TV, LA BUONA MAESTRA! - SCRITTORI (E REGISTI) ITALIANI: IMPARATE DA "LOST", RACCHIUDE IN SE IL MEGLIO DELLA NARRATIVA OCCIDENTALE - NASCE DaLL’ISOLA DEI FAMOSI AMERICANA MA DIMOSTRA la supremazia dell'ingegno vero sulla furbizia AMORALE dei reality…

Tutto è perduto, tutto è ritrovato. Come il tempo, che smarrito e recuperato ritorna ad avere senso. Lost è la più grande opera narrativa di questo nuovo millennio. Aveva buon gioco Aldo Grasso a schiantare contro Lost le velleità narrative dei letterati puri che, come Aldo Nove e Giorgio Montefoschi, denunciavano le cattive influenze della tv sulla narrativa italiana.

Sarà pure una cattiva maestra, ma come insegnante di ricreazione può essere fenomenale. Con Lost, storia avvincente di un gruppo di sopravvissuti a un disastro aereo su di un'isola misteriosa, torniamo infatti nell'Eden, nel Paradiso perduto della narrazione occidentale.

Schemi, stilemi, tecniche, personaggi, e valori, sedimentati in secoli di storie, sembrano darsi appuntamento nell'isola sperduta più appassionante e famosa al mondo. Con buona pace di quella honduregna di Simona Ventura del reality L'isola dei famosi.

Lost è nato, come idea, dalla versione americana dell'Isola dei famosi. Ma con la sua finzione perfetta dimostra la supremazia dell'ingegno vero, cine-televisivo, sulla furbizia dei reality. Che è una realtà posticcia, che non è né vera né falsa, che non ha morale ma è una favola raccontata in forma di barzelletta grottesca.

Lost ha elementi dell'epica teologica medioevale, regolata dal contrappasso dantesco - ognuno sull'isola sembra scontare i suoi peccati complementari -, e di quella moderna cavalleresca.

Dell'epica classica ha l'inizio in medias res, reiterato in molte puntate con la scena dei primi sopravvissuti; la catàbasi, il viaggio nell'Ade, e in generale il rapporto con i morti, è molto forte; il tempo è vissuto sfericamente, come flashback, cioè la digressione nel passato, o come flashforward, ossia l'anticipazione del futuro, che nell'epica era attuata attraverso le profezie.

Dell'epica moderna, Lost ha il meccanismo perfetto dell'entrelacement che permette una narrazione policentrica e sincronica, lasciando un personaggio sul più bello per seguirne un altro. Creando, ovvio, una suspense continua che dà corso all'alternanza di forze centrifughe e centripete.

Epico, in senso moderno, è anche il sistema dei valori: l'erranza dei buoni, che non sono cattivi, ma fanno errori, si perdono nella selva o in altri luoghi esoticamente rinascimentali, cui conducano cavalli bianchi e altre apparizioni, rimorsi in forma di fantasmi, ombre di donne amate o padri perduti.

I valori in gioco e il sistema dei personaggi, i loro rapporti di forza, sono schiettamente epici: ognuno ha una sua ricerca da svolgere, una vendetta, un nodo irrisolto: il rapporto col padre, il bandito dalla legge, una madre che cerca la figlia, un giovane che decide di non sfuggire più alla morte. La partita è quella delle armi e degli amori delle muse dell'epica. Tra Dante, Ariosto e Tasso, Lost ha più tratti epici italici della Nuova epica italiana.

Nel Dna di Lost, ovviamente, ci sono i robinsonade, alla Defoe, e gli altri romanzi d'appendice e d'avventura, a sfondo scientifico, in particolare di Jules Verne; ci sono le distopie, ovvero i racconti di utopie sociali finite male, come Il signore delle mosche, che è pure citato nella serie, dove il delinquente Sawyer, soprattutto, e la dottoressa Juliet sono avidi lettori.

Se la matrice può sembrare letteraria, il motore narrativo d'altissimo livello, la carrozzeria non è da meno. Lost è una serie televisiva girata con la qualità del cinema - anzi, del grande cinema americano, perché quello italiano ha una produzione media da fiction storico-politica - e chiari rimandi i disaster movie: primi piani e controcampi, lunghi piani-sequenza, ritmo incalzante, colpi di scena cinetici, non statici.

I siti Internet dedicati alla serie, numerosissimi, suggeriscono svolte e trame che gli sceneggiatori prendono in considerazione al punto da avere una interazione autore-lettore degna di Rayuela di Cortàzar.

Lost è un'opera mondo dopo la fine della mondo cioè dopo il disastro. Per Franco Moretti - italianista fratello di Nanni - «un'opera mondo» è la moderna versione dell'epica antica. Opere come il Faust, Moby Dick, L'anello del Nibelungo, Buvard e Pecuchet, Ulisse, i Cantos, La terra desolata, Gli ultimi giorni dell'umanità, L'uomo senza qualità, Cent'anni di solitudine. Sono romanzi, ma non solo. Quasi libri sacri, libri sapienziali, fondatori di civiltà, cattedrali.

Sono opere aperte e universali, scritte non per un individuo, ma per un'intera società, totalitarie, ma non reazionarie: «culturalmente impure», «transnazionali», indulgenti verso il consumo, innamorate delle bizzarrie e degli esperimenti. Lost è un'opera mondo perduto e ritrovato. Forma vivissima d'epica postmoderna. Il tempo è quello del dopostoria di Pasolini, gli stili si mescolano, le finzioni e le digressioni regnano sovrane.

Siamo giunti alla quinta serie di Lost (in onda su Fox). L'anno prossimo dovrebbe esserci l'ultima. Il finale, assicurano gli sceneggiatori, c'è già. Doveva durare meno, ma il successo planetario ha spinto i produttori ad allungare il brodo, primordiale, di questa serie. Ogni stagione presenta un tratto particolare: dalla sopravvivenza pura, alla scoperta degli Altri come Noi, la preistoria dell'isola, il futuro fuori dall'isola. Il tempo collassa, il senso si moltiplica.

Come viaggiatori del tempo, gli spettatori, così come il personaggio Desmond, imprigionato tra ricordi e profezie, rischiano di fondersi il cervello. Lost non è consolatorio, è piuttosto una divagazione, una erranza tra la vita e la morte. Una partita a scacchi con la morte, come nel Settimo sigillo.

Ma la scacchiera di Lost non è quadrata, non è regolare, complanare, ma si espande, supera le 8 caselle per lato. In questo gioco degli scacchi, ogni pezzo fabbrica la sua casella, inventa le sue mosse. Dietro, infatti, ci sono decine di sceneggiatori falegnami. Un plotone di inventori di storie che lanciano la serie televisiva nell'orbita delle grandi narrazioni occidentali.

La serie televisiva americana che sta spopolando in mezzo mondo è nata tra mille traversie di produzione. Lanciata in grande stile perché si era già investito troppo con la puntata pilota. Sulle spiagge americane arrivarono migliaia di bottiglie con dentro i messaggi dei naufraghi dell'aria, i sopravvissuti, forse, al disastro del volo 815 dell'Oceanis.

I loro nomi sono Jack, John Locke, Sawyer, Benjamin e così via. Nomi che parlano, nomi di filosofi che, però, si danno immediatamente anche per sviare. Per significare altro. I nomi ingannano o fanno finta di ingannare. Si fanno scoprire per celarsi meglio. Il medico non sa curare se stesso, il pragmatico col nome del filosofo inglese diventa mistico, Sawyer è un delinquente in cui si cela un bambino dall'infanzia assai difficile.

Sayd Jarrah è un torturatore iracheno, ma non è un personaggio negativo. Pronunciato come Said, ricorda, anche di viso, l'autore di Orientalismi, mentre il cognome è lo stesso di uno degli attentatori dell'11 settembre, Ryad Jarrah. Vale la lezione della lettera rubata di Poe, che nessuno trova perché sotto gli occhi di tutti. Il miglior modo per nascondere è ostentare, dissimulando.

 Luca Mastrantonio per "Il Riformista"
 
[08-07-2009]

 

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