, pratica
l’uccellagione).
A fine cena il padrone di casa inviterà i suoi ospiti a salire al piano di sopra, per verificare
come il tepore si distribuisce in tutte le stanze. Infine, mentre tutti si congederanno, il prete si
arrabbierà perché vedrà volar via un’oca selvatica che avrebbe senz’altro abbattuto se avesse
avuto con sé il fucile e, come si prevedeva da tempo, comincerà a nevicare.
Ma ecco che, in questa trama del tutto quotidiana, Parise innesta alcuni particolari che lascia
volutamente inspiegati.
Descrivendo Gianfranco, il figlio del padrone di casa, Parise scrive: “Era un italiano alto,
bello, e ricciuto di trentadue anni, era molto amato dalla sorella e dai genitori. Perché allora,
così spesso, era malinconico? Molti se lo chiedevano”.
In seguito, quando entra il prete, gli viene offerto del vino e Gianfranco “cavò dalla credenza
dipinta di bianco un bicchiere pulito. (C’era una fotografia infilata ai bordi del vetro della
credenza, un neonato in pizzi, forse dormiente, forse morto)”.
Quindi, “salirono a vedere la stufa e a sentirne il calore, entrarono nelle grandi camere da letto
(su un letto c’era una bambola, una spagnola), nel bagno, si fermarono nel corridoio. In fondo
al corridoio, una porta chiusa dava in altri corridoi, stanze senza mobili, scale e soffitte. Dal
buco della serratura entrava il freddo delle cose ignote”.
Ecco, dunque, al termine di una serie di accenni lasciati in sospeso, una notazione che mi è
particolarmente piaciuta perché inaspettata e, anche in questo caso, lasciata lì, senza un
seguito. Ora, bisogna stare molto attenti a non lasciare sparsi in giro per i racconti troppi non
sequitur, altrimenti il lettore ha l’impressione o di qualcosa di raffazzonato o, peggio, di un
trucchetto per creare tensione in un racconto che, in sé, non riesce a darne.
Però “Casa” è tutto permeato da una piccola suspense, come un’attesa di qualcosa, e quindi il
richiamo alla bambola spagnola (che erano così diffuse e inquietanti fino agli anni Sessanta,
poggiate sui copriletti di trapunte, tra i cuscini di seta), e questa porta chiusa da cui entra “il
freddo delle cose ignote”, non mi è sembrato la ricerca di un effetto a buon mercato, ma
qualcosa che arricchisce la lettura.
E, anzi, si vede che a Parise questo gioco piace perché, quando gli ospiti e don Antonio
escono in strada, aggiunge: “Poi Gianfranco, i due ospiti e don Antonio (forse a causa di
quella porta) uscirono nel freddo tra gli alberi del giardino...”.
Lievi mutamenti
Le cose che accadono nei racconti dei Sillabari, come già notavo, modificano di poco il corso
delle cose. Eppure, quel poco ha un suo grande rilievo.
Per scrivere un racconto da Sillabari, possono andar bene molti soggetti, meglio se tratti dalla
quotidianità. Si può andare a cercare anche un argomento piuttosto convenzionale o
addirittura frusto (come, ad esempio, il soggetto del racconto “Bellezza”: le solitarie giornate
di un anziano contadino ancora legato alla terra, con i figli in giro per il mondo): un soggetto
da libro Cuore o da verismo sentimentale. È necessario andare a cercare, però, un punto
particolare della giornata. Non tanto un episodio particolare, ma il momento particolare di un
episodio per altro normale e trattarlo con una certa ironia, mettendone in rilievo le lievi
incongruenze, la consapevolezza degli errori, un senso di incertezza, inquietudine. Questo lo
rende moderno.
Tornando al racconto “Bellezza”, l’attacco è tipicamente da Sillabari (cioè la vaghezza di
alcuni elementi e la precisione di altri):
“Ogni giorno un vecchio di campagna usciva di casa con la falce e il carrettino. In tasca aveva
la pipa con la borsa del tabacco, un astuccio fatto con un pezzo di bambù per i fiammiferi e un
coltello ricurvo molto tagliente. Appeso alla cintura aveva un corno di bue, immersa
nell’acqua dentro il corno una pietra per affilare la falce”.
Potrebbe essere l’attacco di un racconto di Matilde Serao: roba vecchia, insomma, anche per
gli anni Settanta. E il seguito non sembra promettere nulla di meglio:
“Come tutti i contadini aveva molto da fare per l’estate...”.
In questo paragrafo si può notare soltanto la capacità di enumerazione delle attività, collegata
a una certa competenza – probabilmente acquisita. Francamente siamo nel bucolico (anzi, per
l’esattezza, nel georgico).
Di tanto in tanto, però, in questa prevedibilità, troviamo qualche leggero scostamento. Ad
esempio, quando arriva il pescatore, il nostro vecchietto non riesce a trovare il coraggio di
chiedergli aiuto per caricare un tronco; ci vengono comunicati anche un certo nervosismo, una
certa insoddisfazione, un certo malumore che mal si accordano con l’Arcadia pavana. E anche
una differenza rispetto a “quasi tutti i vecchi: riusciva a dormire molto”.
Ed ecco, piano piano, una svolta – che non è poi niente di che (anche in Verga, ad esempio,
troviamo personaggi malmostosi), ma è interessante: falsa umiltà (“fingeva di essere umile”),
superbia per cose sbagliate “di non saper né leggere né scrivere”... un po’ di antico servilismo
dello schiavo, mescolato alla scontrosità: insomma il personaggio acquista un minimo di
spessore. Quando passano delle persone, il vecchio preferisce nascondersi, resta in attesa e si
accende la pipa sicché “dall’erba o dal letame saliva un fil di fumo”. Ecco, questa capacità di
cogliere i particolari potenzialmente ironici di cui già ho parlato e che è interessante.
L’uso dell’autobiografia
Un altro elemento su cui meditare in questi racconti, e che ci dà delle indicazioni da seguire, è
l’uso dell’elemento autobiografico.
Ritornano qua e là, sparsi e mescolati tra loro, moltissimi elementi della biografia di Parise:
sia degli anni dell’infanzia, sia di quelli della maturità che in lui, purtroppo, si colorava
spesso, per la consapevolezza che aveva delle sue precarie condizioni di salute, di
vecchiezza.4
Molti bambini orfani, a cui vengono presentati degli “zii” – ovvero i secondi mariti delle
madri; nonni che hanno una fabbrica di biciclette5 (“Nostalgia”); e poi uomini stanchi, che
sentono sfilarsi via dalle mani la vita, come ad esempio nel racconto “Dolcezza”.
“Poi accese una sigaretta e anche il fumo gli diede piacere, ma subito dopo il grande
dispiacere che i suoi polmoni e bronchi ne avrebbero sofferto così tanto che gli anni sarebbero
passati molto più in fretta per lui di quanto gli era dovuto (molto o poco): e presto si sarebbe
trovato vecchio e malato. ‘Ma sono passati pochissimi anni da quando ero bambino’ pensò
con candore”.
Ma Parise utilizza il dato autobiografico come materiale ancora informe da modificare e su
4 Brevemente, tanto per fissare alcuni punti, Parise nacque nel 1929 a Vicenza dalla figlia adottiva di un
fabbricante di biciclette che, proprio in quell’anno, dovette dichiarare fallimento. La madre di Parise era stata
sedotta e abbandonata da un medico di Vicenza. Quindi lei e il figlio Goffredo dovettero vivere con i genitori:
situazione difficile in un periodo e una città certo non teneri con le ragazze madri. Nel 1937, però, la madre
riesce a sposarsi, con Osvaldo Parise, giornalista e direttore di un quotidiano locale che adotterà Goffredo e lo
amerà molto. Dopo la guerra, la famiglia Parise si trasferisce a Venezia. Parise si sposa nel 1957 e si separa nel
1963. Quindi, nel 1966 si lega alla pittrice Giosetta Fioroni che gli starà vicino fino alla morte. Già alla fine degli
anni Settanta Parise comincia a stare male. Gran fumatore, cominciò ad avere problemi di circolazione. Ebbe un
infarto nel 1979, e “ne uscì malconcio e invecchiato” (Garboli). Poi la circolazione difettosa compromise i reni,
tanto che nel 1981 lo scrittore entrò in dialisi e, nel 1986, morì.
5 Vedi anche, ad esempio, Il prete bello, dove il nonno di Sergio “aveva un cancro alla prostata e la custodia
biciclette non andava avanti” e Sergio stesso “È figlio di N.N”.
cui intervenire. Fa insomma quello dovrebbe fare l’ottimo scrittore: non prescinde dal dato
biografico – cosa per altro impossibile –, ma non se ne fa neppure travolgere. Non è,
insomma, al servizio dell’autobiografia, ma è l’autobiografia che è al servizio della sua
scrittura. Serve ad arricchire i personaggi, a dar loro spessore. Parise prende il dato
autobiografico, lo pone a distanza davanti a sé e lo riutilizza con grande libertà,
modificandolo a suo piacimento e fornendoci un modello pratico di scrittura perfettamente
utilizzabile.
Assenza di flashback
Una dimensione strutturale interessante – che è legata sia al fatto che ci troviamo pienamente
all’interno del “genere letterario” del racconto, sia all’uso che abbiamo visto molto
destrutturato dell’elemento autobiografico, ovvero della dimensione del ricordo – è la
sostanziale assenza di flashback. A meno che il racconto non si esaurisca in un flashback
(capita di rado: “Malinconia”), o che il flashback sia imprescindibile come in “Sogno” – dove
è indispensabile per spiegare le origini del sogno del protagonista, Piero –, tutto si svolge in
presa diretta. A volte con una certa unità di spazio e di tempo. Ma anche quando questa unità
non c’è (“Italia”), la narrazione procede in linea retta senza ritornare su se stessa.
Racconti e non romanzi
Prima di passare ad analizzare i finali, e riallacciandomi al capitoletto precedente, vorrei
chiarire che i racconti dei Sillabari, salvo poche eccezioni, sono veri racconti, non romanzi e
men che meno “riassunti di romanzo”, o “soggetti”.
In questa mia affermazione mi accorgo di discostarmi (ma lo faccio con molta deferenza e
rispetto, è ovvio) dall’opinione di Cesare Garboli, che invece parla dei Sillabari come di
romanzi in nuce.
“Non sono racconti, non sono apologhi, non sono operette morali. Io non riesco a trovare
migliore definizione che questa: sono romanzi virtuali. Intendo dire che pochi, insignificanti
particolari contengono in sé virtualmente delle architetture complesse, degli intrecci, dei
rapporti romanzeschi. Sono dunque cellule, cellule da cui potrebbero scaturire innumerevoli
romanzi possibili. Il processo in cui si svolgono questi romanzi virtuali è doppio: perché essi
nascono in primo luogo da una precisa, meticolosa, quasi crudele miniaturizzazione: tutto è
portato al piccolo, tutto è ridotto in cenere, tutto è sclerotizzato, quindi un processo di morte.
E nello stesso tempo, si sente sotto la miniatura – appunto perché sono romanzi virtuali –
come il gorgoglio di una sorgente d’acqua - la possibilità che in queste gocce, in queste
cellule, in queste miniature di vita ossificata sorga e si manifesti la vita”.
Dopo aver esposto la posizione di Garboli, mi permetto di motivare il mio dissenso. Sebbene
non si possa non concordare sulla “miniaturizzazione”, e anche – in un certo senso – su quella
che Garboli chiama “sclerotizzazione” e che a me, per la verità, sembra un uso di schematismi
narrativi, io penso che i Sillabari siano veri e propri racconti e non romanzi (neppure in
miniatura), perché si concentrano su una tranche de vie che non ha antecedenti né seguiti
(abbiamo già notato, ad esempio, l’assenza di flashback); non si affacciano su panorami più
ampi, né prevedono l’intrecciarsi di vicende parallele (anche questo tipico del romanzo).
Sì, ce n’è qualcuno che potrebbe assomigliare a un soggetto da cui trarre un romanzo
(“Bacio”, “Italia”), ma sono un’esigua minoranza (su 54, direi non più di cinque o sei). Non
basta che la vicenda narrata in un racconto si prolunghi per qualche anno per farlo diventare
un romanzo in nuce. Pensate a “Cuore”, ad esempio: certo, i due amanti si conoscono da
bambini, si ritrovano da grandi e si frequentano per quattro anni. Ma troverei molto poco
interessante un romanzo tratto da questo racconto: sarebbe semplicemente una specie di
“gonfiaggio” di quello che c’è già.
Nel complesso, insomma, i Sillabari contengono storie che non rimandano a quella coralità di
impianto che invece è caratteristica del romanzo e, cosa egualmente interessante, si tratta di
vicende da cui il protagonista non esce sostanzialmente mutato – mutamento che è tipico dei
romanzi e non certo dei racconti.
Del resto, i personaggi non sono quasi mai plasmati a tutto tondo, ma piuttosto abbozzati
come figurine, schizzi – che Garboli chiama “sclerotizzati” – che hanno la loro ragion
d’essere – tutta la loro ragion d’essere – in quella determinata azione che compiono: più
simili, insomma, a “funzioni narrative” (il principe, la strega, il viaggiatore, il saggio...) che
non a veri personaggi.
I finali
I finali dei Sillabari sono abbastanza variegati, anche se possiamo raggrupparli in categorie
piuttosto omogenee.
Finali alla Carver.
Alcuni racconti (“Affetto”, “Cinema”) hanno una conclusione alla Carver. Ovvero sospesa nel
nulla, un attimo prima della catastrofe, che non viene rappresentata e non sappiamo se è
rimandata o no. Un esempio per tutti: “Affetto”. Tutto il racconto prende lo spunto
dall’intenzione di un “uomo molto ricco ma ‘per bene’”, “di ‘far capire’ alla moglie che non
l’amava più pur amandola moltissimo”6. Si prepara a parlarle a “colazione” (Parise dice
“colazione” per dir pranzo – un uso che era abbastanza comune fino agli anni Settanta, che
Piero Ottone, ex direttore del Corriere della Sera e opinionista del Venerdì di Repubblica,
cercò una decina d’anni fa di rinverdire, a mio modo di vedere piuttosto inefficacemente), ma
anche stavolta, come tante altre in precedenza, all’ultimo momento il chiarimento non ci sarà.
Il racconto finisce così.
“Stava per cominciare a parlare (non sapeva quello che avrebbe detto, ma sapeva che
l’avrebbe detto) quando la moglie, alzandosi, gli strinse un istante la mano, subito si scostò
dal marito e avvicinatasi al telefono che era accanto alla finestra cominciò una lunga
telefonata quasi silenziosa e fatta quasi esclusivamente di sorrisi con un’amica. Egli si alzò, si
avvicinò a lei, la baciò su una tempia e uscì”.
È un finale molto bello perché, tra l’altro, è abbastanza imprevedibile. Mentre lo leggevo per
la prima volta, non avevo minimamente previsto che potesse finire così e, mentre con la coda
dell’occhio vedevo che alla fine della pagina il racconto sarebbe terminato, mi chiedevo con
un po’ di ansia cosa sarebbe successo di così breve da stare in una pagina.
6 Un tema tipicamente parisiano e che è al centro, ad esempio, del romanzo postumo L’odore del sangue (BUR,
1997), da cui Mario Martone ha tratto un film con Fanny Ardant e Michele Placido. “Ho guardato, anzi visto
Silvia per la prima volta quando ho avuto la sensazione che mi tradisse. […] tendo a fuggire da lei nonostante la
ami molto, anzi proprio perché la amo (p. 9).
Questo è un buon modo di costruire un finale e mi piace quando uno scrittore riesce a tenerti
sulla corda fino in fondo.
Finali a sorpresa.
Finali a sorpresa ce ne sono pochi. Uno è quello del racconto “Allegria”. Una mamma e un
bambino vanno finalmente in vacanza in montagna. Si erano fatti l’illusione, prima di partire,
che l’albergo sarebbe stato molto elegante e che, finalmente (anche se con qualche patema),
avrebbero potuto vivere un po’ di vita di società. Invece, quando arrivano nella località di
villeggiatura, scoprono che l’albergo è triste, i suoi clienti sono molto modesti e ne rimangono
assai delusi. Dopo una cena miserevole vanno a letto, tanto la mamma quanto il figlio, di
umor nero. Passano una notte agitata, resa ancora più insopportabile dal freddo, a riflettere sul
da farsi. Poi, verso l’alba...
“piano piano il loro umore cambiò. Si dissero che l’albergo era stato prenotato per un mese,
che la ‘caparra’ era stata versata, che lo ‘zio’ era tranquillo a casa col gatto, che il gestore, in
fondo, era una persona gentile, solo un po’ sfortunata, si dissero molte altre cose serie e di
buon senso...”.
E fin qui il lettore pensa: si sono rassegnati. In fondo c’è del bello e del buono anche nella
modestia di un alberghetto senza pretese; anche tra le persone più insignificanti si può trovare
la favilla del genio o, più semplicemente, di una buona conversazione. Ma ecco che la frase si
conclude in modo strano.
“... si dissero molte altre cose serie e di buon senso ma ormai l’umore era cambiato”.
Mi sarei aspettato un “perché”, o un “tanto”... “tanto l’umore era cambiato”. Invece quel ma
mi colpisce a tal punto che penso a un refuso.
Ma, continuando, l’arcano si svela.
“Presero la corriera alle cinque del mattino (la valigia sembrò leggera al figlio), la madre saltò
sul predellino e, scusandosi e ringraziando, disse al gestore che soffriva di allergia a causa dei
materassi. Il gestore le toccò un braccio, forse sperando di trattenerla, e promise altri
materassi subito. ‘No, no, soffro di cuore, ho l’asma’ disse la madre con fastidio e si
sprofondò nel sedile della corriera ridendo davanti a sé. In quel momento il gestore capì che
non c’era nulla da fare e si coprì il viso con le mani per il dispiacere. Fece un ultimo tentativo
e disse: ‘Scriverò immediatamente a Mario’ (Mario era lo ‘zio’, il marito) ma a loro non
importava un fico secco che egli scrivesse o non scrivesse a Mario; tanto bella era la vita”.
Uno scarto improvviso dei protagonisti, tanto più inatteso quanto, in generale, in questi
racconti ci sono pochi “scarti improvvisi”. Un finale brillante, non c’è che dire, in cui Parise
ottiene anche un effetto di accelerazione – che accompagna molto bene le immagini dei due
che scappano, se la danno a gambe – allungando le frasi (e in questo modo impedendoci di
prender fiato e, quindi, facendoci un po’ mancare l’aria), rendendole tutte coordinate tra loro
(utilizzando, cioè, la congiunzione “e”) ed evitando le subordinate. Paratassi, insomma, che
scorre rapida, e non ipotassi che, costringendo a riflettere sulle relazioni tra le subordinate,
rallenta.
Un altro racconto che ha un finale a sorpresa, anche se meno pirotecnico, è “Bacio”: Una
ragazza si innamora di un ragazzo molto più giovane di lei – lei ha ventitré anni, lui sedici.
Questo amore era rimasto allo stato platonico – che è termine caro a Parise (centrale nel
romanzo L’odore del sangue) –, ma forse sarebbe più chiaro dire “latente”, per molti anni, in
cui i due protagonisti hanno altre storie. Poi ricominciano a vedersi. Il racconto finisce così.
“Un giorno lei disse: ‘Tra noi c’è qualcosa di più di una semplice amicizia’. Ma pensava:
‘Com’è possibile? Ha sette anni meno di me, io sono una donna e lui un bambino’.
Cominciarono a tenersi per mano, cosa che durò due mesi e più, una sera sdraiati nell’erba
sotto un pioppo e accanto a un fiume non parlarono né si tennero per mano. Il ragazzo si
diceva: ‘Ora la bacio’, lei pensava che lui l’avrebbe baciata e si teneva pronta immaginando la
cosa. Ma passarono più di due ore, tout était dans l’air, niente avveniva e lei girò la testa
masticando un filo d’erba e pensando: ‘Lo sapevo, è una cosa impossibile, ha sette anni meno
di me e io non gli piaccio perché sono troppo vecchia’. Ma il ragazzo si girò e con una
autorità che a lei parve assoluta le tolse di bocca il filo d’erba e posò le labbra chiuse sulle
sue”.
Finali senza nulla.
Parenti del finale alla Carver, ma senza tensione, sono i finali in cui non succede nulla. Come
nella vita. Il tranche de vie si apre e si chiude su un momento apparentemente indifferente. È
interessante però notare che anche i racconti in cui possiamo dire che “non succede nulla” non
ci annoiamo. È evidente, quindi, che non è affatto vero che non succede nulla. Tutto sta a
capire che cosa, veramente, succede. Qualche esempio su cui meditare: “Eleganza”,
“Amicizia”, “Mare”.
Finali alla Buzzi.
Aldo Buzzi è il geniale autore di pochi libretti tanto superflui quanto irrinunciabili. I suoi
finali sono particolarissimi perché sembrano mettere insieme elementi disparati e,
apparentemente, irrelati.
Ecco, di tanto in tanto anche Parise ci propone dei finali così, con la notazione che non ti
aspettavi. Sono forse meno geniali di quelli di Buzzi, perché meno cattivi, ma se ne assapora
lo stesso gusto, anche se un po’ meno concentrato. Un esempio: “Madre”.
Finale “punto e basta”.
In questa varietà di finali, una caratteristica che accomuna tutti i finali di Parise è che sono
finali “punto e basta”, senza strascichi, commenti, postille e tardive riflessioni. Un finale
“punto e basta” si ricorda e colpisce, illuminando positivamente tutta vicenda precedente.
Un piccolo errore
Parise si dimostra uno scrittore molto preciso e puntuale. Ed è per questo che mi ha colpito
l’unica piccola svista che ho notato nei suoi racconti. Si trova in “Casa” e, prima di continuare
a leggere, rileggetevi il racconto, per vedere se la cogliete anche voi.
All’inizio del racconto Parise scrive: “Il vento era cessato, il freddo era ancora molto forte (il
termometro esterno segnava meno quattro, ma tendeva a salire), e tutti sentivano che sarebbe
caduta la neve”. Alla fine del racconto, senza che sia accaduto nulla di particolare, anzi
seguendo l’evoluzione prevista del tempo (tanto è vero che tutti attendono la nevicata),
“Gianfranco, i due ospiti e don Antonio […] uscirono nel freddo tra gli alberi del giardino e
con una lampada illuminarono il termometro: era sceso quasi a zero...” (il corsivo è mio).
È evidente, almeno per me, che il termometro avrebbe dovuto salire quasi a zero e non
scendere. Piccolissima svista, evidentemente, e di nessuna importanza. Ma a te, scrittore
praticante, neppure questo è permesso7.
Durante il corso
Come avrete potuto notare, questo tipo di approccio che vi propongo è, credo, un approccio
critico, ma non è un approccio “da critico”. La mia intenzione, infatti, non è quella di stabilire
un valore per i racconti di Parise, o di situarli in un contesto storico o di comprenderne le
motivazioni, ma semplicemente di proporveli come modelli da utilizzare per scrivere, a vostra
volta, dei racconti personali e, allo stesso tempo, meditati.
Durante il corso riprenderemo questi elementi e li svilupperemo facendoli interagire con le
esigenze espressive di ciascuno. Inoltre, rileggendo i racconti di Parise, capiremo come legge
uno scrittore – che cosa lo interessa e lo attira e come “utilizza” quel che legge per i suoi
obiettivi espressivi.
In un volume di 360 pagine e di 54 racconti, molte sviste possono capitare. Devo dire che questo volume Adelphi è molto curato, anche perché, ovviamente, vi si raccolgono racconti che sono stati già pubblicati almeno due volte, in precedenza – sul giornale e in una delle due raccolte del ’72 o dell’82 – e quindi sono stati sottoposti sicuramente a molte letture e revisioni. È bello notare, di tanto in tanto, alcune scelte che oggi un redattore non farebbe passare, ma sulle quali, negli anni Settanta e Ottanta, si era evidentemente ancora abbastanza tolleranti. Ad esempio: “polipi bolliti”, invece di “polpi bolliti”, nel racconto “Dolcezza” (“polipo” al posto di “polpo” c’è anche in “Gioventù”. Oppure “valige” al posto di “valigie”.
SCRIVERE SILLABARI Andrea Di Gregorio per Libriamo 2009