♥ Tutto sulla Tecnica
Vivi un’esperienza entusiasmante in una delle più belle e caratteristiche città del sud della Francia, durante il più importante evento di fotografia del mondo! Arles, Francia dal 4 al 10 luglio 2022
Non hai mai visitato il festival di fotografia di Arles? Non sai cosa ti sei perso! Ci sono stato la prima volta nel 2017 e da allora non ho mai perso un’edizione del festival.
Il festival “Les rencontres de la photographie” vanta una storia composta da oltre 50 edizioni durante le quali ogni anno i principali attori del mondo della fotografia a livello mondiale vi si ritrovano.
Il festival di Arles è una boccata d’ossigeno, un’occasione per scoprire le ultime tendenze della fotografia contemporanea, ma anche per guardare qualche mostra che celebra uno dei grandi maestri della fotografia. Insomma ce n’è per tutti i gusti: dalla fotografia “tradizionale”, fino all’arte contemporanea.
Certo, la prima volta orientarsi è complicato: che tipo di biglietto acquisto? Qual è il programma? Dove sono ubicate le (decine di) mostre? Che consigli sull’alloggio? Conviene arrivare in aereo, in treno o in auto? E le letture portfolio? E le serate? Dove conviene mangiare?
Immagina di avere a tua disposizione una guida esperta per tutta la settimana inaugurale del festival “Les rencontres de la photographie” ad Arles. Ogni giorno ci muoveremo in gruppo per visitare le mostre e avrai modo di confrontarti con me e gli altri partecipanti sulla qualità delle esposizioni.
MIGLIORA LA TUA PRATICA FOTOGRAFICA
Avrai a disposizione un docente esperto a cui porre domande sulla fotografia, sia di carattere tecnico (legate ad esempio all’utilizzo della tua fotocamera) che legate ad altri argomenti, come lo sviluppo del linguaggio o di progetti fotografici.
Contemporaneamente seguirai un corso di composizione fotografica in cui, in seguito a brevi sessioni teoriche, ogni giorno ti verrà assegnato un esercizio diverso. Alla fine della settimana le foto scattate saranno visionate assieme.
Insomma vivrai un’esperienza entusiasmante in una delle più belle e caratteristiche città francesi, durante il più importante evento di fotografia a livello mondiale!
Hai qualche domanda?
di Alessandro Mallamaci https://workshop.alessandromallamaci.it/
Il primo film con commento sonoro registrato direttamente su pellicola fu “Don Giovanni e Lucrezia Borgia ” del 1926 di Alan Crosland.
L'anno successivo nel 1927 uscì un altro film sonoro, musicato e parlato, diretto dallo stesso Crosland col titolo “Il cantante di jazz”.
Ma l'affermarsi del suono determinò un grave arretramento rispetto alle conquiste linguistiche ed espressive a cui era giunto il cinema muto.
Alla fine degli anni venti nasce la colonna sonora formata da tutte e tre le materie d'espressione di cui si articola il suono: parole, rumori e musiche .
Un'immagine, nel momento in cui è accostata ad un suono, può produrre un significato diverso da quello che essa produce quando ne è ancora priva. Michael Chion (teorico che ha studiato le funzioni del suono nel cinema) parla di valore aggiunto: inteso come il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un'immagine data, sino a far credere che questa informazione sia già contenuta nella sola immagine.
Nel découpage classico il sonoro ha la funzione di unificare il flusso delle immagini, di attutire l'effetto di brusca rottura implicita di ogni stacco. (es. in un dialogo campo / controcampo : effetto di accavallamento sonoro p.227).
La stessa funzione unificante è giocata dal suono ambientale che può rimanere costante e continuo per tutta la durata di una scena frammentata da una successione di diverse inquadrature.
Essenziale è il ruolo della musica che avvolge le diverse immagini in un unico e continuo flusso sonoro.
Nel cinema classico un particolare effetto drammatico può essere enfatizzato attraverso un brusco contrasto audio-visivo, dove lo scontro tra due immagini decisamente diverse fra loro è amplificato da un conflitto sonoro di eguale portata.
Il suono è sottoposto a un processo di selezione e combinazione (es. dialogo in un parco: verranno presi solo un certo tipo di suoni).
Una volta selezionati i suoni vengono combinati fra loro dando vita al montaggio sonoro.
Qui il volume di ogni suono acquista un'importanza particolare: alcuni suoni saranno regolati su un volume più alto, altri su uno più basso. Si tratta cioè di scegliere quali suoni mettere in evidenza e quali mettere in secondo piano.
Il montaggio dei suoni e la regolazione del loro volume è quell'operazione definita come missaggio.
Dal momento che suoni e immagini instaurano uno stretto rapporto di interrelazione, il montaggio sonoro e quello visivo finiscono col dar vita a un'unica forma di montaggio detta appunto montaggio audio-visivo, che non si dà solo nella forma della successione, ma anche in quella della simultaneità.
Nel montaggio audiovisivo si può pensare a due grandi ordini di rapporti, fra suono e immagini che riguarda lo spazio e fra suono e racconto che riguarda il tempo.
- Dal punto di vista dello SPAZIO si può distinguere fra:
• Suono diegetico: si intendono tutti i suoni che fanno parte della diegesi del film (es. voce person, traffico stradale).
• suono in campo (SUONO IN): la fonte sonora è all'interno dell'inquadratura
• suono fuori campo (SUONO OFF): la fonte sonora è all'esterno dell'inquadratura
-ha la funzione di estendere lo spazio dell'inqu. per meglio contestualizzarla;
-ha la funzione di creare un senso d'attesa nello spettatore, di invitarlo a fare ipotesi.
• Suono extradiegetico (SUONO OVER): si intende il suono che sente lo spettatore (che non si colloca nello spazio della storia, bensì in quello ideale della sua narrazione).
Chion individua 3 tipi di suoni:
• Suono ambiente: è il suono che avvolge l'intera scena
• Suono interno: proviene dalla realtà interna del personaggio (pensieri, ricordi…)
• Suono esterno: ha origine da una sorgente fisica ben precisa
• Suono on the air: è il suono trasmesso da strumenti quali radio… (la loro sorgente ultima può essere in campo, ma fuori campo ne è la sorgente primaria).
Un termine entrato rapidamente nel dizionario della teoria del cinema che si occupa dei rapporti fra suono e immagini è il termine acusmatico e significa suono che “si sente senza vedere la fonte da cui proviene”. Al suono acusmatico si oppone il suono visualizzato.
Si ha uno sguardo selettivo quando, accompagnandosi ad un'immagine, il suono può dirigere la nostra attenzione su un suo elemento o su un altro. Lo spazio rappresentato da un'inquadratura può così essere disarticolato ed alcune sue componenti messe in evidenza.
Il supercampo è una sorta di campo audiovisivo determinato non solo da ciò che l'immagine ci mostra ma anche da quel suono ambiente fatto di parole, musiche e rumori che proviene dagli altoparlanti della sala.
Il suono inoltre può anche suggerire la distanza della sua sorgente: un suono fuori campo che progressivamente si intensifica darà l'impressione dell'avvicinarsi di qualcosa o qualcuno.
- Dal punto di vista del TEMPO si deve distinguere fra:
• suono simultaneo: si realizza quando il sonoro e l'immagine si danno in uno stesso tempo narrativo
• suono non simultaneo: è quell'effetto sonoro che anticipa o segue le immagini che noi stiamo vedendo in un momento dato. Un caso frequente è quello del ponte sonoro: sono brevi anticipazioni sonore in cui le parole, le musiche o i rumori della scena immediatamente successiva a quella presente sullo schermo, iniziano già a sentirsi prima che se ne vedano le immagini.
Inoltre, si individuano due tipi di percorsi :
a) il suono visualizzato che può diventare acusmatico (si associa un suono a un'immagine. Poi comparirà solo il suono che ricorderà quell'immagine)
b) il suono acusmatico che diventa visualizzato (si preserva a lungo il segreto della causa di un suono)
Si può parlare di ritmo sonoro a partire da due sue componenti chiave:
la velocità è determinata dalla durata degli intervalli (se l'intervallo è breve il suono avrà un ritmo veloce);
e la regolarità per cui, se le durate degli intervalli sono uguali, avremo un ritmo regolare, se non sono uguali sarà irregolare.
Il cambiamento del ritmo sonoro può preludere a determinati sviluppi drammatici o connotare la realtà interiore di un certo personaggio.
L' auricolarizzazione interna è quella che àncora un suono diegetico a un determinato personaggio: essa è primaria quando questo suono assume una dimensione soggettiva; è secondaria quando determinati meccanismi visivi o di montaggio la evidenziano.
L' auricolarizzazione esterna si ha nei casi in cui i suoni dei film non sono ancorati a un determinato personaggio e implica anche i suoni extradiegetici, che non possono essere sentiti dai personaggi. (pag.242)
Come accade per la musica, anche la PAROLA al cinema non fa la sua comparsa con il sonoro. Essa trovava ai tempi del muto almeno due mezzi di trasmissione (che avevano la funzione di informare lo spettatore di quei dati essenziali per la comprensione del racconto che le sole immagini non erano in grado di fornire):
il narratore che pronunciava delle parole in simultaneità con l'immagine, ma il suo testo comportava un margine d'improvvisazione;
le didascalie che avevano eliminato questo margine fissando nella pellicola le parole emanate, ma il loro intervento non poteva che darsi nella successione delle immagini.
La registrazione sonora permette di ritrovare la simultaneità di parola e immagine. Si ha la cosiddetta
Presa diretta quando la registrazione sonora è simultanea alla ripresa visiva e non successiva ad essa.
In questo modo i rumori d'ambiente possono limitare l'intelligibilità delle parole. Ma questa può anche essere una cosciente scelta espressiva (es. Riff raff: un lavoratore parla e ci sono voci di sottofondo).
La VOCE assume un ruolo di primo piano in quanto supporto della parola. Musiche e rumori non devono assolutamente impedire alla voce di essere agevolmente compresa.
Chion distingue tre tipi diversi di parola presenti al cinema:
• parola - teatro: è la parola dei dialoghi, emanata dai personaggi e può assumere funzioni informativa, drammatica, psicologica…
• parola – testo: si caratterizza per una diversa fonte di emissione: è la parola del narratore. Essa agisce sul corso delle immagini, le evoca e ne stabilisce o contraddice il senso.
• Parola – emanazione: essa si dà nel momento in cui un dialogo fra personaggi non è totalmente intelligibile.
La parola serve a far circolare delle informazioni fra i personaggi del film da una parte e tra il film e il suo spettatore dall'altra. La parola può sostituirsi alle immagini raccontando eventi o descrivendo situazioni.
Ci sono due distinzioni da fare:
• La prima riguarda la quantità delle informazioni. Ci sono 3 casi:
• la parola dice di più di quel che dicono le immagini;
• la parola dice quel che dicono le immagini;
• la parola dice meno di quel che dicono le immagini.
• La seconda riguarda la qualità delle informazioni. Ci sono 2 possibilità:
• immagine e parola dicono la stessa cosa;
• immagine e parola dicono due cose diverse.
(es. nella presentazione iniziale di ‘Jules e Jim' del 1961 pag.251)
Fra le funzioni essenziali che la parola assume in rapporto alle immagini c'è quella di ridurre le ambiguità di cui le immagini sono portatrici.
Inoltre l'idea che immagini e parole possano si essere articolate fra loro sul piano del montaggio audiovisivo ma anche mantenere una loro sostanziale autonomia, arrivando anche a contraddirsi, trova esempio nel film ‘L'uomo che mente' del 1968 di Grillet, in cui il personaggio che racconta la sua storia dice di entrare in un albergo vuoto, mentre noi lo vediamo fare il suo ingresso in un hotel affollato.
Nei primi film muti le immagini erano accompagnate da una MUSICA in sala e in casi speciali eseguita da un'orchestra o da un coro. La funzione principale della musica che accompagnava i film era quella di riflettere nella mente dello spettatore il clima della scena e quindi di suscitare emozioni.
Si possono individuare due grandi modi attraverso cui la musica al cinema si rapporta alle immagini:
• quello della partecipazione: la musica esprime la sua partecipazione all'emozione della scena.
• quello della distanza: la musica manifesta una sorta di indifferenza nei confronti della situazione rappresentata dalle immagini.
La musica ha dato vita a due figure dominanti i modelli di rappresentazione classica:
• il leitmotiv: è un tema melodico ricorrente che caratterizza fatti, momenti o personaggi di un film;
• avvio (o interruzione improvvisa): si dà quando la musica si avvia o cessa di colpo col compito di accentuare un determinato evento.
Vale anche per la musica la distinzione tra musica extradiegetica, di discorso, di commento, e musica diegetica, avente valenza informativa, emessa da fonti sonore diegetiche presenti all'interno della storia narrata. (pag.256)
Nel cinema sonoro la prima e più evidente funzione del RUMORE è quella di definire e rendere credibile la rappresentazione di un determinato ambiente.
APPUNTI PER L'ESAME DI:
ISTITUZIONE DI STORIA DEL CINEMA
al DAMS di Torino -2004
Tratto dal libro
MANUALE DEL FILM
Linguaggio, racconto, analisi
di GIANNI RONDOLINO, DARIO TOMASI
Libreria UTET
La situazione al via delle ricerche: Curiosamente era già noto che il film fosse stato girato a Venezia (in parte grazie anche al titolo, credo) da Enrico Maria Salerno, ma non era ancora stata avviata una ricerca dei luoghi esatti, salvo qualche sporadica location perlopiù facilmente riconoscibile. Questa è la storia di una delle più lunghe gestazioni in cui è incorso uno speciale location davinottico. La ricerca dei luoghi di Anonimo veneziano era partita già tre anni fa e molte di esse erano anche già state fotografate nel 2009, solo che mancava una fonte decente da cui ricavare i fotogrammi. La vhs era di qualità scadente, e un film così, in cui le location mirabilmente fotografate da Marcello Gatti rivestono un'importanza fondamentale (buona parte del film si svolge tra calli, ponti e canali), meritava di meglio. Poi ecco che un giorno mi accorgo che in Spagna il dvd era uscito (pure con la traccia in italiano) e decido di acquistarlo. Grossa la delusione, nonostante la qualità video sia nettamente superiore a quella del vhs: mancano infatti alcune scene presenti nella versione italiana, per le quali sono quindi dovuto ricorrere alla vhs... La forza delle immagini restitute dal dvd rende ad ogni modo giustizia a quella che resta una pellicola di grande successo e molto particolare, un melodramma maturo puntellato dalle immortali note di Stelvio Cipriani e dall'Adagio per oboe e archi di Alessandro Marcello. Cominciamo quindi il viaggio e lasciatevi trascinare (se avete visto il film) dai ricordi. Perché se è vero che sul valore dello stesso i pareri sono contrastanti, sull'abilità nello scegliere le location solitamente tutti concordano.
Non si è precisata la città per le location perché sono tutte, senza eccezioni, veneziane, e sono stati aggiunti brevi citazioni di dialoghi per illustrare meglio le situazioni brevemente descritte. Un ultimo ringraziamento all'insostituibile Grada, che mi ha aiutato nell'estenuante compito di trovare tutte le location e fotografarle...
01. INCONTRO ALLA STAZIONE(Zender)
Enrico (Tony Musante) si aggira per la stazione di Venezia pensieroso. Sta attendendo il treno che riporterà da lui Valeria (Florinda Bolkan). Valeria arriva, sul binario 6, e il primo scambio di battute non è di quelli che rompono il ghiaccio… “Grazie d’essere venuta”, dice lui. “Me l’ha consigliato l’avvocato”, la freddissima risposta di lei. Insieme i due si avvieranno a prendere il vaporetto sul pontile di fronte alla stazione. Seguirà breve viaggio cartolinesco sul Canal Grande (con passaggio obbligato sotto il Ponte di Rialto). La stazione di Venezia non è troppo cambiata da allora, anche se l'atrio principale è attualmente in divenire e quindi di fatto scarsamente fotografabile. Fino a poco tempo fa era ancora come lo vedete nel film (con alcune differenze nella disposizione dei negozi, ovviamente).
02. IL RICORDO DEL PRIMO INCONTRO A CA’ FOSCARI (Zender)
Durante il tragitto sul Canal Grande il vaporetto passa di fronte a Ca’ Foscari (poco plausibile come percorso, si vede come il montaggio sia stato fatto fregandosene della reale direzione delle linee di allora e di oggi, come prevedibile e giustificabile). A quel punto Enrico ricorda il giorno in cui per la prima volta si incontrarono, in quella scuola. In realtà però le immagini non ci mostrano affatto il cortile e il palazzo di Ca’ Foscari quanto quelli del Conservatorio Benedetto Marcello, ad almeno un chilometro da lì e già usato molto di frequente dal cinema (anche per la bellezza stessa del palazzo, sito a ridosso di Campo San Stefano).
03. A PASSEGGIO PER LA SALUTE(Zender)
Scesi dal vaporetto in un pontile non identificabile (troppi stacchi di montaggio, inquadrature strettissime) i due cominciano a discorrere passeggiando, e il primo scorcio che vediamo è quello celeberrimo di Campiello Barbaro, dietro Palazzetto Dario alla Salute, ancora una volta una location utilizzatissima dal cinema, visto che si tratta di uno dei campielli più suggestivi dell'intera città. Quattro passi e corentemente i due fanno un ponte e passeggiano sulla fondamenta Ospedaletto, che sta lì nei pressi, sempre nella zona della Salute. Il pub "Ai gondolieri" resiste ancor oggi, a conferma di una città tra le meno cambiate, nel corso degli anni. Valeria ed Enrico intanto cominciano a parlare di soldi e avvocati…
04. DOVE ABITAVA ENRICO(Zender)
Appena svoltato l’angolo, alla Salute, i due si ritrovano improvvisamente da tutt’altra parte. “Abiti sempre qui a San Samuele?” chiede Valeria. Ed in effetti i due si trovano proprio a San Samuele (visibile il cartello con l’indicazione per Palazzo Grassi), dalla parte opposta del ponte dell'Accademia ovvero sulla riva opposta del Canal Grande. Si parla anche dei figli, che Enrico non vede da un pezzo… Poi un passaggio per il ponte accanto a Piscina San Samuele, altra location abusata dal cinema di ogni tempo. Oggi le ringhiere in legno sono diventate di ferro, ma la forma caratteristica del ponte è rimasta la stessa.
05. TAPPA AL BAR DI SANTO STEFANO (Zender)
“Ci mettiamo qui fuori?”.Enrico propone di sedersi sui tavolini esterni del bar che fa angolo con Calle San Maurizio, un locale che ha cambiato proprietario infinite volte ma che ha sempre mantenuto uno status di bar d’elite. Due caffè (con pillole) servito al tavolo, piccola chiacchierata col barista (citazione anche per “Il gazzettino”, storico quotidiano locale ancora in vita). Siamo in Campo San Stefano, a pochi passi dalla finta Ca' Foscari incontrata precedentemente. Anzi, il palazzo sullo sfondo è proprio quello a fianco del Conservatorio.
06. SOTTO I PORTICI E IN GONDOLA(Zender)
Sale il vento, e i due in un attimo si ritrovano ben distante da San Stefano, visto che siamo invece nel sotoportego Zambelli che dà su Campo San Giacomo Dall'Orio. Si risvegliano i ricordi e partono ancora i flashback. Ci si rinfacciano le reciproche sofferenze e si fa un passaggio sul Canal Grande nella gondola che porta a San Stae (di cui si vede charamente la chiesa). E’ ancora il momento di parlare di divorzi e avvocati. I due scendono correttamente a San Stae ma subito dopo sono sorprendentemente di nuovo a San Polo (perché prendere la gondola per ritornare subito indietro, ci si chiede. Ma andiamo, il cinema è fatto così, lo sappiamo tutti).
07. A TEATRO(Zender)
Enrico è un direttore d’orchestra, e quando lo vediamo provare, solitario, in teatro, davanti alla stupita Valeria, imitando con la bocca i suoni degli strumenti (subentrerà in colonna sonora la musica “con orchestra” che andrà a sovrapporsi al popopopo di Enrico), le immagini mostrano una struttura ricchissima sulle cui poltrone Valeria si siede. Il teatro in cui si consuma questo simpatico siparietto è quello celeberrimo della Fenice, in campo San Fantin. Pochi dubbi in proposito, visto che una simile ricchezza scenografica non poteva che appartenere al più importante teatro di Venezia (e non solo).
08. RITORNO ALLA CASA D’UN TEMPO(Zender)
“Eccola”. Enrico e Valeria si fermano davanti alla casa che li ospitò appena sposati. Siamo in Campo della Maddalena. Nuovi flashback del loro arrivo in casa, felici. La casa ora è diventata una sartoria e il proprietario, disturbato da Enrico che suona per farlo accorrere in finestra, non accetta di far salire i due per l’improvvisato Amarcord. “Avevo sempre fame, non facevo che mangiare”, dice lei. “Nessuno ha fatto l’amore come noi due”, insiste lui che tenta continuamente il riavvicinamento. Il campiello, che si apre a destra della lunga Strada Nuova provenendo dalla stazione, è molto suggestivo e conserva intatto ancora quasi tutto di ciò che si vedeva quarant'anni fa.
09. PASSEGGIATA TRA I PANNI STESI(Grada)
Sempre continuando la loro conversazione, Enrico e Valeria passeggiano su una fondamenta girando poi a sinistra ed entrando in una zona di case popolari dove la prima cosa che si nota sono i tantissimi panni stesi sulle corde tirate tra le case. Trovare questa location è risultato particolarmente arduo. Benché non siano tantissime le zone che a Venezia possono presentare un “paesaggio” simile, rintracciare il punto esatto ha significato visitare più posti prima di arrivare alla soluzione. Alla fine Grada è giunta in una zona della Giudecca che poteva assomigliare a quella del film e, facendo veloci raffronti coi fotogrammi, ha potuto concludere che la scena venne girata in rio di Sant’Eufemia girando poi verso Calle del Cantier e Calle de mezzo.
10. A PARLAR DI GRANCHI CONVERSANDO SU EMILIO(Zender)
“Cosa volevi da Emilio?”. “Non me ne frega niente di Emilio!”. Emilio è il nuovo fidanzato di Valeria, il cui solo nome fa alzare la voce a Enrico, che stava invece parlando di come si pescano i granchi e si conservano. “Mi fa schifo la tua mentalità boghese”, insiste Enrico. “Tu hai sempre giocato con me, con le mie paure…” replica Valeria. Il bello scorcio sulla laguna è ancora alla Giudecca, l’isola che sta di fronte alle Zattere. La scena, visivamente molto suggestiva, è stata ripresa da Ponte Sant’Angelo lungo la parte terminale del rio di Ponte Longo. Un altro posto in cui il tempo pare essersi fermato.
11. LA CONVERSAZIONE SI DRAMMATIZZA SUL PICCOLO PONTE(Manrico)
Continuando a parlare di Emilio, la conversazione si scalda. Enrico comincia ad alzare la voce, a dare addosso alla povera Valeria che finisce in lacrime su un piccolo ponte che ancora mostra una zona suggestiva di Venezia, con i panni stesi e un ponte che si apre su una fondamenta. Il ponte, per la precisione, è quello di Riello sull’omonima fondamenta, nella zona che da Via Garibaldi si dirige verso Castel San Piero. Una zona popolare distante dalla zona precedente, facendo immaginare un giro per la città molto particolare e vario. Per trovare il luogo esatto ho chiesto al nostro utente veneziano Manrico, che dopo una verifica e richieste diffuse ad amici e conoscenti, è riuscito infine a scovare il ponte.
12. A PRANZARE IN TRATTORIA(Zender)
“Che senso ha questo pellegrinaggio?”, chiede lei. “Ma niente, mica tutte le cose devono avere un senso”. Fatto sta ch alla fine i due si fermano per il pranzo. Nessun mistero sul luogo scelto dai due. Come ben mostrato dalle immagini siamo alla nota Locanda Montin, sulla Fondamenta di Borgo. E' un locale molto noto, che ha ospitato personalità di ogni genere e al cui interno campeggiano ancora i fotogrammi di Anonimo veneziano. Qui i due si accomoderanno sedendosi in giardino. Poca gente, atmosfera familiare, la locanda non è poi cambiata molto da allora. I due, durante il pranzo, si lasciano di nuovo andare ai ricordi: “Era bello? Dimmi…. Ti prego, voglio saperlo” domanda lui. “Con te… meraviglioso”, risponde Valeria.
13. IL SENSO DELLA MORTE, SUL PONTE (Zender)
I due, dopo pranzo, si ritrovano ancora alla Giudecca, nel punto dove Enrico aveva cominciato a parlare di granchi. Ed è qui che lui annuncia a lei che sta per morire. Colpo di scena: “Il fatto è che sto morendo…” “Che significa? Tutti stiamo morendo” “Ma vedi, io morirò presto davvero, cinque o sei mesi, forse meno, hanno detto i medici”. Lo shock è forte, Valeria non se l’aspettava, e questa confessione cambierà chiaramente il rapporto tra i due, aprendo una nuova fase della permanenza di Valeria a Venezia. Siamo sul Ponte Longo all'imboccatura del canale visto prima, come detto precedentemente, alla Giudecca.
14. SEDUTI IN PANCHINA E A FARE DA ARBITRI A RUBABANDIERA(Zender)
Continuando a parlare della drammatica situazione di Enrico, i due si ritrovano seduti su una panchina. Dietro di loro un gruppo di ragazzini ha bisogno di qualcuno che regga il fazzoletto per farli giocare a rubabandiera. Enrico accetta di fare da arbitro mentre Valeria resta seduta, pensierosa, in panchina. I due sono in questo momento seduti lungo Viale Piave, guardano il Canale di Sant'Elena e davanti a loro vedono nientemeno che lo storico stadio dove gioca ancor oggi il Venezia. Il "Penzo", con le sue inconfondibili finestrelle, occhieggia sempre sulla sinistra del fotogramma.
15. A STRUGGERSI AL PORTO(Zender)
Valeria si abbandona sulla spalla di Enrico: “Vorrei che fossi già morto”… “Lo so”, risponde lui. Intanto qualcuno viene a dir loro che non si può stare dove stanno, invitandoli a seguirlo per uscire (scena non presente sul dvd restaurato…). I tre insieme si dirigeranno verso i capannoni della Marittima, oggi quasi completamente abbattuti o riconvertiti in altro. Parlano del concerto che dovrà tenere Enrico, sulle note dell’Anonimo Veneziano di Benedetto Marcello. A dare la posizione esatta è una torretta che oggi non esiste più se non nelle mappe di Google e Bing. Grazie ad essa siamo anche in grado di individuare il “tunnel” esatto in cui Enrico e Valeria entrano per ritrovarsi, come per incanto, ad uscirne ben distanti…
16. VERSO SANTA MARTA(Zender)
Non si capisce bene come, ma l’uscita del capannone in cui i due erano entrati ci si vuole far credere che sia lo stesso dal quale li vediamo uscire. In realtà non è affatto così e, per quanto non si sia poi distantissimi, siamo in realtà da tutt’altra parte. I due infatti escono davanti al rio di Santa Marta, dove lui le chiede se lei vuole essere riaccompagnata in stazione. “No, andiamo a casa tua”, sarà la risposta. E' chiaro che il rapporto tra di loro sta cambiando, com'è chiaro che in questo la tragica rivelazione di lui ha avuto un'importanza fondamentale.
17. CASA DI ENRICO(Zender)
La casa di Enrico è una delle più celebri case veneziane: si tratta della cosiddetta casa dei tre occhi, alla Giudecca, caratterizzata da tre grandi finestre sul canale della Giudecca di forma inusuale. Enrico parla della sua malattia mentre Valeria è sempre più intristita dalla situazione. Parlano di dove faranno l’incisione. “A San Vidal, c’è un’acustica perfetta”, dice lui. E sarà davvero così, come vedremo. I due saliranno fin sul terrazzo con vista della casa, che è proprio quello della casa dei tre occhi. Ora è lei che non vuole più partire. Faranno l’amore…
18. AL MERCATO DI RIALTO(Zender)
Si parla di suicidio. “La vita ti vuol regare e tu con un anticipo magari del tutto ridicolo la freghi”. E’ naturale che chi è in punto di morte pensi al suicidio. “Essere il più forte, quello che decide”. Ma Enrico non ce l’ha fatta, e i due camminano sulla riva di Rialto dove sta il mercato (ma se ne vedono solo le bancherelle vuote). Enrico confessa di aver paura di morire (“Perché non dovrei aver paura?”) e questo dà il via a un nuovo spensierato flashback di quando i due erano innamoratissimi.
19. L’AMORE SULL’ERBA(Zender)
I ricordi, come detto, riattivano nuovi flashback. Qui i due si rincorrano tra l’erba come nella più classica delle iconografie tradizionali dell’idillio amoroso. Seminudi corrono nel verde per sedersi sul molo con vista sulla laguna. Non è stato facile trovare la certezza, per questa location, ma alla fine ci siamo arrivati. Sullo sfondo, con un po' di sforzo (e fotografie alla mano) si possono infatti riconoscere il campanile e la chiesa di Burano. Da come quindi è orientato il molo e dai cipressi che ornano l'isola si capisce che i due correvano sull'isoletta di San Francesco del deserto, dove sta il celebre monastero.
20. A COMPERARE UN VESTITO PER VALERIA(Grada)
“Adesso ti comprerò un vestito da regina, come le regine di un tempo che nelle grandi occasioni si vestivano tutte d’oro e d’argento… Qui fanno i broccati più belli del mondo”, assicura Enrico. Siamo alla Bevilacqua in campo san Zan Degolà e Valeria proverà un gran numero di vestiti mentre grande spazio viene lasciato alla colonna sonora. La scena è molto lunga e tra le altre cose mostra abbondantemente l'interno del "negozio", dove ancora oggi vengono conservati gli antichi telai. Una preziosa testimonianza di come lavoravano gli antichi tessitori.
21. A SAN VIDAL PER L’INCISIONE(Zender)
Accompagnato da Valeria Enrico, chiamato dagli altri “il professore”, arriva alla chiesa di San Vidal, in Campo San Stefano verso il ponte dell'Accademia. “Anonimo veneziano, concerto in do minore per oboe e archi, secondo movimento adagio, registrazione prova”, annuncia la voce dello studio, e il concerto comincia. Valeria ascolta per un po’ finché, distrutta dal dolore, esce. Con la suggestiva vista su Campo San Stefano si chiude il film. Titoli di coda e spettatori a piangere. Se esiste un film più strappalacrime di questo ditelo...
Testi: Zender - Tavole: Zender - Foto: Zender e Grada
dal sito davinotti.com
APPROFONDIMENTO INSERITO DAL BENEMERITO ZENDER (con l'aiuto di GRADA)
SD Standard Definition e HD High Definition
Nel 1989 Adcom non esisteva ancora, ma chi vi scrive era gia nel pieno dell'operatività, pronto per spiegare, o meglio snodare, le questioni aperte sul formato HD Europeo che sembrava essere prossimo sebbene formato da 15 proposte diverse.
Alle manifestazioni Europee dell'epoca come a Montreaux (Svizzera) l'alta definizione sembra sia realtà già nel 1989.
Ma nel 1992, forse l'analogico, forse che tutto il mercato che puntava sull'Italia detentrice del record assoluto di TV nel mondo (al di la delle dimensioni, stiamo parlando del numero), l'Italia è stata coinvolta in mani pulite e di conseguenza "bloccata" nei suoi intenti di cavalcare l'HDTV.
Fatto sta che per 10 anni non si è più discusso di Alta definizione, anche se le proposte dei produttori erano interessanti.
Solo nel 2002 gli USA hanno dato una scadenza irrevocabile: o le TV producono e distribuiscono in HD entro 5 anni (mantenendo la compatilità in Standard Definition NTSC) o si chiude!
Quindi tutte le TV Americane sono state coinvolte in un repentino cambiamento senza uno standard definito: 720p (60fps) o 1080i (60 semiquadri e quindi 30fps).
Oggi produrre in HD è semplice e collaudato, è sufficiente avere: Telecamere, Mixer e Videoregistratori e sistemi di trasmissione satellitari HD già disponibili sul mercato
Eppure alle olimpiadi di Atene 2004 ogni telecamera sul campo era accompagnata da un'altra telecamera in HD. Perchè?
L'alta Definizione, ad oggi, non ha un formato standard in quanto le caratteristiche principali sono state identificate per abbattere qualsiasi barriera tecnologica; infatti grazie ai Pixels quadri i produttori di telecamere, mixer etc. si sono finalmente allineati all'unico standard mondiale: il formato informatico.
I formati supportati dalla TV negli USA ed in Giappone sono 1080i e 720p, cioè 1920 x1080i interlacciati (60 semiquadri al secondo) o 1280x720p (60 fotogrammi interi al secondo)
Certamente questo formato consente risoluzioni elevate, ottima qualità, ma non consente di fare un Film a 24p o 25p.
Proprio per questo ritengo che Sony per il mercato Europeo abbia deciso di non supportare l' HDV 720p con la HDR-FX1E .
Tutelare gli investimenti fatti dalle più importanti case di produzione che hanno investito nel "vecchio" Cinealta 24P e in attesa del Cinealta SR è determinante.
La SMPTE EBU infatti è propensa al formato 720p per l'Europa, ma Sony cerca di forzare, proponendo il Camcorder HDR-FX1E 1080i prima di uno standard definito.
Non a caso l'HDR-FX1E nella versione Professionale NTSC denominata HVR-Z1 avrà il settaggio 720p ( progressivo a 30 fps), a differenza della versione PAL Professionale (HVR-Z1E a febbraio 2005) che sarà interlacciata come la HDR-FX1E (da menù sarà possibile settare solo la funzione Frame come sulla DSRPD170 ma con la conseguente perdita di mezza risoluzione).
La HDR-FX1E a mio parere è un Camcorder di elevatissima qualità e splendidamente concepito, sarà disponibile per il mercato PAL e quindi anche in Italia, tra circa 15gg. circa Adcom ne avrà 15 pz disponibili e prenotabili.
La grande inesperienza degli addetti ai lavori "ai piani alti" Sony Consumer ha fatto si che si crei una grande aspettativa per la HDR-FX1E. Infatti a differenza della DCR-VX2000 e 2100 sarà disponibile presso i rivenditori professionali oltre che sulla grande distribuzione.
La HDR-FX1E potrà essere utilizzata:
PAL DV con aspetto 4:3 per produzioni televisive attuali. (in alternativa alla DSR-PD170P)
PAL DV con aspetto 16:9 per produzioni dedicate alla TV 16:9 con un'ottimo risultato in quanto i CCD lavoreranno in 16:9 PAL nativi.
HDV 16:9 nativi con pixel quadro con immagini di spettacolare qualità, da lavorar e in HD non compresso, che una volta scaricate in DVD HD o su Blue Ray garantiranno un risultato di elevata qualità televisiva.
Per chi non ha seguito la mail della settimana scorsa sull'HDV sarà un'ottima sorpresa scoprire il 1080i:
1440x1080 pixels a 50 semiquadri al secondo con un'algoritmo di compressione eccezionale ma con compressione 30:1 circa.
Il 1080i sarà limitato alla riproduzione di produzioni televisive su grandi schermi predisposti (plasma e VPR HD) già disponibili.
Sarà invece sconveniente stampare su pellicola cortometraggi rinunciando a metà della risoluzione 1440x1080 (quindi 1440x540) con un fattore di compressione 6 volte superiore al DV25.
Certamente ci troviamo davanti ad una svolta tecnologica:
Canon immette sul mercato PAL la nuovissima XL2 (a 4.700,00 Euro + IVA circa) : la XL2 sostituisce la XL1s, migliorando notevolmente le performance (solo in Standard Definition).. ma mio parere con almeno 1 anno di ritardo!
A proposito vi siete mai chiesti perchè Canon non produce un Camcorder da spalla? forse gli manca la tecnologia ?
o ... forse perchè producendo le ottiche da 1/2" e 2/3" rischierebbe di entrare in concorrenza con Sony, Panasonic e JVC che di conseguenza non utilizzerebbero più le blasonate Ottiche Canon!
Sony spinge sulla HDR-FX1E
Un compatto Camcorder da 1/3" con disposizione dell'LCD geniale, inoltre con ottica Zeiss: HDV 1440x1080ì oltre che Standard Definition 4:3 e 16:9 nativi! Cosa chiedere di più?
Panasonic non abbraccia l'HDV, o meglio: Matsushita (la proprietaria del gruppo) lascia carta bianca a JVC (che come Panasonic, Technics, Ramsa sono in maggioranza di Matsushita) che definisce uno standard, l' HDV, Sony ed altre multinazionali si accodano formando un gruppo e Panasonic decide di anticipare i tempi: con 1 salto nel futuro riduce il video come la fotografia, Card PCMCIA compatibili con tutti i sistemi operativi disponibili sul mercato PC, MAC, etc (in quanto il formato con cui scrive il DV 25, 50 e100 HD è incapsulato MXF, uno standard sviluppato da Quantel ma di libero utilizzo).
Ora la scelta è difficile:
un responsabile tecnico di una TV, di vecchia generazione certamente sceglierebbe Sony per la storia e l'affidabilità....
il seguace degli standard guarderà a SKY con i Camcorder DV JVC.......
uno zelante e avanguardista sceglierebbe Panasonic per la filosofia e l'innovazione Panasonic ....
ma lo studio medio/piccolo cosa farà?
Io penso che i produttori indipendenti cercheranno di usare al meglio i mezzi che hanno già a disposizione, evidenziando ai propri clienti la loro professionalità! (con un'investimento pressochè nullo)
Allora a chi serve l'HDV?
L'HDV 1080i (televisivo) è indispensabile per mantenere il mercato delle televendite, dei maghi e di tutto ciò che è ad alta redditività nella TV che si trasformerà in HD nei prossimi 10 anni (forse).
L'HDV 720p darà una svolta alle produzioni indipendenti Europee, con Film di alto livello ma a basso costo: una svolta definitiva ai meccansmi attuali che lasciano nell'ombra i fenomeni ed esaltano i film di natale...
Guidelli Marcello
per ADCOM SRL
e-mail
Nel suo sito, Adobe Premiere Pro 1.5 dice che "Potete facilmente modificare il look di una qualsiasi scena selezionando una delle impostazioni predefinite di aspetto da un menu di dieci voci. Queste impostazioni predefinite sono state create per simulare il look di programmi televisivi, spot pubblicitari e film. Scegliete un look "cool" per imitare una fredda ambientazione urbana, un look più caldo per conferire un'aspetto invitante a qualsiasi scena. Potete attribuire ai vostri video l'aspetto dei film più popolari, dal verde-macchina di Neo al colore sbiadito dei video di repertorio con scene di guerra. Magic Bullet Movie Looks, pubblicato da Red Giant Software, rappresenta tutto ciò di cui avete bisogno per conferire alle vostre sequenze DV il look professionale dei film importanti.". Basta registrare la copia di Premiere Pro 1.5 per entrarne in possesso di questo software.
Movie Looks trasforma il vostro video utilizzando sfumature di colore e connotazioni proprie del mondo cinematografico con impostazioni predefinite semplici da applicare. Movie Looks deriva direttamente dalla pluripremiata Magic Bullet Suite di The Orphanage™, che caratterizza i più noti film di Hollywood come "Vanilla Sky" e i video musicali come "A Song For The Lonely" di Cher. Per offrirvi un output di alta qualità Magic Bullet Movie Looks utilizza la tecnologia DeepColor™ di The Orphanage, che vi consente di utilizzare, in fase di calcolo, immagini a una profondità superiore a 16 bit per canale e, quindi, di ottenere un risultato finale privo di artefatti.
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Per realizzare delle ottime riprese bisogna prestare particolare attenzione alla sezione sonora:
Usare il microfono integrato, registra, nella maggior parte dei casi, non solo i suoni che volete registrare, ma anche il rumore meccanico della cassetta che gira nella vostra videocamera.
Anche se è una delle poche che ha un microfono omnidirezionale che supera quel problema, registra in ogni caso con una angolatura troppo ampia, registra cioè anche i suoni che provengono dall'esterno dell'inquadratura visiva che state riprendendo. Molte volte è così sensibile ed ampio da registrare pure il suono che proviene da dietro l'operatore...
E questo è naturalmente un male. Come si può correggere il tutto? Ovviamente con un microfono esterno.
Quindi il modo migliore di registrare il suono in fase di ripresa è quello di usare un microfono esterno alla telecamera.
Il vantaggio è quello di catturare solo il sonoro vicino alla scena che state inquadrando, potendo così scegliere con precisione la sorgente sonora principale ed eliminare, o minimizzare, tutte le altre fonti di rumore. Un'altro vantaggio è quello di riuscire a svincolare l'audio dalla posizione di ripresa della telecamera. Posso cioè riprendere un soggetto visivo ed allo stesso tempo riprendere in modo perfetto il suono o parlato di un soggetto che sta al limite dell'inquadratura od addirittura fuori campo, senza dover fare il tutto in fase di montaggio.
Tutte le migliori telecamere (ed ora anche quelle di basso costo) hanno un attacco per un ingresso microfonico esterno.
Quindi se dovete acquistare una telecamera per realizzare un buon prodotto finale, e quindi soprattutto se volete girare un vostro corto, dovete acquistarne una di categoria "consumer" che disponga di connettori almeno del tipo mini jack, mentre se vi orientate al "prosumer" (semi professionale) non ci sono problemi: hanno normalmente una doppia entrata professionale.
Il ruolo della luce in un film è determinante. Una bella storia, girata da un buon regista, con ottimi attori: possiamo ottenere pessimi risultati se l'illuminazione, ovvero l'uso della luce, non è idonea e ben utilizzata.
Se scartiamo una fotografia fatta con cattiva luce, tanto più dobbiamo farlo con un filmato: la luce è importante perchè crea atmosfera, visualizza i volumi e le prospettive, scolpisce i contorni ed i profili degli attori.
La luce è colore, con il colore possiamo rafforzare od evocare effetti diversi, tramite un solo colore o con l'accostamento di più colori; e questo accade anche con l'uso del bianco e nero, forse ancora di più.
Con la luce dobbiamo saperci giocare, nel senso che la dobbiamo saper manipolare con le nostre mani, per ottenere il risultato che vogliamo, non dobbiamo prenderla così come è, ma, se possibile, migliorarla ovvero adeguarla alle nostre esigenze.
Per Flashback si intende quella scena che, fuori dalla sequenza temporale che si sta svolgendo, narra un evento avvenuto precedentemente.
Il Flashback permette di strutturare un racconto in modo flessibile; non sequenziale, quindi, ma con descrizioni fatte (viste) e ripercorse solamente quando necessarie per la storia. Può essere breve (una o poche sequenze), o durare per gran parte del film.
Dal punto di vista tecnico-visivo, il flashback può essere realizzato in molte maniere. Dovendo mostrare qualcosa avvenuto precedentemente, deve presentare uno stacco netto in fase di montaggio, che può essere effettuato con sfocature o dissolvenze, cambi di colore (è classico l'uso del color seppia o del bianco e nero) e variazioni di velocità. Anche la musica deve sottolineare questa variazione.
Il morto che galleggia nella piscina nel film Viale del tramonto di Billy Wilder è forse il più celebre flashback del cinema mondiale, ma l'elenco dei film che hanno utilizzato questa tecnica è lunghissimo.
Film thriller ed a carattere psicologico sono quelli che più di tutti usano il Flashback.
Lo stile del montaggio è lo stile narrativo che deve essere adottato nell'alternare ed accostare le varie sequenze.
Un tipo di montaggio è quello delle analogie, elaborato dal famoso regista russo Ejzenstejn (ricordate la Corazzata Potëmkin di Fantozzi? Fa riferimento al film del 1926, realizzato per commemorare la rivoluzione del 1905 ed imperniato sull'episodio dell'ammutinamento nel porto di Odessa): pieno di simbolismi, con scene altamente emotive a cui susseguono scene altrettanto importanti anche se di ambientazione diversa. Indugiare sui cadaveri, sulla carrozzina che cade giù dalle scale, sono flash ritmati come gli impulsi del cuore, veloci, ritmici... Calcare la mano su certe riprese vuole intensificare il ritmo pragmatico dell'intero film.
Di analogie si serve spesso anche il film umoristico, allorchè fa allusioni a simboli fallici ed erotici. E' piuttosto semplice da applicare, anche se, fatto con superficialità, potrebbe dare un risultato particolarmente scarso e poco originale.
Si usa la tecnica del montaggio parallelo quando si vogliono mostrare due storie o due eventi che si svolgono in contemporanea. Ad esempio l'attesa di un ragazzo ed una ragazza prima di arrivare ad un appuntamento al buio. Naturalmente il parallelismo può essere sia di luogo che di tempo.
Tecniche si possono anche accostare: iniziamo con il montaggio parallelo: la ragazza che si prepara a fare una doccia e l'assassino che si avvicina sempre più alla casa della ragazza... L'apporto drammatico dell'azione si può accentuare ancor di più con la tecnica del montaggio accellerato: riduciamo la durata delle due serie di inquadrature: diminuiamole sempre più (dando il senso dell'inevitabile) fino a che le due azioni diventeranno una sola: l'assassinio della ragazza.
Una successione è realistica quando gli eventi e le inquadrature si uniscono le une alle altre in modo invisibile, senza cambi di angolazioni o movimenti strani della telecamera, come quando si racconta una storia, senza dare bruschi balzi di tensione allo spettatore. E' tutto in forma regolare, logica, senza alcun simbolismo visivo.
Ricordate i vecchi film che per rendere l'idea del trascorrere del tempo, facevano vedere calendari a cui venivano strappate le pagine? In un film che racconta una storia che dura molto di più di 90 minuti bisogna trovare il meccanismo di far capire come passa il tempo: in esterno la luce del sole che tramonta, in interni un orologio, le frasi degli attori, fino alle scritte in sovrimpressione che, in modo molto rapido, ci danno l'ora e la data esatta (e spesso anche la location).
Una scena viene fatta seguire dalla successiva, con uno stacco netto, preciso. Viene utilizzata quando abbiamo poco tempo, quando dobbiamo tralasciare ogni surplus. Dà ritmo. Una scena può essere legata alla successiva con un discorso serrato, o con un accostamento di colore. Oppure inseriamo una dissolvenza... Se deve iniziare una scena si può partire dal nero assoluto per arrivare gradualmente alla visualizzazione completa dell'immagine... Invece se termina si può scurire l'immagine fino al nero. Se la prima scena continua con la seconda, utilizziamo una dissolvenza incrociata, la prima svanisce mentre appare la seconda. Il tempo della durata delle dissolvenze influenza la visione del filmato, può determinare l'impressione del tempo che passa o dare incisività all'azione. Fate delle prove per constatare di persona.
Se state realizzando un cortometraggio od il filmato di un matrimonio, potete applicare altre transizioni. Ne esistono a migliaia, molte sono belle a vedersi, anzi spettacolari nella realizzazione, ma provate poi ad inserirle nei vostri filmati. La seconda volta che li rivedete, già potrebbero stancarvi. Quindi attenzione! Usate quelle più semplici, dalle tendine in entrata ed uscita, a quelle sfogliate come pagine di un libro. Basta avere buon gusto e non esagerare, perchè altrimenti nessuno poi perderà più tempo a guardare i vostri filmati pieni di giochetti digitali...
Matrox ha presentato X.mio5 Q25, una nuova scheda che promette di azzerare il lavoro di elaborazione a carico della CPU per l’acquisizione e il playout di segnali multipli in FullHD e 4K. Tutte le moderne piattaforme video broadcast si affidano ormai su architetture software in grado sfruttare le capacità dei processori di sistema, sempre più veloci e performanti. Eppure quando si lavora in 4K anche le workstation più potenti possono fare fatica. In questi casi un hardware dedicato può ancora fare la differenza. Ne è convinta Matrox, che ha appena lanciato X.mio5 Q25, una nuova scheda che promette di azzerare il lavoro di elaborazione a carico della CPU per l’acquisizione e il playout di segnali multipli in FullHD e 4K.
Dotata di interfaccia a 10 e 25 Gbit Ethernet, X.mio5 Q25 supporta la conversione in tempo reale su più canali, con filtri di adattamento del moto, scaling, de-interlacing, e funzioni di compositing avanzato, anche da formati HDR. Tra le caratteristiche chiave il supporto nativo dello standard di trasmissione IP SMPTE ST 2110, la gestione di 4 canali UltraHD a 50/60p su rete a 25 Gbit/s, 32 canali HD e 256 canali audio. La nuova scheda di Matrox è dunque una soluzione perfetta per i server di streaming video ad altissima qualità di ultima generazione.
da tuttodigitale.it
Perchè correggere dopo la qualità del video, quando potremmo arrivare in fase di montaggio con un buon audio? Molto spesso ci preoccupiamo di avere una buona od ottima videocamera, ne studiamo tutte le caratteristiche tecniche, come la ripresa in 4K, ma non teniamo in troppo conto il reparto audio. O forse avete intenzione di girare un film muto? Oltre che per gli occhi, il cinema, lungo o breve che sia, è fatto anche per le nostre orecchie.
Voci in sottofondo, brusii, piccoli rumori di oggetti, tutti elementi che potrebbero, mancando, far decadere la qualità del nostro video. Nella vita di ogni giorno pensiamo di non percepirli, ma non siamo mai nel silenzio assoluto. Ed allora perchè aggiungerli in un secondo momento se possiamo farlo perfettamente durante le riprese? Quanti di noi si scordano di registrare il rumore d'ambiente? (molti non sanno nemmeno cosa sia...!)
Il microfono standard della nostra videocamera è, nella maggior parte dei casi, di qualità non corrispondente allo standard degli altri componenti. Per questo convine acquistare o noleggiare uno o più microfoni ad alta qualità che collegheremo, se è previsto il collegamento, alla videocamera, altrimenti ad un registratore separato tipo Dat o Minidisc.
Ogni microfono ha una sua "direzionalità", possiamo cioè paragonarlo all'angolo di campo dell'obiettivo. Le videocamere meno costose hanno dei microfoni omnidirezionali, cioè acquisiscono i suoni provenienti da ogni direzione. E questo, lo capite bene, non sempre è ciò che vorremmo. Se dobbiamo effettare una ripresa in una discoteca, mentre ragazzi ballano, un microfono simile può andar bene, ma se volessimo catturare lo scambio di battute tra 2 ragazzi che ballano, in fase di visione non capiremmo le loro parole... anche se poi in realtà è quello che avviene in discoteca. Dovremmo quindi utilizzare un microfono diverso.
Senza entrare nei tecnicismi della composizione dei microfoni, cosa che invece dovrebbe fare chi vuol fare il tecnico del suono, possiamo dire che esistono vari tipi di microfoni.
Quelli unidirezionali, cioè che catturano i suoni provenienti dal soggetto verso cui sono puntati, sono più idonei per documentari in genere o per riprese in cui non possiamo stare troppo vicini al soggetto ripreso: la distanza è importante perchè ogni microfono ha le sue caratteristiche e quandi dovremmo conoscere anche l'area di ripresa del suono per non cadere in ulteriori errori. Nel libretto delle istruzioni normalmente sono dichiarate le sue migliori condizioni d'uso. A secondo delle caratteristiche tecniche, e quindi di direzionalità, i prezzi variano per i microfoni unidirezionali cardioidi semplici, per i supercardioidi e per quelli ipercardioidi....
Un altro tipo di microfono è quello a fucile, di tipo lungo e sottile, molto spesso venduto dalle case costruttrici come accessorio, e che registra normalmente in modalità stereo.
Questo è anche il tipo di microfono che si usa attaccandolo ad una asta: sarà compito di un tecnico addetto a muovere l'asta telescopica e posizionare il microfono davanti alla persona che parla: deve fare attenzione, però, a non far cadere l'ombra del microfono sul personaggio e, naturalmente, tenerlo abbastanza lontano dal soggetto per non far apparire il microfono nell'inquadratura.
Il terzo tipo sono i microfoni a clip, chiamati lavalier. Sono quelli che vediamo ogni giorno in televisione, attaccati agli abiti dei giornalisti ed ospiti. In realtà sarebbero omnidirezionali, ma poichè catturano da poca distanza, stando molto spesso vicino alla bocca della persona che parla, non catturano i suoni d'ambiente se non in minima parte. Utilizzando questo tipo di microfoni occorre avere anche un mixer. Questi microfoni possono trasmettere il suono sia lungo un filo sia in modalità wireless; in questo secondo caso la persona che parla deve avere oltre il microfono anche un trasmettitore, mentre il tecnico collegherà al mixer un ricevitore con la stessa frequenza del trasmettitore. Un tale tipo di gestione deve considerare anche le eventuali interferenze che potrebbero alterare l'uscita audio. Ricordiamo pure che quest'ultimo tipo di strumenti è il più costoso.
Quando andiamo a comprare un microfono esterno, dobbiamo sempre portare con noi la nostra videocamera, perchè non sempre i collegamenti audio sono semplici ed immediati: i connettori possono essere compatibili ma poi non è sicuro al 100% che l'abbinamento audio funzioni.
Infatti gli ingressi possono essere di tipo "lineari" per segnali audio molto potenti, o di tipo "microfonico" per la ricezione di segnali deboli che sono amplificati tramite un preamplificatore. Ma non è finito qui: i connettori microfonici possono essere di 2 tipi: le videocamere che hanno normalmente ingressi microfonici di tipo jack o minijack hanno "connettori sbilanciati", mentre le videocamere che hanno gli XLR li hanno normalmente "bilanciati".
Difficile? non troppo. Per questo vi abbiamo sempre detto che per l'audio occorre una persona specifica che affronti tutti questi piccoli grandi problemi sul campo, cioè con l'attrezzatura in fase di test.
Ad esempio, se avete una videocamera con connettore minijack (quindi sbilanciato) ed avete un microfono con connettore XLR, quindi bilanciato, esistono speciali connettori per poterli utilizzare assieme.
Guardare una qualsiasi opera di Alfred Hitchcock, ormai lo sappiamo, non è solo un'esperienza di puro piacere come spettatore, ma anche una vera e propria lezione di cinema in cui gli aspiranti cineasti possono imparare tecniche ed espedienti decisamente utili alla propria formazione. Eccone alcune suggeriteci da Hitch20:
- Usate lo spazio in maniera drammatica. Oggi la tendenza ci sta portando verso le inquadrature frammentate, i movimenti di macchina tremolanti e il montaggio veloce: tutte scelte che possono funzionare se usate come si deve, ma il rischio è di iper-affaticare gli spettatori e di forzare troppo la mano sul versante tensione. Provate invece a sfruttare tutto lo spazio a vostra disposizione senza ricorrere esageratamente ai tagli: il genio di Hitch è che avrebbe potuto far funzionare benissimo un'intera pellicola ambientata in una sola stanza, e sotto questo punto di vista un altro punto di riferimento potrebbe essere Roman Polanski (Il coltello nell'acqua, Carnage).
- Il flusso di coscienza. Tecnica solitamente sottovalutata, ma che se usata nel modo giusto potrebbe invece portare ottimi risultati. Woody Allen ne ha fatto un vero e proprio segno distintivo sia per infondere comicità che malinconia, mentre in Hitchcock contribuisce a renderci maggiormente partecipi alle paure e paranoie dei personaggi.
- Focalizzatevi sulla semplicità. Che non significa evitare di essere intellettualmente complessi, ma di trovare il modo di lasciare che la cinepresa si focalizzi su cose triviali. Se state riprendendo una litigata epica tra due amanti, potete fare in modo che la causa del litigio sia semplicemente il telecomando della tv o le chiavi della macchina. Unire il mood epico con la semplicità delle cose permette alla cinepresa di compiere il lavoro di drammatizzare al meglio la situazione.
- Ovviamente, con Hitchcock c'è sempre il segreto da svelare e da scoprire. Mettetene uno nella vostra pellicola, e nel mezzo farcite l'operazione di scene in cui sembrerebbe proprio che il segreto stia per venire fuori, ma in verità non lo fa. Un espediente, questo, usatissimo anche nelle commedie o nei romance, in quanto infallibile per mantenere costante l'attenzione dello spettatore.
di Fiaba Di Martino per farefilm.it
Come fare un buon video con l’iPhone o in generale con uno smartphone? Ci sono alcuni trucchi e delle tecniche di base che conviene seguire per ottenere il massimo quando si usa la videocamera di un cellulare di ultima generazione, in modo da realizzare video che qualche volta hanno caratteristiche paragonabili a quelle di clip girate con dispositivi professionali. Alcuni possono sembrare suggerimenti banali e ovvi, ma paradossalmente la maggior parte degli utenti di uno smartphone li dimentica appena si accinge a effettuare una ripresa video. Vale allora la pena di fare un elenco con tutte le regole di base da rispettare per ottenere buoni risultati in termini di qualità video.
1. Tenere lo smartphone in posizione orizzontale e non come normalmente lo si maneggia: il bordo più lungo va in basso. Le dimensioni del video che si registra infatti hanno sempre la base più lunga dell’altezza, quindi al momento in cui lo si riprodurrà, se la ripresa è stata effettuata con lo smartphone in verticale si avrà un video con delle fasce laterali nere. Del tutto inadatto alla maggioranza degli schermi su cui si andrà effettivamente a rivederlo.
2. Mantenere ben fermo lo smartphone. La regola numero uno di chiunque effettui una ripresa video è assicurarsi che la videocamera non si muova durante le riprese, a meno che non si debba seguire un soggetto in movimento o si effettuino spostamenti volontari del campo visuale. E anche in quest’ultimo caso, quasi sempre lo spostamento della videocamera deve essere fluido e continuo, sempre senza scatti. Cosa fare allora? Usare entrambe le mani per reggere lo smartphone. Tenere i gomiti stretti contro il corpo. Se si è in piedi divaricare le gambe leggermente in modo da ottenere una posizione stabile e comoda. Trovare un buon punto d’appoggio sul terreno evitando di stare in equilibrio precario. Quando si muove lo smartphone per seguire il soggetto cercare di piegare tutto il corpo e non solo le braccia e le mani e se si deve camminare abituarsi a farlo in modo da spostare il baricentro del corpo solo orizzontalmente e non anche verticalmente. In altri termini, bisogna tenere la testa sempre alla stessa altezza e spostarsi solo avanti e indietro. Se si usa spesso lo smartphone per realizzare video, può essere utile acquistare un accessorio che aggiunge una maniglia esterna (o addirittura un cavalletto) al dispositivo per poterlo maneggiare comodamente e più stabilmente.
3. Controllare l'inquadratura. Di default l’app per la ripresa installata nell’iPhone riproduce sullo schermo una preview del video che si sta per registrare. Va tenuto presente però che già il sensore a 720p dell’iPhone (già presente sull’iPhone 4) riprende un’inquadratura più ampia dello stesso display, per cui colpendo rapidamente col dito due volte lo schermo (i geek direbbero: facendo un doppio tap) si può visualizzare l’immagine completa, dove viene riquadrata la parte di schermata che effettivamente sarà inclusa nel video. In generale, raramente negli smartphone la parte ripresa nel video e quella effettivamente rilevata dal sensore è corrispondente, anche perché a seconda delle dimensioni del video scelte (4:3 o 16:9) il taglio dell’inquadratura cambia. Spesso può essere opportuno passare a visualizzare tutta l’area utile in modo da scegliere meglio cosa effettivamente fare rientrare nell’area di ripresa del video.
4. Attenzione alla messa a fuoco! Si è talmente abituati all’autofocus – la messa a fuoco automatica – che ci si dimentica di tenere presente che alle volte ci occorre una messa a fuoco differente da quella di default. Il riquadro che si vede al centro dello schermo quando si sta per riprendere è il punto su cui l’obiettivo punta il suo fuoco. In alcuni casi, per esempio quando il soggetto non si trova al centro dell’inquadratura, sarà necessario dare un colpetto sul punto in cui vogliamo che sia puntata la messa a fuoco. Allo stesso modo sarà possibile cambiare il punto focale mentre si sta riprendendo. Ovviamente in questo caso bisognerà fare attenzione a maneggiare bene lo smartphone in modo da evitare sussulti o movimenti accidentali che rovinerebbero la qualità della ripresa.
5. Regolare il bilanciamento dei colori. Prima di iniziare a riprendere si deve sempre verificare che il bilanciamento dei colori sia corretto. Regola preliminare a qualsiasi ripresa: fare il bianco! Basta andare sulle regolazioni e scegliere Bilanciamento del bianco. Qui di solito si può scegliere fra luce naturale, nuvoloso, luce incandescente o luce fluorescente. In alternativa si può impostare la regolazione auto, lasciando che sia il software a decidere come regolare i colori nel modo più opportuno. Va detto anche che, in qualsiasi momento durante una registrazione, quando si dà un colpetto sullo schermo in corrispondenza del soggetto sul quale si punta la messa a fuoco quasi tutte le app di videoripresa dei cellulari aggiustano anche le condizioni di luce in riferimento a quello che viene inquadrato nel punto di messa a fuoco. Ad ogni modo si deve essere avvertiti che una ripresa in cui improvvisamente cambia il bilanciamento dei colori senza una ragione evidente (per esempio perché il soggetto si sposta da un esterno a un ambiente chiuso) è sempre una cattiva ripresa. Quindi bisogna stare attenti che la resa dei colori sia sempre costante.
6. Fare diverse riprese della stessa scena. La maggior parte degli utenti poco addentro alle tecniche di ripresa pensa che un video sia il risultato di un’unica ripresa. Chi conosce i rudimenti delle tecniche di regia sa bene che il prodotto finale è il risultato del montaggio di tanti spezzoni di ripresa girati indipendentemente l’uno dall’altro, anche sullo stesso set. Un buon video non è mai il prodotto di un unico piano sequenza, ma della sagace ripresa della scena da più punti di osservazione e in condizioni e piani differenti. Si deve pianificare a monte, prima di iniziare a riprendere, come si ha in mente di sviluppare la ripresa. Eventualmente prendendo anche degli appunti in cui descrivere cosa si ha in mente e come successivamente si vuole montare la ripresa. Così facendo è facile girare diversi video sulla stessa scena in modo da unirli opportunamente insieme successivamente per creare il video finale. Normalmente conviene fare diverse clip brevi con angoli di ripresa e piani differenti e poi montarle in modo da creare una continuità nella successione delle inquadrature.
7. Alternare inquadrature ampie e strette. Nella scelta delle inquadrature, si deve evitare di fare sempre e soltanto inquadrature ampie, ma sapere scegliere cosa inquadrare in dettaglio restringendo la ripresa e eventualmente zoomando. Tenere presente che nel montaggio finale solitamente alternare o comunque mettere in sequenza inquadrature ampie e inquadrature strette serve a migliorare la qualità e l’estetica del girato, oltre a renderlo più stimolante ed espressivo.
8. Le condizioni di luce sono fondamentali! Lo sanno bene i professionisti della regia quando scelgono un direttore della fotografia. Un buon film è innanzi tutto la capacità di fare delle belle riprese e perché queste risultino tali agli occhi dello spettatore è necessario che l’illuminazione della scena sia perfetta e che i dispositivi di ripresa la riprendano in modo fedele a quello che si vuole fare vedere allo spettatore. Quindi prima di iniziare a girare occorre studiare bene come illuminare la scena e se il soggetto che si intende riprendere riceve una buona illuminazione. Gli smartphone dispongono di un buon flash-led, ma si deve ricorrere alla sua luce solo se proprio non ci sono altri modi per illuminare la scena, perché la luce del flash risulterà frontale, scialba e abbastanza fioca, rendendo quasi qualunque video estremamente dilettantesco.
9. Attenzione alle riprese a distanza ridotta. Scegliere l’inquadratura migliore, tenendo conto che gli smartphone hanno un obiettivo leggermente grandangolare, quindi poco adatto alle riprese a breve distanza. Per i primi piani di un volto può essere opportuno riprendere il soggetto da lontano e applicare un lieve zoom, anche in post-editing utilizzando un software di videoritocco in fase di montaggio. Se si inquadra un volto a distanza ravvicinata infatti si otterrà un effetto deformante alquanto sgradevole e innaturale. D’altronde se si applica uno zoom digitale pesante nel corso della ripresa c’è il rischio di sgranare l’immagine ottenendo un risultato assolutamente scadente in termini di definizione dell’immagine. Conviene allora fare delle prove per vedere quando e fino a che punto si può effettuare una zoomata con il proprio smartphone senza alterare troppo la qualità del girato.
10. Occhio alla batteria! L’ultima raccomandazione può sembrare del tutto superflua, ma ha rovinato il lavoro di una quantità inimmaginabile di videomaker improvvisati: la batteria è sufficientemente carica? Se si ha intenzione di fare dei video con lo smartphone è opportuno, prima di qualsiasi altra azione, verificare per tempo che la batteria sia al massimo, perché il rischio che sul più bello il dispositivo si spenga rovinando tutto il lavoro che si vuole svolgere è sempre altissimo. Una ripresa video, soprattutto quando viene effettuata in alta definizione, impegna severamente le risorse hardware del dispositivo, quindi anche una carica che può sembrare adeguata può risultare insufficiente. Se si ha in programma di usare spesso e lungamente lo smartphone per girare dei video può essere un buon investimento quello di acquistare delle batterie esterne addizionali, che tolgono d’impiccio quando quella interna si esaurisce.
da Redazione di FareFilm.it
A un giovane attore che gli chiese quale fosse secondo lui la cosa più importante nella recitazione, Spencer Tracy rispose: «Be’, recitare va bene, basta che non se ne accorgano». Aiutare gli attori a conoscere ciò di cui hanno bisogno praticamente quando sono di fronte a una macchina da presa o una telecamera è lo scopo di questo libro. Il suo autore, Tony Barr, fondatore del Film Actors Workshop a Los Angeles, ha formato molti attori e per oltre venticinque anni ha collaborato con ABC e CBS, lavorando a serie storiche come Magnum, P.I., Charlie’s Angels, Starsky & Hutch e Dallas. Scrive Barr nell’introduzione: «Sul palco, l’attore deve lavorare attraverso l’altro attore che ha di fronte, in modo da arrivare fino all’ultima fila di spettatori. Davanti alla macchina da presa, in primo piano, l’ultima fila del teatro è, in realtà, alle spalle dell’attore non inquadrato». In sostanza l’unica grossa differenza a livello tecnico è la distanza della comunicazione. Se sul palco il lavoro dell'attore attraversa uno spazio teatrale,irreale, davanti alla macchina da presa, «se la scena è tra due persone sedute a un tavolo, la comunicazione deve arrivare soltanto all’altro attore. Se sta all’altro capo di una stanza, deve arrivare lì; in una scena d’amore, il pubblico è praticamente a letto con gli attori. Davanti alla macchina da presa, dovete comunicare solo in uno spazio reale. Il cinema ha specifiche caratteristiche ed esigenze tecniche che influenzano il lavoro dell’attore, il quale deve conoscerle per tenerle presenti
Nella prima parte del libro Barr espone le basi della recitazione dato che i suoi fondamenti sono gli stessi indipendentemente dal fatto che si stia recitando davanti a una telecamere o per un pubblico, e attraverso molteplici esempi (e aneddoti su grandi attori come Morgan Freeman o Anthony Hopkins) spiega come costruire la propria capacità di attore con una disamina delle caratteristiche necessarie, condensate nella formula da lui ideata: « Recitare vuol dire rispondere a degli stimoli in circostanze immaginarie, con immaginazione e dinamismo in modo fedele allo stile del personaggio, del luogo e dell’epoca, così da comunicare idee ed emozioni a un pubblico».
In primo luogo,tra le cose importanti ci sono l’ascolto e la paziente costruzione del ruolo (e non del personaggio) in un continuo processo di stimolo e risposta, per arrivare, alla fine, a costruire il personaggio in tutta la sua pienezza. «È difficile, per gli attori, abbandonarsi all’ascolto con totale fiducia negli effetti del meccanismo». L’attore tende a preoccuparsi della prossima battuta o del suo prossimo movimento e di conseguenza tende a frenarsi nel farsi coinvolgere dagli altri attori. Per Barr questo è un modo di fare molto pericoloso. «La verità è che, se ascoltate davvero, siete già almeno all’80% del percorso verso la vostra migliore performance». Si scorrono pagine dense di suggerimenti e indicazioni: dall’analisi e comprensione del personaggio da interpretare («Non cercate di entrare dentro al personaggio; cercate il personaggio dentro di voi») a come concentrarsi, da come dare energia («l’energia è il risultato di quanto si è interessati a quello che succede. Se la scena, ovvero quello che sta succedendo nella vostra vita in scena, è abbastanza importante, ascolterete, assorbirete e risponderete con un’intensità sufficiente a creare energia») a come un attore deve saper dar vita alle emozioni.
Nella terza parte si affrontano infine il problema del ritmo, del dinamismo, del movimento, della selettività («… qualsiasi bravo attore, lo vedrete fare cose ricche di significato, inaspettate e progettate con attenzione per costruire il suo personaggio un mattone alla volta, attraverso scelte attente, molte delle quali saranno spontanee, ma spontanee in termini di ruolo»), del rapporto con il regista, quello con gli studios e molto altro ancora.Scritto in modo chiaro e scorrevole, questo libro è utile non solo agli attori per imparare a muoversi davanti alla cinepresa e riflettere sulle fondamenta del loro mestiere, ma anche per gli scrittori, per prendere coscienza di come va scritto un personaggio e di come questo sia profondamente interconnesso alle dinamiche drammaturgiche di tutta la sceneggiatura, in tutti i suoi aspetti: dal fisico ai movimenti, dai conflitti interiori a quelli esteriori, dai silenzi alle battute.
Sullo stesso argomento: di MIchael Caine Recitare davanti alla macchina da presa pp. 112 €. 13,00 prezzo online €. 11,05
Nel cinema, come nei cortometraggi, un personaggio molto importante per avere un prodotto finito ben realizzato è quello del Tecnico del Suono. Nei titoli di coda leggiamo sempre parole come: Microfinista e Fonico di presa diretta (che, nelle riprese dei nostri cortometraggi sono quasi sempre la stessa persona). E' colui che, a secondo delle necessità e possibilità, deve microfonare gli attori, oppure posizionare i microfoni fissi necessari, o seguire i vari attori con il microfono tenuto fuori dell'inquadratura con la 'canna' ovvero un bastone allungabile alla cui estremità è fissato il microfono. I microfoni sono collegati al mixer ed al registratore, se si usano apparecchiature esterne. Se, invece, si usano macchine meno professionali, dovrà controllare i volumi delle entrate nella videocamera, sempre tramite cuffia.
Nel cinema, come nei cortometraggi, un personaggio molto importante per avere un prodotto finito ben realizzato è quello del Tecnico del Suono. Nei titoli di coda leggiamo sempre parole come: Microfinista e Fonico di presa diretta (che, nelle riprese dei nostri cortometraggi sono quasi sempre la stessa persona). E' colui che, a secondo delle necessità e possibilità, deve microfonare gli attori, oppure posizionare i microfoni fissi necessari, o seguire i vari attori con il microfono tenuto fuori dell'inquadratura con la 'canna' ovvero un bastone allungabile alla cui estremità è fissato il microfono. I microfoni sono collegati al mixer ed al registratore, se si usano apparecchiature esterne. Se, invece, si usano macchine meno professionali, dovrà controllare i volumi delle entrate nella videocamera, sempre tramite cuffia.
Il suo lavoro sembra facile, ma in realtà dovrà cercare di risolvere tutti i problemi che si presentano durante le riprese, come i disturbi del vento, i rumori di sottofondo troppo accentuati od indesiderati, i diversi toni e volumi delle voci degli attori, e così via. Deve conoscere profondamente l'attrezzatura che viene usata, anche quella semiprofessionale. Deve avere un orecchio fino, attento a tutte le sfumature, anche se aiutato da vari strumenti e cuffie. Un suo errore può compromettere il lavoro di un'intera troupe artistica e tecnica (e a noi, come scritto in altra pagina è successo: alle domande del regista rispondeva sempre che il suono era ok: in fase di montaggio, invece, ci siamo accorti che il volume delle voci degli attori era bassissimo e quindi il lavoro di più giorni era inutilizzabile, con uno spreco inutile di denaro).
Importante è il Music Editor che è colui che inserisce la colonna sonora nelle varie scene del film, sincronizzandola alle parti in movimento ed ai dialoghi, modificandola ed elaborandola secondo necessità. Oltre la colonna sonora 'principale' dovrà posizionare musica cosiddetta di 'accompagnamento' per le scene meno importanti e di raccordo. Normalmente sarà seguito da vicino dal Regista che lo guiderà per ottenere il risultato immaginato.
Ancora, esiste l'editor degli effetti sonori, personaggio indispensabile in taluni film, che deve avere a disposizione una vasta libreria di suoni particolari da aggiungere alla pellicola. Un tempo c'erano i cosiddetti 'rumoristi' che con vari oggetti riproducevano i suoni occorrenti: dalla pioggia ai passi, alle porte sbattute....
Il Fonico del doppiaggio serve a gestire la sincronizzazione del doppiaggio del filmato, ad esempio in altra lingua, o che bisogna cambiare per necessità filmica, come ad esempio, dopo aver tagliato delle scene, occorre far dire agli attori parole diverse perchè le originali facevano riferimento alle scene tagliate. All'occorrenza serve per sincronizzare il nuovo sonoro di tutte quelle parti venute male, dopo averle girate dal vivo,
Molto spesso, nei nostri lavori poco più che amatoriali, un'unica persona si occupa di tutti questi ruoli. Anche nelle scuole che trattano questi argomenti spesso in un unico corso si affrontano tutti questi problemi, poi sarà compito nostro cercare di approfondire il ruolo che più ci interessa.
Naturalmente non ci siamo scordati di colui che costruisce appositamente le musiche per un nuovo film: per le necessità dei nostri corti amatoriali si può utilizzare un amico che è capace di costruire musica col computer e quindi, una volta terminato di montare il corto lui, con il vostro consiglio, potrebbe realizzare della musica idonea alle vostre esigenze. Volendo, potete anche cercare musica con licenza gratuita per l'uso con il vostro film. Oppure potete pensare ad utilizzare musica classica: ne esiste una grande varietà adatta a tutti i generi. Tutte queste possibilità non vi faranno pagare i diritti alla SIAE per l'utilizzo di musica commerciale, una volta avuta l'autorizzazione di chi ne detiene i diritti...
Tra i primi registi a comprendere le potenzialità espressive e artistiche del montaggio vi è sicuramente il russo Vsevolod Pudovkin. Fondamentale in questo senso è l’esperimento da lui condotto insieme a Lev Vladimirovic Kuleshov sulle possibilità del “cutting”. Unirono alcuni primi piani dell’attore Mosjukhin con tre inquadrature differenti (nella prima un piatto di minestra, nella seconda una bara con un cadavere, nella terza una bambina intenta a giocare). Presentate le sequenze al pubblico i due registi notarono come la gente avesse la sensazione che l’espressione dell’attore cambiasse a seconda delle situazioni che si trovava di fronte mentre nella realtà l’inquadratura del volto di Mosjukhin era sempre la stessa: “Quando mostrammo le tre combinazioni a un gruppo di spettatori ai quali non avevamo comunicato il segreto dell’operazione, ottenemmo un risultato stupefacente. Gli spettatori erano convinti che la recitazione fosse splendida. Lodarono l’atteggiamento pensoso davanti alla minestra dimenticata, furono commossi dalla profonda tristezza con cui guardava la donna morta, ammirarono l’espressione sorridente e contenta con cui guardava la bambina. Noi però sapevamo che in tutti e tre i casi l’espressione era esattamente la stessa” (V. I. Pudovkin, Film technique, Newnes, 1929 in Karel Reisz-Gavin Millar, la tecnica del montaggio cinematografico, SugarCo edizioni, Milano, 1983). Pudovkin e Kuleshov avevano capito che il montaggio offriva al regista una grande libertà e la possibilità di dar sfogo alla propria creatività. Montando a suo piacimento il materiale girato il regista poteva dar forma a nuove idee semplicemente accostando due inquadrature. Questo esperimento portò Kuleshov a ritenere che il film diventasse arte non nel momento in cui vengono effettuate le riprese ma, esclusivamente, nella fase di montaggio. Pudovkin partì da questi esperimenti per sviluppare il suo stile filmico basato su scene nate dalla contrapposizione di una serie di dettagli. Esemplare in tal senso è una scena di “Madre” nella quale il regista di Penza doveva rendere lo stato d’animo di un carcerato prima di uscire di prigione: “Così mostro i movimenti nervosi delle mani e un dettaglio della parte inferiore del viso, con l’angolo delle labbra incurvato in un sorriso. Tra queste due inquadrature inserisco vario materiale: spezzoni di un ruscello gonfiato dalle piogge di primavera, riflessi del sole sull’acqua, uccelli che si tuffano nello stagno del villaggio e, infine, un bambino che ride. Unendo tutti questi elementi prende forma l’espressione di gioia del nostro prigioniero”. (Karel Reisz-Gavin Millar, op.cit.) In effetti in questa sequenza il montaggio consentiva a Pudovkin di esprimere i sentimenti del prigioniero non in maniera banale, come ad esempio mostrandolo mentre si apriva in un sorriso, ma in forma indiretta, simbolica. Mostrare le idee in maniera metaforica e non esplicita è caratteristica tipica del fare artistico come ricorda Rudolf Arnheim citando la Divina Commedia: “Prendiamo un esempio a caso: quando Francesca da Rimini, narrando come s’innamorò dell’uomo con cui stava leggendo, dice soltanto: ‘Quel giorno più non vi leggemmo avante’. Dante dice così indirettamente, accennando semplicemente alle conseguenze, che in quel giorno i due si baciarono. E questa rappresentazione indiretta colpisce con straordinaria efficacia” (Rudolf Arnheim, Film come arte, Giangiacomo Feltrinelli editore, Milano, 1989). A Pudovkin non interessava la fluidità delle sequenze ma le idee e le emozioni che creano un rapporto (anche indiretto) tra le varie inquadrature. Egli arriva a teorizzare le proprie idee elaborando un sistema fondato su cinque metodi di montaggio: per contrasto (unione di inquadrature discordanti: una festa lussuosa e un uomo che muore di fame): parallelismo (sorta di montaggio parallelo con l’alternanza delle inquadrature); analogia (come nella famosa sequenza di “Sciopero” di Eisenstein con inquadrature degli operai fucilati insieme a quelle di un bue macellato); sincronismo (due fatti che avvengono nello stesso momento); tema ricorrente (impiego del leitmotiv). Essendo portato anche per la musica, Pudovkin riuscì a impiegare queste sue teorie dando un senso ritmico alle sue opere nelle quali il suo massimo interesse era rivolto ai cambiamenti psichici dell’uomo sotto le pressioni della società moderna. Pudovkin, che fu anche attore, doveva la sua curiosità nella sperimentazione cinematografica ai suoi studi scientifici: era infatti ingegnere chimico, avendo frequentato la facoltà di Scienze di Mosca: “Senza dubbio questa sua primitiva formazione scientifica gli è di aiuto nel trattamento della fotografia dei suoi film” (Carl Vincent, Storia del cinema 1, Garzanti Editore, 1988). Oltre a queste importanti basi teoriche per l’arte cinematografica Pudovkin ci lascia un capolavoro assoluto quale “La madre” (1926), nel quale gioca abilmente con metafore liriche e stile realistico, “La fine di San Pietroburgo” (1927) e “Tempeste sull’Asia” (1929). In seguito l’avvento del sonoro segna l’inizio del declino cinematografico di Pudovkin che sembra ritrovare la sua vena creativa con “Il ritorno di Vasilij Bortnikov” del 1953, anno della scomparsa del regista.
di Fabio Massimo Penna per
Una delle sfide principali del montatore William Goldenberg è stata quello di creare un senso di urgenza, anche nelle sequenze che coinvolgono gli studiosi di codici che svolgono un lavoro scrupoloso nel loro rifugio, presso la tenuta britannica di Bletchley Park. L’intento era quello di creare la sensazione che ci fosse una grande quantità di pressione su Turing e la sua squadra – il senso del ticchettio dell’orologio – perché gli alleati al momento stavano perdendo la guerra. Nel montaggio, ciò veniva tradotto nell’aumento di ritmo – non in un modo molto evidente, ma con la volontà di far sentire il pubblico dentro la pancia dei personaggi. Il taglio di alcune inquadrature al culmine della tensione, per dare una sensazione di ansia, e ricordarci che questi personaggi hanno un’urgenza.
Nel 2013, il montatore veterano William Goldenberg ha detto, è stato “turbato ed entusiasta” quando ha preso il suo primo Oscar sul palco del teatro Dolby per il montaggio del thriller di Ben Affleck, “Argo”. Era stata una gara in cui aveva avuto l’onore di competere contro se stesso: quell’anno infatti, Goldenberg ha anche ricevuto una nomination all’Oscar per il montaggio del film sulla caccia a Bin Laden ”Zero Dark Thirty”, al fianco di Dylan Tichenor.
Due anni dopo, il montatore era di nuovo in corsa con una nomination per il suo lavoro su un altro film drammatico, basato su una storia vera: “The Imitation Game”, che mette in luce il brillante, anche se insopportabile, matematico Alan Turing (interpretato da Benedict Cumberbatch, candidato all’Oscar per il ruolo di attore protagonista), che decifrò il complicato codice segreto di comunicazione nazista grazie alla macchina Enigma, durante la seconda guerra mondiale.
Si stima che il lavoro di Turing abbia salvato di 14 milioni di vite, accorciando in modo efficace la guerra di due anni, ma nei primi anni 1950 egli fu perseguitato e condannato per la sua omosessualità, morendo suicida nel 1954, all’età di 41 anni.
Goldenberg ha parlato molto di come sia per ‘Argo’ che ‘Zero Dark Thirty’, egli sia davvero attratto da piccole storie su una parte di mondo che poche persone hanno mai sentito parlare. Egli aveva sentito parlare di Alan Turing e il codice Enigma, ma non conosceva la storia che lo mandò in crisi, e tutte le cose orribili che gli successero dopo la guerra.
Nel corso di nove mesi fra il 2013 e il 2014, Goldenberg ha effettuato il montaggio di “The imitation Game” lavorando su circa 200 ore di filmati, su Avid Media Composer 5.5 negli EPS-Cineworks a Santa Monica.
Una delle sue sfide principali è stata quello di creare un senso di urgenza, anche nelle sequenze che coinvolgono gli studiosi di codici che svolgono un lavoro scrupoloso nel loro rifugio, presso la tenuta britannica di Bletchley Park.
L’intento era quello di creare la sensazione che ci fosse una grande quantità di pressione su Turing e la sua squadra – il senso del ticchettio dell’orologio – perché gli alleati al momento stavano perdendo la guerra.
Nel montaggio, ciò veniva tradotto nell’aumento di ritmo – non in un modo molto evidente, ma con la volontà di far sentire il pubblico dentro la pancia dei personaggi. Il taglio di alcune inquadrature al culmine della tensione, per dare una sensazione di ansia, e ricordarci che questi personaggi hanno un’urgenza.
Quando il passaggio al montaggio non lineare diventa semplice: War Horses.
Per alzare la posta, Goldenberg ha inframmezzato il montaggio con filmati di repertorio, come le marce delle truppe e carri armati nazisti, all’interno di scene in cui Turing che lavora sulla sua macchina decodificatrice, che ha chiamato “Christopher” come la sua cotta d’infanzia. Per Goldenberg, quella era una giustapposizione: i macchinari di guerra tedeschi, contro Christopher, l’arma di Turing.
Per la scena di tensione in cui la Macchina di Turing, infine, decodifica il codice, Goldenberg ha creato un montaggio mozza fiato degli scienziati che lavorano per tutta la notte, che traducono i messaggi decodificati mettendo puntine su una mappa che indica la posizione dei sottomarini tedeschi nell’Atlantico.
Come Goldenberg avanzava il lavoro su ogni sequenza, aumentavano le conversazioni con il regista Tyldum su ciò che stava attraversando la mente pungente di Turing. Per loro era come essere sempre più consapevoli di lui. Turing aveva la sindrome di Asperger, e quello che mostrava fuori, era così anche dentro.
Il montatore racconta della scena del colloquio con Bletchley, dove il materiale girato era enorme, perché Benedict Cumberbatch ha dato loro più indicazioni e scelte sul modo in cui Turing doveva apparire.
Una scena sgradevole porta con sé complesse scelte di montaggio, come in 12 Anni Schiavo
Quello che il team di montaggio decise, era che in fondo egli fosse consapevole di come appariva, ma di non essere sgradevole in maniera intenzionale. Era Turing che faceva Turing, e ogni scelta di montaggio era basata su queste indicazioni di performance attoriali.
Il lavoro del montatore inoltre, è stato quello di intrecciare senza complicare la trama, tre linee di storia che saltano avanti e indietro fra tre periodi di tempo: gli anni giovanili di Turing in collegio nel 1920, i suoi sforzi top secret durante la guerra, e i maltrattamenti per essere omosessuale, nel 1950.
Una scena cruciale è stata posizionata in maniera sublime da Goldenberg: la sequenza in cui Turing viene a sapere che il suo amato Christopher è morto di tubercolosi. Nella sceneggiatura la scena si svolge in precedenza, ma il montatore la trasferisce circa 15 minuti dopo, verso la fine del film, con un taglio dal primo piano del volto in lutto del giovane Turing a un’immagine del vecchio lui, perseguitato e affranto, di fronte alla sua macchina. Goldenberg sostiene che per lui quello “È stato come l’ultimo pezzo del puzzle che porta al suo suicidio”.
Ma in ultima analisi, i realizzatori hanno scelto di eliminare una sequenza in cui un detective scopre Turing che giace senza vita nel suo letto. “Abbiamo deciso che era più elegante ed emozionale finire con Turing che dice essenzialmente buonanotte a ‘Christopher,’ spegnendo la luce e scomparendo in una stanza buia”, ha detto Goldenberg. “Quella scena sottolinea appena il dramma di questa storia che doveva essere raccontata”.
di Simone Verrocchio per romeuracademy.it
I. LO SPETTACOLO CINEMATOGRAFICO
«La cinepresa è diventata mobile come l’occhio umano, come l’occhio dello spettatore o come l’occhio dell’eroe del film». di Georges Sadoul
Cominciamo questo nostro tentativo di ripercorrere l’evoluzione del montaggio cinematografico, nell’epoca del cinema muto, partendo da una significativa affermazione apparsa sul quotidiano parigino La Poste de Paris nel 1896; a proposito del Cinematografo dei fratelli Lumière, l’articolo recensisce così la nascita del nuovo fenomeno spettacolare: «Poiché ora siamo in grado di fotografare i nostri cari, non soltanto immobili, ma anche mentre si muovono, ritraendoli così come essi si agiscono, compiono gesti a noi familiari e parlano, la morte cessa di essere assoluta». Un’affermazione di questo tipo indica almeno due questioni sulle quali vale la pena di soffermarsi. Innanzitutto il Cinematografo, che fu l’invenzione che meglio raccoglieva in sé almeno cinquant’anni di sperimentazioni e di ricerche attorno alla fotografia e alla cronofotografia, fu da subito considerato – prima di divenire un linguaggio, un’arte, un mezzo espressivo – un’attrazione spettacolare che si confondeva, convivendoci, con altre attrazioni dello stesso genere; in secondo luogo, il fenomeno cinematografico fu visto ed apprezzato soprattutto per la sua straordinaria capacità di riprodurre la realtà fenomenica: osservare sullo schermo gli operai che uscivano dalle officine Lumière, oppure un bambino mentre fa colazione, era già di per sé uno spettacolo unico ed imprevedibile, che non richiedeva nessun altro tipo di ingrediente “spettacolare” per essere fruito da un pubblico entusiasta. Era dunque il “realismo” della rappresentazione che colpiva il pubblico meravigliato, era la “verità” delle persone e degli oggetti che costituivano il fascino e la novità del mezzo cinematografico.
Quindi il cinema fu considerato, fin dalle sue origini, un mezzo spettacolare per riprodurre la realtà fenomenica in modo assolutamente oggettivo; il cinema doveva soprattutto fornire informazioni, illustrare la realtà quotidiana, riprendere i soggetti così come essi si presentano dinanzi ai nostri occhi. Ecco che allora tutto ciò che si può definire “quotidiano” – dalle persone che si muovono ai monumenti della città, dai paesaggi più favolosi alle usanze popolari più diffuse – diveniva un utile soggetto per una produzione documentaristica assai efficace. Quindi il cinema, all’inizio, fu inteso soprattutto come un mezzo per riprodurre in modo instancabile la realtà quotidiana; e non solo dal pubblico di allora, ma anche dagli stessi Lumière, che consideravano il Cinematografo un’invenzione redditizia senza futuro.
Tuttavia un segnale minimo dell’evoluzione del linguaggio cinematografico (ma non ancora del montaggio) possiamo rintracciarlo anche in un piccolissimo film dei fratelli Lumière: L’innaffiatore innaffiato è da molti considerato il primo film narrativo della storia del cinema, nonché il primo film comico. Infatti, pur ricalcando la struttura dei precedenti film, basati su di un’unica inquadratura di circa un minuto (il tempo massimo consentito dalla durata di un caricatore), questo film presenta già quello schema base di equilibrio – squilibrio – riequilibrio (formulato da André Gardies) che ritroveremo in tutti i successivi film narrativi.
Tuttavia il cinema dei fratelli Lumière, per la sua stessa volontà di riprodurre il reale senza nessun artificio, va messo da parte in uno studio sull’evoluzione del montaggio cinematografico; purtroppo essi non seppero intuire le grandi potenzialità espressive del mezzo, pertanto spetterà ad altri il compito di teorizzare e di mettere in pratica quei primi procedimenti che porteranno alla nascita vera e propria del montaggio cinematografico come noi lo intendiamo.
Nonostante Edgar Morin affermi più volte che con Georges Méliès si ha il passaggio dal Cinematografo al Cinema (espressione che indica la conquista di un linguaggio da parte del cinema), i molti studi di Antonio Costa dimostrano come anche i film di Méliès – soprattutto i suoi primissimi lavori – vadano inseriti nella sfera del pre-cinema, ovvero prima di tutta quella serie di processi che, da Edwin S. Porter in poi, porteranno alla nascita del nuovo linguaggio e delle nuove pratiche di produzione narrativa, tra le quali il montaggio. Infatti, secondo Costa, non è importante saper distinguere l’opera di Lumière da quella di Méliès, magari fino a renderle incompatibili; l’importante, semmai, è comprendere che sia la riproduzione di un evento reale in un film di Lumière (L’arrivo del treno alla stazione), sia la simulazione di un evento in un film di Méliès (Il viaggio sulla Luna), sono due momenti di un unico processo che porterà il cinema ad essere un qualcosa che, come dice Baudrillard, è sempre e comunque già riprodotto, iperreale.
Tuttavia è innegabile che le féeries in miniatura di Georges Méliès si differenzino nettamente dai mini film dei fratelli Lumière: se Méliès non seppe costruire una vera e propria grammatica cinematografica (anzi, una delle cause principali del precipitoso declino della sua arte fu proprio la sua incapacità di adattarsi all’evoluzione del linguaggio cinematografico), è anche vero però che seppe organizzare in modo innovativo lo spazio ed il tempo del racconto. Con uno sforzo possiamo allora individuare, in alcuni dei film più famosi del mago di Montreuil (tra i quali Il viaggio sulla luna, I quattrocento scherzi del diavolo, Alla conquista del Polo, Viaggio attraverso l’impossibile), un primissimo passo dell’evoluzione del montaggio cinematografico nella sua componente essenziale: la successione delle inquadrature. Infatti questi piccoli film, la cui durata difficilmente supera i dieci minuti, presentano una significativa scelta di cambiare l’ambiente in cui si svolge l’azione; si verifica così un’importante volontà di ampliare lo spazio narrativo del film, seppur nei limiti piuttosto evidenti di un montaggio che unisce semplicemente queste diverse scene-inquadrature.
Le novità fondamentali, anche per quanto riguarda alcune forme di punteggiatura e di montaggio presenti nel linguaggio cinematografico vero e proprio, Méliès le apporta attraverso il suo straordinario lavoro sugli “effetti illusionistici”: da questo punto di vista possiamo dire che Méliès inventa tutto, ma proprio tutto, ciò che appare fondamentale per la grande stagione del cinema muto (dalle dissolvenze in apertura ed in chiusura alle dissolvenze incrociate, dalle tendine ai mascherini fino alle tecniche di sovraimpressione). Naturalmente questi sono solo alcuni degli elementi che interverranno nel montaggio di un film vero e proprio, tuttavia essi saranno fondamentali per lo sviluppo di alcune fra le più diffuse forme di punteggiatura di tutto il cinema successivo.
Dunque, ricapitolando, i primissimi film della storia del cinema (sia quelli di Lumière che quelli di Méliès, ma anche quelli di alcuni loro instancabili imitatori, come Ferdinand Zecca) erano perlopiù costituiti da un’unica inquadratura, un solo campo medio di circa un minuto, dove la macchina da presa non veniva né mossa né spostata, limitandosi a riprendere la scena in modo teatrale. Siamo dunque al grado “zero” del montaggio cinematografico. Di montaggio vero e proprio non si può parlare neanche a proposito di quei film di maggiore durata, che – come abbiamo visto – sono costituiti da più scene girate ognuna come se fosse una singola inquadratura e poi “attaccate” l’una all’altra in successione.
Gli storici del cinema sono abbastanza d’accordo nell’attribuire alla scuola inglese (nota come Scuola di Brighton) i primi significativi passi in avanti nell’ambito dell’evoluzione del montaggio; spetta soprattutto a George A. Smith, regista inglese attivo a cavallo tra i due secoli, introdurre l’utilizzo del primo piano in modo da modificare il punto di vista dello spettatore. Come vedremo, il primo piano sarà uno degli elementi fondamentali della grammatica cinematografica, tuttavia non sempre in passato fu utilizzato per scopi narrativi ben precisi (come nel caso de La grande rapina al treno di Edwin S. Porter – su cui torneremo – dove il primo piano del bandito che spara verso il pubblico poteva essere collocato indifferentemente all’inizio o alla fine del film).
Nel film del 1903 L’incidente di Mary Jane, invece, Smith utilizza il primo piano in modo da ottenere una maggiore descrizione delle azioni ed una maggiore efficacia drammatica. Nel film vediamo una maldestra casalinga, ripresa in campo medio, alle prese con una serie di operazioni domestiche; nel corso di queste azioni, Smith passa dal campo medio a piani più ravvicinati, modificando all’improvviso il punto di vista dello spettatore (ed incrementando, come dice Jurgenson, l’efficienza drammatica o comica della situazione). Pur non esistendo ancora una precisa scala dei campi e dei piani, i registi della Scuola inglese intuiscono le possibilità espressive offerte dal semplice spostamento della macchina da presa durante lo svolgersi dell’azione. Del resto il già citato montatore Jurgenson afferma, nella sua fondamentale opera Pratica del montaggio, che la nascita del montaggio cinematografico avviene nel momento in cui si è pensato di modificare il punto di vista della macchina da presa nel corso della stessa scena; di modificare cioè la sua posizione con lo scopo di descrivere al meglio l’azione o con lo scopo di avere una migliore costruzione drammatica.
Insomma, se non nasce ancora il vero e proprio montaggio cinematografico, nasce però la consapevolezza che il cinema ha qualcosa in più da offrire che la semplice ripresa di un’azione nel suo insieme. È attraverso la sperimentazione, soprattutto in Europa, che si muovono i primi passi dell’evoluzione del montaggio, ma è altrettanto vero che la professione del montatore nasce nel continente solamente verso il 1917; dunque il montaggio non è ancora una pratica ben chiara e definita, per questo il testimone della sua evoluzione passa dalle mani degli inglesi a quelle degli americani. Negli Stati Uniti, già a partire dal 1913, il ruolo del montatore cinematografico è riconosciuto al pari degli altri ruoli.
II. LA NASCITA DEL MONTAGGIO
«La questione di fondo era e rimane tutt’oggi il fatto che il giuntaggio di due riprese non rappresenta semplicemente il collegamento di due spezzoni di pellicola, ma un’autentica creazione».
di Sergej M. Ejzenštejn
Nel cosiddetto periodo di transizione fra quello primitivo (1902-1908) e quello classico (1925-1955), quindi fra il 1909 ed il 1924, il cinema americano inizia a dare corpo non solo al proprio sistema produttivo ma anche ai suoi modelli di narrazione e di montaggio. I tagli all’interno delle scene, che vengono così frammentate in diverse inquadrature, aumentano in larga misura. Nel 1915 la durata dei film arriva a settantacinque minuti; dal 1917 in poi le inquadrature vengono effettuate da diverse angolazioni, il campo medio non è considerato più importante degli altri, e si hanno in un unico film più di mille fra campi e piani.
Impossibile, per un discorso rapido ma preciso, non parlare di un regista ritenuto dalla storiografia cinematografica molto importante nell’evoluzione del montaggio cinematografico: si tratta di Edwin S. Porter, forse il più instancabile imitatore di Georges Méliès, che seppe però andare ben oltre il cinema limitato del mago francese. Infatti il merito principale di Porter sta nella sua capacità di non essersi fermato alla semplice documentazione passiva dell’avvenimento.
Con Porter si ha il primo esempio concreto di cinema narrativo: gli storici identificano questo momento della storia del cinema con il film La vita di un pompiere americano, che Porter realizza nel 1902. Porter, che copiando Méliès aveva acquisito una notevole padronanza del mezzo cinematografico, realizza questo film lontano da ogni intento meramente documentaristico, optando per un film di finzione con sviluppi drammatici e narrativi. Infatti la grande innovazione apportata da Porter, nel descrivere un normale intervento dei pompieri, sta nell’aver inserito queste immagini documentaristiche all’interno di una “storia” (quella di una madre e di un bambino che, avvolti dalle fiamme, saranno salvati dopo una scena di forte impatto drammatico).
L’alternanza della scene tra realtà e finzione, in interni e in esterni, l’inserimento di qualche piano ravvicinato (come quello della sirena dei pompieri), ed un montaggio molto semplice ma efficace, fanno di questo piccolo film una tappa importante nell’evoluzione del montaggio cinematografico. Certo, non siamo ancora all’utilizzo delle inquadrature in funzione narrativa (poiché anche Porter si rifugia perlopiù nell’utilizzo di campi medi in modo da riprendere l’azione sempre da una certa distanza), tuttavia si hanno già i primi significativi segnali di un cinema che mira – in quanto mezzo sostanzialmente dipendente dalle altre arti – ad ottenere un’identità propria.
Un discorso diverso va fatto per il successivo film di Porter, La grande rapina al treno (1903), in cui il regista abbandona ogni intento documentaristico a favore di una maggior attenzione alle nuove regole del romanzo cinematografico. Anche in questo breve film si parte da un fatto di cronaca quotidiana – la rapina al treno ad opera di alcuni banditi – per colpire la sensibilità dello spettatore più che per descrivere semplicemente una serie di fatti oggettivi. Porter, anche in questo film, non usa angolazioni particolari della macchina da presa, né utilizza un’alternanza significativa fra campi e piani; occorre però soffermarsi su un particolare sicuramente non trascurabile: il primo piano del bandito che spara in direzione del pubblico a conclusione del film.
Nonostante in passato si sia cercato di attribuire una funzione narrativa a questa inquadratura, la lettura del catalogo della Edison riporta una brillante illuminazione: «Scena 14: un primo piano di Barnes che guarda e spara sul pubblico. L’impressione è notevole. Questa scena può essere messa all’inizio o alla fine del film». Ciò significa che la drammaticità dell’immagine ingrandita del fuorilegge serviva, in prima istanza, ad ottenere un effetto drammatico sullo spettatore che lo predisponesse alla visione, oppure che lasciasse in lui una particolare impressione dopo la visione del film. Quindi l’utilizzo del primo piano non avviene ancora in funzione della narrazione; si tratta però di un’attesa piuttosto breve, perché di lì a poco il montaggio raggiungerà la prima tappa della sua piena maturità. L’esame dell’opera di un autore come David W. Griffith ci permetterà, in questo nostro rapido exploit, di comprendere uno dei punti d’arrivo dell’evoluzione del montaggio cinematografico.
Il fatto che gli storici e gli studiosi del cinema stravedano per l’opera di David W. Griffith non ci sorprende affatto; di lui si è detto moltissimo nel corso degli ultimi ottant’anni: regista di grande talento, grande direttore di attori, straordinario inventore del montaggio narrativo. Insomma, i film di Griffith sono considerati i primi veri capitoli d’una storia del cinema come arte. Naturalmente ciò che a noi interessa di più sono le fondamentali novità che Griffith apporta al linguaggio cinematografico attraverso la pratica del montaggio.
Partiamo dalla considerazione fatta da Karel Reisz e Gavin Millar sulle pagine del loro indispensabile manuale La tecnica del montaggio cinematografico: Edwin S. Porter, modificando il metodo della continuità dell’azione, mostrò la via per sviluppare la narrazione con il mezzo filmico; egli aveva limitate possibilità di controllo delle inquadrature, e gli avvenimenti venivano ripresi in modo non selettivo da una distanza sempre fissa. La scoperta essenziale di Griffith è stata quella di comprendere la necessità di spezzare la scena in diverse inquadrature incomplete, scelte e poi ordinate esclusivamente in funzione drammatica. Diciamo allora che, mentre la cinepresa di Porter riprendeva la scena sempre in totale o in campo medio, Griffith dimostrò che la macchina da presa poteva avere un ruolo attivo nella narrazione. Frantumando l’avvenimento in diverse angolazioni, ognuna capace di riprendere l’azione dalla posizione più adatta, si poteva modificare anche l’importanza di ogni singola inquadratura.
Questa, in breve, la scoperta essenziale di Griffith. Ma restiamo ancora sul manuale di Reisz e Millar per approfondire un po’ i diversi passaggi: in un film fondamentale come La nascita di una nazione, realizzato nel 1914, Griffith raggiunge oramai la sua piena maturità espressiva, anche dal punto di vista del montaggio. Il film narra una vicenda che, realizzata da Porter, si sarebbe risolta in una dozzina di inquadrature: il presidente Lincoln viene ucciso a teatro mentre la sua guardia del corpo si è allontanata irresponsabilmente. Ma a Griffith non interessa la semplice riproduzione del fatto, egli costruisce la sua storia attorno a tutti i personaggi che compongono il film; quando, allora, il montaggio diviene alternato (ed anche parallelo), saltando dalla vicenda di un personaggio a quella di un altro personaggio, il principio di continuità introdotto da Porter non viene tradito, poiché noi spettatori sappiamo benissimo che tutti i personaggi sono contemporaneamente presenti nella medesima scena.
Tuttavia i motivi per cui, sia Porter che Griffith, frantumano la scena in diverse inquadrature sono molto diversi, e questa differenza assume un rilievo principale: mentre Porter staccava da un’immagine all’altra per motivi fisici (per esempio non era possibile mostrare tutti gli avvenimenti nella medesima inquadratura), Griffith non permette mai all’azione di proseguire ininterrotta: egli cambia il punto di vista dell’azione non per ragioni pratiche, bensì per ragioni drammatiche. Lo fa perché vuole mostrare allo spettatore un particolare che, in quel determinato momento dell’azione, ha un significato rilevante nell’intreccio drammatico. In questo modo il regista ha più possibilità di orientare le reazioni degli spettatori, in quanto egli sceglie ciò che in quella particolare circostanza vuole che lo spettatore veda.
L’altro grande merito che va riconosciuto a Griffith è quello di aver introdotto l’utilizzo del primo piano in funzione esclusivamente narrativa. Egli comprese fin da subito le potenzialità offerte dalla possibilità di avvicinare la macchina da presa al viso dell’attore, cogliendone la sofferenza, le emozioni, le reazioni ad un preciso evento; sarebbe tuttavia inutile ridurre ad un solo esempio l’uso che Griffith fa dei primi piani: basti pensare che il primo piano è forse una delle inquadrature fondamentali di tutto il cinema successivo, e che fu Griffith il primo ad intuirne un utilizzo in funzione drammatica.
Siamo allora giunti ad individuare la prima tappa fondamentale del montaggio cinematografico nella storia della sua evoluzione. Finalmente il montaggio è una pratica riconosciuta e, da questo momento in poi, verrà considerato l’elemento specifico del linguaggio cinematografico, la sua quintessenza. Non si tratta solo di un momento che definisce una volta per tutte come il cinema sia sostanzialmente un’arte indipendente dalle altre, ma di un vero e proprio punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo dell’arte cinematografica.
Con Griffith, ed in parte anche con le esperienze dei primi pionieri, il montaggio cinematografico assume le fattezze che oggi noi conosciamo bene. Siamo ancora lontani dalle diverse forme di montaggio (che si configureranno di lì a poco soprattutto grazie all’intervento dei cosiddetti “formalisti” russi), ma anche dal raffinato e scrupoloso montaggio invisibile imposto, attraverso il découpage classico, dal nascente impero hollywoodiano. Tuttavia esiste già ogni elemento costitutivo del montaggio che appare indispensabile per un film narrativo: la scala dei campi e dei piani, le dissolvenze al nero ed incrociate, il flashback e le ellissi. A questo punto, allora, possiamo approfondire che cos’è il montaggio cinematografico alla luce di quanto detto, cercando soprattutto di coglierne gli aspetti fondamentali del suo essere “meccanismo per produrre senso”.
Tecnicamente parlando, il montaggio è quell’operazione che consiste nell’unire la fine di un’inquadratura con l’inizio della successiva; se per il montatore questa operazione può essere considerata il momento in cui si costruisce il senso del film, per lo spettatore essa si traduce in quello che possiamo definire l’effetto montaggio, ovvero il passaggio da un’immagine A ad un’immagine B. Montare un film, allora, significa innanzitutto mettere in relazione due o più elementi fra loro (funzione connettiva), sia sul piano diegetico (il personaggio dell’inquadratura A con quello dell’inquadratura B), sia su quello discorsivo (l’angolazione dall’alto nell’inquadratura A e quella dal basso nell’inquadratura B), sia infine sul piano diegetico-discorsivo (Il personaggio ripresa dall’alto in A con quello ripreso dal basso in B). Dunque unire due inquadrature tra loro è molto di più di un semplice fatto tecnico: questa operazione può avere diverse funzioni narrative, semantiche o estetiche.
Nel corso della sua evoluzione il linguaggio cinematografico ha imparato, attraverso il montaggio, a scomporre lo spazio diegetico in diverse unità capaci di evidenziare i momenti essenziali nello sviluppo del racconto; un discorso analogo può essere fatto anche per l’asse temporale: il montaggio, allora, assume anche il compito di selezionare quei momenti della narrazione che sono più importanti di altri, e di confinare questi ultimi nel vuoto delle ellissi. Dunque il montaggio diviene lo strumento attraverso il quale l’istanza narrante seleziona il punto di vista attraverso il quale osservare l’evento, ma anche lo strumento con il quale essa costruisce il proprio racconto. Vediamo meglio questi due aspetti, ovvero come il montaggio organizza lo spazio ed il tempo del racconto.
Facendo riferimento al Manuale del Film di Gianni Rondolino e Dario Tomasi, è possibile comprendere facilmente questa duplice funzione del montaggio cinematografico: per quanto riguarda lo spazio, attraverso il montaggio il cinema trasforma lo spazio diegetico in uno spazio filmico; esiste quindi un ambiente (spazio diegetico) ed una rappresentazione di questo ambiente attraverso una successione di diverse inquadrature scelte e organizzate dall’istanza narrante (spazio filmico). Esistono due modi per dare vita ad una rappresentazione filmica di uno spazio diegetico: la prima si ha quando ad un piano d’insieme dell’ambiente (campo medio o totale) seguono diverse inquadrature che lo scompongono in tanti frammenti comunque presenti nel piano d’insieme; la seconda, invece, si ha quando lo spazio d’insieme viene costruito attraverso diverse inquadrature parziali che non ci mostrano mai lo spazio diegetico nella sua globalità. Nel primo caso il montaggio scompone un qualcosa di intero, nel secondo caso costruisce quel qualcosa.
Se si è insistito molto su questa componente fondamentale del montaggio cinematografico lo si è fatto perché questo gioco di segmentazione dello spazio – da cui deriva l’espressione découpage tecnico (si tratta dell’ultima fase letteraria prima dell’inizio delle riprese, ovvero di una sceneggiatura “tecnica” sulla quale il regista appunta tutte le inquadrature, indicate da un numero progressivo, nonché i suoni ed i rumori che comporranno ogni singola scena) – è praticamente assente nel cinema primitivo. Si tratta quindi di un momento chiave nell’evoluzione del montaggio, anche se occorre ancora soffermarsi sulla seconda questione: quella del tempo filmico.
Per quanto riguarda il tempo, il montaggio è il mezzo che, innanzitutto, decide la durata di ogni singolo campo e piano; attraverso questa operazione, il regista impone allo spettatore un tempo preciso per “leggere” una determinata inquadratura. Esiste un criterio generale per definire la durata delle inquadrature: poiché un campo lungo contiene molte più informazioni di un primo piano, la regola base è che il primo duri di più del secondo; naturalmente però si tratta di un’affermazione un po’ approssimativa, visto che spesso interviene la soggettività dell’autore che può modificare in modo anche sostanziale la durata delle singole inquadrature.
La questione del rapporto fra il tempo ed il montaggio si estende poi dal livello dell’inquadratura al livello del film nelle sue complesse articolazioni. Il montaggio è lo strumento che permette di stabilire il rapporto fra l’ordine degli eventi previsto dalla fabula e l’ordine degli eventi previsto dall’intreccio. Come sappiamo, l’esposizione degli eventi non deve necessariamente seguire l’ordine cronologico degli stessi, in quanto è possibile ottenere degli effetti assolutamente efficaci attraverso una narrazione ad incastro. Il montaggio permette questo tipo di narrazione grazie all’utilizzo, appunto, di espedienti come le ellissi, il flashback ed il flashforward.
Giunti a questo punto del nostro percorso è possibile mettere un po’ d’ordine fra i dati finora accumulati; cerchiamo di trarre delle conclusioni dopo questa breve analisi dell’evoluzione del montaggio nei primi vent’anni della sua storia. La prima cosa che appare evidente, dopo aver sottolineato l’importanza di registi come Porter e Griffith nell’affermarsi del montaggio narrativo, è che ci sono alcune forme di montaggio finalmente ben definite. Certo ancora dobbiamo arrivare al momento forse più importante di questo discorso sul montaggio nel cinema muto (ovvero la “rivoluzione” dei maestri russi), tuttavia mi pare di poter dire che ci sono già dei modelli di montaggio ben definiti sui quali occorre soffermarsi.
La convinzione che il montaggio sia una delle fasi più importanti e delicate nella realizzazione di un film ha portato alcuni studiosi a teorizzare alcune forme di montaggio ben precise che è possibile rintracciare già negli anni che a noi interessano. La prima di queste forme di montaggio, che è possibile delineare soprattutto grazie a Griffith, è il montaggio alternato: questo sintagma alterna le inquadrature di due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi ma, molto spesso, simultaneamente. Dal punto di vista narrativo, il montaggio alternato permette all’istanza narrante di mostrare allo spettatore due o più eventi che accadono contemporaneamente ed in diversi luoghi, conferendogli più informazioni di quelle che gli stessi personaggi hanno.
Il secondo “tipo” di montaggio che possiamo prendere in considerazione è il montaggio ellittico: nel cinema le ellissi sono fondamentali, poiché – a meno che non si voglia riprodurre un evento in tempo reale – le storie che si raccontano difficilmente rientrerebbero in un massimo di due o tre ore di proiezione. Il montaggio ellittico è allora un montaggio di contrazione temporale che omette il superfluo oppure ciò che non si vuole mostrare allo spettatore; l’ellisse può manifestarsi sotto diverse forme, come alcuni tipi di punteggiatura molto utilizzati nel cinema muto (fondù in chiusura o in apertura, tendine, iris ecc.).
Dunque queste due tipologie di montaggio possono essere considerate un po’ il punto di arrivo di tutte le attività pionieristiche fin qui trattate, ad eccezione degli straordinari risultati raggiunti da David W. Griffith. Il cinema acquisisce coscienza di sé e dei propri mezzi proprio grazie alle possibilità che gli offre il montaggio. Se oggi ci sono altre forme di spettacolo e di intrattenimento che lo utilizzano a loro volta (video-clip, video games, computer grafica), ai tempi del cinema muto il montaggio era un procedimento che riguardava solo il cinema e che, quindi, lo differenziava nettamente dalle altre arti.
Tuttavia, dagli anni venti agli anni trenta, il montaggio sarà più che mai oggetto d’analisi teorica e di sperimentazione empirica. Dobbiamo ora esaminare tutte le altre forme di montaggio che, prima dell’avvento del sonoro (che, come si sa, modificherà in modo significativo i metodi di produzione e di fruizione del film), influenzeranno decisivamente gli ultimi dieci anni di vita del grande cinema muto. Se è vero che le teorie elaborate in questa direzione andranno incontro ad un rapido declino nel momento stesso in cui il film rivede il suo statuto grazie all’avvento del sonoro, è anche vero che parecchie di queste tipologie di montaggio (specie il lavoro teorico/pratico di Ejzenštejn) influenzeranno notevolmente il montaggio cinematografico nell’era del “post découpage classico”.
III. 1923-1930: FORME, FUNZIONI E IDEOLOGIE DEL MONTAGGIO
«Ancora un volta ripeto che il montaggio è la forza creativa della realtà filmica e che la natura fornisce solo la materia prima sulla quale essa agisce. Questa è esattamente la relazione esistente tra il montaggio e il film».
di Vsevolod Pudovkin
Abbiamo visto come il montaggio sia una pratica, ed una tecnica, oramai largamente diffusa fra i cineasti del cinema muto. Prima di iniziare il discorso sui contributi del cinema sovietico al montaggio cinematografico, occorre precisare che nel frattempo la produzione di film continua a definire un po’ in tutto il mondo diversi modi di intendere l’arte cinematografica. Infatti ogni paese, ed ogni regista, realizza un determinato numero di film a partire dal contesto artistico, culturale e sociale (ma anche economico) in cui la pratica cinematografica prende forma. Quindi avremo una quantità di film anche molto diversi tra loro, non solo sul piano dei temi e dei contenuti, ma anche su quello – in questa sede ben più importante – dell’utilizzo del mezzo espressivo, dei modi e delle forme con cui viene portata avanti la narrazione. Si pensi, per esempio, alle “modifiche” apportate dalle avanguardie storiche (come il surrealismo o l’espressionismo) al modo di concepire e di realizzare i film, che sicuramente risultava un prodotto ben diverso da quello di altre cinematografie minori.
Comunque, se noi preferiamo concentrare la nostra attenzione sulle avanguardie russe, e sulle personalità che in quegli anni si (pre)occupano di teorizzare le diverse forme di montaggio, è perché riteniamo che l’ultimo decennio del cinema muto sia profondamente influenzato da quel modo sostanzialmente nuovo di intendere il cinema, ed anche perché – come forse abbiamo già accennato nel precedente paragrafo – ancora oggi è possibile rintracciare il grande patrimonio teorico che i registi russi hanno lasciato in eredità al cinema moderno.
Gli scritti teorici dei maestri russi appartengono a due scuole distinte: da un lato abbiamo le ricerche di Vsevolod Pudovkin e Lev Kulesov, riassunte successivamente nel libro di Pudovkin La settima arte; dall’altro gli scritti ostici e straordinariamente dettagliati di Sergej M. Ejzenštejn. Se a questi nomi aggiungiamo l’attività, soprattutto pratica, di un’altra personalità molto importante del cinema russo, Dziga Vertov, possiamo iniziare ad inquadrare meglio l’attività teorico/pratica svolta dai registi russi.
Innanzitutto va precisata una cosa molto importante: i maestri russi si preoccupano per primi di lanciare una vera e propria teoria del cinema, cosa che invece Griffith non aveva mai tentato di fare; in secondo luogo, vista la situazione generale del cinema sovietico nei primi venti anni di storia, appare evidente il loro bisogno di avviare un progetto ben preciso capace di favorire lo sviluppo concreto di una valida cinematografia nazionale. Completiamo il quadro aggiungendo che il mezzo cinematografico fu inteso, dai registi russi, come un mezzo fortemente rivoluzionario: non solo perché innovativo, ma soprattutto perché capace di diffondere gli ideali del socialismo.
Tutto comincia con i primi cinegiornali (Kinopravda) realizzati da Dziga Vertov all’inizio degli anni venti; si tratta di opere perlopiù dedicate alla propaganda e alla diffusione delle notizie di cronaca, eppure già in questi primi esperimenti il regista russo riesce a mettere in evidenza la sua volontà di coniugare la realtà quotidiana, colta nelle sue componenti naturali, ad un procedimento artificiale come il montaggio. L’interesse per la sua opera, e soprattutto per il suo film di montaggio L’uomo con la macchina da presa, sta proprio in questo rapporto tra la natura documentaristica del materiale girato (realizzato sempre lontano dai teatri di posa) e l’artificio del procedimento di organizzazione attraverso il montaggio. In questo caso, il montaggio delle immagini diviene addirittura centrale: Vertov si preoccupa non solo di mostrare le attuali potenzialità del mezzo cinematografico e del suo elemento specifico, ma anche di sperimentare diversi tipologie di organizzazione ritmica del materiale attraverso un montaggio che ancora oggi stupisce per l’efficacia. Possiamo allora considerare il suo film sopra citato, che tra le altre cose è completamente privo di didascalie, una sorta di saggio metacinematografico in cui è il cinema stesso ad interrogarsi sul proprio linguaggio.
Tuttavia, soprattutto nei primi anni della loro attività, i maestri russi realizzano perlopiù dei contributi teorici di grande importanza, che – da un lato – mettono in evidenza la loro volontà di conoscere e padroneggiare il mezzo cinematografico, dall’altro giustificano il loro imminente debutto nella regia. Cercando di proseguire in modo lineare nel nostro discorso, è forse opportuno fare un passo indietro e tornare a quella distinzione iniziale fra due diverse “scuole” lungo le quali si sviluppa il cinema sovietico nel decennio che va dal 1920 al 1930. Come abbiamo già detto, troviamo da una parte l’attività di ricerca teorica capitanata da Lev Kulesov (e costantemente assistita dal lavoro teorico e pratico di Pudovkin), dall’altra parte l’attività straordinariamente proficua di Ejzenštejn. Cominciamo dagli importanti esperimenti svolti da Kulesov e Pudovkin in merito alla convinzione che il montaggio assume il compito, nella costruzione di un film, di produrre senso.
Nel già citato libro di Pudovkin La settima arte, egli ricorda come andò uno dei più significativi esperimenti svolti da Kulesov all’inizio della sua carriera: si trattò di scegliere alcuni primi piani di un celebre attore che fossero particolarmente statici e privi di ogni qualsivoglia sentimento; subito dopo si unirono questi primi piani, del tutto simili tra loro, con altrettanti spezzoni di pellicola in diverse combinazioni. Kulesov e Pudovkin ottennero così tre brevi filmati composti da due inquadrature ciascuno: nel primo caso la figura dell’attore era seguita dall’immagine di un piatto di minestra; nel secondo caso era seguita dal cadavere di una donna, e nel terzo caso il primo piano dell’attore era seguito da una bambina che giocava con un buffo orsacchiotto. L’esperimento prevedeva che questi tre brevi filmati venissero mostrati ad un pubblico inconsapevole. L’affermazione di Pudovkin sul risultato ottenuto appare addirittura sconvolgente: il pubblico era in delirio dinanzi alle straordinarie qualità dell’attore, ora capace di osservare con straordinaria intensità il piatto di minestra, ora di esternare il suo dispiacere per la morte della donna, ora di sorridere intensamente dinanzi ai movimenti divertenti della bimba. Ma Pudovkin e Kulesov sapevano perfettamente che in tutti e tre i casi l’espressione dell’attore era la stessa.
In realtà non sapremo mai se le cose andarono così per davvero, tuttavia l’importanza di un esperimento di questo tipo sta nel formidabile lavoro teorico che ne seguì: il montaggio, a questo punto della sua evoluzione, diviene la parola chiave del fatto cinematografico; anzi, preso di per sé – senza il fondamentale ricorso al montaggio – il cinema non ha alcun senso.
Queste considerazioni sono giustificate da quello che venne definito, proprio grazie a questo esperimento, L’effetto Kulesov: l’associazione dell’immagine A con l’immagine B produce un senso diverso da quello che le due immagini produrrebbero prese di per sé; quindi, unire l’immagine A all’immagine B, fa sì che la prima venga letta in modo diverso dallo spettatore. Grazie a questa sua capacità fondamentale, il montaggio cinematografico si caratterizza per la sua funzione di produzione del senso.
A questo punto cerchiamo di addentrarci un po’ di più nel discorso sulle forme, le funzioni e le ideologie del montaggio nella pratica cinematografica dei registi sovietici. Conviene partire da Vsevolod Pudovkin e da quella tipologia di montaggio che egli stesso definisce montaggio costruttivo. Dominique Villain, nel suo libro Il montaggio al cinema, riconosce a Pudovkin il merito di aver teorizzato per primo l’opera di David W. Griffith: infatti, mentre quest’ultimo si accontentava di risolvere i problemi pratici che di volta in volta si presentavano, Pudovkin formulava una teoria del montaggio che si basava di gran lunga sul lavoro pratico svolto dal regista americano.
Nasce così, da una base pratica altrui, la convinzione da parte di Pudovkin che il regista possiede una quantità di materiale grezzo (i pezzi di pellicola impressionata) con i quali deve costruire l’immagine che forma la rappresentazione filmica; egli infatti non dispone della realtà, ma solamente di un supporto di celluloide dove quella realtà è stata registrata. Durante il montaggio questi spezzoni di pellicola vengono sottoposti alla volontà del regista, che compone la realtà filmica eliminando tutti quegli intervalli che non permettono all’azione di rientrare nel tempo previsto e nello spazio previsto.
Questo, in breve, il principio che venne definito da Pudovkin con l’espressione montaggio costruttivo. Il regista, che dispone di una certa quantità di pellicola su cui sono registrate le singole parti dell’azione, opera attraverso la selezione e l’eliminazione di questi spezzoni. Egli, cioè, stabilisce quali sono i materiali necessari per costruire la rappresentazione filmica dell’azione ripresa.
Questo concetto di eliminazione di alcuni pezzi di pellicola può essere meglio compreso in base ad un esempio riportato nel più volte citato manuale La tecnica del montaggio cinematografico: Pudovkin afferma che, per mostrare sullo schermo un uomo che si getta dalla finestra e che cade sull’asfalto, si possono organizzare le riprese in modo da riprendere quest’azione in due inquadrature. La prima ci mostra l’uomo gettarsi dalla finestra (senza però mostrarci la rete che lo salva), la seconda ci mostra l’uomo cadere in terra (gettandosi però da un’altezza limitata). L’effetto ottenuto montando queste due riprese è notevole; della caduta vera e propria ci vengono mostrati solo due punti, l’inizio e la fine. La traiettoria intermedia viene quindi eliminata. Secondo Pudovkin non si tratta di un trucco, bensì di un metodo di rappresentazione filmica che corrisponde esattamente a quanto avviene in teatro quando tra un atto e l’altro passano alcuni anni.
Fin qui, comunque, Pudovkin si limita a teorizzare quanto il suo collega americano Griffith aveva messo in pratica. Tuttavia egli sente presto la necessità di andare oltre, di confrontarsi con la pratica. Possiamo allora dire che un’importante spinta in avanti il suo lavoro teorico la ottiene dall’esperienza che egli farà come regista. Kulesov scoprì che due inquadrature, contrapposte in modo esatto, potevano produrre dei significati diversi: la conclusione fu che l’arte cinematografica non nasce al momento delle riprese, bensì nel momento stesso in cui il regista comincia a combinare insieme le varie inquadrature per produrre dei significati.
Naturalmente queste considerazioni, come già accennato in precedenza, trovarono ampio riscontro nei film realizzati da Pudovkin in quegli stessi anni. Se confrontassimo i suoi lavori con quelli di Griffith, non potremmo che notare una differenza abbastanza significativa: mentre nei film di Griffith l’elemento narrativo viene comunicato agli spettatori attraverso il comportamento e i gesti
dell’attore, Pudovkin costruisce le sue scene a partire da una serie di inquadrature precedentemente pianificate e poi accuratamente contrapposte. Ecco perché per la maggior parte dei registi russi è importante effettuare le riprese del film con il costante sussidio di una sceneggiatura di ferro (espressione con la quale si intende un découpage tecnico assolutamente dettagliato e preciso).
Uno dei risultati più efficaci raggiunti da Pudovkin attraverso il montaggio fu la scena – all’interno del film La madre – in cui il figlio, chiuso in una cella, riceve un biglietto con cui gli si annuncia che il giorno dopo verrà liberato. Il problema era quello di esprimere la gioia del personaggio senza ricorrere ad espedienti troppo banali come il viso dell’attore che si riempie di gioia; Pudovkin allora pensò di mostrare un particolare dei movimenti nervosi delle mani ed un dettaglio del sorriso del giovane. Tra queste due inquadrature, però, Pudovkin decise di inserire diverse inquadrature contrapposte: un ruscello primaverile, i riflessi del sole sull’acqua, degli uccelli che si posano ai bordi dello stagno e, infine, un bambino che ride. Unendo tutte queste inquadrature, Pudovkin ottenne l’espressione di gioia del prigioniero.
Dunque abbiamo visto come anche il punto di arrivo del montaggio in Griffith conosce una fase successiva di approfondimento. La grande attività teorica e pratica svolta da Kulesov e Pudovkin (ma anche da Vertov) raggiunge dei riscontri concreti che ci confermano come, a questo punto cruciale della sua evoluzione, l’arte del montaggio cinematografico abbia ancora molto da offrire. Infatti, come fin dall’inizio avevamo intuito, è impossibile proseguire il nostro discorso – che per la verità si avvia di già verso la sua conclusione – senza soffermarci su una personalità centrale nella storia dell’evoluzione del montaggio nel cinema muto (e poi anche sonoro). Si tratta di un’intellettuale che, come dice il teorico Jacques Aumont, resta una figura impressionante nella storia del cinema per la sua intelligenza e per la sua cultura; ovviamente stiamo parlando di Sergej M. Ejzenštejn.
Una cosa è certa: parlare di Ejzenštejn può farci sentire un po’ in imbarazzo, visto che egli è divenuto fin troppo presto un mito per gli storici e gli studiosi del cinema; noi cercheremo, pur con i nostri evidenti limiti, di mettere in evidenza soprattutto come la sua attività di teorico e regista ha contribuito all’evoluzione del montaggio cinematografico nell’epoca del cinema muto.
Per comprendere il fondamentale contributo di Ejzenštejn al montaggio è necessaria la lettura di almeno due testi fondamentali oggi in circolazione: La teoria generale del montaggio e Il montaggio. Nel saggio introduttivo al secondo volume citato, Jacques Aumont parla di Ejzenštejn come di una personalità più nota che conosciuta, la cui storia bisogna sempre intenderla in duplice modo: da un lato abbiamo la storia di uno straordinario cineasta che non riusciva a fare film e che, quando li faceva, venivano distrutti, rimontati, nascosti o proibiti. Dall’altro lato abbiamo l’attività teorica di uno scrittore autodidatta (al pari del cineasta), che risulta molto prolisso, ripetitivo, noioso e mai in grado di giungere ad una teoria definitiva. Infatti, come è ben noto, Ejzenštejn preferiva sempre elaborare una nuova teoria piuttosto che approfondirne una precedente.
Tuttavia a noi sembra che esista un termine che attraversa tutta la travagliata carriera del regista russo: si tratta del termine montaggio (che per Ejzenštejn è assolutamente fondamentale), e a ben vedere è anche l’unico, visto che l’altro termine spesso chiamato in causa, il conflitto, finirà anch’esso con lo sparire dagli anni trenta in poi. Cerchiamo allora, non con qualche difficoltà, di trovare un modo per iniziare: abbiamo parlato di metodi di montaggio, delle funzioni e delle ideologie che essi ricoprono; bene, in questo senso siamo quasi obbligati a tirare in ballo l’attività teorica e pratica di Ejzenštejn sul montaggio. Dopo aver osservato il montaggio costruttivo di Pudovkin e Kulesov, passiamo ora all’altro grande sintagma di quegli anni: il montaggio intellettuale (noto anche come montaggio connotativo).
Partiamo dalle considerazioni dello stesso Ejzenštejn sul lavoro teorico svolto da Kulesov e Pudovkin: innanzitutto, il cinema è per sua natura basato sul montaggio perché, al pari di altre forme di comunicazione, esso opera attraverso una serie di elementi il cui significato non è dato dalla loro somma bensì dal prodotto risultante (L’esempio fatto da Ejzenštejn è quello dei geroglifici: una bocca più un cane significa abbaiare, una bocca ed un bambino significa urlare, un coltello ed un cuore significa tristezza e così via; lo stesso vale per il cinema, quindi Ejzenštejn condivide l’effetto Kulesov, per il quale due immagini messe insieme producono un senso diverso da quello che ognuna possiede di per sé). Nel cinema questa possibilità è offerta solamente dal montaggio, che si pone dunque come l’elemento indispensabile per produrre senso.
Secondo Kulesov, ed il suo allievo prediletto Pudovkin, essendo ogni singola inquadratura un elemento del montaggio, il montaggio è a sua volta un insieme di elementi; Ejzenštejn non è d’accordo, poiché per lui l’inquadratura è una cellula del montaggio, è qualcosa in più di un semplice elemento costitutivo. Ciò che, di conseguenza, caratterizza sia il montaggio cinematografico che la singola cellula (l’inquadratura) è il conflitto, la collisione fra due diverse inquadrature o all’interno della medesima inquadratura. Kulesov sosteneva che il montaggio è una concatenzaione di singoli pezzi-inquadrature, una specie di catena composta da diversi “mattoncini”; i mattoncini, che vengono posti uno di seguito all’altro, espongono un pensiero. Ejzenštejn contrappone a questa visione del montaggio, dedotta da Kulesov, il concetto di conflitto: quando due dati entrano in collisione si produce un pensiero.
Questa sua convinzione, probabilmente, Ejzenštejn la ricava da una personale (e giusta) rielaborazione del fenomeni PHI, ovvero di quel fenomeno di permanenza ottica dell’immagine che permette l’illusione del movimento dinanzi ad una proiezione cinematografica. Secondo lui, infatti, questa illusione di movimento non è data dalla successione dei singoli fotogrammi, né dalla velocità della loro successione; infatti avviene qualcosa di diverso: anziché percepire il movimento attraverso la visione di due immagini diverse in successione, tutto nasce dalla non corrispondenza (dal contrasto, dal conflitto, dalla collisione) di due immagini che si sovrappongono nel nostro cervello. Quindi la questione del montaggio si pone proprio alla base dei fenomeni percettivi della proiezione cinematografica.
Detto questo, cerchiamo di definire meglio come si configura il montaggio cinematografico nel lavoro proficuo di Ejzenštejn: innanzitutto la prima cosa importante da precisare è che per Ejzenštejn la riproduzione filmica della realtà non suscita di per sé particolare interesse; interessante, invece, è il senso che ad essa si può attribuire attraverso una sua interpretazione. Il cinema, quindi, non può limitarsi a riprodurre la realtà, poiché è solamente attraverso una sua interpretazione che esso può costituirsi come un discorso articolato. Il montaggio, allora, diviene lo strumento indispensabile per poter effettuare questa interpretazione, questa costruzione del senso.
Il montaggio, pertanto, si configura come produttore del senso: questa teoria, basata però sul “conflitto” (a differenza della teoria di Kulesov e Pudovkin), affonda le proprie radici in una delle elaborazioni teoriche più importanti fatte da Ejzenštejn: il montaggio delle attrazioni. Non ci sembra questa la sede più adatta ad approfondire questo discorso che, come si sa, attiene perlopiù al teatro; tuttavia, anche in questo caso – sia che si tratti della recitazione di un attore teatrale, sia che si tratti del montaggio cinematografico – il comune denominatore rimane sempre il termine conflitto.
Alla base dell’intera concezione che Ejzenštejn ha del cinema c’è dunque il termine conflitto, la collisione tra due inquadrature poste l’una accanto all’altra. Questo conflitto può darsi sia fra due diverse inquadrature, sia all’interno della medesima inquadratura. Ejzenštejn individua diversi tipi di conflitti che intervengono nel montaggio di un film: si parte dai conflitti più semplici (come quelli fra due piani o campi) fino ad arrivare a conflitti più o meno complessi (dei volumi, delle masse, degli spazi ecc.); per quanto riguarda il conflitto presente all’interno di un’unica inquadratura, Ejzenštejn riporta l’esempio della profondità di campo, dell’orientamento grafico divergente, delle parti chiare e scure e così via.
Da queste, e molte altre, considerazioni nasce il montaggio connotativo voluto da Ejzenštejn: il carattere fortemente connotativo del montaggio sta nel fatto che il segno cinematografico, al pari di quello teatrale, non è mai un segno d’oggetto poiché rimanda sempre ad un significato ulteriore; quindi è sempre segno di segno d’oggetto. Il montaggio intellettuale di Ejzenštejn si presenta, allora, come un montaggio fortemente simbolico. Un esempio da produrre immediatamente proviene dal film Ottobre (1927), in cui vi è la celebre sequenza del “pavone meccanico” che accompagna l’ingresso di Kerenskij nella sala del trono degli Zar; lo scopo che Ejzenštejn vuole ottenere è quello di dimostrare l’assoluta lontananza di Kerenskij dai veri ideali rivoluzionari ed il suo rapporto di sostanziale continuità con il regime zarista. Per ottenere ciò, Ejzenštejn ricorre al montaggio connotativo che si concretizza in almeno quattro modi diversi di rappresentare l’azione; quello che più ci interessa è il ricorso ai cosiddetti inserti non-diegetici. È il caso del pavone meccanico che, dopo una serie di inquadrature, aprirà la coda ruotando su se stesso, proprio mentre Kerenskij entra nella grandiosa sala dello Zar. Questa associazione, creata abilmente da Ejzenštejn, permette di esplicitare al meglio il “pavoneggiarsi” del personaggio al momento di prendere il potere. Subito dopo siamo al “climax” dell’intera sequenza (preparato dalla sequenza del pavone), che Ejzenštejn mostra facendo rivedere allo spettatore, per ben quattro volte e da diverse angolazioni, la porta della stanza reale che viene aperta da Kerenskij.
Un montaggio più strettamente simbolico è possibile rintracciarlo nel film forse più famoso di Ejzenštejn, La corazzata Potemkin (1926). In una delle sequenze più memorabili del film, quella della “scalinata di Odessa”, lo spettatore assiste al rapido montaggio di tre inquadrature riguardanti un leone di pietra che si alza e “risponde” al grido rivoluzionario; lo studioso italiano Galvano Della Volpe, nel suo saggio sul cinema Il verosimile filmico, nota come una sequenza di questo tipo sia fortemente portatrice di simboli e di idee astratte almeno quanto l’immagine verbale o letteraria. Allora noi spettatori possiamo leggere questa sequenza non “verosimile” come una protesta ideologica al bagno di sangue sulla scalinata di Odessa.
Naturalmente non è possibile trattare in questa sede i numerosi contributi teorici, ma soprattutto pratici, che Ejzenštejn ci ha lasciato; non è possibile per almeno due motivi fondamentali: il primo, più oggettivo, è che la complessità dell’oggetto di studio ci rende assai difficile il compito; il secondo, più banale, è che probabilmente occorrerebbe dedicare alle teorie sul montaggio di Ejzenštejn un’intera tesina di chissà quante pagine. E forse neanche questo gli renderebbe giustizia. Si è comunque deciso di approfondire questo argomento attraverso la lettura della fondamentale raccolta di saggi Il montaggio, in modo da essere più precisi in merito a quanto, fino ad ora, abbiamo tralasciato. Ejzenštejn resta l’autore che forse più di tutti si è dedicato alla teoria del montaggio cinematografico, e che più di tutti ha combattuto per rivendicarne l’assoluta centralità nel processo di produzione del film; o, per lo meno, così è stato per tutto il periodo del cinema muto. Infatti, crediamo che sia importante ricordarlo, a partire dall’avvento del sonoro (innovazione che Ejzenštejn, inizialmente, non condivide), egli considererà il montaggio solamente uno degli elementi che compongono il film, la cui importanza non è superiore alle altre fasi. Tuttavia, visti gli eccellenti risultati raggiunti da Ejzenštejn con il suo montaggio verticale nel film Aleksandr Nevskij, non possiamo certamente dire che la sua attività di teorico si concluda con la fine dell’epoca del cinema muto.
Ma dove possiamo rintracciare l’eredità lasciataci da Sergej M. Ejzenštejn? Certamente molte delle sue sperimentazioni le ritroviamo nel primo Godard, nei film pubblicitari e nei video-clip; Ejzenštejn è stato da alcuni considerato, forse erroneamente, il precursore della semiologia del cinema, quando in realtà ha messo in luce diverse situazioni senza possibili sbocchi. Del resto lui stesso aveva creato dei modelli di montaggio – etichettati con nomi precisi (montaggio armonico, tonale, ritmico e via dicendo) – che poi rielaborava a favore di nuove teorie, nuove sperimentazioni, nuove pratiche sul montaggio. Ecco perché si è detto, all’inizio del discorso, che anche il termine conflitto verrà scartato a favore di altre ragionate conclusioni.
Del resto questa non appare né una contraddizione, né un’assurda incoerenza da parte del regista russo: se, infatti, questo modo di procedere non ci scandalizza più di tanto è perché – oramai lo sappiamo bene – non erano i film a nascere da un discorso teorico ben preciso, semmai erano le teorie a nascere da un discorso strettamente pratico.
IV. UNA CONCLUSIONE (PROVVISORIA)
«Un abile uso del sonoro non consiste soltanto nell’aggiungere la più efficace colonna sonora a un film elaborato in precedenza, ma nel concepire il film in funzione del suono».
di Karel Reisz
Siamo così giunti alla fine di questo nostro rapidissimo excursus; ci piaceva concludere così – con questa frase pronunciata da uno dei più autorevoli esponenti del free cinema, nonché co-autore di uno dei manuali più importanti mai pubblicati sul montaggio, La tecnica del montaggio cinematografico (che è stato un po’ il nostro punto di riferimento costante) – perché il cinema sonoro, mentre si producono gli ultimi capolavori del cinema muto, è oramai alle porte e bussa con prepotenza; il cinema, quindi, sarà presto costretto a rivedere il suo statuto, le sue teorie, i suoi metodi di produzione e di fruizione. Non si tratterà di rivedere vecchie questioni, né di teorizzare nuove forme di montaggio: l’avvento del sonoro sarà una vera e propria rivoluzione che cambierà in modo sostanziale l’utilizzo del mezzo cinematografico. Allora diamo ragione ad Antonio Costa quando dice che il cinema muto era un cinema troppo diverso da quello moderno, e che come tale non può essere fruito con le stesse competenze e le stesse aspettative; del resto – aggiungiamo noi – nessuna pianta è mai cresciuta senza quel seme che inevitabilmente deve precederla. Forse, allora, possiamo concepire il cinema sonoro come una semplice evoluzione del cinema muto; ma nessuna rivoluzione, nessun cambiamento è indolore: occorre sempre mettere sul piatto della bilancia ciò che si lascia e ciò a cui si spera di andare incontro.
Tornando a noi, e al nostro discorso, crediamo di aver tracciato grossomodo tutte le tappe più importanti che il montaggio cinematografico ha incontrato nel corso della sua evoluzione. Forse qualcuno potrà accusarci dell’eccessiva “faciloneria” con la quale abbiamo indicato il nostro percorso (senza contare la “frustrante” convinzione di aver dimenticato momenti molto importanti), ma bisogna essere obiettivi e comprendere come la nostra volontà – tenuto conto anche dei limiti imposti dalle conoscenze che abbiamo – era rivolta al semplice fatto di illustrare quello che è stato il processo di evoluzione del montaggio cinematografico dai primi film dei fratelli Lumière fino agli straordinari risultati ottenuti da Ejzenštejn. Forse lo abbiamo fatto di proposito in modo così semplice, sperando così di mettere in evidenza soprattutto una cosa che davvero ci preme: la curiosità di chi – come noi – guarda al cinema muto come ad un qualcosa che non c’è più e che non si è mai avuto modo di conoscere. Naturalmente senza un’improbabile nostalgia, semmai con un pizzico di rammarico.
Quel rammarico di chi, nell’epoca confusa della rivoluzione digitale, “gioca” con i sofisticati sistemi di montaggio AVID senza aver mai avuto il piacere di “toccare” una moviola.
Tesina di di CLAUDIO DEZI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
– (a cura di) Pietro Montani, Sergej M. Ejzenštejn. Il montaggio, Saggi Marsilio, Venezia, 1992;
– (a cura di) Pietro Montani, Sergej M. Ejzenštejn. La teoria generale del montaggio, Saggi
Marsilio, Venezia, 1992;
– David Cheshire, Cinematografare, Mondadori, Milano, 1981;
– Antonio Costa, La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, Clueb, Bologna, 1995;
– Sergej M. Ejzenštejn, Lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1964;
– Aldo Grasso, Sergej M. Ejzenštejn, Il Castoro, Milano, 1994;
– Karel Reisz e Gavin Millar, La teoria del montaggio cinematografico, Sugarco, Varese, 1981;
– Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Manuale del Film, Libreria UTET, Torino, 1995;
– Gianni Rondolino, Storia del Cinema, Libreria UTET, Torino, 1995;
– Dominique Villain, Il montaggio al cinema, Lupetti, Milano, 1996;
– Rodolfo Tritapepe, Linguaggio e tecnica cinematografica, Paoline, Roma, 1985.
La luce può essere di tonalità calda, come in questa immagine:
oppure di tonalità fredda, come questa:
La differenza è subito visibile: ognuna delle due immagini ci trasmette una sensazione diversa. Fredda, invernale la seconda, calda, estiva ed accogliente la prima.
Queste sono immagini tratte dal film "La ragazza con l'orecchino di perla" del regista Peter Webber che racconta come il pittore Jahannis Vermeer arrivò a dipingere il quadro Girl with a pearl earring.
Le sequenze con luce bianca, quella che noi consideriamo normalmente normale, sono relativamente poche.
Infatti, cosa ci ha colpito di più di questo film? Le atmosfere che il regista col suo direttore della fotografia ha saputo presentarci, nella Venezia del nord, entriamo nella vita quotidiana di una famiglia molto agiata... e la luce è un elemento predominante per portarci istantaneamente in una lontana epoca, quando non esisteva la luce elettrica ma solo illuminazione con lanterne e candele (da qui tutte le inquadrature con la luce calda rossastra). E fuori di casa è inverno, con una luce fredda, bluastra... Avete presente tutti quei quadri dei pittori fiamminghi?.... ecco nel film c'è quella stessa luce.
I titoli di testa sono sicuramente importanti, non solo per fornire delle indicazioni sui produttori, autori ed interpreti del film (in testa ci troviamo quelli che maggiormente si sono impegnati nella sua realizzazione), ma per fornire spesso elemnti utili a capire ciò che segue.
L'importanza dell'incipit.
Anche Hollywood punta sui titoli di testa Sono sempre più ricercati, sono diventati un genere apprezzato e spesso affidati a registi specializzati.
Titoli di testa: ecco, tra i più belli
■ Casinò - regia di Martin Scorsese (1995)
■ Casinò Royale - regia di Martin Campbell (2006)
■ Fight Club - regia di David Fincher (1999)
■ L'alba dei morti viventi - regia di Zazk Snyder (2004)
■ L’isola del dottor Moreau - di John Frankenheimer (1996)
■ Le iene - regia di Quentin Tarantino (1992)
■ The Snatch (Lo strappo) - regia di Guy Ritchie (2000)
■ Prova e prendermi - regia di Steven Spielberg (2002)
■ Pulp Fiction - regia di Quentin Tarantino (1994)
■ Seven - regia di David Fincher (1995)
■ Toro scatenato - regia di Martin Scorsese (1980)
Siamo andati ad effettuare riprese video dell'Evento, in cui suonava l'orchestra Filarmonica d'Opera di Roma diretta dal maestro Gianfranco Plenizio, e durante le loro prove ci siamo sbizzarrito con la telecamera. Senza fare rumore (naturalmente) abbiamo girato intorno all'orchestra ed abbiamo catturato dei momenti interessanti: durante gli accordi, durante i cambipagine, mentre il direttore d'orchestra dirigeva con la bacchetta, abbiamo catturato primi piani e particolari, fatto attenzione ai suoni ripetuti, all'attenzione di ogni maestro, ai colori cangianti delle illuminazioni, alle forme degli strumenti, alla profondità di campo delle varie inquadrature,....
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Quali possono essere i vantaggi ad utilizzare 2 videocamere in contemporanea, durante la ripresa di un corto?
A FORUM, la trasmissione televisiva di Rete4, il giudice Santi Licheri ha condannato a ben 25.000 € di risarcimento per l'uso di una immagine non autorizzata!
Questi in breve i fatti: una ragazza si è fatta fare un book fotografico, poi, dietro richiesta del fotografo, gli ha regalato una delle sue foto ed in cambio il fotografo non le ha fatto pagare il suo lavoro. E fin qui tutto bene.
Ma poi, il fotografo, lavorando in un corto, anche se non retribuito, ha utilizzato la fotografia della ragazza, senza avvertirla, senza avere una sua liberatoria e senza far inserire nei titoli di coda del corto il nome della ragazza.
In base all'articolo 10 del codice civile ed all'articolo 20 della lege sul diritto d'autore, il fotografo è stato condannato a risarcire la ragazza con la somma giudicata equa dal giudice di 25.000 €.
Ne abbiamo parlato qui, perchè la stessa cosa vale anche per le riprese video, anzi, molto, molto di più !!!
Meditate gente, meditate!!
DOLLY
E' il carrello che sorregge una piattaforma su cui l'operatore, con gli eventuali assistenti, utilizza la videocamera. Spesso è dotato di un braccio mobile che aiuta gli spostamenti delle inquadrature. Il dolly permette di effettuare spostamenti di macchina e carrellate di vari tipi. Il Dolly può essere libero o montato su rotaie.
STEADYCAM
E' il sistema che permette all'operatore di tenere la camera fissata al proprio corpo con una serie di contrappesi in modo tale da annullare o limitare al massimo le oscillazioni in fase di ripresa mentre l'operatore corre o si muove. Viene utilizzata quando è difficoltoso porre delle rotaie sul terreno, o quando i movimenti sono particolari, come ad esempio l'operatore che deve precedere il movimento dell'attore che sale o scende per le scale.
GIRAFFA
E' l'attrezo che serve a posizionare il microfono il più vicino possibile all'attore, in modo da riprendere la sua voce, ma senza entrare dell'inquaratura.
Soprattutto se il nostro corto ha un piano di lavorazione che prevede le registrazioni in più giorni, occorre preparare, per ogni giorno di registrazione, un foglio chiamato Ordine del giorno, in cui si decide e si trascrive quali sono le persone, sia della troupe che del cast artistico, che devono essere presenti. Naturalmente ci saranno orari diversi di convocazione, forse anche in location diverse. Devono essere elencate anche le scene da girare ( e se possibile anche l'ordine delle riprese), il materiale presente in scena (se giriamo nella location per il secondo giorno, deve essere preente tutto ciò che vi era nella registrazione precedente) e quello tecnico che serve per la registrazione. Senza scordarci di quello che può essere utile (ad esempio dall'acqua ai panini od ai caffè delle pause).
Tutti parlano di Piano di lavorazione, ma nessuno ne ha mai visto uno. Come è fatto? e soprattutto a che serve?
Iniziamo col rispondere alla seconda domanda, la più importante.
Il PdL serve ad avere un quadro generale di tutta la lavorazione da effettuare: è un foglio riepilogativo che riporta tutte le principali indicazioni sulle inquadrature da girare. In una classica produzione cinematografica, viene elaborato e seguito dal Direttore di produzione.
Come è fatto? diciamo che alla nostra piccola produzione basta avere uno o più fogli stilati anche con il computer, con un programma tipo excel, in modo da ottenere una serie di celle (tipo battaglia navale) in cui elenchiamo da una parte (prima colonna a sinistra) tutti gli interpreti del nostro film e dall'altra (prima riga in alto) le location che andremo ad occupare, e per ogni location dobbiamo elencare tutte le scene da girare.
Il PdL si compila semplicemente mettendo una x nelle posizioni in cui si incrocia che un certo attore deve recitare in una determinata location.
Tutto qui, direte voi? ...sembra semplice, e concettualmente lo è, ma pensate ad un film in cui recitano 6 o 7 attori principali, una ventina di secondari ed un certo numero di comparse. Utilizzando una ventina di location almeno.... il riepilogo deve essere preciso, completo e sempre disponibile ed aggiornato, soprattutto se il regista e gli sceneggiatori vogliono variare qualche punto della sceneggiatura....
In una grande produzione, ripetere un ciak non previsto potrebbe costare caro!
Per ottenere ottimi risultati nelle nostre riprese video dobbiamo attenerci a regole ben precise. La prima è più importante è quella di tenere completamente fissa la telecamera (immagini traballanti sono inaccettabili, a meno che stiate riprendendo uno scoop eccezionale!). Perché tutti i film sono girati (con le dovute eccezioni) con telecamere montate su robusti cavalletti?
Normalmente la videocamera sta ferma ed è il soggetto che si muove. La ripresa della scena non è completa? bene, si prosegue riprendendo l'azione da un'altra angolatura. Altrimenti a che serve il montaggio? Le scene, le singole riprese, non devono essere troppo lunghe (tranne se siete a teatro o ad un concerto). 10 o 20 secondi vanno più che bene. Poi spostatevi e continuate con un'altra ripresa.
Non usate lo zoom. Od usatelo il meno possibile. E state attenti alla messa a fuoco, utilizzando lo zoom, spesso la messa a fuoco automatica si perde, quindi assistiamo ad una sfocatura variabile che serve all'apparecchio a trovare il giusto fuoco. E' orribile! Se proprio dobbiamo, usiamo una focale grandangolo che evidenzia di meno la sfocatura. Naturalmente occorre disattivare la possibilità dello zoom digitale: è dannoso perché distorce le immagini!
Se usiamo la videocamera su un cavalletto, e muoviamo la macchina a seguire sul personaggio, attenzione ai movimenti a scatto della telecamera: solo una testa fluida del cavalletto può darci, appunto, fluidità nella ripresa. Un cavalletto fotografico non va bene, se dobbiamo spostare spesso la videocamera per seguire l'azione.
E se zoommiamo, state attenti a minimi movimenti della mano che vengono trasferiti sull'apparecchio. Cerchiamo, se possibile,di utilizzare il telecomando per effettuare la zoommata.
Non usate mai gli effetti che la telecamera vi offre! gli effetti vanno inseriti dopo, in fase di montaggio.
Attenzione alla luminosità della ripresa. Dobbiamo studiare bene in anticipo le posizioni degli attori o del soggetto e quella nostra. Per non avere una ripresa piatta (di luce) o scura (in controluce). Le luci ausiliarie sono molto importanti, ma attenti a non sparare il faretto sul viso del soggetto. Esistono degli schermi che servono per riflettere la luce solare, indirizzandola dove serve: usiamoli. All'occorrenza anche un foglio od un pannello bianco vanno bene.
Per ultimo ho lasciato ciò che fa la differenza: il sonoro. cercate di usare microfoni esterni, perché quello interno, in dotazione, capita anche i rumori di sottofondo prodotti dalla videocamera (come la zoommata!).
Ed ora l'ultima regola, forse la più importante di tutte: Provate, PROVATE e RIPROVATE ! solo così capirete quello che la telecamera può darvi, e come ve lo dà. Ma riprovando troverete la giusta soluzione ad ogni problema incontrato.
La semplicità è basilare, non cerchiamo di inserite tutto in una singola ripresa, quando ci sono troppi elementi in un'immagine, l'occhio non sa quale scegliere e guardare. Quali sono gli elementi importanti che vogliamo riprender? inseriamo solo loro.... gli altri sono inutili. Se molti sono gli elementi importanti e necessari, dopo una breve ripresa generale, inquadriamo i particolari.... uno dopo l'altro....
Attenzione allo sfono che inseriamo in ogni inquadratura. Spesso non ce ne accorgiamo, ma ci sono elementi di disturbo.... non li dobbiamo inquadrare. Scegliamo invece sfondi omogenei, di colore unico, e non troppo forti, oppure elementi ripetitivi, come colonne, alberi, nuvole...
In ogni caso, il soggetto principale deve essere sempre a fuoco. Sia se è al centro dell'immagine sia se è ai bordi. E soprattutto se stiamo riprendendo una persona, una ragazza che è il nostro soggetto. Ci deve essere sempre la luce sufficiente per usare un'apertura che permetta una buona profondità di campo. Altrimenti usaiamo una luce ausiliaria.
Componiamo sempre l'immagine che stiamo riprendendo. Pensiamo alla regola dei terzi! il risultato sarà più gradevole. Ed il nostro attore, dove guarda? è importante che ci sia spazio davanti al suo viso ed ai suoi occhi.... Pensiamo anche alla profondità di campo, a porre su due piani diversi due soggetti: uno più vicino l'altro più lontano...
Non usiamo troppo lo zoom, scegliamo la focale giusta e riprendiamo, dopo lo stacco, continuiamo da altra angolatura. In fase di montaggio, con dissolvense incrociate o stacchi, renderemo il tutto gradevole: in ogni caso dobbimo pensarci prima della ripresa.
La luce è molto importante: sia per il contrasto che per le ombre. Non possiamo inquadrare contemporaneamente 2 zone con contrasto diverso: nessuna delle 2 verrà bene. Dobbiamo scegliere quella che ci interessa di più e lasciare l'altra zona ai margini dell'inquadratura. Attenzione poi alle ombre, quando inquadriamo dei visi. Cerchiamo di porre il nostro soggetto in un luogo dove la luce sia soffusa, non diretta, oppure registriamo al mattino presto o nel pomeriggio....
Quando sappiamo che dobbiamo fare delle riprese interessanti, portiamoci dietro tutto il necessario: alcuni nastri di riserva, una seconda batteria ed i cavi per la ricaric, una pompetta ed una cartina per pulire l'obiettivo, e naturalmente il cavalletto per effettuare riprese stabili e più professionali.
Sono quelle che vengono scattate al di fuori delle riprese vere e proprie, sono le foto che cercano di catturare l'atmosfera della produzione, l'aria che si respira mentre si effettuano le prove del film, mentre si cotruiscono i fondali, mentre si lavora tutti assieme per un risultato comune. Quindi sono foto che mostrano la manualità dei tecnici, nel montare la gru o le luci, le indicazioni del regista all'operatore, i suggeriment del regista agli attori, le fasi del trucco, ma anche i momenti di riposo in cui si ride e si scherza.
Un backstage da consigliare, oltre quello fotografico, è quello video che può essere considerato un secondo video effettuato da un secondo regista.
Riportiamo qui alcune foto del backstage del corto I Prigionieri di Ilaria Chiriaco che mostrano come si è provveduto a costruire le inferiate di una cella.
Le seguenti immagini di backstage mostrano proprio il lavoro eseguito dalla troupe sia tecnica che artistica:
(per La pianta di Antonello Novellino)
(per Sarah di Marta Corradi)
Quando fate le foto del backstage, usate una macchinetta fotografica digitale con adeguata memoria che vi permetta di fare molti scatti... non avrete il tempo di mettere le persone in posa, quindi sta a voi scegliere le inquadrature, ma sul set, si sa, le persone si muovono e molto spesso rovinano senza volerlo la vostra inquadratura.... Fate molti scatti, allora, per poter scegliere le foto migliori.....
Queste altre sono foto scattate sul set del corto di Fulvio Spagnoli "A nord-ovest di Smirne" in lavorazione in questi giorni.
senza tralasciare anche foto di particolari, o riprese molto ravvicinate, come questa: e non scordarvi di effettuare anche un videobackstage!