♥ dalle Idee alle Sceneggiature • Idee dalla realtà
Una lettura obbligata per qualsiasi studente di comunicazione è "I media come estensioni dell'uomo (Understanding Media)”, opera classica del teorico Herbert Marshall Mcluhan (1911-1980). In uno dei modelli teorici del libro, troviamo l'affermazione – Il medium è il messaggio – in cui l'autore analizza l'efficacia tecnica della comunicazione in termini di sensibilità individuale e collettiva.
Il messaggio non è solo contenuto, ma un “massaggio psichico” che i media manifestano come sensazioni umane. Marshall Mcluhan ritiene che, a causa dell'era elettronica, l'ambiente sia sempre creato in modo nuovo attraverso i dispositivi. Le macchine creano un nuovo ambiente ispirato a un vecchio ambiente, fungendo da interfaccia per questo processo di ristrutturazione.
In una realtà in cui gli individui sono sempre più connessi, gli smartphone sono i dispositivi che ci connettono a questo processo, attirando l'attenzione umana sui loro schermi. Il corto di animazione "Vita curva”, creato dal regista e sceneggiatore cinese Xi Chenglin, fa satira alla nostra dipendenza dagli smartphone, dimostrando che il postulato di Mcluhan può avere una dimensione ridicola nella nostra società.
Il regista ha spiegato che la sua idea è nata dall'osservazione quotidiana: “Piegato è diventato il risultato del moderno sviluppo della scienza e della tecnologia. Le persone guardano i loro telefoni cellulari e tablet high-tech e si concentrano solo sul proprio palmo, alienandosi gradualmente dalla bella vita e dall'ambiente circostante. “Curved Life” è un tentativo di utilizzare l'umorismo nero per descrivere lo status quo sociale e riflettere sull'argomento.” ha spiegato.
L'animazione ha vinto il premio annuale da Accademia Centrale di Belle Arti (Cina) nel 2014 e riprende il concetto di “phubbing", termine che riunisce le parole "snobbare” (affronto) e “telefono" (telefono) per descrivere l'atto di ignorare qualcuno che utilizza uno smartphone.
Fonte: Co.CREA
Tutti noi sappiamo quanto sia fondamentale per il sistema Italia la filiera del Made in Italy. Qualche cifra: parliamo della seconda industria di questo Paese, con un fatturato di 53 miliardi di euro nel 2021 solo nel tessile e abbigliamento, con una crescita sul 2020 del +18,4%, un numero di aziende pari a 43.000 e un numero di addetti pari a 370.800. Questo quanto si apprende dai dati Istat elaborati dal Centro Studi di Confindustria Moda. Il nostro Made in Italy è fatto di tanti noti brands, alcuni ancora in mano italiana, come Armani, Dolce e Gabbana, Ferragamo, altri finiti nelle mani dei colossi francesi LVMH e Kering, come Gucci, Fendi, Bulgari, Bottega Veneta. Ma noi non siamo qui a parlare di questo, ma a parlare di chi c’è dietro questi grandi nomi: c’è una filiera di produttori, tra maglifici, concerie, calzaturifici e chi più ne ha più ne metta, enorme, che copre tutto il nostro stivale. Un know how immenso, un’artigianalità, un savoir faire che tutti ci invidiano. Ed infatti a produrre in Italia sono anche i grandi brand d’oltralpe, come Hermes, Chanel, Dior, e molti altri. Ecco che nel 2019 è nato il Gruppo Florence, con la mission di proteggere e preservare questo know how, dando man forte al tessuto della filiera produttiva grazie a tre fondi di investimento con le spalle larghe dietro, come Italmobiliare, il Fondo Italiano Investimenti e il Fondo Vam Investments di Francesco Trapani, ex amministratore delegato di Bulgari e noto conoscitore del settore. Il gruppo Florence vanta ad oggi 20 acquisizioni, coprendo già 9 regioni dello Stivale, dal Piemonte alla Puglia. Il modello di business prevede che il socio fondatore ceda l’azienda al gruppo Florence, ma rimane azionista e quindi decision maker, assieme agli altri. L’obiettivo strategico è coprire l’intera gamma produttiva. Ognuna delle aziende partner è già leader per lo sviluppo tecnico e per la produzione nel proprio segmento di prodotto. La formula del successo? La massa critica, che permette di trovare delle efficienze e risparmi, ma anche una maggiore managerializzazione. Le aziende hanno una maggiore stabilità finanziaria e una diminuzione del rischio di dipendenza da una specifica categoria prodotto. L’amministratore delegato del gruppo Florence, Attila Kiss, 55 anni, di origine ungherese, vanta una lunga esperienza nel mondo del fashion, ha una visione di lungo raggio per la tutela del Made in Italy, attività strategica per il nostro Paese. Attila ha sposato il progetto sin dalla partenza, anzi è tra gli sponsor e gli ideatori. Nel momento in cui c’è un’acquisizione, Attila parte a conoscere tutti i dipendenti dell’azienda e a coinvolgerli nella missione globale di salvaguardia del know how tecnico e culturale delle produzioni made in Italy, e così in poco più di due anni ha riunito già tante aziende per un giro d’affari di oltre 200 milioni di euro con oltre 1.000 dipendenti. Obiettivo finale la quotazione. E allora complimenti al gruppo Florence, che sia da stimolo per altre iniziative imprenditoriali a tutela del nostro Paese. L’unione fa la forza. E su questo noi Italiani abbiamo ancora tanto da imparare.
Articolo di Valentina Rainone per today.it
Gli italiani neri - cioè i cittadini che vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia, ma hanno un colore della pelle diverso da quello della maggioranza della popolazione - incontrano molte più difficoltà nella vita di tutti i giorni, rispetto ai connazionali bianchi. Nemmeno il possesso del passaporto tricolore li protegge da pregiudizi e discriminazioni: soprattutto se hanno studiato e oggi sono, uomini e donne, medici, infermieri, maestri, educatori, smentendo così il luogo comune che li vorrebbe soltanto braccianti sfruttati, irregolari o addirittura criminali. In un Paese come l'Italia che considera il razzismo un fatto isolato, la pelle non dovrebbe avere alcuna influenza. Nessuno infatti giudicherebbe o rifiuterebbe una persona in base al colore degli occhi o dei capelli. Invece è esattamente quello che accade.
La questione riguarda oltre un milione di residenti, con cittadinanza italiana o permesso di soggiorno. Un'indagine, coordinata dall'organizzazione internazionale Amref Health Africa e curata dai ricercatori Paola Barretta e Giuseppe Milazzo dell'Osservatorio di Pavia, ha analizzato il fenomeno, raccogliendo interviste nel mondo della sanità, della scuola e della comunicazione. I risultati descrivono una nazione che, come altri Stati europei, deve ancora crescere nel suo rapporto con la realtà e con il suo passato coloniale.
Razzismo silenzioso
“Il razzismo – osservano i ricercatori, dopo aver studiato decine di segnalazioni – è spesso associato a fatti episodici, dettati da inclinazioni politiche o difficoltà psicologiche individuali, ma è assente un'analisi rispetto alle cause strutturali”. Mentre il confronto si consuma tra sedute parlamentari e dibattiti televisivi, secondo lo studio, la frattura nella società si allarga: da una parte il mito degli italiani brava gente, dall'altro i connazionali con un diverso colore della pelle – magari italiani da più generazioni – costretti a sopportare e a testimoniare quello che i ricercatori chiamano “razzismo all'italiana”: “Un quadro incompleto e distorto, che non permette di comprendere le ragioni sottostanti i fenomeni che osserviamo nella realtà e che porta, inevitabilmente, dolore e lacerazione”.
I casi di questa discriminazione silenziosa abbondano. È di pochi giorni fa la notizia degli insulti sui social, a Fagnano Olona in provincia di Varese, che hanno costretto un medico del paese, Enock Rodrigue Emvolo, 48 anni, a chiedere il trasferimento. Motivo degli attacchi la circostanza che il dottor Emvolo, arrivato da poco a Fagnano, è nero e originario del Camerun, anche se si è laureato in Medicina in Italia e si sta specializzando in chirurgia di emergenza all'ospedale di Varese.
Mettere un medico nelle condizioni di cambiare sede, con la grande insufficienza di personale sanitario, è tra l'altro un incredibile autogol. Ma la maggior parte dei casi rimane sconosciuta. A volta è una questione di occhiate: “Si nota un po' lo sguardo – racconta un'infermiera – , o la diffidenza che le persone hanno inizialmente al primo impatto, o magari quando si ritrovano in un letto di ospedale, in rianimazione e si trovano davanti una infermiera nera: un po' si vede lo shock”. Succede anche dal farmacista: “Io in farmacia mi rendo conto proprio dallo sguardo: cioè sono quasi sorpresi di vedere una persona nera con un camice bianco”.
Umiliazione a scuola
Nemmeno la scuola viene risparmiata: “Ho questa ansia di vedermi guardata come un extraterrestre – rivela un'insegnante – come una persona che è al posto sbagliato. Non ho la paura che qualcuno mi aggredisca fisicamente, ma l'umiliazione: io ho paura di essere umiliata come nera e questa paura mi segue sempre”. I neri, secondo la ricerca, vengono considerati senza alcuna ragione anche potenziali ladri: “Varie volte le persone, quando io cammino sul marciapiede – dice un educatore – si coprono la borsa con la mano o cambiano lato della borsa o si assicurano di aver chiuso la macchina... mi capitano spesso queste cose e, secondo me, l'inasprimento del razzismo è proprio perché è andato peggiorando”.
Quando poi in classe si insegna storia, le contraddizioni vengono al pettine: “Una cosa che io vorrei tantissimo che qualcuno si preoccupasse di scardinare – auspica una mediatrice culturale - è l'insegnamento della storia. Quando si arriva a un certo punto, ovvero le campagne italiane in Africa, tutto questo viene dipinto come la conquista, la vittoria... poi però nessuno parla di quelle popolazioni che sono state colonizzate. In Italia c'è stata una battuta d'arresto pazzesca da questo punto di vista. Il colonialismo in Africa, il fascismo in Africa, non se ne parla, non vengono trasmessi film, se non alcuni tipi di film che rievocano la vittoria e le gesta brillanti degli italiani. Però non si parla dei retaggi che noi ci portiamo dietro, di cosa ne è stato appunto delle donne e degli uomini che hanno subito il colonialismo o anche per esempio di che cosa è stato il madamato, il meticciato, i figli appunto di quella componente coloniale. Questo, secondo me, è uno dei grandi elementi che sono alla base dell'estrema ignoranza italiana”.
Il medico alla porta
Ricorda un medico: “Ero di guardia, sono andato in una casa e appena arrivato, ho suonato, ha aperto: ero io, di colore. Io non ho niente da comprare [dice il paziente alla porta] alle due di notte e io ho detto: guarda, non sono un vucumprà, io sono un medico”. E il paziente: “Non ti voglio, non ti voglio. Allora – continua il medico – io sono ritornato in sede, lui ha richiamato ancora in sede, ho preso la telefonata e poi sono andato lì e lui nel frattempo aveva chiamato i carabinieri dicendo: c'è uno di colore che realmente non so che cosa sta facendo in questo quartiere”.
Perfino in attesa del parto, denuncia la ricerca, capita che le mamme chiedano di essere assistite da bianchi: “Mi guarda e mi fa: adesso mi chiami l'ostetrica. Io gli ho detto: guardi signora che sono io l'ostetrica. Sorride, tra una contrazione e l'altra, e mi fa: sì, ho capito tu chi sei, ti prego adesso devo proprio spingere. Chiamami l'ostetrica”. È difficile farsi accettare per il colore della pelle anche come infermiera: “Alla fine vengo comunque considerata straniera: se sei una straniera, quindi fai l'addetta alle pulizie. Viene sempre sminuito il tuo ruolo”.
“Io credo – prosegue un'insegnante – che innanzitutto bisognerebbe formare gli insegnanti, i docenti, perché c'è proprio un vuoto formativo riguardo al razzismo, a come affrontare il razzismo, a come affrontare la diversità tra le persone”. Le conseguenze coinvolgono ovviamente gli studenti: “Questi ragazzi, pur non subendo episodi di discriminazione, è come se partissero non da zero ma da meno uno: come se dovessero dimostrare sempre qualche cosa in più degli altri”. Questa rincorsa continua è all'origine di quella che alcuni studiosi chiamano la “black fatigue”, letteralmente la fatica nera: è la stanchezza cronica che si accompagna agli sforzi quotidiani che sono richiesti a una persona nera, per mantenersi ancorata all'idea ottimista che un giorno il razzismo sarà sconfitto.
Molti intervistati evidenziano come la sottovalutazione di atti di discriminazione e di esclusione di matrice razziale sia anche frutto di un'assenza sistematica della questione dal dibattito pubblico e politico: “Tale assenza – osservano i ricercatori – unita all'inconsapevolezza della gravità delle pratiche razziste, provoca una vera e propria spirale del silenzio”. La Francia, periodicamente attraversata da forti tensioni sociali, ha affrontato le ombre culturali del suo colonialismo nel bel film di Laurent Cantet “La classe”, vincitore della Palma d'oro a Cannes nel 2008. Quello francese è anche il modello al quale l'Italia più si avvicina. Ogni Paese deve però scegliere la sua strada, che si costruisce di giorno in giorno. Purché non si nascondano i problemi: altrimenti, come spiega un'ostetrica del Niger da tempo in Italia, “è difficile avere una terapia per una malattia non diagnosticata”.
Articolo di Fabrizio Gatti per today.it
Nel 2021 in Italia sono state uccise 106 donne. "Questa volta sei arrivata tardi Chiara: la Giornata per l'eliminazione della violenza contro le donne è appena passata!". E invece no: ho deciso volutamente di lasciar passare qualche giorno per trattare questo argomento. Perchè è giustissimo "sfruttare" l'occasione del 25 novembre e l'agenda setting per concentrare l'attenzione sul tema, ma di violenza sulle donne se ne dovrebbe parlare ogni giorno, perchè ogni giorno viene commessa.
E allora parliamone. Perchè se è vero che nel 2021 le vittime di femminicidio sono state (almeno) 106, nel 2022 al 20 novembre scorso eravamo già a 104. Il 66% dei femminicidi del 2021 è stato commesso dal partner o ex partner, l'87% da un membro della famiglia della vittima. Sono dati riportati nell'Atlante dei femminicidi, una piattaforma nata per raggruppare i femminicidi commessi nel 2021 dividendoli in sottocategoria. Sfogliando la mappa interattiva, con i femminicidi che diventano cerchi colorati posizionati sulla cartina dell'Italia a seconda di dove sono stati commessi, scopriamo ad esempio che in 35 casi la vittima aveva già subìto violenze pregresse da parte del suo omicida. 10 di loro avevano trovato il coraggio di denunciare. E' il caso, ad esempio, di Ilenia Fabbri, 46enne uccisa a Faenza per mano di un sicario assoldato dall'ex marito, che la donna aveva già denunciato; o quello della 18enne Saman Abbas, uccisa a Novellara - il cui cadavere è stato seppellito e sarebbe stato ritrovato proprio nei giorni scorsi - che sette giorni prima di essere uccisa aveva denunciato (due volte) i genitori.
In tre casi le vittime erano ancora minorenni: come la 15enne Chiara Gualzetti, uccisa a Monteveglio, nel bolognese, da un 16enne con il quale era andata a fare una passeggiata che l'ha accoltellata, presa a calci e pugni e abbandonata in una scarpata. Nella maggior parte dei casi, invece, le vittime erano donne over 60: è il caso di Clara Ceccarelli, 69enne genovese uccisa dall'ex marito che le ha inflitto 115 coltellate - dettaglio davvero inquietante: la donna, perseguitata da anni dall'ex marito, temeva talmente tanto di essere uccisa che aveva già pagato le spese per il suo funerale. Se la maggior parte delle vittime sono italiane, sono tanti invece i casi delle donne di provenienza estera: come la nigeriana Victoria Osagie, 35enne uccisa dal marito a Concordia Sagittaria, nel veneziano, davanti ai tre figli piccoli, nonostante quasi un anno prima fosse stato attivato il Codice Rosso a causa di un passato di violenza domestica iniziato nel 2014 e fatto di pestaggi, ricoveri in ospedale e minacce di morte.
L'Atlante analizza anche i dati degli uomini omicidi: molti di loro sono giovanissimi. Come il 17enne condannato all'ergastolo per l'omicidio della fidanzata coetanea Roberta Siragusa, uccisa tra le fiamme a Caccamo e gettata in un dirupo. La mappa divide i casi anche in base alle "cause scatenanti": in oltre 30 femminicidi la causa associata all'omicidio è quella di una "volontà di possesso", come nel caso di Sonia di Maggio, 29enne accoltellata a morte dall'ex fidanzato a Specchia Gallone, nel leccese, mentre si trovava per strada con il nuovo compagno. Un'altra delle cause più frequenti è quella dell'"escalation di violenza": come quella subìta da Dorina Alla, 39enne uccisa a martellate a Pove del Grappa dal marito, che da anni costringeva la donna a vivere nel terrore. Nella stragrande maggioranza dei femminicidi, per uccidere è stata usata un'arma da taglio: è il caso di Filomena Silvestri, 65enne uccisa a Castrovillari dal figlio con più di 30 coltellate. In una ventina di casi, l'omicida dopo aver ucciso la donna ha tentato di depistare le indagini: come nel femminicidio di Silvia Del Signore, 59enne uccisa a Portoferraio dalle percosse del marito. L'uomo, che per anni aveva abusato della moglie, dopo averla uccisa ha chiamato le forze dell'ordine sostenendo che la donna fosse morta in un incidente domestico scivolando in bagno.
E allora cosa possiamo fare di fronte a questi numeri giganteschi, a queste cifre che pesano come macigni sulle teste di ognuna di noi? Parlare, parlare, parlare (e denunciare, ogni qualvolta è il caso di farlo). Parlarne sempre, in ogni contesto e in ogni occasione. Non solo il 25 novembre.
Articolo di Chiara Tadini per today.it
"Mamma, papà... Devo dirvi una cosa"
"Amore cosa succede? Così ci fai preoccupare, sei agitato per la discussione di laurea di domani?"
"No, ecco, a proposito della laurea... So che avete già organizzato tutto, prenotato il ristorante... Ma in realtà io domani non mi laureo. Mi mancano ancora tanti esami per potermi laureare. Lo so, vi ho deluso e vi ho mentito, ma non sapevo come fare, la pressione era troppo forte, mi sentivo soffocare, ho anche pensato di... Di farla finita"
"Tesoro ma cosa dici? Vieni qui, fatti abbracciare. Se non sei ancora pronto per laurearti non è un problema, cancelliamo il ristorante e rimandiamo a casa i parenti. L'importante è che tu stia bene. Solo questo. Tutto il resto può aspettare. Avresti dovuto parlarcene fin da subito, avremmo potuto aiutarti. Ma siamo contenti che tu sia riuscito a parlarcene"
Poteva andare così. In tanti, troppi casi sarebbe potuta andare così. Sarebbe potuta andare così, forse, anche per Riccardo Faggin, il 26enne di Abano Terme che la notte tra il 28 e il 29 novembre scorso ha perso la vita schiantandosi con la sua auto contro un albero. Un incidente strano, in seguito al quale è emerso un tremendo dettaglio: il giorno dopo Riccardo avrebbe dovuto laurearsi in Scienze Infermieristiche. O almeno questo aveva detto ad amici e parenti. In realtà l'Università di Padova ha poi rivelato che il giovane aveva sostenuto solo una manciata di esami.
Le indagini sono ancora in corso, ma con tutta probabilità quello di Riccardo è l'ennesimo caso di giovani studenti universitari suicidi il giorno prima della (finta) laurea. Una piaga per la quale non esistono al momento statistiche ufficiali, ma che riguarda sempre più ragazzi. Cosa scatta nella mente di questi giovani che arrivano a compiere un gesto così estremo pur di non deludere le persone alle quali vogliono bene e alle quali hanno mentito per anni sugli esami passati e in realtà neanche mai sostenuti? C'è la pesantezza del vivere sentendosi costantemente oppressi dalla sensazione di non farcela, di non essere all'altezza, di non essere "abbastanza" in un mondo che ci vuole sempre più competitivi e veloci anche nel conseguire un titolo di studio - abbiamo tutti fresco nella mente il caso di Carlotta Rossignoli. Ragazzi che vivono con l'ansia costante di dover dimostrare di essere bravi, di essere i migliori, perchè fallire non è concesso. E anche per un genitore il confine tra spronare (giustamente) il proprio figlio e fargli pressione è labile. Non è facile per nessuno, ma insieme si può riuscire a trovare la quadra.
Ai ragazzi, da ex studentessa universitaria, voglio dire una cosa: non abbiate paura. Non abbiate paura quando una cosa è troppo difficile per voi, anche se vi sembra che per gli altri sia così facile. Le emozioni negative non vanno rifiutate o soffocate, ma accettate: si può avere paura, si può provare angoscia, e per tutte queste emozioni si può chiedere aiuto. In primis ai genitori, che sapranno ascoltarvi e perdonarvi tutto. E, se così non fosse, potrete comunque smettere di logorarvi e andare avanti per la vostra strada, consapevoli di avere fatto tutto il possibile per farcela e smettendo di essere costretti a portare avanti una doppia vita creata per soddisfare le aspettative dei genitori e della società.
Quanto deve essere doloroso sorridere alla propria famiglia, vederli orgogliosi mentre organizzano la festa in tuo onore, invitano i parenti, ti chiedono che regalo vorresti ricevere, e in realtà dentro essere lacerati dal dolore e dalla vergogna? Una vergogna così grande che non si riesce a tirare fuori, ad ammettere. E allora si fa buon viso a cattivo gioco, si continua a mentire fino all'ultimo istante, quando ormai non c'è più via d'uscita. E invece una via d'uscita c'è: si può mettere da parte tutto, l'umiliazione, i sensi di colpa, la delusione, ammettere la verità e chiedere aiuto. "Mamma, papà, devo dirvi una cosa".
Articolo di Chiara Tadini per ToDay.it
Riccardo Faggin era un ragazzo di 26 anni, studente universitario di Scienze infermieristiche. Era, perché pochi giorni fa Riccardo ha deciso di togliersi la vita simulando un incidente stradale. Il giorno dopo avrebbe dovuto laurearsi. O almeno, questo era quello che aveva detto ai genitori, che avevano preparato tutto l’occorrente per festeggiare l’occasione. Solamente dopo l’incidente mortale, i genitori di Riccardo hanno scoperto che quella seduta di laurea il giorno dopo non si sarebbe mai tenuta. “Penso e ripenso a qualche particolare, a cui non davamo peso. Ci sembrava che Riccardo avesse soltanto qualche giornata strana, magari solo le scatole girate. Invece aveva indossato una maschera. E noi non ce ne siamo mai accorti”, ha dichiarato la madre di Riccardo in un’intervista, in qualche modo attribuendosi la colpa della morte del figlio.
La storia di Riccardo è in un certo senso molto simile a quella di molti altri coetanei che trascorrono gli anni della propria vita professionale e universitaria schiacciati dal peso delle aspettative. A fare la differenza è l’epilogo, che nel caso di Riccardo è drammatico. Le aspettative. Tanti di noi trascorrono la vita cercando costantemente di soddisfarle, spesso finendo per impedirsi di esprimere la propria vera essenza e le proprie attitudini.
Io non credo che la morte di Riccardo sia colpa dei genitori, credo piuttosto che molto spesso anche i genitori subiscano la pressione psicologica del soddisfare le aspettative degli amici, dei conoscenti, dei familiari. In una parola: della società. Viviamo in una società che ci alleva fin dalla più tenera età inculcandoci il concetto di successo a tutti i costi, dove per successo non si intende certo la fama, ma la necessità di aderire perfettamente a determinati canoni professionali e di istruzione. Il diploma, la laurea nei tempi corretti, lavorare con sacrificio, farsi una famiglia, tutto per ottenere una qualche sorta di posizione nella società. Il fallimento non è concepito, la caduta momentanea è considerata un segno di debolezza. Solo i deboli subiscono battute d’arresto o commettono errori. La fragilità non è ammessa, anzi va insabbiata.
Sullo sfondo rimangono molto spesso attitudini, inclinazioni, abilità e volontà della persona, che se non rispondono perfettamente ai desiderata della società vengono immediatamente bollati come capricci o perdite di tempo. A scuola così come nel mondo del lavoro. La passione? Che risate. Un’inutile ostinazione da sopprimere se non comporta un concreto ritorno economico in tempi brevi.
Sin dal primo giorno di scuola ci viene insegnato con accanimento che dobbiamo diventare un utile ingranaggio di una società, che dobbiamo essere in grado di produrre un valore economico per le imprese che avranno bisogno della nostra manodopera. Questo è il nostro scopo sulla terra. Non conta la qualità della vita e infatti le rimostranze, le ondate di Great Resignation e quelle di Quiet Quitting che in questi ultimi anni hanno iniziato a partire soprattutto a partire dai più giovani vengono reputate inutili lagne di ragazzi svogliati da molti imprenditori e numerosi politici.
I ragazzi non hanno voglia di lavorare, di impegnarsi, di sacrificarsi. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Tutti i santi giorni. Perché è più facile porre l’accento sul fatto che certi settori non riescono più a trovare manodopera anziché sul motivo per cui queste imprese non trovano più persone disposte a lavorare: salari infimi, totale assenza di equilibrio tra vita privata e professionale, incapacità di coltivare i diversi talenti dei collaboratori. Ma è molto più semplice puntare il dito, molto più complesso andare in profondità per analizzare le cause che hanno portato a questo scollamento tra le parti. La verità è che le cause non interessano perché sono viste come un ostacolo alla produttività e alla produzione di ricchezza, le uniche cose che contano. Come se la vita di un individuo debba ridursi solamente a questo.
Articolo di Charlotte Matteini per today.it
Anche se funziona, serviranno anni di sperimentazioni perché la fusione nucleare possa darci energia pulita. Ma c'è una un'altra invenzione già accessibile in Europa che, se riuscirà a diffondersi e a garantire costi convenienti, potrebbe cambiare la nostra vita di tutti i giorni: l'idrogeno in polvere. La ricerca è in corso da tempo. Ma da poche settimane una start-up israeliana ha dimostrato, con la propria tecnologia, che si può ricavare elettricità aggiungendo acqua a una miscela molto simile al caffè: che però contiene l'elemento più semplice che si trova in natura.
La società si chiama Electriq Global e ha avviato la sperimentazione ad Amsterdam in Olanda, dove da settembre è in funzione una gigantesca gru semovente, alimentata con idrogeno in polvere e non con il tradizionale gasolio. “La nostra tecnologia può produrre idrogeno, così come si prepara una tazzina di Nespresso – dice Baruch Halpert, amministratore delegato della start-up –. Si prende una capsula, la si miscela con l'acqua, si mette in un catalizzatore e si ricava l'idrogeno”. Il tutto avviene all'interno di un generatore che, grazie a una normale pila a combustibile (fuel cell) nello stadio finale, produce l'elettricità che alimenta i motori della gru. La novità è nel trasporto in polvere: un processo che permette di ridurre i costi di produzione e di eliminare la scomodità legata a raffreddamento, compressione, peso delle bombole e relativa infiammabilità dell'idrogeno gassoso, così come è stato utilizzato finora. Ma vediamo come funziona.
Energia in cialde
Il generatore a idrogeno in polvere non produce rumore, anidride carbonica e nemmeno gas di combustione, poiché la reazione che sfrutta è soltanto elettrochimica. L'unico scarto al termine del processo può essere restituito al produttore e riutilizzato per catturare e trasportare altro idrogeno. Si parte da una molecola composta da potassio, boro e due atomi di ossigeno (metaborato di potassio). L'impianto elettrolitico, progettato da Electriq Global e alimentato da energia rinnovabile, sostituisce l'ossigeno con quattro atomi di idrogeno ricavati dall'acqua. Si ottiene così una polvere formata da potassio, boro e idrogeno (boroidruro di potassio): la nuova sostanza è completamente inerte, non è esplosiva né infiammabile, e può essere facilmente compressa per il trasporto in blocchi, saponette o capsule. Una volta rimescolata all'acqua all'interno del generatore, la polvere libera gli atomi di idrogeno utili a produrre energia e li scambia con l'ossigeno. Il risultato di scarto sono l'acqua, da riutilizzare all'interno dell'impianto, e nuovo metaborato di potassio: cioè il composto iniziale, che può essere restituito al produttore e rigenerato. Ma se anche venisse accidentalmente disperso nell'ambiente, sarebbe praticamente innocuo concime a base di potassio.
Forse proprio questa tecnologia, applicata su larga scala, ci permetterà di sostituire i combustibili fossili con la catena dell'idrogeno. Ma è ancora presto perché, a parità di energia rilasciata, i costi siano competitivi con benzina e gasolio. Lo sono invece con le attuali batterie che alimentano i motori elettrici. “La densità energetica di un generatore a polvere di idrogeno – spiega infatti Baruch Halpert – è sei volte maggiore di quella di una batteria al litio”. E non è nemmeno necessario sostituire la batteria o perdere ore a ricaricarla. Basta aggiungere altra polvere e si può ripartire. Un'ulteriore convenienza è data dalla reazione elettrochimica: per ogni chilo di idrogeno in polvere, se ne producono due da trasformare in energia. “Il chilo in più – sostiene l'amministratore delegato di Electriq Global – è fornito dall'acqua”.
Non possiamo, per ora, sapere se e quando avremo auto al caffè di idrogeno. Anche perché sostituire il parco macchine e l'intera filiera del petrolio, dalle raffinerie a un numero di distributori sufficienti, richiede tempo. Ma l'Olanda sembra crederci. Nel porto di Amsterdam è in costruzione la prima fabbrica di idrogeno in polvere che, tra gli altri impieghi, può essere sperimentato nel trasporto pesante, nella navigazione fluviale e nella fornitura di elettricità a concerti e manifestazione pubbliche. “Se vogliamo che l'idrogeno sia il vettore energetico del futuro – aggiunge Halpert – dobbiamo renderlo adatto a molteplici applicazioni”. Paesi come Grecia, Italia e Spagna, con il loro potenziale di energia solare, potrebbero facilmente ospitare fabbriche di metaborato di potassio. E in un futuro non troppo lontano, magari ogni mattina prima di andare al lavoro, metteremo una cialda di caffè... padron, di idrogeno verde nel generatore della nostra e-bike.
Articolo di Fabrizio Gatti per today.it
Il Liceo Artistico Nervi-Severini di Ravenna ha istituito il congedo mestruale per le studentesse che soffrono di dismenorrea (termine medico con cui vengono indicati i dolori associati al ciclo mestruale) e che lo richiedano, che potranno assentarsi da scuola in maniera giustificata per un massimo di due giorni al mese. La delibera con la quale il consiglio di istituto del liceo ravennate ha dato avvio all'iniziativa - partita da un gruppo di studentesse dello stesso istituto - è stata pubblicata nei giorni scorsi sull'albo online della scuola. "Probabilmente - ha spiegato il preside Gianluca Dradi - per una scuola si tratta della prima iniziativa di questo genere in Italia". E in effetti non si trovano informazioni su altri istituti scolastici che abbiano attuato misure simili.
La novità, come prevedibile, ha diviso in due l'opinione pubblica tra chi è a favore dell'iniziativa e chi, invece, la considera "esagerata" e teme che le studentesse possano approfittarsene. Certo, il rischio di approfittatori quando si crea un diritto c'è sempre, ma non per questo si può rinunciare a crearlo lasciando in difficoltà le ragazze che, invece, soffrono davvero per questo problema e che sono tante: secondo uno studio del 2020 condotto dall'University of Virginia Health System, infatti, in circa il 5-15% delle donne con dismenorrea primaria i crampi sono abbastanza gravi da interferire con le attività quotidiane e possono comportare l'assenza da scuola o dal lavoro.
"Io puntualmente sporcavo la sedia e i vestiti perché non potevo andare in bagno più di una volta all'ora, poi prendevo 8 in condotta per punizione se stavo a casa una volta al mese, nonostante avessi il certificato di dismenorrea. L'endometriosi me l'hanno diagnosticata 18 anni dopo. La professoressa di ginnastica, avendo lei il ciclo leggero, non credeva a nulla e ci obbligava a farla peggiorando la situazione", racconta una ex studentessa ravennate. Il problema è reale, tanto reale che il liceo Nervi-Severini richiede un certificato medico che attesti la diagnosi di dismenorrea per concedere il congedo mestruale. E così il rischio di "approfittatrici", se forse non si annulla del tutto, almeno si riduce drasticamente.
E nel mondo del lavoro?
Chi è contro la misura del liceo ravennate sottolinea il fatto che, nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro, le studentesse si troverebbero in difficoltà, in quanto nel mondo del lavoro non esiste il congedo mestruale. "La donna lavoratrice che soffre di dismenorrea, in forma tale da impedire l'assolvimento delle ordinarie mansioni lavorative giornaliere, ha diritto di astenersi dal lavoro per un massimo di tre giorni al mese". Purtroppo il testo di questa proposta di legge partito da quattro parlamentari del Pd non si è mai tramutato in legge vera e propria, ma è rimasto in stallo dal 2016. In Italia, si legge nella proposta, dal 60 al 90% delle donne soffrono durante il ciclo mestruale, e questo causa tassi di assenteismo dal 13 al 51% a scuola e dal 5 al 15% sul lavoro.
Diverso all'estero: in Spagna, a maggio 2022 la Camera dei deputati ha dato il primo via libera al disegno di legge che introduce un congedo mestruale per le donne che soffrono di mestruazioni molto dolorose. Se la misura verrà confermata al Senato, la Spagna sarà il primo Paese dell'Unione Europea a introdurre una legislazione di questo tipo seguendo l'esempio di altri Stati, come Giappone, Indonesia e Zambia, che hanno già introdotto forme di congedo mestruale. In molti di questi Paesi, però, molte donne scelgono comunque di non usufruirne per il rischio di essere discriminate.
E qui entra in gioco un altro rischio, ben più grave di quello decantato da chi teme che le studentesse possano approfittarsi del congedo mestruale: quello di creare un'ulteriore discriminazione per le donne, alla pari del "rischio maternità". Se, purtroppo, ancora molti (troppi) datori di lavoro si chiedono perchè assumere una donna se questa può restare incinta e godere quindi della maternità, allo stesso modo gli stessi datori potrebbero chiedersi perchè assumere una donna se può assentarsi dal lavoro fino a tre giorni al mese a causa del ciclo mestruale.
Secondo una ricerca del 2020 svolta dall'Istituto Nazionale Astraricerche, infatti, il 35,2% delle donne intervistate teme che il congedo mestruale porterebbe a un peggioramento della situazione lavorativa femminile, aumentando la diffidenza dei datori di lavoro verso l'assunzione di donne. Il 27,9% delle intervistate, inoltre, ritiene che il congedo mestruale "sminuirebbe le donne, lasciando passare il concetto che la capacità lavorativa di una donna varia in base ai cambiamenti ormonali". Solo il 34,6% delle intervistate ritiene che un Paese civile dovrebbe riconoscere la possibilità a chi sta male di non lavorare.
Quindi cosa fare? Rinunciare a un diritto per paura che questo possa ritorcersi contro le stesse donne? No: credo che rinunciare a un diritto non sia mai la soluzione. Quelle 16 studentesse del liceo ravennate dalle quali è partita la proposta di congedo mestruale sono 16 future lavoratrici. La speranza, allora, è quella che anche una volta inserite nel mondo del lavoro quelle 16 ragazze - e come loro tante altre giovani donne, sempre più consapevoli dei loro diritti - possano far sentire la loro voce e creare un ulteriore cambiamento anche in un contesto lavorativo.
Articolo di Chiara Tadini per today.it
Ci sono alcune serie che lasciano il segno per la loro trama avvincente, per i colpi di scena perfettamente posizionati nella storia, per un'ottima colonna sonora, una bella fotografia, un finale a sorpresa che lascia addosso quel desiderio di voler scoprire come andranno a finire le cose. Alcune serie coinvolgono per la bravura degli attori protagonisti, per la complessità dei personaggi che vengono raccontati, per l'epoca storica che rievocano. Altre, invece, hanno la capacità di imporsi con forza nella mente e nel cuore di chi le guarda per il saper rendere partecipi di un'esperienza visiva che si avvicina più alla realtà che alla finzione, che è talmente ruvida, spigolosa, brutale da assumere tutte le caratteristiche di un fatto reale, quasi di un ricordo personale e diventare, così, vissuto più che visione. La vita bugiarda degli adulti appartiene a questa tipologia di serie tv.
Netflix con questo titolo, tratto dall'omonimo romanzo di Elena Ferrante, e con una straordinaria regia di Edoardo De Angelis ha dimostrato che quando ci si libera del superfluo e si racconta una storia reale, tangibile, sensoriale, è impossibile non innamorarsene anche dei suoi lati più bui, più contraddittori, più sporchi.
La vita bugiarda degli adulti è un racconto di formazione che segna l'irruento passaggio dall'infanzia all'adolescenza di una ragazza ribelle ma di buona famiglia nella Napoli del 1990. In questa serie che vede l'esordiente Giordana Marengo nei panni della protagonista Giovanna al fianco di una veterana Valeria Golino, c'è una continua alternanza di elementi contrastanti che contribuiscono all'equilibrio perfetto di una storia che si regge tra sapienza e ignoranza, fedeltà e tradimento, ribellione e accondiscendenza, curiosità e accidia, ricchezza e povertà. Vedere La vita bugiarda degli adulti equivale a fare una vera e propria esperienza di vita, ci si immedesima, si viene coinvolti, si resta spiazzati, si soffre e si gioisce insieme ai personaggi della storia che sono il vero punto di forza di questa serie. Non servono descrizioni, non servono trame personali avvincenti, ai protagonisti de La vita bugiarda degli adulti basta esistere, vivere nello schermo e parlare al pubblico.
Questa serie con la sua forza comunicativa e il suo coraggio nel mostrare tutto il brutto della vita adulta fatta, per forza di cose, di continue bugie, sbatte in faccia a tutti una realtà che sullo schermo spesso viene edulcorata ma che, in questo caso, è cruda ma più viva che mai.
Perdersi questo viaggio alla riscoperta di cosa vuol dire essere adolescenti, sognare, credere che i propri genitori siano eroi senza macchia e pensare che essere adulti significhi custodire una saggezza tale da tenersi alla larga di qualsiasi tipo di errore, per poi venire delusi da tutta l'imperfezione di quelli che, per convenzione, vengono definiti adulti è un'esperienza straziante e meravigliosa che lascia un graffio nell'anima.
Articolo di Marianna Ciarlante per today.it
Adele (nome di fantasia, ndr) era una studentessa universitaria di 19 anni che frequentava la Iulm di Milano. Non sappiamo ancora chi era davvero, quali fossero le sue passioni e i suoi desideri per il futuro. Sappiamo solo che ha deciso di togliersi la vita nel bagno della sua università, scusandosi "per i suoi fallimenti".
Quasi 2 giovani al giorno si uccidono in Italia
Il suicidio di Adele, purtroppo, è solo l’ultimo di una lunga serie. Ogni anno in Italia, secondo i più recenti dati Istat disponibili, aggiornati al 2019, si contano circa 4.000 suicidi all’anno, il 13% dei quali – circa 500 – fra gli under 34. Di questi 500, si contano circa 200 casi tra gli under 24, che in altissima percentuale risultano essere proprio studenti universitari. La situazione è drammatica ed è divenuta ancor più drammatica con la pandemia, che ha di fatto avuto un ruolo da detonatore di problematiche già latenti soprattutto tra i giovanissimi. Sempre secondo l’Istat, infatti, nel 2021 in Italia 220mila ragazzi tra i 14 e i 19 anni si dichiaravano insoddisfatti della propria vita e in una condizione di scarso benessere psicologico.
Numeri impressionanti, che però sembrano non sconvolgere più di tanto chi dovrebbe occuparsi di trovare soluzioni a questi disagi, frutto di una società che non tollera il fallimento, fondata sulla competizione estrema, alla perenne ricerca del successo e che arriva a bullizzare chi non è in grado di rispettare determinati standard e aspettative. Una società che, soprattutto, considera i giovani non il futuro e una leva per la crescita del Paese, ma carne da macello utile solamente ad alimentare un modello di vita, professionale e personale, ancora arroccato a logiche anni ’50.
Sono passati pochi mesi dalla morte di Riccardo Faggin, studente universitario di 26 anni che ha deciso di togliersi la vita simulando un incidente stradale. Anche in quel caso, tutta Italia ha parlato della drammatica vicenda per giorni. E poi? Finita nel dimenticatoio. Il sipario è calato velocemente sia sulla storia di Riccardo che soprattutto sull’analisi di un fenomeno in preoccupante ascesa e che nessuno sembra aver intenzione analizzare e comprendere per trovare delle soluzioni.
Il bombardamento dei "supereroi"
Di contro, i media, un giorno sì e un giorno no, ci bombardano di storie di laureati prodigio che finiscono il proprio percorso di studi con anni di anticipo, che discutono la tesi di laurea durante il travaglio e di superuomini e superdonne che vivono esclusivamente per lavorare e che esaltano lo spirito di sacrificio dove per sacrificio si intende l’essere disposti a qualsiasi cosa pur di lavorare, anche 12 ore al giorno per un tozzo di pane senza avere alcuna vita al di fuori della propria professione.
Storie raccontate a tambur battente come se in qualche modo si volesse instillare nella mente dei ragazzi che basta volerlo per farcela, è solo questione di volontà, dimenticando però che in particolare l’Italia è uno dei Paesi Ocse con i peggiori indicatori per quanto riguarda il benessere economico e professionale dei giovani under 34, che vivono una condizione di precariato e stipendi risibili molto peggiore di quella vissuta dai propri genitori alla stessa età.
In questa narrazione nulla contano le difficoltà, i disagi, i disturbi. Di quelli nessuno tiene conto, anzi sono elementi di disturbo che è bene nascondere sotto il tappeto. “Guarda, questa ragazza è riuscita a laurearsi scalando le montagne e studiando 18 ore al giorno, perché tu non puoi farcela?”. E via oggi, via domani, questi messaggi tossici iniziano a insinuarsi nelle menti delle persone più fragili, che continuano a sentirsi completamente inadeguate alle aspettative che la società impone loro. E a volte, capita che qualcuno non riesca più a resistere a questa continua pressione psicologica e soccomba. Com’è capitato ad Adele, a Riccardo e alle centinaia di ragazzi che negli ultimi anni sono arrivati a togliersi la vita scusandosi per i propri fallimenti universitari e professionali.
Articolo di Charlotte Matteini per today.it
Da sempre al fianco dell’Uomo in un legame antico come il tempo, il cane ha conquistato il cuore di tutti con un'intesa profonda fatto di sguardi, fedeltà e amicizia. Fin dal 1925 data di costituzione del primo reparto cinofili della Pubblica Sicurezza, i cani hanno accompagnato la vita della nostra Istituzione decretando così la loro insostituibile presenza nei ranghi della Polizia.
In questa pagina troverete i video con le storie di alcuni cani poliziotto e dei loro conduttori, che si son resi protagonisti di vicende e operazioni di Polizia. Seguite ogni domenica, a partire dal 1° dicembre, alle 13,40 sul tg 5 nella rubrica "l'Arca di Noè" le storie di Ares, Amper, Kira e tanti altri nostri "colleghi".
Matteo e Leo insieme sono specializzati nella ricerca di persone scomparse in superficie e sotto le macerie. Nel 2016 ad Arquata del Tronto, Leo e Matteo hanno salvato una bambina rimasta sotto le macerie della sua casa dopo il sisma che ha colpito il centro Italia.
La sicurezza è il loro mestiere: Kira e Donato sono un’unità cinofila antiesplosivo e lavorano all’aeroporto di Malpensa.
(dal sito https://www.poliziadistato.it/articolo/cani)