Quando c'è la sceneggiatura, e prima ancora la voglia di raccontare una storia, la differenza salta subito agli occhi, non c'è niente da fare. Ci riesce benissimo Gianni Di Gregorio, erede di Monicelli e Scola. Ci sono migliaia di film che avrei potuto scegliere per questo focus: grandi classici, immortali capolavori. Devo dire che mi sarebbe convenuto: salire sulle spalle dei giganti, anche se sei un hobbit, ti rende comunque imponente.
Tuttavia, siccome sempre di scrittura filmica parliamo, devo confessarvi che l’autore che mi ha colpito di più in questi anni, proprio per la sua scrittura, è un italiano, alla faccia di chi dice che non sopporto gli autori italiani. E’ vero, li sopporto poco, in generale.
Non mi piace l’uso della citazione così vicina al plagio, la mancanza di idee e il conseguente, regolare ricorso ai luoghi comuni, sociali, culturali e televisivi. E soprattutto detesto la scrittura raffazzonata.
Il cinema è narrazione, anche più rigorosa della scrittura in senso stretto. A meno che tu non sia un visionario del cinema, un talento naturale, la sceneggiatura scritta bene si vede eccome. E quando c’è la sceneggiatura, e prima ancora la voglia di raccontare una storia, la differenza col cialtroncello salta subito agli occhi, non c’è niente da fare.
Tra le cose più difficili da fare, secondo me, è raccontare una intera città, cosa che è riuscita, almeno in Italia, a pochissimi grandi maestri. E poi, a Gianni Di Gregorio. Confesso che quando ho visto per la prima volta il suo "Pranzo di ferragosto" ero parecchio scettico: ma parecchio assai. Io ho una regola precisa, che mi ha sempre dato gradi soddisfazioni: se una cosa piace a un cretino, sarà di certo una cretinata. Credetemi, funziona sempre. O meglio, quasi sempre, perché il primo film di Di Gregorio, pur consigliatomi da parecchi cretini, mi ha letteralmente fulminato. Ho anche capito perché era piaciuto tanto ai fessacchiotti: la storia delle vecchiette è accattivante, simpatica, divertente. Le attrici sono brave, fresche spontanee, e poi, si sa, le vecchiearelle sono come i bambini, fanno sempre tanta tenerezza. La storia sembra così lieve, così impalpabile, che quasi non c’è. Gianni vive con la madre; i soldi sono pochi, i debiti tanti. Accetta, per Ferragosto, di prendersi in casa un po’ di vecchie per saldare alcuni di questi debiti e tirar su due euro. Fine della storia. Ora, perché parliamo di scrittura? Perché, e qui viene il bello, come la rendi, una storia così, se non la sai scrivere? Qui, signori miei, interviene la scrittura, per l’orrore dei malati di sinossi, di quelli che vogliono leggere tutto in un massimo di sei righe.
Scrivere non vuol dire saper riassumere: scrivere significa scrivere, e Di Gregorio ci fornisce una prova magistrale di scrittura.
Prendete la scena in cui lui va, in una caldissima mattina d’Agosto, dal vinaio di via della Scala (sì, è proprio quella).
Gianni: Ciao. Allora damme..un bel bianchetto.
Vinaio: Un bianchetto.
Gianni: Sì. Un bel bianchetto…
Il vinaio gli versa un calice, Gianni guarda il bicchiere e fa:
– Che m’hai dato?
– Una Ribolla Gialla.
– Ammazza, bravo.
Gianni beve.
Ora, scritta così non rende (ed è scritta benissimo, sia chiaro), ma se la guardate nel film è di una semplicità totale, assoluta, come soltanto le cose che vediamo e facciamo tutti i giorni sanno essere.
E’ il contrario delle tarantinate di cui abbiamo parlato spesso, pur ammirando Tarantino, per carità.
Ma una cosa è stupire con continui colpi di scena e un’altra è lasciarti a bocca aperta con un una scena come quella del vinaio. Questo era il mestiere dei nostri grandi: degli Zampa, gli Scola, dei Monicelli, per intenderci, ed è un mestiere in cui non puoi barare, un mestiere che se non lo sai fare la gente se ne accorge.
O ancora, pensate alla scena in cui, dovendo trovare del pesce fresco per preparare il famoso pranzo di ferragosto, Gianni si fa accompagnare dal suo amico Vichingo in motorino al vicino Lungotevere de’ Cenci, di fronte all’Isola Tiberina, dove comprano dei cefaletti appena pescati nele Tevere (nel Tevere, che è più o meno come dire nel Mekong) dagli extracomunitari incuranti di sorci e malattie. Per chi frequenta, almeno un po’, Roma, sa che questa città, vista da chi viaggia in tram, è così, è esattamente così, e che le passeggiate notturne per le vie del centro (insolitamente pulito) sono per chi la mattina ncià ‘ncazzo da fà, come dicono prosaicamente gli indigeni.
Roma è un’altra cosa, e Gianni Di Gregorio la conosce e la racconta da vero maestro, con intelligenza, amore e soprattutto umiltà. Come nel suo secondo film, Gianni e le donne, nel quale intrepreta un sessantenne messo forzatamente in pensione che prova, nonostante moglie e figlia, a riaffacciarsi sul mercato sentimentale.
Anche qui, delle chicche a dir poco spettacolari nella loro secchezza e brevità e che, però descrivono un mondo intero.
Gianni è in auto col suo amico Alfonso, che non si rassegna all’età che avanza e insiste nel fare il gagà con le ragazze. Dopo una lunga discussione sull’atteggiamento troppo casa e famiglia di Gianni, Alfonso gli passa il suo cellulare e gli intima:
-Leggi.
Passano cinque secondi che Gianni impiega per trovare gli occhiali da vicino (senectus ipsa morbus, diceva sempre mio nonno quando lo faceva), inforcarli, e leggere ad alta voce l’sms sul cellulare dell’amico:
– Ti penso.
Pausa.
– Chi te pensa, Alfo’?
Ora, chi ha appena il minimo sindacale di dimestichezza con il romanesco (e intendo tutta l’Italia, se ci arrivo io che sono nato a Napoli e cresciuto a Salerno) si accorge subito di quanto infinito scetticismo ci sia in questa frase, anche pronunciata così. Di sfuggita, in macchina. Ma Alfonso niente, continua a comportarsi da perfetto pappagallo, continua a istigare Gianni: la vita sentimentale non è ancora finita, siamo ancora giovani, possiamo ancora essere felici, provare le emozioni dei vent’anni. Una mattina lo attira a tradimento nel suo studio di avvocato e gli presenta due ragazze, due clienti. Preso dal vortice del pappagallismo italico comincia a sparare palle su palle.
Prima le invita a pranzo fuori, poi, mentre le signore sono a rinfrescarsi alla toilette, Gianni e Alfonso si esibiscono nell’ardua impresa della lettura del conto: inutile dire che nessuno dei due ha gli occhiali da vicino, e dovranno sforzarsi un bel po’ per capire che il pranzetto gli è appena costato 280 euro.
Gianni: 280! Ammazza…
Alfonso: Si vive una volta sola!
Gianni: Eh.
Alfonso: Senti, ti lascio scegliere. Chi scegli tra le due, tu?
Gianni: Ma so’ uguali!
Alfonso: Eh.
Gianni: Eh.
E secondo me in quel secco ma so’ uguali! c’è la bravura dell’autore e del regista: la distanza, appunto, tra Gianni e le donne non è in termini di anni, ma in termini di mondi. Gianni appartiene per sempre a un mondo in cui le donne non sono uguali: in questo mondo, invece, succede spesso. Gianni non è vecchio, è altro, è alieno.
Questo mischiare le carte, questo saltare a pie’ pari il luogo comune dell’uomo che non si rassegna alla mezza età, è proprio della grande scrittura e del grande cinema. Che, per nostra fortuna, può contare su un fuoriclasse come Gianni Di Gregorio.
di Amleto de Silva da ilmiolibro.kataweb.it