“Go, get the butter”. La rivoluzione, vera, sarà quando vedremo non a Rai Movie, ma in uno dei canali generalisti della Rai Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, il film maledetto, addirittura bruciato dalla nostra censura nel 1974, con il suo autore privato dei diritti per cinque anni. Malgrado il suo record di incassi, 6 miliardi di lire nel 1972 (e Bertolucci non è Checco Zalone), 96 milioni di dollari in tutto il mondo.
Malgrado tutto il dibattito culturale che creò. E l’incredibile balletto della nostra magistratura. Assolto il 2 febbraio del 1973 in primo grado, poi condannato alla distruzione in secondo grado il 20 novembre 1974. Nel 1982, nella rassegna nicoliniana “Ladri di cinema”, Marco Melani, Daniele Costantini e Stefano Consiglio mostrarono di fronte al pubblico una vera copia in 35 mm del film.
Era la copia personale di Raimer W. Fassbinder, che l’aveva regalata per questa proiezione pochi mesi prima di morire. Presentando il film Bertolucci disse: “io credo che valga la pena di vedere il fantasma di un film che essendo stato bruciato non esiste più. Qui siamo nel regno dell’impossibile, quindi vedremo che cosa rimane di un film bruciato. Vi ringrazio molto di essere stati qui e vi avviso, forse siete tutti correi di un crimine”.
Infatti questa visione creò non pochi problemi al gruppo di “Ladri di cinema”. Solo nel 1987 arrivò, veramente troppo tardi, la riabilitazione da parte della magistratura. Ma non era più la stessa cosa, né, mi parve, la stessa copia che avevamo visto nel 1972 con gli occhi spalancati. Dove erano finiti quei colori, dove erano i benpensanti da scandalizzare dopo gli anni di piombo e tutto il nudo che avevamo visto negli anni precedenti?
Anche in tv e in video non può ricreare in nessun modo la stessa emozione. Disse bene Bertolucci: “Rivedere il film in televisione per chi non l’ha mai visto al cinema può essere abbastanza emozionante, ma per chi lo ha visto al cinema una ben triste consolazione. O forse è il contrario. Forse chi lo ha già visto al cinema ritrova nella propria memoria tutto quello che manca nell’impatto televisivo”.
Lasciamo alla filologia del cinema poi la complessa ricostruzione delle copie originali, un director’s cut mai visto da nessuno, presumo, di 250’, una copia di 136’, una di 124’. Una copia americana X-rated nel 1972 e una R-rated nel 1982 più corta di due minuti. Qual è la copia che dovremmo davvero vedere? Perfino un geniale trailer montato da Kim Arcalli, montatore, ma anche co-sceneggiatore del film, nonché ispirazione fondamentale per capire parte del personaggio di Marlon Brando (“non era solo il mio montatore, ma la mia coscienza strutturale”), tutto costruito con scene tagliate e pezzi di backstage del film, non si è mai visto perché il film uscì prima del previsto, senza trailer.
Lasciamoci dietro tutte le polemiche ideologiche riguardanti il film, visto come un tradimento per molti registi rivoluzionari del tempo. E ritorniamo in sala con gli occhi che avevamo nel 1972.
Perché al di là di tutto, della pazzia di Maria Schneider, che venne come marchiata dal film e dalla sodomia col burro di fronte “solo” al pubblico di tutto il mondo, della riabilitazione di Brando, che allora non era proprio al suo massimo, ma lo fu subito dopo, la visione del film, come diceva Bertolucci, fu qualcosa di incredibile per chi aveva allora appena vent’anni e aveva giocato fino al giorno prima con gli spaghetti western di Sergio Leone & co.
Bertolucci, Brando in canottiera, la Schneider con la topona pelosa di fuori e il foulard, Kim Arcalli il montatore-sceneggiatore partigiano, la musica di Gato Barbieri, lo scenografo Ferdinando Scarfiotti, la costumista Gitt Magrini, la PEA di Grimaldi, Jean-Pierre Léaud e l’Atalante di Jean Vigo, Maria Michi. Entravamo in una sala piena, e vedevamo qualcosa che non si era mai visto prima.
Non si trattava solo dei nudi di Maria Schneider e della scena del burro, giustamente parodiata da Franco Franchi in Ultimo tango a Zagarolo (“la parodia è quella che ha fatto Bertolucci”, disse Carmelo Bene), si trattava del sogno di una generazione di cinéphiles. Vedere il nostro sapere cinematografico, tutti i nostri riferimenti da Cahiérs du Cinéma, diventare un grande film popolare che seguitava però a emozionarci.
Se Leone aveva rielaborato il cinema di John Ford, John Sturges, Raoul Walsh in un grande cinema popolare italiano dentro al genere, Bertolucci rielaborava tutto il cinema americano e la rivoluzione della Nouvelle Vague dentro un film italiano moderno. Rispetto a Partner, rispetto anche a Il conformista, era qualcosa di molto più avanzato. Magari un tradimento, come credo pensasse Glauber Rocha, che vide il film a New York, mi raccontò Paulo César Saraceni.
Ma certo un tradimento così in grande da poter far capire a tutto il mondo quello che un’intera generazione di venti-trentenni pensava che fosse cinema. E al tempo stesso apriva la nostra mente a Bataille, non a caso si chiamava “La petite morte” il primo progetto, a Jean Rouch mischiato con Hollywood, come disse anni dopo Bertolucci (“in fondo è un film alla Jean Rouch completamente hollywoodiano, è cinema-verità ricco”).
Se Bertolucci lo avesse girato, come era stato pensato in un primissimo tempo nel soggetto del fratello Giuseppe e Kim Arcalli, a Milano per le produzioni Rai, sarebbe stato solo un piccolo buon film “sperimentale”. Se lo avesse girato a Parigi con Jean-Louis Trintignant e Dominique Sanda sarebbe stato un buon film europeo come Il conformista. Con Alberto Grimaldi e Marlon Brando, reduce dal disastroso Queimada del trombonissimo Gillo Pontecorvo, odiato da Jacques Rivette per la mai scordata “carrellata di Kapo”, col marchio PEA di Il buono, il brutto, il cattivo e Satyricon, con la musica di Gato rimontata da Kim, diventa qualcosa di esplosivo che buca completamente i nostri occhi di ragazzini dei primi anni ’70.
E’ da lì che una intera generazione esplode in mille pezzi sognando un cinema libero alla Oshima, che che si accontenterà anche di limitarsi a Malizia di Samper con la stessa fotografia di Vittorio Storaro, o ai film di Edwige Fenech o precipiterà nel porno più o meno d’autore. Ultimo tango apre le porte a una libertà mai vista prima. Ne uscimmo pieni di forme, di corpi, di colori, di musica, di nuove regole di montaggio, di grandi inquadrature da cinéphiles.
Il conformista si era spinto dove si poteva spingere il nostro cinema d’autore. Ultimo tango va oltre, anticipando il Decameron e Salò di Pasolini, anticipando Portiere di notte, Novecento e C’era una volta in America, tutti scritti da Kim Arcalli, non a caso. Un cinema che finalmente affrontava il grande mercato americano e che porterà solo molti anni dopo agli Oscar a Bertolucci per Ultimo imperatore, ma che nasce lì nella camera del burro di Brando. Perché Brando sfonda la nostra stessa resistenza a voler pensare in grande, a confrontarsi con qualcosa che amavamo, ma che al tempo stesso cercavamo di nasconderci. “Go, get the butter”.
Tutte le immagini sono di MARLON BRANDO e MARIA SCHNEIDER in ULTIMO TANGO A PARIGI
di Marco Giusti per dagospia.com