Idee e azioni

Uno stadio. Un padre, un bastoncino di zucchero filato e un bambino.

Questi gli ingredienti.

Padre e figlio cercano il loro posto a sedere. La partita non è ancora iniziata ma gli spalti sono già strapieni. Il padre stringe la mano del bambino. Sono nella fila sbagliata. Devono tornare indietro e riprendere a salire. C’è aria di festa. Il bambino ride. Il padre è fiero di sé: sente il figlio al proprio fianco, sente la felicità del piccolo e si sente bene. E’ una bella giornata: sole, caldo e tutto il resto.

Chissà da quanto tempo quei due non stavano insieme. Per ora non lo sappiamo. Non sappiamo ancora niente di loro. Vediamo solo quella mano grande che stringe e quasi inghiotte la piccola mano.

Come in ogni buona storia, succede qualcosa. Un boato. Qualcuno urla. La folla si mette in azione.
Il padre riceve una spallata. La mano del piccolo si sfila. La calca spinge via il padre che non può opporsi, costretto ad assecondare la fiumana.

Quando finalmente l’uomo si ferma, fuori dal branco, il bambino non c’è più.

E adesso?

Se scatta questa domanda "e adesso cosa succede?", significa che abbiamo creato un’azione capace di stimolare un gioco di sentimenti e ferite profonde in personaggi che il pubblico vuole conoscere meglio.

Dopo quel movimento d’apertura, tutto può accadere.

Si aprirà una storia di ricerca? Il bambino è perduto e si parlerà di questo?
Oppure vedremo una storia costruita sui sensi di colpa, fatta di atti d’accusa tra marito e moglie?
O magari avremo a che fare con un thriller agghiacciante con un  investigatore e un assassino di bambini? Potrebbe anche trattarsi di un film su un’invasione aliena, oppure potrebbe essere la storia di un bambino cresciuto senza genitori, adottato da un barbone rintanato tra le fogne della città.

Indubbiamente, questa sarà la storia di un distacco.

Il risultato rimarrebbe inalterato anche se ambientassimo la scena d’apertura in un distributore di benzina, al supermercato o al parco giochi o semplicemente in casa: due mani che si lasciano traducono l’idea in azione.

Un'alchimia fondamentale

E’ questo il lavoro di uno sceneggiatore: tradurre idee in azioni, in fatti che abbiano un significato profondo.

Un bambino che mangia un gelato non significa niente. E’ una cartolina, magari bella perché inserita in un parco o sulla riva di un lago. Ma rimane una cartolina, non è cinema.

Un bambino che offre il suo gelato a un cane, invece, è già una storia. Meglio ancora, un bambino che nega il proprio gelato a un cane inizia a essere un film.  

Stiamo parlando per immagini ma non mostriamo solo ciò che appare: proponendo un bambino che strappa via il gelato dal muso del cane, invitiamo lo spettatore ad andare oltre l’immagine, immergendosi in un'azione, in un mondo di sentimenti, ostilità e capricci, forse di collera e di ingiustizia: lo trasciniamo in una storia.

Il compito più difficile per uno sceneggiatore è trovare l’azione giusta che traduca l'idea in un linguaggio condiviso.

L'elefante

C’è la mia idea, che sta dentro la mia mente, e poi c’è il pubblico, ovvero un occhio che guarda. Come gli racconto la mia storia?

La mia idea, l’idea di un qualsiasi autore, è  massiccia, forte, stabile. Si tratta di un pensiero al quale l’autore crede fermamente.
Deve necessariamente trattarsi di un pensiero onesto, di un’ispirazione, cioè di un’idea vera, originale, per la quale l’autore sia disposto a metterci la faccia, a tirar fuori sentimenti personali, a esporsi senza pelle per mostrarsi come è, vulnerabile e vero.

Potremmo paragonare questa idea a un elefante: un meraviglioso esemplare di quasi cinquemila chili. Uno di quegli elefanti africani che si muovono tranquillamente su terreni instabili. Animali in grado di attraversare foreste, laghi, savane, capaci di procreare, lottare e dignitosamente soccombere. Ma anche di correre, inaspettatamente leggeri per fuggire a pericoli e insidie.

L’elefante è un animale che non può nascondersi. Deve mostrarsi in tutta la sua interezza. Quello è il suo destino: essere ciò che è.

In pratica

Il percorso che conduce l’autore a delineare l’azione perfetta è uno solo: la conoscenza profonda della propria idea.

Per capire fino a che livello di conoscenza si sia arrivati, occorre iniziare a mettere su carta il pensiero.

Potremmo definire questo movimento come il primo passo per la stesura di un soggetto.  

Una sola riga. Niente di più, niente di meno.

Di cosa parla questo film?
Nessun travestimento, niente colori inutili, nomi o vestiti d’epoca.
Non interessa nemmeno quanto costi questo film o dove dovrebbe essere girato o quali attori e comparse serviranno.

La domanda è una sola: di cosa stiamo parlando? Di un distacco? Da chi o da che cosa? Parliamo invece di una rinascita? Perché? Si racconta di una conquista? Chi conquista cosa e, sempre, perché?

Quella prima essenziale riga di partenza, costituisce il fulcro di ogni lunghissimo futuro discorso. Si tratta di un segno stabile, forte, ben marcato che aiuterà l’autore a non perdersi.

Dopo averla scritta, occorre osservarla, rigirarla nella mente, uscire di casa, passeggiare e dimenticarla. Bisogna tornare e riafferrarla, confrontarla con la propria vita, con i propri ideali, le paure e le credenze. Possiamo correggerla ma non allungarla: deve rimanere leggera, libera, senza schemi.

Quell’unica riga deve tenerci compagnia per diversi giorni: non bisogna avere fretta.

Stiamo edificando una base che dovrà reggere un enorme peso. Una base robusta ma allo stesso tempo in grado di staccarsi da terra.

di Sabrina Gioda
Sceneggiatrice cinematografica e televisiva, autrice di romanzi e insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa
Dal suo blog http://scriverecinema.weebly.com