Tra i primi registi a comprendere le potenzialità espressive e artistiche del montaggio vi è sicuramente il russo Vsevolod Pudovkin. Fondamentale in questo senso è l’esperimento da lui condotto insieme a Lev Vladimirovic Kuleshov sulle possibilità del “cutting”. Unirono alcuni primi piani dell’attore Mosjukhin con tre inquadrature differenti (nella prima un piatto di minestra, nella seconda una bara con un cadavere, nella terza una bambina intenta a giocare). Presentate le sequenze al pubblico i due registi notarono come la gente avesse la sensazione che l’espressione dell’attore cambiasse a seconda delle situazioni che si trovava di fronte mentre nella realtà l’inquadratura del volto di Mosjukhin era sempre la stessa: “Quando mostrammo le tre combinazioni a un gruppo di spettatori ai quali non avevamo comunicato il segreto dell’operazione, ottenemmo un risultato stupefacente. Gli spettatori erano convinti che la recitazione fosse splendida. Lodarono l’atteggiamento pensoso davanti alla minestra dimenticata, furono commossi dalla profonda tristezza con cui guardava la donna morta, ammirarono l’espressione sorridente e contenta con cui guardava la bambina. Noi però sapevamo che in tutti e tre i casi l’espressione era esattamente la stessa” (V. I. Pudovkin, Film technique, Newnes, 1929 in Karel Reisz-Gavin Millar, la tecnica del montaggio cinematografico, SugarCo edizioni, Milano, 1983). Pudovkin e Kuleshov avevano capito che il montaggio offriva al regista una grande libertà e la possibilità di dar sfogo alla propria creatività. Montando a suo piacimento il materiale girato il regista poteva dar forma a nuove idee semplicemente accostando due inquadrature. Questo esperimento portò Kuleshov a ritenere che il film diventasse arte non nel momento in cui vengono effettuate le riprese ma, esclusivamente, nella fase di montaggio. Pudovkin partì da questi esperimenti per sviluppare il suo stile filmico basato su scene nate dalla contrapposizione di una serie di dettagli. Esemplare in tal senso è una scena di “Madre” nella quale il regista di Penza doveva rendere lo stato d’animo di un carcerato prima di uscire di prigione: “Così mostro i movimenti nervosi delle mani e un dettaglio della parte inferiore del viso, con l’angolo delle labbra incurvato in un sorriso. Tra queste due inquadrature inserisco vario materiale: spezzoni di un ruscello gonfiato dalle piogge di primavera, riflessi del sole sull’acqua, uccelli che si tuffano nello stagno del villaggio e, infine, un bambino che ride. Unendo tutti questi elementi prende forma l’espressione di gioia del nostro prigioniero”. (Karel Reisz-Gavin Millar, op.cit.) In effetti in questa sequenza il montaggio consentiva a Pudovkin di esprimere i sentimenti del prigioniero non in maniera banale, come ad esempio mostrandolo mentre si apriva in un sorriso, ma in forma indiretta, simbolica. Mostrare le idee in maniera metaforica e non esplicita è caratteristica tipica del fare artistico come ricorda Rudolf Arnheim citando la Divina Commedia: “Prendiamo un esempio a caso: quando Francesca da Rimini, narrando come s’innamorò dell’uomo con cui stava leggendo, dice soltanto: ‘Quel giorno più non vi leggemmo avante’. Dante dice così indirettamente, accennando semplicemente alle conseguenze, che in quel giorno i due si baciarono. E questa rappresentazione indiretta colpisce con straordinaria efficacia” (Rudolf Arnheim, Film come arte, Giangiacomo Feltrinelli editore, Milano, 1989). A Pudovkin non interessava la fluidità delle sequenze ma le idee e le emozioni che creano un rapporto (anche indiretto) tra le varie inquadrature. Egli arriva a teorizzare le proprie idee elaborando un sistema fondato su cinque metodi di montaggio: per contrasto (unione di inquadrature discordanti: una festa lussuosa e un uomo che muore di fame): parallelismo (sorta di montaggio parallelo con l’alternanza delle inquadrature); analogia (come nella famosa sequenza di “Sciopero” di Eisenstein con inquadrature degli operai fucilati insieme a quelle di un bue macellato); sincronismo (due fatti che avvengono nello stesso momento); tema ricorrente (impiego del leitmotiv). Essendo portato anche per la musica, Pudovkin riuscì a impiegare queste sue teorie dando un senso ritmico alle sue opere nelle quali il suo massimo interesse era rivolto ai cambiamenti psichici dell’uomo sotto le pressioni della società moderna. Pudovkin, che fu anche attore, doveva la sua curiosità nella sperimentazione cinematografica ai suoi studi scientifici: era infatti ingegnere chimico, avendo frequentato la facoltà di Scienze di Mosca: “Senza dubbio questa sua primitiva formazione scientifica gli è di aiuto nel trattamento della fotografia dei suoi film” (Carl Vincent, Storia del cinema 1, Garzanti Editore, 1988). Oltre a queste importanti basi teoriche per l’arte cinematografica Pudovkin ci lascia un capolavoro assoluto quale “La madre” (1926), nel quale gioca abilmente con metafore liriche e stile realistico, “La fine di San Pietroburgo” (1927) e “Tempeste sull’Asia” (1929). In seguito l’avvento del sonoro segna l’inizio del declino cinematografico di Pudovkin che sembra ritrovare la sua vena creativa con “Il ritorno di Vasilij Bortnikov” del 1953, anno della scomparsa del regista.
di Fabio Massimo Penna per