I. LO SPETTACOLO CINEMATOGRAFICO

«La cinepresa è diventata mobile come l’occhio umano, come l’occhio dello spettatore o come l’occhio dell’eroe del film». di Georges Sadoul

Cominciamo questo nostro tentativo di ripercorrere l’evoluzione del montaggio cinematografico, nell’epoca del cinema muto, partendo da una significativa affermazione apparsa sul quotidiano parigino La Poste de Paris nel 1896; a proposito del Cinematografo dei fratelli Lumière, l’articolo recensisce così la nascita del nuovo fenomeno spettacolare: «Poiché ora siamo in grado di fotografare i nostri cari, non soltanto immobili, ma anche mentre si muovono, ritraendoli così come essi si agiscono, compiono gesti a noi familiari e parlano, la morte cessa di essere assoluta». Un’affermazione di questo tipo indica almeno due questioni sulle quali vale la pena di soffermarsi. Innanzitutto il Cinematografo, che fu l’invenzione che meglio raccoglieva in sé almeno cinquant’anni di sperimentazioni e di ricerche attorno alla fotografia e alla cronofotografia, fu da subito considerato – prima di divenire un linguaggio, un’arte, un mezzo espressivo – un’attrazione spettacolare che si confondeva, convivendoci, con altre attrazioni dello stesso genere; in secondo luogo, il fenomeno cinematografico fu visto ed apprezzato soprattutto per la sua straordinaria capacità di riprodurre la realtà fenomenica: osservare sullo schermo gli operai che uscivano dalle officine Lumière, oppure un bambino mentre fa colazione, era già di per sé uno spettacolo unico ed imprevedibile, che non richiedeva nessun altro tipo di ingrediente “spettacolare” per essere fruito da un pubblico entusiasta. Era dunque il “realismo” della rappresentazione che colpiva il pubblico meravigliato, era la “verità” delle persone e degli oggetti che costituivano il fascino e la novità del mezzo cinematografico.
Quindi il cinema fu considerato, fin dalle sue origini, un mezzo spettacolare per riprodurre la realtà fenomenica in modo assolutamente oggettivo; il cinema doveva soprattutto fornire informazioni, illustrare la realtà quotidiana, riprendere i soggetti così come essi si presentano dinanzi ai nostri occhi. Ecco che allora tutto ciò che si può definire “quotidiano” – dalle persone che si muovono ai monumenti della città, dai paesaggi più favolosi alle usanze popolari più diffuse – diveniva un utile soggetto per una produzione documentaristica assai efficace. Quindi il cinema, all’inizio, fu inteso soprattutto come un mezzo per riprodurre in modo instancabile la realtà quotidiana; e non solo dal pubblico di allora, ma anche dagli stessi Lumière, che consideravano il Cinematografo un’invenzione redditizia senza futuro.
Tuttavia un segnale minimo dell’evoluzione del linguaggio cinematografico (ma non ancora del montaggio) possiamo rintracciarlo anche in un piccolissimo film dei fratelli Lumière: L’innaffiatore innaffiato è da molti considerato il primo film narrativo della storia del cinema, nonché il primo film comico. Infatti, pur ricalcando la struttura dei precedenti film, basati su di un’unica inquadratura di circa un minuto (il tempo massimo consentito dalla durata di un caricatore), questo film presenta già quello schema base di equilibrio – squilibrio – riequilibrio (formulato da André Gardies) che ritroveremo in tutti i successivi film narrativi.
Tuttavia il cinema dei fratelli Lumière, per la sua stessa volontà di riprodurre il reale senza nessun artificio, va messo da parte in uno studio sull’evoluzione del montaggio cinematografico; purtroppo essi non seppero intuire le grandi potenzialità espressive del mezzo, pertanto spetterà ad altri il compito di teorizzare e di mettere in pratica quei primi procedimenti che porteranno alla nascita vera e propria del montaggio cinematografico come noi lo intendiamo.
Nonostante Edgar Morin affermi più volte che con Georges Méliès si ha il passaggio dal Cinematografo al Cinema (espressione che indica la conquista di un linguaggio da parte del cinema), i molti studi di Antonio Costa dimostrano come anche i film di Méliès – soprattutto i suoi primissimi lavori – vadano inseriti nella sfera del pre-cinema, ovvero prima di tutta quella serie di processi che, da Edwin S. Porter in poi, porteranno alla nascita del nuovo linguaggio e delle nuove pratiche di produzione narrativa, tra le quali il montaggio. Infatti, secondo Costa, non è importante saper distinguere l’opera di Lumière da quella di Méliès, magari fino a renderle incompatibili; l’importante, semmai, è comprendere che sia la riproduzione di un evento reale in un film di Lumière (L’arrivo del treno alla stazione), sia la simulazione di un evento in un film di Méliès (Il viaggio sulla Luna), sono due momenti di un unico processo che porterà il cinema ad essere un qualcosa che, come dice Baudrillard, è sempre e comunque già riprodotto, iperreale.
Tuttavia è innegabile che le féeries in miniatura di Georges Méliès si differenzino nettamente dai mini film dei fratelli Lumière: se Méliès non seppe costruire una vera e propria grammatica cinematografica (anzi, una delle cause principali del precipitoso declino della sua arte fu proprio la sua incapacità di adattarsi all’evoluzione del linguaggio cinematografico), è anche vero però che seppe organizzare in modo innovativo lo spazio ed il tempo del racconto. Con uno sforzo possiamo allora individuare, in alcuni dei film più famosi del mago di Montreuil (tra i quali Il viaggio sulla luna, I quattrocento scherzi del diavolo, Alla conquista del Polo, Viaggio attraverso l’impossibile), un primissimo passo dell’evoluzione del montaggio cinematografico nella sua componente essenziale: la successione delle inquadrature. Infatti questi piccoli film, la cui durata difficilmente supera i dieci minuti, presentano una significativa scelta di cambiare l’ambiente in cui si svolge l’azione; si verifica così un’importante volontà di ampliare lo spazio narrativo del film, seppur nei limiti piuttosto evidenti di un montaggio che unisce semplicemente queste diverse scene-inquadrature.
Le novità fondamentali, anche per quanto riguarda alcune forme di punteggiatura e di montaggio presenti nel linguaggio cinematografico vero e proprio, Méliès le apporta attraverso il suo straordinario lavoro sugli “effetti illusionistici”: da questo punto di vista possiamo dire che Méliès inventa tutto, ma proprio tutto, ciò che appare fondamentale per la grande stagione del cinema muto (dalle dissolvenze in apertura ed in chiusura alle dissolvenze incrociate, dalle tendine ai mascherini fino alle tecniche di sovraimpressione). Naturalmente questi sono solo alcuni degli elementi che interverranno nel montaggio di un film vero e proprio, tuttavia essi saranno fondamentali per lo sviluppo di alcune fra le più diffuse forme di punteggiatura di tutto il cinema successivo.
Dunque, ricapitolando, i primissimi film della storia del cinema (sia quelli di Lumière che quelli di Méliès, ma anche quelli di alcuni loro instancabili imitatori, come Ferdinand Zecca) erano perlopiù costituiti da un’unica inquadratura, un solo campo medio di circa un minuto, dove la macchina da presa non veniva né mossa né spostata, limitandosi a riprendere la scena in modo teatrale. Siamo dunque al grado “zero” del montaggio cinematografico. Di montaggio vero e proprio non si può parlare neanche a proposito di quei film di maggiore durata, che – come abbiamo visto – sono costituiti da più scene girate ognuna come se fosse una singola inquadratura e poi “attaccate” l’una all’altra in successione.
Gli storici del cinema sono abbastanza d’accordo nell’attribuire alla scuola inglese (nota come Scuola di Brighton) i primi significativi passi in avanti nell’ambito dell’evoluzione del montaggio; spetta soprattutto a George A. Smith, regista inglese attivo a cavallo tra i due secoli, introdurre l’utilizzo del primo piano in modo da modificare il punto di vista dello spettatore. Come vedremo, il primo piano sarà uno degli elementi fondamentali della grammatica cinematografica, tuttavia non sempre in passato fu utilizzato per scopi narrativi ben precisi (come nel caso de La grande rapina al treno di Edwin S. Porter – su cui torneremo – dove il primo piano del bandito che spara verso il pubblico poteva essere collocato indifferentemente all’inizio o alla fine del film).
Nel film del 1903 L’incidente di Mary Jane, invece, Smith utilizza il primo piano in modo da ottenere una maggiore descrizione delle azioni ed una maggiore efficacia drammatica. Nel film vediamo una maldestra casalinga, ripresa in campo medio, alle prese con una serie di operazioni domestiche; nel corso di queste azioni, Smith passa dal campo medio a piani più ravvicinati, modificando all’improvviso il punto di vista dello spettatore (ed incrementando, come dice Jurgenson, l’efficienza drammatica o comica della situazione). Pur non esistendo ancora una precisa scala dei campi e dei piani, i registi della Scuola inglese intuiscono le possibilità espressive offerte dal semplice spostamento della macchina da presa durante lo svolgersi dell’azione. Del resto il già citato montatore Jurgenson afferma, nella sua fondamentale opera Pratica del montaggio, che la nascita del montaggio cinematografico avviene nel momento in cui si è pensato di modificare il punto di vista della macchina da presa nel corso della stessa scena; di modificare cioè la sua posizione con lo scopo di descrivere al meglio l’azione o con lo scopo di avere una migliore costruzione drammatica.
Insomma, se non nasce ancora il vero e proprio montaggio cinematografico, nasce però la consapevolezza che il cinema ha qualcosa in più da offrire che la semplice ripresa di un’azione nel suo insieme. È attraverso la sperimentazione, soprattutto in Europa, che si muovono i primi passi dell’evoluzione del montaggio, ma è altrettanto vero che la professione del montatore nasce nel continente solamente verso il 1917; dunque il montaggio non è ancora una pratica ben chiara e definita, per questo il testimone della sua evoluzione passa dalle mani degli inglesi a quelle degli americani. Negli Stati Uniti, già a partire dal 1913, il ruolo del montatore cinematografico è riconosciuto al pari degli altri ruoli.

II. LA NASCITA DEL MONTAGGIO

«La questione di fondo era e rimane tutt’oggi il fatto che il giuntaggio di due riprese non rappresenta semplicemente il collegamento di due spezzoni di pellicola, ma un’autentica creazione».
di Sergej M. Ejzenštejn

Nel cosiddetto periodo di transizione fra quello primitivo (1902-1908) e quello classico (1925-1955), quindi fra il 1909 ed il 1924, il cinema americano inizia a dare corpo non solo al proprio sistema produttivo ma anche ai suoi modelli di narrazione e di montaggio. I tagli all’interno delle scene, che vengono così frammentate in diverse inquadrature, aumentano in larga misura. Nel 1915 la durata dei film arriva a settantacinque minuti; dal 1917 in poi le inquadrature vengono effettuate da diverse angolazioni, il campo medio non è considerato più importante degli altri, e si hanno in un unico film più di mille fra campi e piani.
Impossibile, per un discorso rapido ma preciso, non parlare di un regista ritenuto dalla storiografia cinematografica molto importante nell’evoluzione del montaggio cinematografico: si tratta di Edwin S. Porter, forse il più instancabile imitatore di Georges Méliès, che seppe però andare ben oltre il cinema limitato del mago francese. Infatti il merito principale di Porter sta nella sua capacità di non essersi fermato alla semplice documentazione passiva dell’avvenimento.
Con Porter si ha il primo esempio concreto di cinema narrativo: gli storici identificano questo momento della storia del cinema con il film La vita di un pompiere americano, che Porter realizza nel 1902. Porter, che copiando Méliès aveva acquisito una notevole padronanza del mezzo cinematografico, realizza questo film lontano da ogni intento meramente documentaristico, optando per un film di finzione con sviluppi drammatici e narrativi. Infatti la grande innovazione apportata da Porter, nel descrivere un normale intervento dei pompieri, sta nell’aver inserito queste immagini documentaristiche all’interno di una “storia” (quella di una madre e di un bambino che, avvolti dalle fiamme, saranno salvati dopo una scena di forte impatto drammatico).
L’alternanza della scene tra realtà e finzione, in interni e in esterni, l’inserimento di qualche piano ravvicinato (come quello della sirena dei pompieri), ed un montaggio molto semplice ma efficace, fanno di questo piccolo film una tappa importante nell’evoluzione del montaggio cinematografico. Certo, non siamo ancora all’utilizzo delle inquadrature in funzione narrativa (poiché anche Porter si rifugia perlopiù nell’utilizzo di campi medi in modo da riprendere l’azione sempre da una certa distanza), tuttavia si hanno già i primi significativi segnali di un cinema che mira – in quanto mezzo sostanzialmente dipendente dalle altre arti – ad ottenere un’identità propria.
Un discorso diverso va fatto per il successivo film di Porter, La grande rapina al treno (1903), in cui il regista abbandona ogni intento documentaristico a favore di una maggior attenzione alle nuove regole del romanzo cinematografico. Anche in questo breve film si parte da un fatto di cronaca quotidiana – la rapina al treno ad opera di alcuni banditi – per colpire la sensibilità dello spettatore più che per descrivere semplicemente una serie di fatti oggettivi. Porter, anche in questo film, non usa angolazioni particolari della macchina da presa, né utilizza un’alternanza significativa fra campi e piani; occorre però soffermarsi su un particolare sicuramente non trascurabile: il primo piano del bandito che spara in direzione del pubblico a conclusione del film.
Nonostante in passato si sia cercato di attribuire una funzione narrativa a questa inquadratura, la lettura del catalogo della Edison riporta una brillante illuminazione: «Scena 14: un primo piano di Barnes che guarda e spara sul pubblico. L’impressione è notevole. Questa scena può essere messa all’inizio o alla fine del film». Ciò significa che la drammaticità dell’immagine ingrandita del fuorilegge serviva, in prima istanza, ad ottenere un effetto drammatico sullo spettatore che lo predisponesse alla visione, oppure che lasciasse in lui una particolare impressione dopo la visione del film. Quindi l’utilizzo del primo piano non avviene ancora in funzione della narrazione; si tratta però di un’attesa piuttosto breve, perché di lì a poco il montaggio raggiungerà la prima tappa della sua piena maturità. L’esame dell’opera di un autore come David W. Griffith ci permetterà, in questo nostro rapido exploit, di comprendere uno dei punti d’arrivo dell’evoluzione del montaggio cinematografico.
Il fatto che gli storici e gli studiosi del cinema stravedano per l’opera di David W. Griffith non ci sorprende affatto; di lui si è detto moltissimo nel corso degli ultimi ottant’anni: regista di grande talento, grande direttore di attori, straordinario inventore del montaggio narrativo. Insomma, i film di Griffith sono considerati i primi veri capitoli d’una storia del cinema come arte. Naturalmente ciò che a noi interessa di più sono le fondamentali novità che Griffith apporta al linguaggio cinematografico attraverso la pratica del montaggio.
Partiamo dalla considerazione fatta da Karel Reisz e Gavin Millar sulle pagine del loro indispensabile manuale La tecnica del montaggio cinematografico: Edwin S. Porter, modificando il metodo della continuità dell’azione, mostrò la via per sviluppare la narrazione con il mezzo filmico; egli aveva limitate possibilità di controllo delle inquadrature, e gli avvenimenti venivano ripresi in modo non selettivo da una distanza sempre fissa. La scoperta essenziale di Griffith è stata quella di comprendere la necessità di spezzare la scena in diverse inquadrature incomplete, scelte e poi ordinate esclusivamente in funzione drammatica. Diciamo allora che, mentre la cinepresa di Porter riprendeva la scena sempre in totale o in campo medio, Griffith dimostrò che la macchina da presa poteva avere un ruolo attivo nella narrazione. Frantumando l’avvenimento in diverse angolazioni, ognuna capace di riprendere l’azione dalla posizione più adatta, si poteva modificare anche l’importanza di ogni singola inquadratura.
Questa, in breve, la scoperta essenziale di Griffith. Ma restiamo ancora sul manuale di Reisz e Millar per approfondire un po’ i diversi passaggi: in un film fondamentale come La nascita di una nazione, realizzato nel 1914, Griffith raggiunge oramai la sua piena maturità espressiva, anche dal punto di vista del montaggio. Il film narra una vicenda che, realizzata da Porter, si sarebbe risolta in una dozzina di inquadrature: il presidente Lincoln viene ucciso a teatro mentre la sua guardia del corpo si è allontanata irresponsabilmente. Ma a Griffith non interessa la semplice riproduzione del fatto, egli costruisce la sua storia attorno a tutti i personaggi che compongono il film; quando, allora, il montaggio diviene alternato (ed anche parallelo), saltando dalla vicenda di un personaggio a quella di un altro personaggio, il principio di continuità introdotto da Porter non viene tradito, poiché noi spettatori sappiamo benissimo che tutti i personaggi sono contemporaneamente presenti nella medesima scena.
Tuttavia i motivi per cui, sia Porter che Griffith, frantumano la scena in diverse inquadrature sono molto diversi, e questa differenza assume un rilievo principale: mentre Porter staccava da un’immagine all’altra per motivi fisici (per esempio non era possibile mostrare tutti gli avvenimenti nella medesima inquadratura), Griffith non permette mai all’azione di proseguire ininterrotta: egli cambia il punto di vista dell’azione non per ragioni pratiche, bensì per ragioni drammatiche. Lo fa perché vuole mostrare allo spettatore un particolare che, in quel determinato momento dell’azione, ha un significato rilevante nell’intreccio drammatico. In questo modo il regista ha più possibilità di orientare le reazioni degli spettatori, in quanto egli sceglie ciò che in quella particolare circostanza vuole che lo spettatore veda.
L’altro grande merito che va riconosciuto a Griffith è quello di aver introdotto l’utilizzo del primo piano in funzione esclusivamente narrativa. Egli comprese fin da subito le potenzialità offerte dalla possibilità di avvicinare la macchina da presa al viso dell’attore, cogliendone la sofferenza, le emozioni, le reazioni ad un preciso evento; sarebbe tuttavia inutile ridurre ad un solo esempio l’uso che Griffith fa dei primi piani: basti pensare che il primo piano è forse una delle inquadrature fondamentali di tutto il cinema successivo, e che fu Griffith il primo ad intuirne un utilizzo in funzione drammatica. 

Siamo allora giunti ad individuare la prima tappa fondamentale del montaggio cinematografico nella storia della sua evoluzione. Finalmente il montaggio è una pratica riconosciuta e, da questo momento in poi, verrà considerato l’elemento specifico del linguaggio cinematografico, la sua quintessenza. Non si tratta solo di un momento che definisce una volta per tutte come il cinema sia sostanzialmente un’arte indipendente dalle altre, ma di un vero e proprio punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo dell’arte cinematografica.
Con Griffith, ed in parte anche con le esperienze dei primi pionieri, il montaggio cinematografico assume le fattezze che oggi noi conosciamo bene. Siamo ancora lontani dalle diverse forme di montaggio (che si configureranno di lì a poco soprattutto grazie all’intervento dei cosiddetti “formalisti” russi), ma anche dal raffinato e scrupoloso montaggio invisibile imposto, attraverso il découpage classico, dal nascente impero hollywoodiano. Tuttavia esiste già ogni elemento costitutivo del montaggio che appare indispensabile per un film narrativo: la scala dei campi e dei piani, le dissolvenze al nero ed incrociate, il flashback e le ellissi. A questo punto, allora, possiamo approfondire che cos’è il montaggio cinematografico alla luce di quanto detto, cercando soprattutto di coglierne gli aspetti fondamentali del suo essere “meccanismo per produrre senso”.
Tecnicamente parlando, il montaggio è quell’operazione che consiste nell’unire la fine di un’inquadratura con l’inizio della successiva; se per il montatore questa operazione può essere considerata il momento in cui si costruisce il senso del film, per lo spettatore essa si traduce in quello che possiamo definire l’effetto montaggio, ovvero il passaggio da un’immagine A ad un’immagine B. Montare un film, allora, significa innanzitutto mettere in relazione due o più elementi fra loro (funzione connettiva), sia sul piano diegetico (il personaggio dell’inquadratura A con quello dell’inquadratura B), sia su quello discorsivo (l’angolazione dall’alto nell’inquadratura A e quella dal basso nell’inquadratura B), sia infine sul piano diegetico-discorsivo (Il personaggio ripresa dall’alto in A con quello ripreso dal basso in B). Dunque unire due inquadrature tra loro è molto di più di un semplice fatto tecnico: questa operazione può avere diverse funzioni narrative, semantiche o estetiche.
Nel corso della sua evoluzione il linguaggio cinematografico ha imparato, attraverso il montaggio, a scomporre lo spazio diegetico in diverse unità capaci di evidenziare i momenti essenziali nello sviluppo del racconto; un discorso analogo può essere fatto anche per l’asse temporale: il montaggio, allora, assume anche il compito di selezionare quei momenti della narrazione che sono più importanti di altri, e di confinare questi ultimi nel vuoto delle ellissi. Dunque il montaggio diviene lo strumento attraverso il quale l’istanza narrante seleziona il punto di vista attraverso il quale osservare l’evento, ma anche lo strumento con il quale essa costruisce il proprio racconto. Vediamo meglio questi due aspetti, ovvero come il montaggio organizza lo spazio ed il tempo del racconto.
Facendo riferimento al Manuale del Film di Gianni Rondolino e Dario Tomasi, è possibile comprendere facilmente questa duplice funzione del montaggio cinematografico: per quanto riguarda lo spazio, attraverso il montaggio il cinema trasforma lo spazio diegetico in uno spazio filmico; esiste quindi un ambiente (spazio diegetico) ed una rappresentazione di questo ambiente attraverso una successione di diverse inquadrature scelte e organizzate dall’istanza narrante (spazio filmico). Esistono due modi per dare vita ad una rappresentazione filmica di uno spazio diegetico: la prima si ha quando ad un piano d’insieme dell’ambiente (campo medio o totale) seguono diverse inquadrature che lo scompongono in tanti frammenti comunque presenti nel piano d’insieme; la seconda, invece, si ha quando lo spazio d’insieme viene costruito attraverso diverse inquadrature parziali che non ci mostrano mai lo spazio diegetico nella sua globalità. Nel primo caso il montaggio scompone un qualcosa di intero, nel secondo caso costruisce quel qualcosa.
Se si è insistito molto su questa componente fondamentale del montaggio cinematografico lo si è fatto perché questo gioco di segmentazione dello spazio – da cui deriva l’espressione découpage tecnico (si tratta dell’ultima fase letteraria prima dell’inizio delle riprese, ovvero di una sceneggiatura “tecnica” sulla quale il regista appunta tutte le inquadrature, indicate da un numero progressivo, nonché i suoni ed i rumori che comporranno ogni singola scena) – è praticamente assente nel cinema primitivo. Si tratta quindi di un momento chiave nell’evoluzione del montaggio, anche se occorre ancora soffermarsi sulla seconda questione: quella del tempo filmico.
Per quanto riguarda il tempo, il montaggio è il mezzo che, innanzitutto, decide la durata di ogni singolo campo e piano; attraverso questa operazione, il regista impone allo spettatore un tempo preciso per “leggere” una determinata inquadratura. Esiste un criterio generale per definire la durata delle inquadrature: poiché un campo lungo contiene molte più informazioni di un primo piano, la regola base è che il primo duri di più del secondo; naturalmente però si tratta di un’affermazione un po’ approssimativa, visto che spesso interviene la soggettività dell’autore che può modificare in modo anche sostanziale la durata delle singole inquadrature.
La questione del rapporto fra il tempo ed il montaggio si estende poi dal livello dell’inquadratura al livello del film nelle sue complesse articolazioni. Il montaggio è lo strumento che permette di stabilire il rapporto fra l’ordine degli eventi previsto dalla fabula e l’ordine degli eventi previsto dall’intreccio. Come sappiamo, l’esposizione degli eventi non deve necessariamente seguire l’ordine cronologico degli stessi, in quanto è possibile ottenere degli effetti assolutamente efficaci attraverso una narrazione ad incastro. Il montaggio permette questo tipo di narrazione grazie all’utilizzo, appunto, di espedienti come le ellissi, il flashback ed il flashforward.
Giunti a questo punto del nostro percorso è possibile mettere un po’ d’ordine fra i dati finora accumulati; cerchiamo di trarre delle conclusioni dopo questa breve analisi dell’evoluzione del montaggio nei primi vent’anni della sua storia. La prima cosa che appare evidente, dopo aver sottolineato l’importanza di registi come Porter e Griffith nell’affermarsi del montaggio narrativo, è che ci sono alcune forme di montaggio finalmente ben definite. Certo ancora dobbiamo arrivare al momento forse più importante di questo discorso sul montaggio nel cinema muto (ovvero la “rivoluzione” dei maestri russi), tuttavia mi pare di poter dire che ci sono già dei modelli di montaggio ben definiti sui quali occorre soffermarsi.
La convinzione che il montaggio sia una delle fasi più importanti e delicate nella realizzazione di un film ha portato alcuni studiosi a teorizzare alcune forme di montaggio ben precise che è possibile rintracciare già negli anni che a noi interessano. La prima di queste forme di montaggio, che è possibile delineare soprattutto grazie a Griffith, è il montaggio alternato: questo sintagma alterna le inquadrature di due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi ma, molto spesso, simultaneamente. Dal punto di vista narrativo, il montaggio alternato permette all’istanza narrante di mostrare allo spettatore due o più eventi che accadono contemporaneamente ed in diversi luoghi, conferendogli più informazioni di quelle che gli stessi personaggi hanno.
Il secondo “tipo” di montaggio che possiamo prendere in considerazione è il montaggio ellittico: nel cinema le ellissi sono fondamentali, poiché – a meno che non si voglia riprodurre un evento in tempo reale – le storie che si raccontano difficilmente rientrerebbero in un massimo di due o tre ore di proiezione. Il montaggio ellittico è allora un montaggio di contrazione temporale che omette il superfluo oppure ciò che non si vuole mostrare allo spettatore; l’ellisse può manifestarsi sotto diverse forme, come alcuni tipi di punteggiatura molto utilizzati nel cinema muto (fondù in chiusura o in apertura, tendine, iris ecc.).
Dunque queste due tipologie di montaggio possono essere considerate un po’ il punto di arrivo di tutte le attività pionieristiche fin qui trattate, ad eccezione degli straordinari risultati raggiunti da David W. Griffith. Il cinema acquisisce coscienza di sé e dei propri mezzi proprio grazie alle possibilità che gli offre il montaggio. Se oggi ci sono altre forme di spettacolo e di intrattenimento che lo utilizzano a loro volta (video-clip, video games, computer grafica), ai tempi del cinema muto il montaggio era un procedimento che riguardava solo il cinema e che, quindi, lo differenziava nettamente dalle altre arti.
Tuttavia, dagli anni venti agli anni trenta, il montaggio sarà più che mai oggetto d’analisi teorica e di sperimentazione empirica. Dobbiamo ora esaminare tutte le altre forme di montaggio che, prima dell’avvento del sonoro (che, come si sa, modificherà in modo significativo i metodi di produzione e di fruizione del film), influenzeranno decisivamente gli ultimi dieci anni di vita del grande cinema muto. Se è vero che le teorie elaborate in questa direzione andranno incontro ad un rapido declino nel momento stesso in cui il film rivede il suo statuto grazie all’avvento del sonoro, è anche vero che parecchie di queste tipologie di montaggio (specie il lavoro teorico/pratico di Ejzenštejn) influenzeranno notevolmente il montaggio cinematografico nell’era del “post découpage classico”.

III. 1923-1930: FORME, FUNZIONI E IDEOLOGIE DEL MONTAGGIO

«Ancora un volta ripeto che il montaggio è la forza creativa della realtà filmica e che la natura fornisce solo la materia prima sulla quale essa agisce. Questa è esattamente la relazione esistente tra il montaggio e il film».
di Vsevolod Pudovkin

Abbiamo visto come il montaggio sia una pratica, ed una tecnica, oramai largamente diffusa fra i cineasti del cinema muto. Prima di iniziare il discorso sui contributi del cinema sovietico al montaggio cinematografico, occorre precisare che nel frattempo la produzione di film continua a definire un po’ in tutto il mondo diversi modi di intendere l’arte cinematografica. Infatti ogni paese, ed ogni regista, realizza un determinato numero di film a partire dal contesto artistico, culturale e sociale (ma anche economico) in cui la pratica cinematografica prende forma. Quindi avremo una quantità di film anche molto diversi tra loro, non solo sul piano dei temi e dei contenuti, ma anche su quello – in questa sede ben più importante – dell’utilizzo del mezzo espressivo, dei modi e delle forme con cui viene portata avanti la narrazione. Si pensi, per esempio, alle “modifiche” apportate dalle avanguardie storiche (come il surrealismo o l’espressionismo) al modo di concepire e di realizzare i film, che sicuramente risultava un prodotto ben diverso da quello di altre cinematografie minori.
Comunque, se noi preferiamo concentrare la nostra attenzione sulle avanguardie russe, e sulle personalità che in quegli anni si (pre)occupano di teorizzare le diverse forme di montaggio, è perché riteniamo che l’ultimo decennio del cinema muto sia profondamente influenzato da quel modo sostanzialmente nuovo di intendere il cinema, ed anche perché – come forse abbiamo già accennato nel precedente paragrafo – ancora oggi è possibile rintracciare il grande patrimonio teorico che i registi russi hanno lasciato in eredità al cinema moderno. 
Gli scritti teorici dei maestri russi appartengono a due scuole distinte: da un lato abbiamo le ricerche di Vsevolod Pudovkin e Lev Kulesov, riassunte successivamente nel libro di Pudovkin La settima arte; dall’altro gli scritti ostici e straordinariamente dettagliati di Sergej M. Ejzenštejn. Se a questi nomi aggiungiamo l’attività, soprattutto pratica, di un’altra personalità molto importante del cinema russo, Dziga Vertov, possiamo iniziare ad inquadrare meglio l’attività teorico/pratica svolta dai registi russi.
Innanzitutto va precisata una cosa molto importante: i maestri russi si preoccupano per primi di lanciare una vera e propria teoria del cinema, cosa che invece Griffith non aveva mai tentato di fare; in secondo luogo, vista la situazione generale del cinema sovietico nei primi venti anni di storia, appare evidente il loro bisogno di avviare un progetto ben preciso capace di favorire lo sviluppo concreto di una valida cinematografia nazionale. Completiamo il quadro aggiungendo che il mezzo cinematografico fu inteso, dai registi russi, come un mezzo fortemente rivoluzionario: non solo perché innovativo, ma soprattutto perché capace di diffondere gli ideali del socialismo.
Tutto comincia con i primi cinegiornali (Kinopravda) realizzati da Dziga Vertov all’inizio degli anni venti; si tratta di opere perlopiù dedicate alla propaganda e alla diffusione delle notizie di cronaca, eppure già in questi primi esperimenti il regista russo riesce a mettere in evidenza la sua volontà di coniugare la realtà quotidiana, colta nelle sue componenti naturali, ad un procedimento artificiale come il montaggio. L’interesse per la sua opera, e soprattutto per il suo film di montaggio L’uomo con la macchina da presa, sta proprio in questo rapporto tra la natura documentaristica del materiale girato (realizzato sempre lontano dai teatri di posa) e l’artificio del procedimento di organizzazione attraverso il montaggio. In questo caso, il montaggio delle immagini diviene addirittura centrale: Vertov si preoccupa non solo di mostrare le attuali potenzialità del mezzo cinematografico e del suo elemento specifico, ma anche di sperimentare diversi tipologie di organizzazione ritmica del materiale attraverso un montaggio che ancora oggi stupisce per l’efficacia. Possiamo allora considerare il suo film sopra citato, che tra le altre cose è completamente privo di didascalie, una sorta di saggio metacinematografico in cui  è il cinema stesso ad interrogarsi sul proprio linguaggio.
Tuttavia, soprattutto nei primi anni della loro attività, i maestri russi realizzano perlopiù dei contributi teorici di grande importanza, che – da un lato – mettono in evidenza la loro volontà di conoscere e padroneggiare il mezzo cinematografico, dall’altro giustificano il loro imminente debutto nella regia. Cercando di proseguire in modo lineare nel nostro discorso, è forse opportuno fare un passo indietro e tornare a quella distinzione iniziale fra due diverse “scuole” lungo le quali si sviluppa il cinema sovietico nel decennio che va dal 1920 al 1930. Come abbiamo già detto, troviamo da una parte l’attività di ricerca teorica capitanata da Lev Kulesov (e costantemente assistita dal lavoro teorico e pratico di Pudovkin), dall’altra parte l’attività straordinariamente proficua di Ejzenštejn. Cominciamo dagli importanti esperimenti svolti da Kulesov e Pudovkin in merito alla convinzione che il montaggio assume il compito, nella costruzione di un film, di produrre senso.
Nel già citato libro di Pudovkin La settima arte, egli ricorda come andò uno dei più significativi esperimenti svolti da Kulesov all’inizio della sua carriera: si trattò di scegliere alcuni primi piani di un celebre attore che fossero particolarmente statici e privi di ogni qualsivoglia sentimento; subito dopo si unirono questi primi piani, del tutto simili tra loro, con altrettanti spezzoni di pellicola in diverse combinazioni. Kulesov e Pudovkin ottennero così tre brevi filmati composti da due inquadrature ciascuno: nel primo caso la figura dell’attore era seguita dall’immagine di un piatto di minestra; nel secondo caso era seguita dal cadavere di una donna, e nel terzo caso il primo piano dell’attore era seguito da una bambina che giocava con un buffo orsacchiotto. L’esperimento prevedeva che questi tre brevi filmati venissero mostrati ad un pubblico inconsapevole. L’affermazione di Pudovkin sul risultato ottenuto appare addirittura sconvolgente: il pubblico era in delirio dinanzi alle straordinarie qualità dell’attore, ora capace di osservare con straordinaria intensità il piatto di minestra, ora di esternare il suo dispiacere per la morte della donna, ora di sorridere intensamente dinanzi ai movimenti divertenti della bimba. Ma Pudovkin e Kulesov sapevano perfettamente che in tutti e tre i casi l’espressione dell’attore era la stessa.
In realtà non sapremo mai se le cose andarono così per davvero, tuttavia l’importanza di un esperimento di questo tipo sta nel formidabile lavoro teorico che ne seguì: il montaggio, a questo punto della sua evoluzione, diviene la parola chiave del fatto cinematografico; anzi, preso di per sé – senza il fondamentale ricorso al montaggio – il cinema non ha alcun senso.
Queste considerazioni sono giustificate da quello che venne definito, proprio grazie a questo esperimento, L’effetto Kulesov: l’associazione dell’immagine A con l’immagine B produce un senso diverso da quello che le due immagini produrrebbero prese di per sé; quindi, unire l’immagine A all’immagine B, fa sì che la prima venga letta in modo diverso dallo spettatore. Grazie a questa sua capacità fondamentale, il montaggio cinematografico si caratterizza per la sua funzione di produzione del senso.
A questo punto cerchiamo di addentrarci un po’ di più nel discorso sulle forme, le funzioni e le ideologie del montaggio nella pratica cinematografica dei registi sovietici. Conviene partire da Vsevolod Pudovkin e da quella tipologia di montaggio che egli stesso definisce montaggio costruttivo. Dominique  Villain, nel suo libro Il montaggio al cinema, riconosce a Pudovkin il merito di aver teorizzato per primo l’opera di David W. Griffith: infatti, mentre quest’ultimo si accontentava di risolvere i problemi pratici che di volta in volta si presentavano, Pudovkin formulava una teoria del montaggio che si basava di gran lunga sul lavoro pratico svolto dal regista americano.
Nasce così, da una base pratica altrui, la convinzione da parte di Pudovkin che il regista possiede una quantità di materiale grezzo (i pezzi di pellicola impressionata) con i quali deve costruire l’immagine che forma la rappresentazione filmica; egli infatti non dispone della realtà, ma solamente di un supporto di celluloide dove quella realtà è stata registrata. Durante il montaggio questi spezzoni di pellicola vengono sottoposti alla volontà del regista, che compone la realtà filmica eliminando tutti quegli intervalli che non permettono all’azione di rientrare nel tempo previsto e nello spazio previsto.
Questo, in breve, il principio che venne definito da Pudovkin con l’espressione montaggio costruttivo. Il regista, che dispone di una certa quantità di pellicola su cui sono registrate le singole parti dell’azione, opera attraverso la selezione e l’eliminazione di questi spezzoni. Egli, cioè, stabilisce quali sono i materiali necessari per costruire la rappresentazione filmica dell’azione ripresa.
Questo concetto di eliminazione di alcuni pezzi di pellicola può essere meglio compreso in base ad un esempio riportato nel più volte citato manuale La tecnica del montaggio cinematografico: Pudovkin afferma che, per mostrare sullo schermo un uomo che si getta dalla finestra e che cade sull’asfalto, si possono organizzare le riprese in modo da riprendere quest’azione in due inquadrature. La prima ci mostra l’uomo gettarsi dalla finestra (senza però mostrarci la rete che lo salva), la seconda ci mostra l’uomo cadere in terra (gettandosi però da un’altezza limitata). L’effetto ottenuto montando queste due riprese è notevole; della caduta vera e propria ci vengono mostrati solo due punti, l’inizio e la fine. La traiettoria intermedia viene quindi eliminata. Secondo Pudovkin non si tratta di un trucco, bensì di un metodo di rappresentazione filmica che corrisponde esattamente a quanto avviene in teatro quando tra un atto e l’altro passano alcuni anni.
Fin qui, comunque,  Pudovkin si limita a teorizzare quanto il suo collega americano Griffith aveva messo in pratica. Tuttavia egli sente presto la necessità di andare oltre, di confrontarsi con la pratica. Possiamo allora dire che un’importante spinta in avanti il suo lavoro teorico la ottiene dall’esperienza che egli farà come regista. Kulesov scoprì che due inquadrature, contrapposte in modo esatto, potevano produrre dei significati diversi: la conclusione fu che l’arte cinematografica non nasce al momento delle riprese, bensì nel momento stesso in cui il regista comincia a combinare insieme le varie inquadrature per produrre dei significati.
Naturalmente queste considerazioni, come già accennato in precedenza, trovarono ampio riscontro nei film realizzati da Pudovkin in quegli stessi anni. Se confrontassimo i suoi lavori con quelli di Griffith, non potremmo che notare una differenza abbastanza significativa: mentre nei film di Griffith l’elemento narrativo viene comunicato agli spettatori attraverso il comportamento e i gesti       
dell’attore, Pudovkin costruisce le sue scene a partire da una serie di inquadrature precedentemente pianificate e poi accuratamente contrapposte. Ecco perché per la maggior parte dei registi russi è importante effettuare le riprese del film con il costante sussidio di una sceneggiatura di ferro (espressione con la quale si intende un découpage tecnico assolutamente dettagliato e preciso).
Uno dei risultati più efficaci raggiunti da Pudovkin attraverso il montaggio fu la scena – all’interno del film La madre – in cui il figlio, chiuso in una cella, riceve un biglietto con cui gli si annuncia che il giorno dopo verrà liberato. Il problema era quello di esprimere la gioia del personaggio senza ricorrere ad espedienti troppo banali come il viso dell’attore che si riempie di gioia; Pudovkin allora pensò di mostrare un particolare dei movimenti nervosi delle mani ed un dettaglio del sorriso del giovane. Tra queste due inquadrature, però, Pudovkin decise di inserire diverse inquadrature contrapposte: un ruscello primaverile, i riflessi del sole sull’acqua, degli uccelli che si posano ai bordi dello stagno e, infine, un bambino che ride. Unendo tutte queste inquadrature, Pudovkin ottenne l’espressione di gioia del prigioniero.
Dunque abbiamo visto come anche il punto di arrivo del montaggio in Griffith conosce una fase successiva di approfondimento. La grande attività teorica e pratica svolta da Kulesov e Pudovkin (ma anche da Vertov) raggiunge dei riscontri concreti che ci confermano come, a questo punto cruciale della sua evoluzione, l’arte del montaggio cinematografico abbia ancora molto da offrire. Infatti, come fin dall’inizio avevamo intuito, è impossibile proseguire il nostro discorso – che per la verità si avvia di già verso la sua conclusione – senza soffermarci su una personalità centrale nella storia dell’evoluzione del montaggio nel cinema muto (e poi anche sonoro). Si tratta di un’intellettuale che, come dice il teorico Jacques Aumont, resta una figura impressionante nella storia del cinema per la sua intelligenza e per la sua cultura; ovviamente stiamo parlando di Sergej M. Ejzenštejn.
Una cosa è certa: parlare di Ejzenštejn può farci sentire un po’ in imbarazzo, visto che egli è divenuto fin troppo presto un mito per gli storici e gli studiosi del cinema; noi cercheremo, pur con i nostri evidenti limiti, di mettere in evidenza soprattutto come la sua attività di teorico e regista ha contribuito all’evoluzione del montaggio cinematografico nell’epoca del cinema muto.
Per comprendere il fondamentale contributo di Ejzenštejn al montaggio è necessaria la lettura di almeno due testi fondamentali oggi in circolazione: La teoria generale del montaggio e Il montaggio. Nel saggio introduttivo al secondo volume citato, Jacques Aumont parla di Ejzenštejn come di una personalità più nota che conosciuta, la cui storia bisogna sempre intenderla in duplice modo: da un lato abbiamo la storia di uno straordinario cineasta che non riusciva a fare film e che, quando li faceva, venivano distrutti, rimontati, nascosti o proibiti. Dall’altro lato abbiamo l’attività teorica di uno scrittore autodidatta (al pari del cineasta), che risulta molto prolisso, ripetitivo, noioso e mai in grado di giungere ad una teoria definitiva. Infatti, come è ben noto, Ejzenštejn preferiva sempre elaborare una nuova teoria piuttosto che approfondirne una precedente.
Tuttavia a noi sembra che esista un termine che attraversa tutta la travagliata carriera del regista russo: si tratta del termine montaggio (che per Ejzenštejn è assolutamente fondamentale), e a ben vedere è anche l’unico, visto che l’altro termine spesso chiamato in causa, il conflitto, finirà anch’esso con lo sparire dagli anni trenta in poi. Cerchiamo allora, non con qualche difficoltà, di trovare un modo per iniziare: abbiamo parlato di metodi di montaggio, delle funzioni e delle ideologie che essi ricoprono; bene, in questo senso siamo quasi obbligati a tirare in ballo l’attività teorica e pratica di Ejzenštejn sul montaggio. Dopo aver osservato il montaggio costruttivo di Pudovkin e Kulesov, passiamo ora all’altro grande sintagma di quegli anni: il montaggio intellettuale (noto anche come montaggio connotativo).
Partiamo dalle considerazioni dello stesso Ejzenštejn sul lavoro teorico svolto da Kulesov e Pudovkin: innanzitutto, il cinema è per sua natura basato sul montaggio perché, al pari di altre forme di comunicazione, esso opera attraverso una serie di elementi il cui significato non è dato dalla loro somma bensì dal prodotto risultante (L’esempio fatto da Ejzenštejn è quello dei geroglifici: una bocca più un cane significa abbaiare, una bocca ed un bambino significa urlare, un coltello ed un cuore significa tristezza e così via; lo stesso vale per il cinema, quindi Ejzenštejn condivide l’effetto Kulesov, per il quale due immagini messe insieme producono un senso diverso da quello che ognuna possiede di per sé). Nel cinema questa possibilità è offerta solamente dal montaggio, che si pone dunque come l’elemento indispensabile per produrre senso.
Secondo Kulesov, ed il suo allievo prediletto Pudovkin, essendo ogni singola inquadratura un elemento del montaggio, il montaggio è a sua volta un insieme di elementi; Ejzenštejn non è d’accordo, poiché per lui l’inquadratura è una cellula del montaggio, è qualcosa in più di un semplice elemento costitutivo. Ciò che, di conseguenza, caratterizza sia il montaggio cinematografico che la singola cellula (l’inquadratura) è il conflitto, la collisione fra due diverse inquadrature o all’interno della medesima inquadratura. Kulesov sosteneva che il montaggio è una concatenzaione di singoli pezzi-inquadrature, una specie di catena composta da diversi “mattoncini”; i mattoncini, che vengono posti uno di seguito all’altro, espongono un pensiero. Ejzenštejn contrappone a questa visione del montaggio, dedotta da Kulesov, il concetto di conflitto: quando due dati entrano in collisione si produce un pensiero.
Questa sua convinzione, probabilmente, Ejzenštejn la ricava da una personale (e giusta) rielaborazione del fenomeni PHI, ovvero di quel fenomeno di permanenza ottica dell’immagine che permette l’illusione del movimento dinanzi ad una proiezione cinematografica. Secondo lui, infatti, questa illusione di movimento non è data dalla successione dei singoli fotogrammi, né dalla velocità della loro successione; infatti avviene qualcosa di diverso: anziché percepire il movimento attraverso la visione di due immagini diverse in successione, tutto nasce dalla non corrispondenza (dal contrasto, dal conflitto, dalla collisione) di due immagini che si sovrappongono nel nostro cervello. Quindi la questione del montaggio si pone proprio alla base dei fenomeni percettivi della proiezione cinematografica.  
Detto questo, cerchiamo di definire meglio come si configura il montaggio cinematografico nel lavoro proficuo di Ejzenštejn: innanzitutto la prima cosa importante da precisare è che per Ejzenštejn la riproduzione filmica della realtà non suscita di per sé particolare interesse; interessante, invece, è il senso che ad essa si può attribuire attraverso una sua interpretazione. Il cinema, quindi, non può limitarsi a riprodurre la realtà, poiché è solamente attraverso una sua interpretazione che esso può costituirsi come un discorso articolato. Il montaggio, allora, diviene lo strumento indispensabile per poter effettuare questa interpretazione, questa costruzione del senso.
Il montaggio, pertanto, si configura come produttore del senso: questa teoria, basata però sul “conflitto” (a differenza della teoria di Kulesov e Pudovkin), affonda le proprie radici in una delle elaborazioni teoriche più importanti fatte da Ejzenštejn: il montaggio delle attrazioni. Non ci sembra questa la sede più adatta ad approfondire questo discorso che, come si sa, attiene perlopiù al teatro; tuttavia, anche in questo caso – sia che si tratti della recitazione di un attore teatrale, sia che si tratti del montaggio cinematografico – il comune denominatore rimane sempre il termine conflitto.
Alla base dell’intera concezione che Ejzenštejn ha del cinema c’è dunque il termine conflitto, la collisione tra due inquadrature poste l’una accanto all’altra. Questo conflitto può darsi sia fra due diverse inquadrature, sia all’interno della medesima inquadratura. Ejzenštejn individua diversi tipi di conflitti che intervengono nel montaggio di un film: si parte dai conflitti più semplici (come quelli fra due piani o campi) fino ad arrivare a conflitti più o meno complessi (dei volumi, delle masse, degli spazi ecc.); per quanto riguarda il conflitto presente all’interno di un’unica inquadratura, Ejzenštejn riporta l’esempio della profondità di campo, dell’orientamento grafico divergente, delle parti chiare e scure e così via.
Da queste, e molte altre, considerazioni nasce il montaggio connotativo voluto da Ejzenštejn: il carattere fortemente connotativo del montaggio sta nel fatto che il segno cinematografico, al pari di quello teatrale, non è mai un segno d’oggetto poiché rimanda sempre ad un significato ulteriore; quindi è sempre segno di segno d’oggetto. Il montaggio intellettuale di Ejzenštejn si presenta, allora, come un montaggio fortemente simbolico. Un esempio da produrre immediatamente proviene dal film Ottobre (1927), in cui vi è la celebre sequenza del “pavone meccanico” che accompagna l’ingresso di Kerenskij nella sala del trono degli Zar; lo scopo che Ejzenštejn vuole ottenere è quello di dimostrare l’assoluta lontananza di Kerenskij dai veri ideali rivoluzionari ed il suo rapporto di sostanziale continuità con il regime zarista. Per ottenere ciò, Ejzenštejn ricorre al montaggio connotativo che si concretizza in almeno quattro modi diversi di rappresentare l’azione; quello che più ci interessa è il ricorso ai cosiddetti inserti non-diegetici. È il caso del pavone meccanico che, dopo una serie di inquadrature, aprirà la coda ruotando su se stesso, proprio mentre Kerenskij entra nella grandiosa sala dello Zar. Questa associazione, creata abilmente da Ejzenštejn, permette di esplicitare al meglio il “pavoneggiarsi” del personaggio al momento di prendere il potere. Subito dopo siamo al “climax” dell’intera sequenza (preparato dalla sequenza del pavone), che Ejzenštejn mostra facendo rivedere allo spettatore, per ben quattro volte e da diverse angolazioni, la porta della stanza reale che viene aperta da Kerenskij.
Un montaggio più strettamente simbolico è possibile rintracciarlo nel film forse più famoso di Ejzenštejn, La corazzata Potemkin (1926). In una delle sequenze più memorabili del film, quella della “scalinata di Odessa”, lo spettatore assiste al rapido montaggio di tre inquadrature riguardanti un leone di pietra che si alza e “risponde” al grido rivoluzionario; lo studioso italiano Galvano Della Volpe, nel suo saggio sul cinema Il verosimile filmico, nota come una sequenza di questo tipo sia fortemente portatrice di simboli e di idee astratte almeno quanto l’immagine verbale o letteraria. Allora noi spettatori possiamo leggere questa sequenza non “verosimile” come una protesta ideologica al bagno di sangue sulla scalinata di Odessa.
Naturalmente non è possibile trattare in questa sede i numerosi contributi teorici, ma soprattutto pratici, che Ejzenštejn ci ha lasciato; non è possibile per almeno due motivi fondamentali: il primo, più oggettivo, è che la complessità dell’oggetto di studio ci rende assai difficile il compito; il secondo, più banale, è che probabilmente occorrerebbe dedicare alle teorie sul montaggio di Ejzenštejn un’intera tesina di chissà quante pagine. E forse neanche questo gli renderebbe giustizia. Si è comunque deciso di approfondire questo argomento attraverso la lettura della fondamentale raccolta di saggi Il montaggio, in modo da essere più precisi in merito a quanto, fino ad ora, abbiamo tralasciato. Ejzenštejn resta l’autore che forse più di tutti si è dedicato alla teoria del montaggio cinematografico, e che più di tutti ha combattuto per rivendicarne l’assoluta centralità nel processo di produzione del film; o, per lo meno, così è stato per tutto il periodo del cinema muto. Infatti, crediamo che sia importante ricordarlo, a partire dall’avvento del sonoro (innovazione che Ejzenštejn, inizialmente, non condivide), egli considererà il montaggio solamente uno degli elementi che compongono il film, la cui importanza non è superiore alle altre fasi. Tuttavia, visti gli eccellenti risultati raggiunti da Ejzenštejn con il suo montaggio verticale nel film Aleksandr Nevskij, non possiamo certamente dire che la sua attività di teorico si concluda con la fine dell’epoca del cinema muto.
Ma dove possiamo rintracciare l’eredità lasciataci da Sergej M. Ejzenštejn? Certamente molte delle sue sperimentazioni le ritroviamo nel primo Godard, nei film pubblicitari e nei video-clip; Ejzenštejn è stato da alcuni considerato, forse erroneamente, il precursore della semiologia del cinema, quando in realtà ha messo in luce diverse situazioni senza possibili sbocchi. Del resto lui stesso aveva creato dei modelli di montaggio – etichettati con nomi precisi (montaggio armonico, tonale, ritmico e via dicendo) – che poi rielaborava a favore di nuove teorie, nuove sperimentazioni, nuove pratiche sul montaggio. Ecco perché si è detto, all’inizio del discorso, che anche il termine conflitto verrà scartato a favore di altre ragionate conclusioni.
Del resto questa non appare né una contraddizione, né un’assurda incoerenza da parte del regista russo: se, infatti, questo modo di procedere non ci scandalizza più di tanto è perché – oramai lo sappiamo bene – non erano i film a nascere da un discorso teorico ben preciso, semmai erano le teorie a nascere da un discorso strettamente pratico.

IV. UNA CONCLUSIONE (PROVVISORIA)

«Un abile uso del sonoro non consiste soltanto nell’aggiungere la più efficace colonna sonora a un film elaborato in precedenza, ma nel concepire il film in funzione del suono».
di Karel Reisz

Siamo così giunti alla fine di questo nostro rapidissimo excursus; ci piaceva concludere così – con questa frase pronunciata da uno dei più autorevoli esponenti del free cinema, nonché co-autore di uno dei manuali più importanti mai pubblicati sul montaggio, La tecnica del montaggio cinematografico (che è stato un po’ il nostro punto di riferimento costante) – perché il cinema sonoro, mentre si producono gli ultimi capolavori del cinema muto, è oramai alle porte e bussa con prepotenza; il cinema, quindi, sarà presto costretto a rivedere il suo statuto, le sue teorie, i suoi metodi di produzione e di fruizione. Non si tratterà di rivedere vecchie questioni, né di teorizzare nuove forme di montaggio: l’avvento del sonoro sarà una vera e propria rivoluzione che cambierà in modo sostanziale l’utilizzo del mezzo cinematografico. Allora diamo ragione ad Antonio Costa quando dice che il cinema muto era un cinema troppo diverso da quello moderno, e che come tale non può essere fruito con le stesse competenze e le stesse aspettative; del resto – aggiungiamo noi – nessuna pianta è mai cresciuta senza quel seme che inevitabilmente deve precederla. Forse, allora, possiamo concepire il cinema sonoro come una semplice evoluzione del cinema muto; ma nessuna rivoluzione, nessun cambiamento è indolore: occorre sempre mettere sul piatto della bilancia ciò che si lascia e ciò a cui si spera di andare incontro.
Tornando a noi, e al nostro discorso, crediamo di aver tracciato grossomodo tutte le tappe più importanti che il montaggio cinematografico ha incontrato nel corso della sua evoluzione. Forse qualcuno potrà accusarci dell’eccessiva “faciloneria” con la quale abbiamo indicato il nostro percorso (senza contare la “frustrante” convinzione di aver dimenticato momenti molto importanti), ma bisogna essere obiettivi e comprendere come la nostra volontà – tenuto conto anche dei limiti imposti dalle conoscenze che abbiamo – era rivolta al semplice fatto di illustrare quello che è stato il processo di evoluzione del montaggio cinematografico dai primi film dei fratelli Lumière fino agli straordinari risultati ottenuti da Ejzenštejn. Forse lo abbiamo fatto di proposito in modo così semplice, sperando così di mettere in evidenza soprattutto una cosa che davvero ci preme: la curiosità di chi – come noi – guarda al cinema muto come ad un qualcosa che non c’è più e che non si è mai avuto modo di conoscere. Naturalmente senza un’improbabile nostalgia, semmai con un pizzico di rammarico.
Quel rammarico di chi, nell’epoca confusa della rivoluzione digitale, “gioca” con i sofisticati sistemi di montaggio AVID senza aver mai avuto il piacere di “toccare” una moviola.

Tesina di di CLAUDIO DEZI

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

– (a cura di) Pietro Montani, Sergej M. Ejzenštejn. Il montaggio, Saggi Marsilio, Venezia, 1992;

– (a cura di) Pietro Montani, Sergej M. Ejzenštejn. La teoria generale del montaggio, Saggi
   Marsilio, Venezia, 1992;

– David Cheshire, Cinematografare, Mondadori, Milano, 1981;

– Antonio Costa, La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, Clueb, Bologna, 1995;

– Sergej M. Ejzenštejn, Lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1964;

– Aldo Grasso, Sergej M. Ejzenštejn, Il Castoro, Milano, 1994;

– Karel Reisz e Gavin Millar, La teoria del montaggio cinematografico, Sugarco, Varese, 1981;

– Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Manuale del Film, Libreria UTET, Torino, 1995;

– Gianni Rondolino, Storia del Cinema, Libreria UTET, Torino, 1995;

– Dominique Villain, Il montaggio al cinema, Lupetti, Milano, 1996;

– Rodolfo Tritapepe, Linguaggio e tecnica cinematografica, Paoline, Roma, 1985.

 

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