♥ Tutto sulla Tecnica
"Tutto quanto precede il montaggio è semplicemente un modo di produrre una pellicola da montare" Stanley Kubrick
"Lo scopo del montaggio è conferire alla rappresentazione cinematografica significato e logica narrativa" (enciclopedia Garzanti). Ma non solo; per il cineasta William Dieterle : "Il montaggio non è semplicemente un metodo per mettere insieme scene e frammenti distinti; in realtà, è un metodo per guidare, in modo deliberato e forzato, lo spettatore". Dunque, con il montaggio, l'autore organizza la sua opera articolando immagini in modo da condurre lo spettatore, secondo il proprio punto di vista, in un percorso espressivo e concettuale personalissimo. Più semplicemente il montaggio è lo stile del film e, pare chiaro, che organizzare la semplice concatenazione delle inquadrature e la loro sequenzialità ne è lo scopo meno rilevante; con il montaggio il cineasta predispone un'esperienza emotiva ma anche e soprattutto intellettuale di straordinario impatto.
Nel periodo del muto, per il russo Vsevolod I. Pudovkin , "ll montaggio è dunque il vero linguaggio del regista (...); l'atto creativo cruciale nella produzione di un film (...); per giudicare la personalità di un regista cinematografico non si deve far altro che osservare i suoi metodi di montaggio. Quello che per uno scrittore è lo stile, per il regista è il suo modo particolare ed individuale di montaggio". E ancora, l'autore attraverso il montaggio può "costringere lo spettatore a guardare non come egli è abituato a vedere". Un cinquantennio più tardi poco è cambiato; Jean-Luc Godard , regista del sonoro sostiene: "Dire regia è automaticamente dire, ancora e di nuovo, montaggio. Quando gli effetti di montaggio superano per efficacia gli effetti di regia, la bellezza della regia stessa ne risulterà raddoppiata"; e per George Lucas infine: "... è la quintessenza del cinema come forma d'arte".
Ma torniamo ad inizio secolo: convenzionalmente si ritiene che Georges Méliès con "Il viaggio della luna" del 1902 e "Il viaggio attraverso l'impossibile" del 1904, sia stato il primo ad introdurre la narrazione cinematografica: le sequenze, riprese con piano fisso, venivano collegate tra loro con il montaggio-incollaggio di spezzoni di pellicola (rulli o bobine). Ma solo quando, da questo semplice incollaggio, si è passati al montaggio cinematografico vero e proprio, si è avuta la «liberalizzazione» della macchina da presa: da piani fissi e statici, responsabili di riprese di «natura», teatrale si diventa improvvisamente capaci di esprimere un linguaggio artistico. Il montaggio cinematografico in quanto tale, lo si deve, in forma embrionale, soprattutto a Edwin Stanton Porter in "Vita di un pompiere americano" del 1902 e "La grande rapina al treno" del 1903. David Wark Griffith seguendo la strada intrapresa da Porter e da altri pionieri, intuì che in una sequenza le singole inquadrature dovevano essere montate tra loro in base ad esigenze di necessità drammatica. Si deve a lui, principalmente, la codifica del linguaggio cinematografico e la sperimentazione dei vari aspetti. Per la prima volta ha impiegato magistralmente il primo piano, considerato per l'epoca un'audace novità, il flashback, con cui fu possibile rompere la linearità del tempo filmico proiettando alcune scene cronologicamente antecedenti e il montaggio alternato, che ha permesso le cosiddette sequenze di «salvataggio all'ultimo minuto» che, staccando continuamente dalle sequenze dedicate al salvato a quelle del salvatore, ci tengono continuamente con il fiato sospeso. Ma se a D.W.Griffith , di cui ricordiamo almeno "La nascita di una nazione" del 1915 e "Intolerance" del 1916, si deve gran parte della nascita del cinema in quanto arte, a Vsevolod I.Pudovkin e Sergej M. Ejzenstejn , per il muto, ed a Orson Welles per il sonoro, se ne deve gran parte dell'evoluzione.
Karel Reisz e Gavin Millar scrivono: "Fin dagli inizi della carriera Griffith si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione.Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, capì che il modo migliore per farlo, era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso (...); la scoperta fondamentale di Griffith è stata quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica". E sostengono ancora che: "Il cinema, attraverso il montaggio si è trasformato da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità". Dunque il lavoro di montaggio è rilevante sia sul piano pratico, in quanto dà struttura e ritmo al film, sia su quello estetico, poiché influisce inevitabilmente anche sulla recitazione. La sua importanza è prioritaria e molti lo considerano l'essenza stessa del cinema, "L'elemento peculiare (specifico filmico) che permettere al cinema di assurgere ad autonoma espressione artistica". L'introduzione del sonoro consentì al cinema di raccontare storie più complesse di quanto non fosse possibile ai tempi del muto: non solo le scene risultarono più realistiche, ma la musica, i rumori e soprattutto i dialoghi, ne accentuarono l'impatto drammatico. Per questo, ma anche per problemi di natura tecnica legati alla presa diretta del sonoro che limitava fortemente la mobilità degli attori, il linguaggio basato sul montaggio, per qualche tempo non progredì; ma ben presto, insieme alla recitazione ed alla stesura dei dialoghi , tornò ad essere "Il principio fondamentale dell'arte cinematografica". È intuitivo, infatti, che consente una profondità della narrazione, che in teatro per esempio è quanto mai impossibile; una rappresentazione teatrale si potrebbe paragonare ad una scena ripresa in campo lungo con macchina fissa. Frammentando l'avvenimento in brevi inquadrature di diversa durata, angolo e piano di ripresa, si può controllare in modo più efficace l'intensità drammatica dei fatti mentre la narrazione avanza, riuscendo a comunicare un senso di movimento altrimenti impossibile con un piano sequenza, un campo lungo o anche con un montaggio invisibile; inoltre le inquadrature sui particolari descrivono la storia in modo completo e convincente, quindi più vicino alla realtà di quando non possa fare un'unica inquadratura in campo lungo.
Il montaggio invisibile è particolarmente usato nel cinema classico e in quello americano ( John Ford e Frank Capra ); è funzionale alla trasparenza della storia e la macchina non rivela mai la sua presenza a vantaggio della fluidità visiva e della narrazione, più continua ed omogenea. In parole povere la regia, durante la visione, non si avverte mai. Nel cinema europeo e in quello d'avanguardia, invece, il cineasta solitamente lascia il segno della propria personalità con un montaggio che si discosta da norme e convenzioni, imponendo il suo ritmo con continui cambi d'inquadrature sia nelle angolazioni che nei piani. La macchina da presa allora diventa parte attiva della narrazione (non occhio distaccato come accade in una scena fissa generalmente in campo lungo). In genere il responsabile del montaggio è il produttore e/o il regista. È da notare però che soltanto alcuni cineasti di grande successo possono permettersi il controllo e la supervisione del montaggio, il cosidetto the last cut (il taglio finale)!
Il tecnico di montaggio, il montatore, ha il compito e la possibilità di scegliere vari fotogrammi della stessa inquadratura per trovare il punto in cui lo stacco risulta drammaticamente più efficace: non solo riordina la successione delle sequenze, ma ne interpreta e valorizza i particolari. Walter Murch , il solo ad essere stato premiato con un doppio Oscar per il montaggio sia dell'immagine che del suono dello stesso film ( "Il paziente inglese", 1996, di Anthony Minghella), ha montato tra l'altro "Apocalypse Now", "La conversazione" e l'intera saga de Il Padrino di Francis Ford Coppola ; sostiene che una delle responsabilità fondamentali del montatore è: "Costruire un ritmo interessante e coerente di emozioni e di pensieri, sulla piccola e grande scala, per consentire al pubblico di lasciarsi andare, di darsi al film". E sugli stacchi: "... oltretutto la discontinuità ci permette anche di scegliere la migliore angolazione per ogni emozione e ogni particolare della storia, per poi montarle insieme con un impatto complessivo maggiore. Se fossimo limitati da un continuo flusso d'immagini, sarebbe più difficile e i film sarebbero meno precisi e dettagliati".
In questi cento anni di cinema il montaggio, dal punto di vista tecnico, ha subito una rivoluzione, consumata a cavallo degli anni ottanta-novanta, con il passaggio da quello meccanico a elettronico digitale. Le consolle per il montaggio meccanico della pellicola, che hanno imperversato per settant'anni, e cioè le conosciutissime Moviola e Kem e le meno conosciute ma altrettano valide Steenbeck , Prevost e Moritone , sono ormai state quasi completamente pensionate dai sistemi per il montaggio elettronico-digitale, basati su computers capaci di memorizzare in alta risoluzione l'intero girato su pellicola, e cioè i sistemi AVID e Lightworks . Esiste un altro sistema per il montaggio digitale: l' Edit Droid della Lucasfilm basato su l'uso dei laser-disc per l'immagazzinamento del girato. Con le consolle digitali è possibile montare una sequenza senza tagliare materialmente il rullo, cosa che aveva comportato l'impossibilità di rivedere l'originale filmato. Al conseguente risparmio di tempo e denaro si aggiunge anche una maggiore velocità di lavorazione con un incredibile aumento delle possibilità creative. Terminato il montaggio con l'Avid, poi si passerà direttamente a quello meccanico sulla pellicola. Il primo film montato interamente in digitale ad aggiudicarsi l'Oscar per il Montaggio (a Walter Murch) è stato "Il paziente inglese" di Anthony Minghella.
Il montaggio, "È il solo aspetto specifico della sola arte del film" ( Stanley Kubrick ).
IL CINEMA È ARTE, MA L'ARTE DEL CINEMA È IL MONTAGGIO - di Gabriele La Rovere - http://www.laregiacomeperfezione.it/
Il montaggio è quell'operazione che consiste nell'unire la fine di un'inquadratura con l'inizio della successiva.
Per lo spettatore si parla di EFFETTO di MONTAGGIO, ovvero il passaggio da un'immagine A ad un'immagine B.
La TRANSIZIONE (che fa parte del discorso filmico) da un'inquadratura all'altra avviene tramite:
• Lo STACCO, ovvero tramite il passaggio diretto e immediato da un piano a quello successivo;
oppure
• Con la DISSOLVENZA, che può essere:
• d'APERTURA: l'immagine appare progressivamente a partire dal nero dello schermo.
• In CHIUSURA: l'immagine scompare progressivamente fino a diventare nera.
• INCROCIATA: l'immagine che scompare e quella che compare si sovrappongono per pochi instanti.
Le dissolvenze erano usate con molta frequenza nel cinema classico in particolare per evidenziare i passaggi da un scena all'altra e indicare così la presenza di un ellisse o salto temporale.
In particolare le dissolvenze in chiusura rappr., rispetto a quelle incrociate, una pausa più pronunciata e per questo erano usate per indicare salti temporali maggiori.
Altre soluzioni cadute col tempo in disuso, sono quelle dell' IRIS dove un foro circolare si apre o si chiude intorno a una parte dell'immagine, o della TENDINA dove la nuova immagine si sostituisce alla precedente facendola scorrere via dallo schermo.
A livello della storia, per PIANO D'AMBIENTAZIONE si intende quel tipo di inquadratura prettamente descrittiva che avvia una scena col compito di introdurne i caratteri ambientali, per permettere allo spettatore di possedere tutte le informazioni necessarie ad una corretta comprensione dell'episodio che sta per essere narrato.
* LO SPAZIO
Un qualsiasi ambiente può essere scomposto da un insieme di inquadrature che ci danno di esso una serie di prospettive.
Esiste, quindi, un ambiente - spazio diegetico - e una rappresentazione di questo ambiente attraverso una successione di inquadrature - spazio filmico - determinata dalle scelte del regista.
Esistono due modi per rappresentare uno spazio diegetico :
• A un piano d'insieme dell'ambiente seguono una serie di inquadrature che lo frammentano. Questo tipo di rappresentazione tende alla chiarezza espositiva ed è tipica del cinema classico.
• Lo spazio d'insieme è costruito attraverso una serie di inquadrature parziali che ce ne mostrano sempre e solo una parte. Se nel caso precedente l'intero è scomposto dal montaggio, qui è il montaggio delle parti a comporre l'intero.
Entrambi i casi si riferiscono a quel gioco di segmentazione dello spazio chiamato decoupage.
Quindi il montaggio può subordinare la rappresentazione dello spazio a precise esigenze narrative, contribuendo a determinare i nuclei drammatici degli eventi rappresentati.
* IL TEMPO
Il montaggio è il mezzo che decide la durata di ogni singolo piano. Il criterio generale è che un campo lungo, dato il suo maggior numero d'informazioni, necessita di un tempo maggiore di un primo piano.
Il rapporto tra tempo e montaggio può essere studiato secondo la tripartizione di ordine, durata e frequenza.
• ORDINE: il montaggio è lo strumento che determina il rapporto tra l'ordine degli eventi della storia e quello dell'intreccio. Il cinema classico ha sempre preferito mantenere una struttura lineare e cronologica degli eventi. L'unica eccezione è rappresentata dai flashback (salti temporali, in cui un evento passato è rievocato) che possono essere di due tipi: DIEGETICI, che prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio che racconta l'evento, e NARRATIVI, propri cioè dell'istanza narrante che racconta un episodio passato.
Poi c'è il flashforward, ossia l'anticipazione di un evento futuro, che è quasi sempre narrativo ( Easy Rider, 1969).
• DURATA: Il montaggio può rispettare la durata reale degli eventi, dando vita a una coincidenza tra il tempo della storia e il tempo del discorso; in questo caso si parla di SCENA (TS=TD) .
Se il tempo della storia è più lungo del tempo del discorso si ha un sommario che dà vita a delle SEQUENZE (TS>TD) in cui sono presenti delle ellissi *, o salti temporali.
Un'altra possibilità è quella dell' ESTENSIONE (TSdove il tempo della storia si fa più breve del tempo del discorso e questo si trova con lo slow motion procedimento per cui la velocità rallentata delle immagini impone una durata del tempo del racconto superiore del tempo della storia e il fermo fotogramma in cui l'immagine in movimento si fissa sullo schermo divenendo simile a una fotografia.
A livello di montaggio l'estensione può realizzarsi attraverso l'overlapping editing , ovvero un particolare effetto di montaggio dove la parte finale dell'azione rappresentata in un piano viene nuovamente mostrata in quello successivo. ( esempi nei film di Ejzenstejn).
• FREQUENZA: è il rapporto che si stabilisce fra il numero di volte che un determinato evento evocato dal racconto, e il numero di volte che si presume esso sia accaduto nella storia. Possono esserci 4 possibilità:
• SINGOLATIVO : Raccontare una sola volta quanto è avvenuto una sola volta;
• SINGOLATIVO : Raccontare n volte quanto è avvenuto n volte;
• RIPETITIVO : Raccontare n volte quanto è avvenuto una sola volta (es. Ottobre);
• ITERATIVO : Raccontare una sola volta quanto è avvenuto n volte.
* Il MONTAGGIO ELLITTICO è un montaggio di contrazione temporale che non solo omette il superfluo ma anche ciò che il film non vuole mostrare allo spettatore; in questo modo l'ellissi invita lo spettatore ad una partecipazione attiva e a lavorare con l'immaginazione. In sostanza l'ellissi agisce nel tempo assumendo le stesse funzioni del fuori campo che al contrario agisce nello spazio.
Esistono almeno tre modi per indicare un'ellisse:
Tramite dissolvenze: era il metodo più usato fino agli anni ‘50 che avvertiva lo spettatore della presenza di un'ellisse. In seguito trovandosi davanti un pubblico più maturo, il cinema successivo a preferito ricorrere all'uso di semplici stacchi e ad espedienti di messa in scena.
Un secondo modo per indicare un'ellisse è quello del campo vuoto. Es. Una prima inquadratura permane sullo schermo anche dopo l'uscita del personaggio; la seconda inquadratura si aprirà vuota per poi mostrarci l'entrata del personaggio.
Un terzo procedimento è quello dell'inserto ( cut away ), ovvero di una inquadratura di transizione su qualcos'altro, che dura meno del tempo dell'azione messa in ellissi.
Una particolare forma di contrazione temporale è quella della sequenza a episodi o di montaggio che allinea un certo numero di brevi scene (separate nella maggior parte dei casi da dissolvenze) che si succedono in ordine cronologico.
La sequenza a episodi, molto diffusa nel cinema classico, trova un esempio efficace in un noto passaggio del film “Quarto Potere” di Orson Welles del 1941, ossia quello dedicato al degradarsi dei rapporti fra Kane e la sua prima moglie.
Il montaggio alternato: alterna inquadrature di due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi ma, di solito, simultaneamente e che sono destinati a convergere in uno stesso spazio. (es. in Griffith). Il montaggio può anche assumere la funzione di descrivere un determinato ambiente: in questo caso le inquadrature vengono l'una dopo l'altra, e non l'una a causa dell'altra.
Il montaggio, a partire da Griffith e Ejzenstejn, è stato a lungo considerato come l'elemento specifico del linguaggio filmico. Quando parliamo di cinema classico ci riferiamo a quello stile distinto che ha dominato la produzione Hollywoodiana tra il 1917 e il 1960.
Ciò a cui in primo luogo questo cinema mirava era il dar vita ad uno spettatore inconsapevole, che si proiettasse nella vicenda narrata, si identificasse con i protagonisti del racconto, scordandosi di essere in un cinema.
Quindi il lavoro di scrittura doveva essere il più mascherato possibile e questo tramite l'uso del montaggio. Questo però può apparire come una forza che disgrega la continuità spazio-temporale della realtà rappresentata, correndo il rischio di allontanare lo spettatore dalla finzione.
Si tratta dunque di mascherare il montaggio, ed è proprio questo tipo di montaggio che ha preso il nome di Découpage classico.
Nel découpage classico la rappresentazione che il montaggio dà dello spazio e del tempo è fortemente subordinata alle esigenze della narrazione e alla chiarezza della sua esposizione. Uno dei principi chiave del découpage è quello della CONTINUITA' il cui fine è quello di controllare la forza disgregatrice del montaggio per dar vita ad uno scorrevole flusso di immagini da un'inquadratura a un'altra e facilitare la proiezione dello spettatore nel mondo della finzione.
A questo riguardo un ruolo essenziale è giocato dal raccordo, il cui compito è quello di mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l'altro, in maniera che ogni mutamento di inquadratura sia il meno evidente possibile.
• Raccordo di sguardo: un'inqu. ci mostra una persona che guarda qualcosa, quella successiva ci mostra questo qualcosa;
• Raccordo sul movimento: un gesto iniziato dal personaggio nella prima inquadratura si conclude nella seconda;
• Raccordo sull'asse: due momenti successivi di un'azione sono mostrati in due inquadrature, la seconda delle quali è ripresa sullo stesso asse della prima, ma più vicina o lontana di questa in rapporto al soggetto agente;
• Raccordo sonoro: una battuta di dialogo, un rumore o una musica si sovrappone a due inquadrature legandole così tra loro.
Un altro aspetto chiave del découpage classico è quello del sistema dello SPAZIO a 180 °.
Il modo migliore per spiegare questo sistema è quello di partire da una scena di dialogo costruita sul campo –controcampo: quel tipo di montaggio che mostra alternativamente due personaggi che dialogano, in cui si stabilisce una linea d'azione immaginaria entro la quale può muoversi la macchina da presa, senza effettuare il così detto scavalcamento di campo.
Scavalcamento di campo, può essere attuato tramite il posizionamento della macchina da presa sulla linea d'azione (ripresa in linea) e tramite l'uso di inserti.
L'uso dello spazio a 180° determina altri tre raccordi:
• Raccordo di posizione: due personaggi ripresi in un'inquadratura l'uno a destra e l'altro a sinistra, dovranno mantenere la stessa posizione in quella successiva.
• Raccordo di direzione: un personaggio che esce di campo a destra dovrà rientrare a sinistra in quella successiva.
• Raccordo di direzione di sguardi: la macchina da presa viene posizionata in modo tale che quando ognuno dei personaggi viene inquadrato singolarmente, il suo sguardo si rivolga verso l'altro personaggio.
Il montaggio del cinema a découpage classico non è l'unica forma di montaggio esistente; esistono anche quelli:
• CONNOTATIVO: basato sulla costruzione del significato;
• FORMALE: un modello che si impone per la sua natura grafica e ritmica;
• DISCONTINUO: un montaggio che nega i modelli della continuità Hollywoodiana.
• 1) Il montaggio CONNOTATIVO si caratterizza per la sua volontà di produrre del senso (creazione di nuovi significati – concetti).
L' effetto Kulesov dimostra come l'associazione di due immagini può produrre un senso diverso di quello che lo spettatore percepirebbe se le vedesse singolarmente.
Per Ejzenstejn la riproduzione filmica della realtà non ha in sé nessun particolare interesse: ciò che conta è il senso che di essa si cattura attraverso la sua interpretazione. Il cinema non può dunque limitarsi a riprodurre il reale, deve interpretarlo. Il montaggio è proprio lo strumento col quale arrivare a questo tipo di interpretazione.
Teoria delle attrazioni di Ejzenstejn: l'attrazione è qualsiasi elemento che esercita sullo spettatore un effetto sensoriale e psicologico per far recepire il lato ideale e la finale conclusione ideologica dello spettacolo (in ambito teatrale).
Attrazioni come libero montaggio di azioni.
Alla base dell'intera concezione ejzenstejniana del montaggio c'è il conflitto, la “collisione” tra 2 inquadrature che si trovano l'una accanto all'altra. Tali conflitti possono darsi non solo nel passaggio da un inquadratura all'altra, ma anche all'interno di una stessa inquadratura.
Il conflitto può essere di diversi tipi:
• Delle direzioni grafiche (delle linee)
• Dei piani (tra loro)
• Dei volumi
• Delle masse (volumi sottoposti a diverse intensità luminose)
• Degli spazi
• Tra suono e immagini (asincronismo)
Il montaggio intellettuale di Ejzenstejn mira a dar vita a una situazione in cui la stessa tensione – conflitto serve a creare nuovi concetti, nuove visioni.
• 2) Il montaggio FORMALE pone in primo piano gli effetti di tipo formale, sia grafico - spaziali che ritmico – temporali
• è un montaggio in cui le qualità grafiche e formali delle immagini prendono il sopravvento su qualunque criterio di ordine narrativo (es. in Psycho c'è una dissolvenza incrociata che unisce il movimento a spirale dell'acqua che fa mulinello nella doccia e un particolare dell'occhio di Marion ripreso dalla macchina da presa che ruota intorno ad esso). In questo caso c'è un analogia formale tra le due inquadrature che hanno in comune questa forma a spirale.
• Esistono 3 forme ritmiche dominanti presenti nella successione delle inquadrature:
ritmo regolare: si succedono brevi inquadrature della stessa durata;
ritmo accelerato: quando si succedono inquadrature via via più brevi;
ritmo irregolare: le inquadrature che si succedono presentano delle durate molto diverse fra loro.
• 3) Il montaggio DISCONTINUO è tipo di montaggio che mostra come si può raccontare una storia trasgredendo le regole della continuità classica.
Sul piano spaziale:
• Un modo è quello della violazione del sistema 180°. Alcuni registi (come Ozu) danno vita ad un sistema di rappresentazione circolare a 360°, nell'ambito del quale sistemano liberamente la loro cinepresa. La posizione dei personaggi sarà di volta in volta rovesciata sullo schermo, così come è destinato a mutare lo sfondo su cui i due personaggi sono collocati.
• Un secondo modo per dar vita a forme di discontinuità (spaziale e temporale) è tramite l'uso del falso raccordo (jump cut). Di questi raccordi se ne individuano di 2 tipi: A) quando due inquadrature consecutive di uno stesso personaggio non sono sufficientemente differenziate sul piano dell'angolazione (di almeno 30°) e della distanza; B) e quando più inquadrature di uno stesso personaggio si succedono mostrandocelo in luoghi e tempi diversi. (Quarto potere)
• Un altro metodo è quello del ricorso a inserti non diegetici che interrompono la regolare e continua successione di inquadrature attraverso piani estranei allo spazio e al tempo del racconto, che diventano spesso strumenti di associazioni metaforiche (es. pavone meccanico di Ottobre).
Sul piano temporale:
• Tramite l'uso di flashback e flashforward e tramite la ripetizione, sul piano del discorso, più volte di ciò che accade nella storia.
• Tramite la pratica dell' estensione, dove la durata della rappresentazione è superiore a quella dell'evento rappresentato (es. in Ottobre l'apertura della porta della sala degli zar: ripetiz. In 4 inquadrat. di un stesso evento).
• Un altro tipo di estensione è quello della sovrapposizione temporale (overlapping editing).
IL MONTAGGIO PROIBITO
PROFONDITA' DI CAMPO (a livello temporale ): è un immagine in cui tutti gli elementi rappresentati, sia quelli in primo piano che quelli di sfondo, sono perfettamente messi a fuoco. Essa pone lo spettatore in un rapporto con l'immagine più vicino a quello che egli ha con la realtà.
PIANO SEQUENZA – long take- (a livello spaziale ): è un'inquadratura molto lunga che svolge da sola il ruolo di un'intera scena e come la profondità di campo rifiuta l'uso del montaggio.
Se nel cinema a découpage classico o nel modello ejzenstejniano è il regista a decidere il significato per noi, piano sequenza e profondità di campo danno allo spettatore la possibilità di essere lui a decidere traendone gli aspetti più significativi.
Ci sono però due osservazioni critiche in proposito:
• La realtà e la sua rappresentazione non possono essere confuse, in quanto ogni immagine cinematografica è già rappresentazione della realtà, per le sue scelte di durata, campo e angolazione.
• Possono esistere piani sequenza e messe in scena in profondità che impongono una lettura univoca delle immagini.
Nel piano sequenza e profondità di campo non c'è una radicale negazione del montaggio in quanto vi è un montaggio interno che mette in relazione più elementi all'interno di una singola inquadratura.
APPUNTI PER L'ESAME DI:
ISTITUZIONE DI STORIA DEL CINEMA
al DAMS di Torino -2004
Tratto dal libro
MANUALE DEL FILM
Linguaggio, racconto, analisi
di GIANNI RONDOLINO, DARIO TOMASI
Libreria UTET
Ovvero come allestire un set e fare un piano di illuminazione completo.
1- scelta della location.
La scelta di una location è molto importante per il direttore della fotografia. Può aiutare molto o penalizzare fino a rendere impossibile “portare a casa quello che vuoi”: quindi scegliete bene!
Io personalmente quando vedo una location amo passeggiare intorno allo spazio, facendo lavorare la mia immaginazione, in modo da ascoltare cosa mi comunica quel luogo e naturalmente faccio due calcoli per vedere se è
grande abbastanza per ospitare la troupe e il set.
2- studiare come utilizzare le fonti di luce diegetica.
Questo punto si sposa bene con il primo perché nella scelta del luogo dove girare bisogna da un lato, tenere conto delle fonti di luci esistenti e, dall’altro vedere cosa possiamo aggiungere noi in modo tale da sopperire ad eventuali mancanze di fonti luminose.
Questo è un punto che non va mai dimenticato per ottenere un’illuminazione originale ed è importante saper usare bene tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione: finestre, lampade, caminetti etc.
Questo ci aiuterà anche nello schema di illuminazione rendendo il tutto più “vero”.
3- posizionare l’inquadratura.
Nella narrazione: spazio,luce e gli stessi attori posso essere “raccontati” in modi infiniti e dare il proprio punto di vista è un elemento fondamentale.
Il come fa la differenza! Io mi lascio trasportare molto dal mio istinto e scelgo il posto dal quale guardare personalmente la scena, quello che trovo più adatto a me.
4- piazzare luce diretta sul soggetto.
Ora si inizia a costruire e la cosa principale da fare è illuminare il nostro oggetto di interesse. Che sia un’attore, un’auto o qualsiasi cosa vogliamo, “piazziamo” su questo elemento la luce principale, quella che sarà direttamente puntata su di lui frontalmente o di taglio, secondo il nostro gusto e valutando lo spessore narrativo che vogliamo usare.
5- luce riflessa sul soggetto.
La luce riflessa è quella che si crea quando la luce principale rimbalza su una superficie e torna indietro. Possiamo usare dei pannelli riflettenti o un lampada che crei questo effetto. Questa luce va calibrata molto bene e dosata con sapienza. Se usate una lampada per fare la luce riflessa posizionatela provando anche a vedere come viene spegnendo le altre e poi riaccendendole tutte assieme.
6- piazzare il controluce: mi raccomando, che sia credibile!
Il controluce sarà il nostro “effetto speciale”, in quanto sottolinea molto il soggetto colpito e lo rende “importante” ed in primo piano. Naturalmente l’equilibrio è tutto ed è facile esagerare e rendere l’immagine troppo artificiale.
7- attenzione alle doppie o triple ombre.
Certo penso che far sembrare la nostra scena un campo da calcio non è negli obbiettivi di nessuno vero? Nulla di più facile però che compaiano 2 o 3 ombre sul volto del soggetto: naturalmente evitatelo il più possibile. Invece cercate che ci sia un’ombra portante più marcata e le altre siano più sfumate possibile.
8- illuminate lo sfondo.
Ora si deve raccontare tutto il resto e per lo sfondo fate lo stesso percorso che avete fatto per il soggetto.
9- impostare l’esposizione sulla macchina.
Se non avete un esposimetro, un piccolo trucco per non sbagliare l’esposizione è quello di utilizzare la zebra, ovvero quel suggerimento della camera che vi fa vedere le zone sovraesposte.
La zebra 100% è vietato perché la bruciatura non è recuperabile succesivamente.
Meglio settarlo all’80% e quando lo vedete su un soggetto ben illuminato allora chiudete di mezzo stop e sarete sicuri di aver esposto al meglio.
Al massimo sistemate le luci di conseguenza.
10- check finale: fuoco oggetti in campo, esposizione, ombre strane e…
fidati del tuo istinto!
Ricontrolla tutti i punti ed ora chiediti se ti piace? Racconta l’emozione che vuoi?
Bene Motore… CiaK…Azione!
di GIOVANNI.ZIBERNA per sinesolecinema.com
Il sottocampionamento della crominanza è una tecnica che consiste nel codificare immagini riservando maggiore risoluzione al segnale di luminanza piuttosto che all'informazione di crominanza. È una tecnica utilizzata in molti modelli di compressione per segnali sia analogici che digitali, ed è usata anche dalla compressione JPEG e MPEG.
Aspetti tecnici
Un segnale video, soprattutto se a componenti, ha una larghezza di banda molto ampia, comportando tutta una serie di problemi per essere registrato o trasmesso. Di conseguenza, sono spesso usate tecniche di compressione per migliorare la gestione del segnale, aumentare la durata delle registrazione oppure aumentare il numero di canali di trasmissione. Dal momento che la visione umana è molto più sensibile alle variazioni di livello luminoso piuttosto che ai cambiamenti di colore, si può sfruttare questo principio per ottimizzare la compressione, dedicando più banda alla luminanza (Y) e meno alla differenza delle componenti cromatiche (Cb e Cr). Lo schema di sottocampionatura 4:2:2 Y'CbCr, per esempio, richiede solo due terzi della banda del (4:4:4) R'G'B'. Questa riduzione è pressoché impercettibile all'occhio umano.
Come funziona il sottocampionamento
Il sottocampionamento della crominanza differisce dalla teoria scientifica nel fatto che le componenti di luminanza e crominanza sono formate come somma pesata di componenti tristimolo R'G'B' dopo una correzione di gamma, invece che da componenti RGB tristimolo lineari. Come risultato, la luminanza e i dettagli di colore non sono del tutto indipendenti l'una dagli altri, ma avviene una sorta di "miscelazione" tra i due componenti. L'errore è maggiore nei colori molto saturi e si nota nel verde e nel magenta delle barre colore. Invertendo l'ordine delle operazione tra la correzione di gamma e la somma pesata dei segnali, il sottocampionamento può essere meglio applicata.
Originale senza sottocampionatura. Ingrandimento 200%.
Immagine dopo la sottocampionatura (compressa con codec DV di Sony Vegas.)
Sistemi di campionatura
Lo schema di sottocampionatura è normalmente indicato con una notazione a tre cifre (es. 4:2:2) o talvolta a quattro cifre (es. 4:2:2:4). Il significato dei numeri è il seguente:
- Riferimento di campionatura orizzontale della Luminanza (in origine, come multiplo della sottoportante a 3.579 MHz in NTSC o di 4.43 MHz in PAL).
- Fattore orizzontale Cr (relativo alla prima cifra).
- Fattore orizzontale Cb (relativo alla prima cifra), a meno che non sia posto a zero. In questo caso, lo zero indica che il fattore orizzontale Cb è identico alla seconda cifra e, in aggiunta, sia il Cr che il Cb sono sottocampionati 2:1 in senso verticale. Lo zero è scelto affinché la formula di calcolo della larghezza di banda rimanga corretta.
- Fattore orizzontale Alfa (relativo alla prima cifra). Può essere omesso se non è presente un canale alfa.
Per calcolare la larghezza di banda necessaria rispetto a un segnale 4:4:4 (o 4:4:4:4), si sommano tutti i fattori e si divide il risultato per 12 (o per 16 se c'è un canale alfa).
Gli esempi qui sopra sono esclusivamente teorici e a scopo dimostrativo. Si osservi anche che i diagrammi non indicano nessun filtraggio della crominanza, che dovrebbe essere applicato per evitare l'aliasing.
Tipi di sottocampionamento
4:2:2
I due campioni di crominanza sono campionati alla metà della risoluzione della luminanza, dimezzando la risoluzione cromatica. Questo riduce la banda del segnale video di un terzo senza quasi perdite percettibili.
Molti formato video di alta gamma usano questo schema: Digital Betacam e DVCPRO50 e DVCPRO HD, ad esempio.
4:2:1
Questo schema è definito tecnicamente, ma pochissimi codec lo usano. La risoluzione orizzontale Cb è la metà di quella Cr (e un quarto di quella Y). Questo schema sfrutta il principio che l'occhio umano è più sensibile al rosso che al blu.
4:1:1
Nella sottocampionatura 4:1:1, la risoluzione orizzontale cromatica è ridotta a un quarto. La larghezza di banda risulta dimezzata rispetto a uno schema non sottocampionato. In alcuni ambienti professionali, lo schema 4:1:1 del codec DV non era considerato di classe broadcast all'epoca della sua introduzione, e accettabile solo per applicazioni non professionali. Con il tempo, i formati basati su questo codec sono usati invece in ambienti professionali per l'acquisizione di immagini e l'uso nei server video, e, in maniera sporadica, il codec DV è stato usato anche nella cinematografia digitale a basso costo.
I formati che usano questo schema includono: DVCPRO (NTSC e PAL) e DV e DVCAM (NTSC).
4:2:0
Questo schema è utilizzato in:
- Tutte le versioni di codec MPEG, incluse le implementazioni MPEG-2 come il DVD (alcuni profili di MPEG-4 possono usare schemi di qualità più elevata, come il 4:4:4)
- DV e DVCAM (PAL)
- HDV
- Implementazioni comuni JPEG/JFIF, H.261, e MJPEG
I componenti Cb Cr sono sottocampionati di un fattore 2 sia verticalmente che orizzontalmente, e centrati a metà delle linee di scansione verticali.
Esistono tre varianti degli schemi 4:2:0, che differiscono per il posizionamento verticale e orizzontale.
- In MPEG-2, Cb e Cr coincidono orizzontalmente.
- In JPEG/JFIF, H.261, e MPEG-1, Cb e Cr sono posizionati a metà strada, tra i campioni di luminanza (Y) alternati.
- In DV 4:2:0, Cb e Cr sono alternati riga per riga.
Gli schemi colore PAL e SECAM sono particolarmente adatti a questo tipo di compressione. La maggior parte dei formati video digitali corrispondenti al PAL usano il sottocampionamento di crominanza 4:2:0, con l'eccezione del DVCPRO25, che usa lo schema 4:1:1. La larghezza di banda necessaria è dimezzata rispetto al segnale pieno per entrambi gli schemi.
Con il materiale interlacciato, il sottocampionamento 4:2:0 può creare artefatti sulle immagini in movimento, se il sottocampionamento viene applicato nello stesso modo del materiale progressivo. I campioni di luminanza, infatti, provengono da semiquadri diversi mentre quelli di crominanza provengono da entrambi i semiquadri. La differenza fra i campioni genera gli artefatti. Lo standard MPEG-2 prevede l'uso di uno schema alternativo per evitare il problema, dove la schema 4:2:0 è applicato a ogni semiquadro ma non ad entrambi i semiquadri contemporaneamente.
Originale. *Questa immagine mostra un singolo semiquadro. Il testo in movimento ha subito una sfuocatura.
Campionamento 4:2:0 progressivo applicato a materiale in movimento interlacciato. Si noti che la crominanza precede e segue il testo. *Questa immagine mostra un singolo semiquadro.
Campionamento 4:2:0 interlacciato applicato a materiale in movimento interlacciato. *Questa immagine mostra un singolo semiquadro.
Nello schema 4:2:0 interlacciato,ad ogni modo, la risoluzione verticale della crominanza è pressapoco dimezzata dal momento che i campioni comprendono un'area di 4x2 campioni invece di 2x2. Allo stesso modo, il dislocamento temporale tra i due semiquadri può portare ad artefatti sui colori.
Campionamento 4:2:0 progressivo applicato a un'immagine fissa. Sono mostrati entrambi i campi.
Campionamento 4:2:0 interlacciato applicato a un'immagine fissa. Sono mostrati entrambi i campi.
Se il materiale interlacciato deve essere deinterlacciato, gli artefatti sulla crominanza (derivati dal campionamento 4:2:0 interlacciato) possono essere rimossi sfumando la crominanza verticalmente.
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"Lo scopo del montaggio è conferire alla rappresentazione cinematografica significato e logica narrativa. Ma non solo." Il montaggio non è semplicemente un metodo per mettere insieme scene e frammenti distinti; in realtà, "è un metodo per guidare, in modo deliberato e forzato, lo spettatore".
IL CINEMA È ARTE, MA L'ARTE DEL CINEMA È IL MONTAGGIO
"Tutto quanto precede il montaggio è semplicemente un modo di produrre una pellicola da montare" Stanley Kubrick
"Lo scopo del montaggio è conferire alla rappresentazione cinematografica significato e logica narrativa" (enciclopedia Garzanti). Ma non solo; per il cineasta William Dieterle:"Il montaggio non è semplicemente un metodo per mettere insieme scene e frammenti distinti; in realtà, è un metodo per guidare, in modo deliberato e forzato, lo spettatore". Dunque, con il montaggio, l'autore organizza la sua opera articolando immagini in modo da guidare lo spettatore, secondo il proprio punto di vista, in un percorso espressivo e concettuale personalissimo. Più semplicemente il montaggio è lo stile del film e, pare chiaro, che organizzare la semplice concatenazione delle inquadrature e la loro sequenzialità ne è lo scopo meno rilevante;c on il montaggio il cineasta predispone un'esperienza emotiva ma anche e soprattutto intellettuale di straordinario impatto.
Nel periodo del muto, per il russo Vsevolod I. Pudovkin,"ll montaggio è dunque il vero linguaggio del regista (...); l'atto creativo cruciale nella produzione di un film (...); per giudicare la personalità di un regista cinematografico non si deve far altro che osservare i suoi metodi di montaggio. Quello che per uno scrittore è lo stile, per il regista è il suo modo particolare ed individuale di montaggio". E ancora, l'autore attraverso il montaggio può"costringere lo spettatore a guardare non come egli è abituato a vedere". Un cinquantennio più tardi poco è cambiato; Jean-Luc Godard, regista del sonoro sostiene:"Dire regia è automaticamente dire, ancora e di nuovo, montaggio. Quando gli effetti di montaggio superano per efficacia gli effetti di regia, la bellezza della regia stessa ne risulterà raddoppiata".
Ma torniamo ad inizio secolo: storicamente si ritiene che Georges Méliès con "Il viaggio della luna" del 1902 e "Il viaggio attraverso l'impossibile" del 1904, sia stato il primo ad introdurre la narrazione cinematografica: le sequenze, riprese con piano fisso, venivano collegate tra loro con il montaggio-incollaggio di spezzoni di pellicola (rulli o bobine). Ma è solo da quando, da questo semplice montaggio meccanico, si è passati al montaggio cinematografico vero e proprio, che si è avuta la "liberalizzazione" della macchina da presa: da piani fissi e statici, responsabili di riprese di "natura" teatrale, si diventa improvvisamente capaci di esprimere un linguaggio artistico. Il montaggio cinematografico in quanto tale, lo si deve, in forma embrionale, soprattutto a Edwin S. Porter in "Vita di un pompiere americano" del 1902 e "La grande rapina al treno" del 1903.
David Wark Griffith seguendo la strada intrapresa da Porter, intuì che in una sequenza le singole inquadrature dovevano essere montate tra loro in base ad esigenze di necessità drammatica. Ha inventato, quindi, il linguaggio cinematografico definendone, per primo, gran parte degli elementi e sperimentando, sempre per primo, i vari aspetti del montaggio. Per la prima volta ha impiegato magistralmente il primo piano considerato per l'epoca un'audace novità, il flashback, con cui fu possibile rompere la linearità del tempo filmico proiettando alcune scene cronologicamente antecedenti e il montaggio alternato che ha permesso le cosiddette sequenze di «salvataggio all'ultimo minuto» che, staccando continuamente dalle sequenze dedicate al salvato a quelle del salvatore, ci tengono continuamente con il fiato sospeso. Ma se a D.W.Griffith, di cui ricordiamo almeno "La nascita di una nazione" del 1915 e "Intolerance" del 1916, si deve l'invenzione del linguaggio cinematografico, a Vsevolod I.Pudovkin e Sergej M.Ejzenstejn, per il muto, ed a Orson Welles per il sonoro, se ne deve gran parte dell'evoluzione.
Karel Reisz e Gavin Millar scrivono: "Fin dagli inizi della carriera Griffith si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione.Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, capì che il modo migliore per farlo, era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso (...); la scoperta fondamentale di Griffith è stata quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica". E sostengono ancora che:"Il cinema, attraverso il montaggio si è trasformato da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità". Dunque il lavoro di montaggio è rilevante sia sul piano pratico, dando struttura e ritmo al film, sia su quello estetico, influendo inevitabilmente anche sulla recitazione. La sua importanza è prioritaria e molti lo considerano l'essenza stessa del cinema,"L'elemento peculiare (specifico filmico) che permettere al cinema di assurgere ad autonoma espressione artistica".
L'introduzione del sonoro consentì al cinema di raccontare storie più complesse di quanto non fosse possibile ai tempi del muto: non solo le scene risultarono più realistiche ma la musica, i rumori e soprattutto i dialoghi, ne accentuarono l'impatto drammatico. Per questo, ma anche per problemi di natura tecnica, il linguaggio basato sul montaggio, per qualche tempo non progredì: ma ben presto, insieme alla recitazione ed alla stesura dei dialoghi, tornò ad essere "Il principio fondamentale dell'arte cinematografica". È intuitivo, infatti, che consente una profondità della narrazione, che in teatro per esempio è quanto mai impossibile; una rappresentazione teatrale si potrebbe paragonare ad una scena ripresa in campo lungo con macchina fissa. Frammentando l'avvenimento in brevi inquadrature di diversa durata, angolo e piano di ripresa, si può controllare in modo più efficace l'intensità drammatica dei fatti mentre la narrazione avanza, riuscendo a comunicare un senso di movimento altrimenti impossibile con un piano sequenza, un campo lungo o anche con un montaggio invisibile; inoltre le inquadrature sui particolari descrivono la storia in modo completo e convincente, quindi più vicino alla realtà di quando non possa fare un'unica inquadratura in campo lungo.
Il montaggio invisibile è particolarmente usato nel cinema classico e in quello americano (John Ford e Frank Capra); è funzionale alla trasparenza della storia e la macchina non rivela mai la sua presenza a vantaggio della fluidità visiva e della narrazione, più continua ed omogenea. In parole povere la regia, durante la visione, non si avverte mai. Nel cinema europeo e in quello d'avanguardia, invece, il cineasta solitamente lascia il segno della propria personalità con un montaggio che si discosta da norme e convenzioni, imponendo il suo ritmo con continui cambi d'inquadrature sia nelle angolazioni che nei piani. La macchina da presa allora diventa parte attiva della narrazione (non occhio distaccato come accade in una scena fissa generalmente in campo lungo). In genere il responsabile del montaggio è il produttore e/o il regista. Il montatore ha il compito e la possibilità di scegliere i vari ciak della stessa inquadratura per trovare il punto in cui lo stacco risulta drammaticamente più efficace: non solo riordina la successione delle sequenze, ma ne interpreta e valorizza i particolari. È da notare però che soltanto alcuni cineasti di grande successo possono permettersi il controllo e la supervisione del montaggio, il cosidetto the last cut (il taglio finale)!
Il montaggio,"È il solo aspetto specifico della sola arte del film" (Stanley Kubrick).
da www.1aait.com
La messa a fuoco è un concetto più elastico di quanto si possa immaginare di primo acchito: impostando una certa distanza sull'obiettivo, è facile dimostrare sperimentalmente che il medesimo soggetto resterà a fuoco anche se si avvicinerà o si allontanerà dalla cinecamera, pur senza variare l'impostazione dell'anello delle distanze.
Il montaggio, ormai lo sappiamo, è la parte più importante del linguaggio cinematografico. Il regista potrà anche aver scelto tutte le parole più giuste del mondo, ma è la prassi di editing a decretare, infine, la costruzione grammaticale della pellicola. Non è poi un mistero che alcuni film, addirittura, siano stati accolti freddamente dalla critica alla loro prima versione, per poi vincere numerosi premi dopo un rimontaggio, e pensiamo a Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.
Ora, a mostrarci alcuni dei montaggi più efficaci del cinema è un video di Cinefix, che per il difficile compito, sceglie di mettere in prima posizione una sequenza di Lawrence D'Arabia, indimenticabile colossal girato da David Lean nel 1962. In particolare, lo stacco che passa dal fiammifero in fiamme al sole che sorge sul deserto: e come contestare un effetto di editing veramente così potente ed evocativo?
Al numero 2, e per molti sarebe decisamente piaciuto vederlo all'uno, abbiamo invece l'imprescindibile 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. La scena, ovviamente, potete tranquillamente immaginarla: quella dell'osso lanciato per aria che poi diventa l'astronavicella volante. Tra le due immagini tutta la storia dell'uomo dalle caverne preistoriche ai viaggi nello spazio. Insomma, tutta la forza del montaggio in un solo taglio, in un unico cambio d'immagini. Puro genio, e nessuno può contestare!
A chiudere il podio, un altro capolavoro pazzesco della Settima Arte, Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Anche in questo caso, la scena è di quelle che si studiano nelle scuole di cinema: un uomo distrutto nella sua camera da letto, il ventilatore a soffitto che gira velocemente, e il fade in un elicottero immerso nella Guerra del Vietnam. E questo, cari lettori, non è solo tra i montaggi più stupefacenti che ricordiamo, ma anche uno dei migliori usi della sovrimpressione!
Gli altri film selezionati da Cinefix? Si va da Intrigo Intenazionale di Alfred Hitchcock a La corazzata Potemkin di Sergei Eisenstein, passando per un titolo più recente come City of God di Fernando Meirelles. Godetevi il video e buona visione!
di Pierre Hombrebueno per farefilm.it
Genio innovatore e trasgressivo della fotografia internazionale, William Klein nella sua vita ha praticato di tutto, dalla grafica alla pittura, alla fotografia, al cinema, alla scrittura. Fino all'11 settembre 2016, Palazzo della Ragione Fotografia di Milano ospita la mostra William Klein: il mondo a modo suo che ripercorre il suo articolato percorso artistico, iniziato oltre sessanta anni fa proprio a Milano. La rassegna, curata da Alessandra Mauro, presenta oltre 150 opere originali, alcune delle quali di grande formato, tutte provenienti dall’archivio personale del fotografo, accompagnate da nuove installazioni espressamente concepite per questa esposizione, ma anche da estratti dei suoi filmati, da alcune gigantografie e da una selezione delle pellicole che ha diretto.
Nove sezioni scandiscono un itinerario che tocca le città fotografate da William Klein in tutta la sua carriera, anche attraverso i diversi mezzi espressivi di cui si è servito. Si parte dalle Prime opere, lavori astratti realizzati dal fotografo americano quando, ancora appartenente alla corrente hard edge, stile pittorico caratterizzato da bruschi e netti contrasti geometrici tra diverse aree di colore, cominciò a operare come artista sperimentale e concettuale proprio a Milano.
Si passa quindi alla sezione dedicata a New York, un racconto visivo straordinario, un diario fotografico del suo ritorno nella sua città dopo il soggiorno a Parigi, "con un occhio americano e uno europeo". Racconta Klein, «era come se fossi un etnografo: trattavo i newyorkesi come un esploratore avrebbe trattato uno zulu, cercando lo scatto più crudo, il grado zero della fotografia. Nel mio libro su New York c’era un sottotitolo, stile tabloid. Trance Witness Revels. Tre parole che per me allora riassumevano tutto ciò che avevo da dire sulla fotografia. Trance witness è chi capita per caso su una tragedia. Revels è un gioco di parole con reveals. Rivelare, ma anche gozzovigliare. Il tutto sotto il segno della trance. Riscoprivo la mia città e scoprivo la fotografia. Privo di formazione e senza tante conoscenze, mi dovevo ingegnare con quello che ottenevo. La mia formazione era diversa: disegno, litografia, pittura - che tentavo di applicare alla fotografia. Quello che i professionisti avrebbero gettato nel cestino, per me era un eccitante materiale da rilavorare».
Si va poi a Roma le cui immagini restituiscono la sua ricognizione fatta tra il 1956 e il 1957. Nel 1956 Federico Fellini vede il suo libro su New York e propone a Klein di lavorare come assistente per il suo prossimo film, Le notti di Cabiria (1957). Una volta a Roma, il film viene posticipato e Klein decide di realizzare un libro fotografico sulla sua idea della città. Nasce così Rome, con fotografie di Klein e testi, tra gli altri, di Pier Paolo Pasolini. «Roma è la mia città fortunata», racconta Klein. «Nel 1956 pubblicai il mio libro fotografico su New York. All’epoca sorprese, sconvolse e influenzò un’intera generazione di fotografi. In quel periodo ero soprattutto un pittore astratto, ma la pittura geometrica e hard-edge che praticavo non mi consentiva di dire la mia sul mondo intorno a me. Fu così che provai a sperimentare con la fotografia. Dopo il libro su New York, sentivo di aver detto tutto quel che volevo con una macchina fotografica e il mio successivo obiettivo diventò il cinema. Ero un appassionato di Fellini e riuscii a combinare un incontro con lui a Parigi: desideravo dargli una copia del mio libro. Lui mi disse “Ce l’ho già. La tengo vicino al letto. Ma perché non vieni a Roma e diventi mio assistente?”. Ero nel cuore dei miei vent’anni e così, senza problemi, arrivai a Roma. Naturalmente, Federico aveva già uno stuolo di assistenti ma, ad ogni modo, lavorai con lui al casting di Le notti di Cabiria, documentando un intero esercito di prostitute e protettori. Il film però fu rimandato. E io mi ritrovai a pensare: Va bene, ho fatto un libro su New York, allora perché non farne uno anche su Roma?».
Due ampie sezioni sono dedicate anche a Tokyo e Mosca, altre metropoli oggetto dei suoi libri, per poi arrivare al racconto di Parigi, la città che ha accolto Klein quando - diciottenne - lascia New York, la città dove ha deciso di vivere per tutta la vita, muovendosi per le sue strade con la curiosità di un “osservatore partecipante” mai sazio di immagini. «Pensandoci, ho notato che di solito, la Parigi dei fotografi era romantica, brumosa e soprattutto monoetnica», scrive Klein. «Una città grigia popolata da bianchi. Mentre per me Parigi, come New York se non di più, è un melting pot. Una città cosmopolita, multiculturale e completamene multietnica».
Segue la parte dedicata alla Moda, ambito nel quale è riconosciuto come grande innovatore. Nel corso della sua carriera Klein ha realizzato anche diversi Contatti dipinti, in cui la commistione di pittura e fotografia trova espressione nel gesto dell’autore che sceglie, tra i vari provini a contatto, l’immagine da ingrandire e la contorna di segni grafici forti e unici. Racconta Klein, «ripresi in mano i pennelli per la prima volta dopo molti anni. Ma riprodurre le linee, le croci e i cerchi che tutti i fotografi del mondo usano per evidenziare gli scatti scelti non mi bastava. Vidi la possibilità di inventare un nuovo tipo di oggetti artistici coniugando in modo organico, non arbitrario, pittura e fotografia. Stranamente, il mio metodo di lavoro era completamente diverso da quello che utilizzavo quando stavo con Léger e anche dopo, al tempo delle astrazioni geometriche hard-edge. Per Léger, le pennellate di Van Gogh, Picasso e degli action painters erano bandite. Le forme dovevano avere contorni netti e superfici piatte… Ma quando cominciai a dipingere i provini, ci furono solo pennellate ed esultanza. L'esultanza della pittura richiamava la gioia che si prova scattando una fotografia. Per me scattare una foto era una gioia, era un'esperienza fisica che mi dava la carica».
Chi è William Klein
William Klein nasce a New York nel 1928 da una famiglia ebrea d'origine ungherese. Interrotta a diciott'anni l'università, passa due anni nell'esercito e si stabilisce a Parigi per diventare pittore. Il secondo giorno a Parigi, incontra Jeanne Florin che diventerà sua moglie e la sua principale collaboratrice. Nei primi anni Cinquanta Klein crea una serie di pitture murali cinetiche per alcuni architetti italiani.
Di ritorno a New York, nel 1954 lavora a un "diario fotografico" che uscirà due anni dopo in un volume disegnato dallo stesso Klein: Life is Good & Good for You in New York (Prix Nadar del 1957). Comporrà altri libri sulle città: Rome (1958), Moscow (1961), Tokyo (1964).
Tra il 1955 e il 1965 fotografa la moda per Vogue, creando immagini di rara ironia. In questi anni si avvicina al cinema con una serie di pellicole diverse per stili e temi.
Negli anni Ottanta torna alla fotografia e pubblica tra l'altro William Klein (1983), Close Up (1989), In and Out of Fashion (1994), New York, 1954-1955 (1995), Parigi + Klein (2002), Contacts (2008), Paintings (2012) e Brooklyn + Klein (2014). Nel 1999 realizza il film Le Messie.
Tra i tanti riconoscimenti, riceve il premio Hasselblad, il Guggenheim, oltre al grado di Commandeur of Arts and Letters, alla Royal Photographic Society Millenium Medal e alla Medaglia d'oro di Parigi. Nel 2005 il Centre Pompidou gli dedica una grande retrospettiva.
Vivi un’esperienza entusiasmante in una delle più belle e caratteristiche città del sud della Francia, durante il più importante evento di fotografia del mondo! Arles, Francia dal 4 al 10 luglio 2022
Non hai mai visitato il festival di fotografia di Arles? Non sai cosa ti sei perso! Ci sono stato la prima volta nel 2017 e da allora non ho mai perso un’edizione del festival.
Il festival “Les rencontres de la photographie” vanta una storia composta da oltre 50 edizioni durante le quali ogni anno i principali attori del mondo della fotografia a livello mondiale vi si ritrovano.
Il festival di Arles è una boccata d’ossigeno, un’occasione per scoprire le ultime tendenze della fotografia contemporanea, ma anche per guardare qualche mostra che celebra uno dei grandi maestri della fotografia. Insomma ce n’è per tutti i gusti: dalla fotografia “tradizionale”, fino all’arte contemporanea.
Certo, la prima volta orientarsi è complicato: che tipo di biglietto acquisto? Qual è il programma? Dove sono ubicate le (decine di) mostre? Che consigli sull’alloggio? Conviene arrivare in aereo, in treno o in auto? E le letture portfolio? E le serate? Dove conviene mangiare?
Immagina di avere a tua disposizione una guida esperta per tutta la settimana inaugurale del festival “Les rencontres de la photographie” ad Arles. Ogni giorno ci muoveremo in gruppo per visitare le mostre e avrai modo di confrontarti con me e gli altri partecipanti sulla qualità delle esposizioni.
MIGLIORA LA TUA PRATICA FOTOGRAFICA
Avrai a disposizione un docente esperto a cui porre domande sulla fotografia, sia di carattere tecnico (legate ad esempio all’utilizzo della tua fotocamera) che legate ad altri argomenti, come lo sviluppo del linguaggio o di progetti fotografici.
Contemporaneamente seguirai un corso di composizione fotografica in cui, in seguito a brevi sessioni teoriche, ogni giorno ti verrà assegnato un esercizio diverso. Alla fine della settimana le foto scattate saranno visionate assieme.
Insomma vivrai un’esperienza entusiasmante in una delle più belle e caratteristiche città francesi, durante il più importante evento di fotografia a livello mondiale!
Hai qualche domanda?
di Alessandro Mallamaci https://workshop.alessandromallamaci.it/
Il primo film con commento sonoro registrato direttamente su pellicola fu “Don Giovanni e Lucrezia Borgia ” del 1926 di Alan Crosland.
L'anno successivo nel 1927 uscì un altro film sonoro, musicato e parlato, diretto dallo stesso Crosland col titolo “Il cantante di jazz”.
Ma l'affermarsi del suono determinò un grave arretramento rispetto alle conquiste linguistiche ed espressive a cui era giunto il cinema muto.
Alla fine degli anni venti nasce la colonna sonora formata da tutte e tre le materie d'espressione di cui si articola il suono: parole, rumori e musiche .
Un'immagine, nel momento in cui è accostata ad un suono, può produrre un significato diverso da quello che essa produce quando ne è ancora priva. Michael Chion (teorico che ha studiato le funzioni del suono nel cinema) parla di valore aggiunto: inteso come il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un'immagine data, sino a far credere che questa informazione sia già contenuta nella sola immagine.
Nel découpage classico il sonoro ha la funzione di unificare il flusso delle immagini, di attutire l'effetto di brusca rottura implicita di ogni stacco. (es. in un dialogo campo / controcampo : effetto di accavallamento sonoro p.227).
La stessa funzione unificante è giocata dal suono ambientale che può rimanere costante e continuo per tutta la durata di una scena frammentata da una successione di diverse inquadrature.
Essenziale è il ruolo della musica che avvolge le diverse immagini in un unico e continuo flusso sonoro.
Nel cinema classico un particolare effetto drammatico può essere enfatizzato attraverso un brusco contrasto audio-visivo, dove lo scontro tra due immagini decisamente diverse fra loro è amplificato da un conflitto sonoro di eguale portata.
Il suono è sottoposto a un processo di selezione e combinazione (es. dialogo in un parco: verranno presi solo un certo tipo di suoni).
Una volta selezionati i suoni vengono combinati fra loro dando vita al montaggio sonoro.
Qui il volume di ogni suono acquista un'importanza particolare: alcuni suoni saranno regolati su un volume più alto, altri su uno più basso. Si tratta cioè di scegliere quali suoni mettere in evidenza e quali mettere in secondo piano.
Il montaggio dei suoni e la regolazione del loro volume è quell'operazione definita come missaggio.
Dal momento che suoni e immagini instaurano uno stretto rapporto di interrelazione, il montaggio sonoro e quello visivo finiscono col dar vita a un'unica forma di montaggio detta appunto montaggio audio-visivo, che non si dà solo nella forma della successione, ma anche in quella della simultaneità.
Nel montaggio audiovisivo si può pensare a due grandi ordini di rapporti, fra suono e immagini che riguarda lo spazio e fra suono e racconto che riguarda il tempo.
- Dal punto di vista dello SPAZIO si può distinguere fra:
• Suono diegetico: si intendono tutti i suoni che fanno parte della diegesi del film (es. voce person, traffico stradale).
• suono in campo (SUONO IN): la fonte sonora è all'interno dell'inquadratura
• suono fuori campo (SUONO OFF): la fonte sonora è all'esterno dell'inquadratura
-ha la funzione di estendere lo spazio dell'inqu. per meglio contestualizzarla;
-ha la funzione di creare un senso d'attesa nello spettatore, di invitarlo a fare ipotesi.
• Suono extradiegetico (SUONO OVER): si intende il suono che sente lo spettatore (che non si colloca nello spazio della storia, bensì in quello ideale della sua narrazione).
Chion individua 3 tipi di suoni:
• Suono ambiente: è il suono che avvolge l'intera scena
• Suono interno: proviene dalla realtà interna del personaggio (pensieri, ricordi…)
• Suono esterno: ha origine da una sorgente fisica ben precisa
• Suono on the air: è il suono trasmesso da strumenti quali radio… (la loro sorgente ultima può essere in campo, ma fuori campo ne è la sorgente primaria).
Un termine entrato rapidamente nel dizionario della teoria del cinema che si occupa dei rapporti fra suono e immagini è il termine acusmatico e significa suono che “si sente senza vedere la fonte da cui proviene”. Al suono acusmatico si oppone il suono visualizzato.
Si ha uno sguardo selettivo quando, accompagnandosi ad un'immagine, il suono può dirigere la nostra attenzione su un suo elemento o su un altro. Lo spazio rappresentato da un'inquadratura può così essere disarticolato ed alcune sue componenti messe in evidenza.
Il supercampo è una sorta di campo audiovisivo determinato non solo da ciò che l'immagine ci mostra ma anche da quel suono ambiente fatto di parole, musiche e rumori che proviene dagli altoparlanti della sala.
Il suono inoltre può anche suggerire la distanza della sua sorgente: un suono fuori campo che progressivamente si intensifica darà l'impressione dell'avvicinarsi di qualcosa o qualcuno.
- Dal punto di vista del TEMPO si deve distinguere fra:
• suono simultaneo: si realizza quando il sonoro e l'immagine si danno in uno stesso tempo narrativo
• suono non simultaneo: è quell'effetto sonoro che anticipa o segue le immagini che noi stiamo vedendo in un momento dato. Un caso frequente è quello del ponte sonoro: sono brevi anticipazioni sonore in cui le parole, le musiche o i rumori della scena immediatamente successiva a quella presente sullo schermo, iniziano già a sentirsi prima che se ne vedano le immagini.
Inoltre, si individuano due tipi di percorsi :
a) il suono visualizzato che può diventare acusmatico (si associa un suono a un'immagine. Poi comparirà solo il suono che ricorderà quell'immagine)
b) il suono acusmatico che diventa visualizzato (si preserva a lungo il segreto della causa di un suono)
Si può parlare di ritmo sonoro a partire da due sue componenti chiave:
la velocità è determinata dalla durata degli intervalli (se l'intervallo è breve il suono avrà un ritmo veloce);
e la regolarità per cui, se le durate degli intervalli sono uguali, avremo un ritmo regolare, se non sono uguali sarà irregolare.
Il cambiamento del ritmo sonoro può preludere a determinati sviluppi drammatici o connotare la realtà interiore di un certo personaggio.
L' auricolarizzazione interna è quella che àncora un suono diegetico a un determinato personaggio: essa è primaria quando questo suono assume una dimensione soggettiva; è secondaria quando determinati meccanismi visivi o di montaggio la evidenziano.
L' auricolarizzazione esterna si ha nei casi in cui i suoni dei film non sono ancorati a un determinato personaggio e implica anche i suoni extradiegetici, che non possono essere sentiti dai personaggi. (pag.242)
Come accade per la musica, anche la PAROLA al cinema non fa la sua comparsa con il sonoro. Essa trovava ai tempi del muto almeno due mezzi di trasmissione (che avevano la funzione di informare lo spettatore di quei dati essenziali per la comprensione del racconto che le sole immagini non erano in grado di fornire):
il narratore che pronunciava delle parole in simultaneità con l'immagine, ma il suo testo comportava un margine d'improvvisazione;
le didascalie che avevano eliminato questo margine fissando nella pellicola le parole emanate, ma il loro intervento non poteva che darsi nella successione delle immagini.
La registrazione sonora permette di ritrovare la simultaneità di parola e immagine. Si ha la cosiddetta
Presa diretta quando la registrazione sonora è simultanea alla ripresa visiva e non successiva ad essa.
In questo modo i rumori d'ambiente possono limitare l'intelligibilità delle parole. Ma questa può anche essere una cosciente scelta espressiva (es. Riff raff: un lavoratore parla e ci sono voci di sottofondo).
La VOCE assume un ruolo di primo piano in quanto supporto della parola. Musiche e rumori non devono assolutamente impedire alla voce di essere agevolmente compresa.
Chion distingue tre tipi diversi di parola presenti al cinema:
• parola - teatro: è la parola dei dialoghi, emanata dai personaggi e può assumere funzioni informativa, drammatica, psicologica…
• parola – testo: si caratterizza per una diversa fonte di emissione: è la parola del narratore. Essa agisce sul corso delle immagini, le evoca e ne stabilisce o contraddice il senso.
• Parola – emanazione: essa si dà nel momento in cui un dialogo fra personaggi non è totalmente intelligibile.
La parola serve a far circolare delle informazioni fra i personaggi del film da una parte e tra il film e il suo spettatore dall'altra. La parola può sostituirsi alle immagini raccontando eventi o descrivendo situazioni.
Ci sono due distinzioni da fare:
• La prima riguarda la quantità delle informazioni. Ci sono 3 casi:
• la parola dice di più di quel che dicono le immagini;
• la parola dice quel che dicono le immagini;
• la parola dice meno di quel che dicono le immagini.
• La seconda riguarda la qualità delle informazioni. Ci sono 2 possibilità:
• immagine e parola dicono la stessa cosa;
• immagine e parola dicono due cose diverse.
(es. nella presentazione iniziale di ‘Jules e Jim' del 1961 pag.251)
Fra le funzioni essenziali che la parola assume in rapporto alle immagini c'è quella di ridurre le ambiguità di cui le immagini sono portatrici.
Inoltre l'idea che immagini e parole possano si essere articolate fra loro sul piano del montaggio audiovisivo ma anche mantenere una loro sostanziale autonomia, arrivando anche a contraddirsi, trova esempio nel film ‘L'uomo che mente' del 1968 di Grillet, in cui il personaggio che racconta la sua storia dice di entrare in un albergo vuoto, mentre noi lo vediamo fare il suo ingresso in un hotel affollato.
Nei primi film muti le immagini erano accompagnate da una MUSICA in sala e in casi speciali eseguita da un'orchestra o da un coro. La funzione principale della musica che accompagnava i film era quella di riflettere nella mente dello spettatore il clima della scena e quindi di suscitare emozioni.
Si possono individuare due grandi modi attraverso cui la musica al cinema si rapporta alle immagini:
• quello della partecipazione: la musica esprime la sua partecipazione all'emozione della scena.
• quello della distanza: la musica manifesta una sorta di indifferenza nei confronti della situazione rappresentata dalle immagini.
La musica ha dato vita a due figure dominanti i modelli di rappresentazione classica:
• il leitmotiv: è un tema melodico ricorrente che caratterizza fatti, momenti o personaggi di un film;
• avvio (o interruzione improvvisa): si dà quando la musica si avvia o cessa di colpo col compito di accentuare un determinato evento.
Vale anche per la musica la distinzione tra musica extradiegetica, di discorso, di commento, e musica diegetica, avente valenza informativa, emessa da fonti sonore diegetiche presenti all'interno della storia narrata. (pag.256)
Nel cinema sonoro la prima e più evidente funzione del RUMORE è quella di definire e rendere credibile la rappresentazione di un determinato ambiente.
APPUNTI PER L'ESAME DI:
ISTITUZIONE DI STORIA DEL CINEMA
al DAMS di Torino -2004
Tratto dal libro
MANUALE DEL FILM
Linguaggio, racconto, analisi
di GIANNI RONDOLINO, DARIO TOMASI
Libreria UTET
SD Standard Definition e HD High Definition
Nel 1989 Adcom non esisteva ancora, ma chi vi scrive era gia nel pieno dell'operatività, pronto per spiegare, o meglio snodare, le questioni aperte sul formato HD Europeo che sembrava essere prossimo sebbene formato da 15 proposte diverse.
Alle manifestazioni Europee dell'epoca come a Montreaux (Svizzera) l'alta definizione sembra sia realtà già nel 1989.
Ma nel 1992, forse l'analogico, forse che tutto il mercato che puntava sull'Italia detentrice del record assoluto di TV nel mondo (al di la delle dimensioni, stiamo parlando del numero), l'Italia è stata coinvolta in mani pulite e di conseguenza "bloccata" nei suoi intenti di cavalcare l'HDTV.
Fatto sta che per 10 anni non si è più discusso di Alta definizione, anche se le proposte dei produttori erano interessanti.
Solo nel 2002 gli USA hanno dato una scadenza irrevocabile: o le TV producono e distribuiscono in HD entro 5 anni (mantenendo la compatilità in Standard Definition NTSC) o si chiude!
Quindi tutte le TV Americane sono state coinvolte in un repentino cambiamento senza uno standard definito: 720p (60fps) o 1080i (60 semiquadri e quindi 30fps).
Oggi produrre in HD è semplice e collaudato, è sufficiente avere: Telecamere, Mixer e Videoregistratori e sistemi di trasmissione satellitari HD già disponibili sul mercato
Eppure alle olimpiadi di Atene 2004 ogni telecamera sul campo era accompagnata da un'altra telecamera in HD. Perchè?
L'alta Definizione, ad oggi, non ha un formato standard in quanto le caratteristiche principali sono state identificate per abbattere qualsiasi barriera tecnologica; infatti grazie ai Pixels quadri i produttori di telecamere, mixer etc. si sono finalmente allineati all'unico standard mondiale: il formato informatico.
I formati supportati dalla TV negli USA ed in Giappone sono 1080i e 720p, cioè 1920 x1080i interlacciati (60 semiquadri al secondo) o 1280x720p (60 fotogrammi interi al secondo)
Certamente questo formato consente risoluzioni elevate, ottima qualità, ma non consente di fare un Film a 24p o 25p.
Proprio per questo ritengo che Sony per il mercato Europeo abbia deciso di non supportare l' HDV 720p con la HDR-FX1E .
Tutelare gli investimenti fatti dalle più importanti case di produzione che hanno investito nel "vecchio" Cinealta 24P e in attesa del Cinealta SR è determinante.
La SMPTE EBU infatti è propensa al formato 720p per l'Europa, ma Sony cerca di forzare, proponendo il Camcorder HDR-FX1E 1080i prima di uno standard definito.
Non a caso l'HDR-FX1E nella versione Professionale NTSC denominata HVR-Z1 avrà il settaggio 720p ( progressivo a 30 fps), a differenza della versione PAL Professionale (HVR-Z1E a febbraio 2005) che sarà interlacciata come la HDR-FX1E (da menù sarà possibile settare solo la funzione Frame come sulla DSRPD170 ma con la conseguente perdita di mezza risoluzione).
La HDR-FX1E a mio parere è un Camcorder di elevatissima qualità e splendidamente concepito, sarà disponibile per il mercato PAL e quindi anche in Italia, tra circa 15gg. circa Adcom ne avrà 15 pz disponibili e prenotabili.
La grande inesperienza degli addetti ai lavori "ai piani alti" Sony Consumer ha fatto si che si crei una grande aspettativa per la HDR-FX1E. Infatti a differenza della DCR-VX2000 e 2100 sarà disponibile presso i rivenditori professionali oltre che sulla grande distribuzione.
La HDR-FX1E potrà essere utilizzata:
PAL DV con aspetto 4:3 per produzioni televisive attuali. (in alternativa alla DSR-PD170P)
PAL DV con aspetto 16:9 per produzioni dedicate alla TV 16:9 con un'ottimo risultato in quanto i CCD lavoreranno in 16:9 PAL nativi.
HDV 16:9 nativi con pixel quadro con immagini di spettacolare qualità, da lavorar e in HD non compresso, che una volta scaricate in DVD HD o su Blue Ray garantiranno un risultato di elevata qualità televisiva.
Per chi non ha seguito la mail della settimana scorsa sull'HDV sarà un'ottima sorpresa scoprire il 1080i:
1440x1080 pixels a 50 semiquadri al secondo con un'algoritmo di compressione eccezionale ma con compressione 30:1 circa.
Il 1080i sarà limitato alla riproduzione di produzioni televisive su grandi schermi predisposti (plasma e VPR HD) già disponibili.
Sarà invece sconveniente stampare su pellicola cortometraggi rinunciando a metà della risoluzione 1440x1080 (quindi 1440x540) con un fattore di compressione 6 volte superiore al DV25.
Certamente ci troviamo davanti ad una svolta tecnologica:
Canon immette sul mercato PAL la nuovissima XL2 (a 4.700,00 Euro + IVA circa) : la XL2 sostituisce la XL1s, migliorando notevolmente le performance (solo in Standard Definition).. ma mio parere con almeno 1 anno di ritardo!
A proposito vi siete mai chiesti perchè Canon non produce un Camcorder da spalla? forse gli manca la tecnologia ?
o ... forse perchè producendo le ottiche da 1/2" e 2/3" rischierebbe di entrare in concorrenza con Sony, Panasonic e JVC che di conseguenza non utilizzerebbero più le blasonate Ottiche Canon!
Sony spinge sulla HDR-FX1E
Un compatto Camcorder da 1/3" con disposizione dell'LCD geniale, inoltre con ottica Zeiss: HDV 1440x1080ì oltre che Standard Definition 4:3 e 16:9 nativi! Cosa chiedere di più?
Panasonic non abbraccia l'HDV, o meglio: Matsushita (la proprietaria del gruppo) lascia carta bianca a JVC (che come Panasonic, Technics, Ramsa sono in maggioranza di Matsushita) che definisce uno standard, l' HDV, Sony ed altre multinazionali si accodano formando un gruppo e Panasonic decide di anticipare i tempi: con 1 salto nel futuro riduce il video come la fotografia, Card PCMCIA compatibili con tutti i sistemi operativi disponibili sul mercato PC, MAC, etc (in quanto il formato con cui scrive il DV 25, 50 e100 HD è incapsulato MXF, uno standard sviluppato da Quantel ma di libero utilizzo).
Ora la scelta è difficile:
un responsabile tecnico di una TV, di vecchia generazione certamente sceglierebbe Sony per la storia e l'affidabilità....
il seguace degli standard guarderà a SKY con i Camcorder DV JVC.......
uno zelante e avanguardista sceglierebbe Panasonic per la filosofia e l'innovazione Panasonic ....
ma lo studio medio/piccolo cosa farà?
Io penso che i produttori indipendenti cercheranno di usare al meglio i mezzi che hanno già a disposizione, evidenziando ai propri clienti la loro professionalità! (con un'investimento pressochè nullo)
Allora a chi serve l'HDV?
L'HDV 1080i (televisivo) è indispensabile per mantenere il mercato delle televendite, dei maghi e di tutto ciò che è ad alta redditività nella TV che si trasformerà in HD nei prossimi 10 anni (forse).
L'HDV 720p darà una svolta alle produzioni indipendenti Europee, con Film di alto livello ma a basso costo: una svolta definitiva ai meccansmi attuali che lasciano nell'ombra i fenomeni ed esaltano i film di natale...
Guidelli Marcello
per ADCOM SRL
e-mail
Nel suo sito, Adobe Premiere Pro 1.5 dice che "Potete facilmente modificare il look di una qualsiasi scena selezionando una delle impostazioni predefinite di aspetto da un menu di dieci voci. Queste impostazioni predefinite sono state create per simulare il look di programmi televisivi, spot pubblicitari e film. Scegliete un look "cool" per imitare una fredda ambientazione urbana, un look più caldo per conferire un'aspetto invitante a qualsiasi scena. Potete attribuire ai vostri video l'aspetto dei film più popolari, dal verde-macchina di Neo al colore sbiadito dei video di repertorio con scene di guerra. Magic Bullet Movie Looks, pubblicato da Red Giant Software, rappresenta tutto ciò di cui avete bisogno per conferire alle vostre sequenze DV il look professionale dei film importanti.". Basta registrare la copia di Premiere Pro 1.5 per entrarne in possesso di questo software.
Movie Looks trasforma il vostro video utilizzando sfumature di colore e connotazioni proprie del mondo cinematografico con impostazioni predefinite semplici da applicare. Movie Looks deriva direttamente dalla pluripremiata Magic Bullet Suite di The Orphanage™, che caratterizza i più noti film di Hollywood come "Vanilla Sky" e i video musicali come "A Song For The Lonely" di Cher. Per offrirvi un output di alta qualità Magic Bullet Movie Looks utilizza la tecnologia DeepColor™ di The Orphanage, che vi consente di utilizzare, in fase di calcolo, immagini a una profondità superiore a 16 bit per canale e, quindi, di ottenere un risultato finale privo di artefatti.
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Per realizzare delle ottime riprese bisogna prestare particolare attenzione alla sezione sonora:
Usare il microfono integrato, registra, nella maggior parte dei casi, non solo i suoni che volete registrare, ma anche il rumore meccanico della cassetta che gira nella vostra videocamera.
Anche se è una delle poche che ha un microfono omnidirezionale che supera quel problema, registra in ogni caso con una angolatura troppo ampia, registra cioè anche i suoni che provengono dall'esterno dell'inquadratura visiva che state riprendendo. Molte volte è così sensibile ed ampio da registrare pure il suono che proviene da dietro l'operatore...
E questo è naturalmente un male. Come si può correggere il tutto? Ovviamente con un microfono esterno.
Quindi il modo migliore di registrare il suono in fase di ripresa è quello di usare un microfono esterno alla telecamera.
Il vantaggio è quello di catturare solo il sonoro vicino alla scena che state inquadrando, potendo così scegliere con precisione la sorgente sonora principale ed eliminare, o minimizzare, tutte le altre fonti di rumore. Un'altro vantaggio è quello di riuscire a svincolare l'audio dalla posizione di ripresa della telecamera. Posso cioè riprendere un soggetto visivo ed allo stesso tempo riprendere in modo perfetto il suono o parlato di un soggetto che sta al limite dell'inquadratura od addirittura fuori campo, senza dover fare il tutto in fase di montaggio.
Tutte le migliori telecamere (ed ora anche quelle di basso costo) hanno un attacco per un ingresso microfonico esterno.
Quindi se dovete acquistare una telecamera per realizzare un buon prodotto finale, e quindi soprattutto se volete girare un vostro corto, dovete acquistarne una di categoria "consumer" che disponga di connettori almeno del tipo mini jack, mentre se vi orientate al "prosumer" (semi professionale) non ci sono problemi: hanno normalmente una doppia entrata professionale.
Il ruolo della luce in un film è determinante. Una bella storia, girata da un buon regista, con ottimi attori: possiamo ottenere pessimi risultati se l'illuminazione, ovvero l'uso della luce, non è idonea e ben utilizzata.
Se scartiamo una fotografia fatta con cattiva luce, tanto più dobbiamo farlo con un filmato: la luce è importante perchè crea atmosfera, visualizza i volumi e le prospettive, scolpisce i contorni ed i profili degli attori.
La luce è colore, con il colore possiamo rafforzare od evocare effetti diversi, tramite un solo colore o con l'accostamento di più colori; e questo accade anche con l'uso del bianco e nero, forse ancora di più.
Con la luce dobbiamo saperci giocare, nel senso che la dobbiamo saper manipolare con le nostre mani, per ottenere il risultato che vogliamo, non dobbiamo prenderla così come è, ma, se possibile, migliorarla ovvero adeguarla alle nostre esigenze.
Per Flashback si intende quella scena che, fuori dalla sequenza temporale che si sta svolgendo, narra un evento avvenuto precedentemente. Il Flashback permette di strutturare un racconto in modo flessibile; non sequenziale, quindi, ma con descrizioni fatte (viste) e ripercorse solamente quando necessarie per la storia. Può essere breve (una o poche sequenze), o durare per gran parte del film.
Lo stile del montaggio è lo stile narrativo che deve essere adottato nell'alternare ed accostare le varie sequenze.
Un tipo di montaggio è quello delle analogie, elaborato dal famoso regista russo Ejzenstejn (ricordate la Corazzata Potëmkin di Fantozzi? Fa riferimento al film del 1926, realizzato per commemorare la rivoluzione del 1905 ed imperniato sull'episodio dell'ammutinamento nel porto di Odessa): pieno di simbolismi, con scene altamente emotive a cui susseguono scene altrettanto importanti anche se di ambientazione diversa. Indugiare sui cadaveri, sulla carrozzina che cade giù dalle scale, sono flash ritmati come gli impulsi del cuore, veloci, ritmici... Calcare la mano su certe riprese vuole intensificare il ritmo pragmatico dell'intero film.
Di analogie si serve spesso anche il film umoristico, allorchè fa allusioni a simboli fallici ed erotici. E' piuttosto semplice da applicare, anche se, fatto con superficialità, potrebbe dare un risultato particolarmente scarso e poco originale.
Si usa la tecnica del montaggio parallelo quando si vogliono mostrare due storie o due eventi che si svolgono in contemporanea. Ad esempio l'attesa di un ragazzo ed una ragazza prima di arrivare ad un appuntamento al buio. Naturalmente il parallelismo può essere sia di luogo che di tempo.
Tecniche si possono anche accostare: iniziamo con il montaggio parallelo: la ragazza che si prepara a fare una doccia e l'assassino che si avvicina sempre più alla casa della ragazza... L'apporto drammatico dell'azione si può accentuare ancor di più con la tecnica del montaggio accellerato: riduciamo la durata delle due serie di inquadrature: diminuiamole sempre più (dando il senso dell'inevitabile) fino a che le due azioni diventeranno una sola: l'assassinio della ragazza.
Una successione è realistica quando gli eventi e le inquadrature si uniscono le une alle altre in modo invisibile, senza cambi di angolazioni o movimenti strani della telecamera, come quando si racconta una storia, senza dare bruschi balzi di tensione allo spettatore. E' tutto in forma regolare, logica, senza alcun simbolismo visivo.
Ricordate i vecchi film che per rendere l'idea del trascorrere del tempo, facevano vedere calendari a cui venivano strappate le pagine? In un film che racconta una storia che dura molto di più di 90 minuti bisogna trovare il meccanismo di far capire come passa il tempo: in esterno la luce del sole che tramonta, in interni un orologio, le frasi degli attori, fino alle scritte in sovrimpressione che, in modo molto rapido, ci danno l'ora e la data esatta (e spesso anche la location).
Una scena viene fatta seguire dalla successiva, con uno stacco netto, preciso. Viene utilizzata quando abbiamo poco tempo, quando dobbiamo tralasciare ogni surplus. Dà ritmo. Una scena può essere legata alla successiva con un discorso serrato, o con un accostamento di colore. Oppure inseriamo una dissolvenza... Se deve iniziare una scena si può partire dal nero assoluto per arrivare gradualmente alla visualizzazione completa dell'immagine... Invece se termina si può scurire l'immagine fino al nero. Se la prima scena continua con la seconda, utilizziamo una dissolvenza incrociata, la prima svanisce mentre appare la seconda. Il tempo della durata delle dissolvenze influenza la visione del filmato, può determinare l'impressione del tempo che passa o dare incisività all'azione. Fate delle prove per constatare di persona.
Se state realizzando un cortometraggio od il filmato di un matrimonio, potete applicare altre transizioni. Ne esistono a migliaia, molte sono belle a vedersi, anzi spettacolari nella realizzazione, ma provate poi ad inserirle nei vostri filmati. La seconda volta che li rivedete, già potrebbero stancarvi. Quindi attenzione! Usate quelle più semplici, dalle tendine in entrata ed uscita, a quelle sfogliate come pagine di un libro. Basta avere buon gusto e non esagerare, perchè altrimenti nessuno poi perderà più tempo a guardare i vostri filmati pieni di giochetti digitali...
Matrox ha presentato X.mio5 Q25, una nuova scheda che promette di azzerare il lavoro di elaborazione a carico della CPU per l’acquisizione e il playout di segnali multipli in FullHD e 4K. Tutte le moderne piattaforme video broadcast si affidano ormai su architetture software in grado sfruttare le capacità dei processori di sistema, sempre più veloci e performanti. Eppure quando si lavora in 4K anche le workstation più potenti possono fare fatica. In questi casi un hardware dedicato può ancora fare la differenza. Ne è convinta Matrox, che ha appena lanciato X.mio5 Q25, una nuova scheda che promette di azzerare il lavoro di elaborazione a carico della CPU per l’acquisizione e il playout di segnali multipli in FullHD e 4K.
Dotata di interfaccia a 10 e 25 Gbit Ethernet, X.mio5 Q25 supporta la conversione in tempo reale su più canali, con filtri di adattamento del moto, scaling, de-interlacing, e funzioni di compositing avanzato, anche da formati HDR. Tra le caratteristiche chiave il supporto nativo dello standard di trasmissione IP SMPTE ST 2110, la gestione di 4 canali UltraHD a 50/60p su rete a 25 Gbit/s, 32 canali HD e 256 canali audio. La nuova scheda di Matrox è dunque una soluzione perfetta per i server di streaming video ad altissima qualità di ultima generazione.
da tuttodigitale.it
Perchè correggere dopo la qualità del video, quando potremmo arrivare in fase di montaggio con un buon audio? Molto spesso ci preoccupiamo di avere una buona od ottima videocamera, ne studiamo tutte le caratteristiche tecniche, come la ripresa in 4K, ma non teniamo in troppo conto il reparto audio. O forse avete intenzione di girare un film muto? Oltre che per gli occhi, il cinema, lungo o breve che sia, è fatto anche per le nostre orecchie.
Guardare una qualsiasi opera di Alfred Hitchcock, ormai lo sappiamo, non è solo un'esperienza di puro piacere come spettatore, ma anche una vera e propria lezione di cinema in cui gli aspiranti cineasti possono imparare tecniche ed espedienti decisamente utili alla propria formazione. Eccone alcune suggeriteci da Hitch20:
- Usate lo spazio in maniera drammatica. Oggi la tendenza ci sta portando verso le inquadrature frammentate, i movimenti di macchina tremolanti e il montaggio veloce: tutte scelte che possono funzionare se usate come si deve, ma il rischio è di iper-affaticare gli spettatori e di forzare troppo la mano sul versante tensione. Provate invece a sfruttare tutto lo spazio a vostra disposizione senza ricorrere esageratamente ai tagli: il genio di Hitch è che avrebbe potuto far funzionare benissimo un'intera pellicola ambientata in una sola stanza, e sotto questo punto di vista un altro punto di riferimento potrebbe essere Roman Polanski (Il coltello nell'acqua, Carnage).
- Il flusso di coscienza. Tecnica solitamente sottovalutata, ma che se usata nel modo giusto potrebbe invece portare ottimi risultati. Woody Allen ne ha fatto un vero e proprio segno distintivo sia per infondere comicità che malinconia, mentre in Hitchcock contribuisce a renderci maggiormente partecipi alle paure e paranoie dei personaggi.
- Focalizzatevi sulla semplicità. Che non significa evitare di essere intellettualmente complessi, ma di trovare il modo di lasciare che la cinepresa si focalizzi su cose triviali. Se state riprendendo una litigata epica tra due amanti, potete fare in modo che la causa del litigio sia semplicemente il telecomando della tv o le chiavi della macchina. Unire il mood epico con la semplicità delle cose permette alla cinepresa di compiere il lavoro di drammatizzare al meglio la situazione.
- Ovviamente, con Hitchcock c'è sempre il segreto da svelare e da scoprire. Mettetene uno nella vostra pellicola, e nel mezzo farcite l'operazione di scene in cui sembrerebbe proprio che il segreto stia per venire fuori, ma in verità non lo fa. Un espediente, questo, usatissimo anche nelle commedie o nei romance, in quanto infallibile per mantenere costante l'attenzione dello spettatore.
di Fiaba Di Martino per farefilm.it
Come fare un buon video con l’iPhone o in generale con uno smartphone? Ci sono alcuni trucchi e delle tecniche di base che conviene seguire per ottenere il massimo quando si usa la videocamera di un cellulare di ultima generazione, in modo da realizzare video che qualche volta hanno caratteristiche paragonabili a quelle di clip girate con dispositivi professionali. Alcuni possono sembrare suggerimenti banali e ovvi, ma paradossalmente la maggior parte degli utenti di uno smartphone li dimentica appena si accinge a effettuare una ripresa video. Vale allora la pena di fare un elenco con tutte le regole di base da rispettare per ottenere buoni risultati in termini di qualità video.
1. Tenere lo smartphone in posizione orizzontale e non come normalmente lo si maneggia: il bordo più lungo va in basso. Le dimensioni del video che si registra infatti hanno sempre la base più lunga dell’altezza, quindi al momento in cui lo si riprodurrà, se la ripresa è stata effettuata con lo smartphone in verticale si avrà un video con delle fasce laterali nere. Del tutto inadatto alla maggioranza degli schermi su cui si andrà effettivamente a rivederlo.
2. Mantenere ben fermo lo smartphone. La regola numero uno di chiunque effettui una ripresa video è assicurarsi che la videocamera non si muova durante le riprese, a meno che non si debba seguire un soggetto in movimento o si effettuino spostamenti volontari del campo visuale. E anche in quest’ultimo caso, quasi sempre lo spostamento della videocamera deve essere fluido e continuo, sempre senza scatti. Cosa fare allora? Usare entrambe le mani per reggere lo smartphone. Tenere i gomiti stretti contro il corpo. Se si è in piedi divaricare le gambe leggermente in modo da ottenere una posizione stabile e comoda. Trovare un buon punto d’appoggio sul terreno evitando di stare in equilibrio precario. Quando si muove lo smartphone per seguire il soggetto cercare di piegare tutto il corpo e non solo le braccia e le mani e se si deve camminare abituarsi a farlo in modo da spostare il baricentro del corpo solo orizzontalmente e non anche verticalmente. In altri termini, bisogna tenere la testa sempre alla stessa altezza e spostarsi solo avanti e indietro. Se si usa spesso lo smartphone per realizzare video, può essere utile acquistare un accessorio che aggiunge una maniglia esterna (o addirittura un cavalletto) al dispositivo per poterlo maneggiare comodamente e più stabilmente.
3. Controllare l'inquadratura. Di default l’app per la ripresa installata nell’iPhone riproduce sullo schermo una preview del video che si sta per registrare. Va tenuto presente però che già il sensore a 720p dell’iPhone (già presente sull’iPhone 4) riprende un’inquadratura più ampia dello stesso display, per cui colpendo rapidamente col dito due volte lo schermo (i geek direbbero: facendo un doppio tap) si può visualizzare l’immagine completa, dove viene riquadrata la parte di schermata che effettivamente sarà inclusa nel video. In generale, raramente negli smartphone la parte ripresa nel video e quella effettivamente rilevata dal sensore è corrispondente, anche perché a seconda delle dimensioni del video scelte (4:3 o 16:9) il taglio dell’inquadratura cambia. Spesso può essere opportuno passare a visualizzare tutta l’area utile in modo da scegliere meglio cosa effettivamente fare rientrare nell’area di ripresa del video.
4. Attenzione alla messa a fuoco! Si è talmente abituati all’autofocus – la messa a fuoco automatica – che ci si dimentica di tenere presente che alle volte ci occorre una messa a fuoco differente da quella di default. Il riquadro che si vede al centro dello schermo quando si sta per riprendere è il punto su cui l’obiettivo punta il suo fuoco. In alcuni casi, per esempio quando il soggetto non si trova al centro dell’inquadratura, sarà necessario dare un colpetto sul punto in cui vogliamo che sia puntata la messa a fuoco. Allo stesso modo sarà possibile cambiare il punto focale mentre si sta riprendendo. Ovviamente in questo caso bisognerà fare attenzione a maneggiare bene lo smartphone in modo da evitare sussulti o movimenti accidentali che rovinerebbero la qualità della ripresa.
5. Regolare il bilanciamento dei colori. Prima di iniziare a riprendere si deve sempre verificare che il bilanciamento dei colori sia corretto. Regola preliminare a qualsiasi ripresa: fare il bianco! Basta andare sulle regolazioni e scegliere Bilanciamento del bianco. Qui di solito si può scegliere fra luce naturale, nuvoloso, luce incandescente o luce fluorescente. In alternativa si può impostare la regolazione auto, lasciando che sia il software a decidere come regolare i colori nel modo più opportuno. Va detto anche che, in qualsiasi momento durante una registrazione, quando si dà un colpetto sullo schermo in corrispondenza del soggetto sul quale si punta la messa a fuoco quasi tutte le app di videoripresa dei cellulari aggiustano anche le condizioni di luce in riferimento a quello che viene inquadrato nel punto di messa a fuoco. Ad ogni modo si deve essere avvertiti che una ripresa in cui improvvisamente cambia il bilanciamento dei colori senza una ragione evidente (per esempio perché il soggetto si sposta da un esterno a un ambiente chiuso) è sempre una cattiva ripresa. Quindi bisogna stare attenti che la resa dei colori sia sempre costante.
6. Fare diverse riprese della stessa scena. La maggior parte degli utenti poco addentro alle tecniche di ripresa pensa che un video sia il risultato di un’unica ripresa. Chi conosce i rudimenti delle tecniche di regia sa bene che il prodotto finale è il risultato del montaggio di tanti spezzoni di ripresa girati indipendentemente l’uno dall’altro, anche sullo stesso set. Un buon video non è mai il prodotto di un unico piano sequenza, ma della sagace ripresa della scena da più punti di osservazione e in condizioni e piani differenti. Si deve pianificare a monte, prima di iniziare a riprendere, come si ha in mente di sviluppare la ripresa. Eventualmente prendendo anche degli appunti in cui descrivere cosa si ha in mente e come successivamente si vuole montare la ripresa. Così facendo è facile girare diversi video sulla stessa scena in modo da unirli opportunamente insieme successivamente per creare il video finale. Normalmente conviene fare diverse clip brevi con angoli di ripresa e piani differenti e poi montarle in modo da creare una continuità nella successione delle inquadrature.
7. Alternare inquadrature ampie e strette. Nella scelta delle inquadrature, si deve evitare di fare sempre e soltanto inquadrature ampie, ma sapere scegliere cosa inquadrare in dettaglio restringendo la ripresa e eventualmente zoomando. Tenere presente che nel montaggio finale solitamente alternare o comunque mettere in sequenza inquadrature ampie e inquadrature strette serve a migliorare la qualità e l’estetica del girato, oltre a renderlo più stimolante ed espressivo.
8. Le condizioni di luce sono fondamentali! Lo sanno bene i professionisti della regia quando scelgono un direttore della fotografia. Un buon film è innanzi tutto la capacità di fare delle belle riprese e perché queste risultino tali agli occhi dello spettatore è necessario che l’illuminazione della scena sia perfetta e che i dispositivi di ripresa la riprendano in modo fedele a quello che si vuole fare vedere allo spettatore. Quindi prima di iniziare a girare occorre studiare bene come illuminare la scena e se il soggetto che si intende riprendere riceve una buona illuminazione. Gli smartphone dispongono di un buon flash-led, ma si deve ricorrere alla sua luce solo se proprio non ci sono altri modi per illuminare la scena, perché la luce del flash risulterà frontale, scialba e abbastanza fioca, rendendo quasi qualunque video estremamente dilettantesco.
9. Attenzione alle riprese a distanza ridotta. Scegliere l’inquadratura migliore, tenendo conto che gli smartphone hanno un obiettivo leggermente grandangolare, quindi poco adatto alle riprese a breve distanza. Per i primi piani di un volto può essere opportuno riprendere il soggetto da lontano e applicare un lieve zoom, anche in post-editing utilizzando un software di videoritocco in fase di montaggio. Se si inquadra un volto a distanza ravvicinata infatti si otterrà un effetto deformante alquanto sgradevole e innaturale. D’altronde se si applica uno zoom digitale pesante nel corso della ripresa c’è il rischio di sgranare l’immagine ottenendo un risultato assolutamente scadente in termini di definizione dell’immagine. Conviene allora fare delle prove per vedere quando e fino a che punto si può effettuare una zoomata con il proprio smartphone senza alterare troppo la qualità del girato.
10. Occhio alla batteria! L’ultima raccomandazione può sembrare del tutto superflua, ma ha rovinato il lavoro di una quantità inimmaginabile di videomaker improvvisati: la batteria è sufficientemente carica? Se si ha intenzione di fare dei video con lo smartphone è opportuno, prima di qualsiasi altra azione, verificare per tempo che la batteria sia al massimo, perché il rischio che sul più bello il dispositivo si spenga rovinando tutto il lavoro che si vuole svolgere è sempre altissimo. Una ripresa video, soprattutto quando viene effettuata in alta definizione, impegna severamente le risorse hardware del dispositivo, quindi anche una carica che può sembrare adeguata può risultare insufficiente. Se si ha in programma di usare spesso e lungamente lo smartphone per girare dei video può essere un buon investimento quello di acquistare delle batterie esterne addizionali, che tolgono d’impiccio quando quella interna si esaurisce.
da Redazione di FareFilm.it
Nel cinema, come nei cortometraggi, un personaggio molto importante per avere un prodotto finito ben realizzato è quello del Tecnico del Suono. Nei titoli di coda leggiamo sempre parole come: Microfinista e Fonico di presa diretta (che, nelle riprese dei nostri cortometraggi sono quasi sempre la stessa persona). E' colui che, a secondo delle necessità e possibilità, deve microfonare gli attori, oppure posizionare i microfoni fissi necessari, o seguire i vari attori con il microfono tenuto fuori dell'inquadratura con la 'canna' ovvero un bastone allungabile alla cui estremità è fissato il microfono. I microfoni sono collegati al mixer ed al registratore, se si usano apparecchiature esterne. Se, invece, si usano macchine meno professionali, dovrà controllare i volumi delle entrate nella videocamera, sempre tramite cuffia.
Nel cinema, come nei cortometraggi, un personaggio molto importante per avere un prodotto finito ben realizzato è quello del Tecnico del Suono. Nei titoli di coda leggiamo sempre parole come: Microfinista e Fonico di presa diretta (che, nelle riprese dei nostri cortometraggi sono quasi sempre la stessa persona). E' colui che, a secondo delle necessità e possibilità, deve microfonare gli attori, oppure posizionare i microfoni fissi necessari, o seguire i vari attori con il microfono tenuto fuori dell'inquadratura con la 'canna' ovvero un bastone allungabile alla cui estremità è fissato il microfono. I microfoni sono collegati al mixer ed al registratore, se si usano apparecchiature esterne. Se, invece, si usano macchine meno professionali, dovrà controllare i volumi delle entrate nella videocamera, sempre tramite cuffia.
Il suo lavoro sembra facile, ma in realtà dovrà cercare di risolvere tutti i problemi che si presentano durante le riprese, come i disturbi del vento, i rumori di sottofondo troppo accentuati od indesiderati, i diversi toni e volumi delle voci degli attori, e così via. Deve conoscere profondamente l'attrezzatura che viene usata, anche quella semiprofessionale. Deve avere un orecchio fino, attento a tutte le sfumature, anche se aiutato da vari strumenti e cuffie. Un suo errore può compromettere il lavoro di un'intera troupe artistica e tecnica (e a noi, come scritto in altra pagina è successo: alle domande del regista rispondeva sempre che il suono era ok: in fase di montaggio, invece, ci siamo accorti che il volume delle voci degli attori era bassissimo e quindi il lavoro di più giorni era inutilizzabile, con uno spreco inutile di denaro).
Importante è il Music Editor che è colui che inserisce la colonna sonora nelle varie scene del film, sincronizzandola alle parti in movimento ed ai dialoghi, modificandola ed elaborandola secondo necessità. Oltre la colonna sonora 'principale' dovrà posizionare musica cosiddetta di 'accompagnamento' per le scene meno importanti e di raccordo. Normalmente sarà seguito da vicino dal Regista che lo guiderà per ottenere il risultato immaginato.
Ancora, esiste l'editor degli effetti sonori, personaggio indispensabile in taluni film, che deve avere a disposizione una vasta libreria di suoni particolari da aggiungere alla pellicola. Un tempo c'erano i cosiddetti 'rumoristi' che con vari oggetti riproducevano i suoni occorrenti: dalla pioggia ai passi, alle porte sbattute....
Il Fonico del doppiaggio serve a gestire la sincronizzazione del doppiaggio del filmato, ad esempio in altra lingua, o che bisogna cambiare per necessità filmica, come ad esempio, dopo aver tagliato delle scene, occorre far dire agli attori parole diverse perchè le originali facevano riferimento alle scene tagliate. All'occorrenza serve per sincronizzare il nuovo sonoro di tutte quelle parti venute male, dopo averle girate dal vivo,
Molto spesso, nei nostri lavori poco più che amatoriali, un'unica persona si occupa di tutti questi ruoli. Anche nelle scuole che trattano questi argomenti spesso in un unico corso si affrontano tutti questi problemi, poi sarà compito nostro cercare di approfondire il ruolo che più ci interessa.
Naturalmente non ci siamo scordati di colui che costruisce appositamente le musiche per un nuovo film: per le necessità dei nostri corti amatoriali si può utilizzare un amico che è capace di costruire musica col computer e quindi, una volta terminato di montare il corto lui, con il vostro consiglio, potrebbe realizzare della musica idonea alle vostre esigenze. Volendo, potete anche cercare musica con licenza gratuita per l'uso con il vostro film. Oppure potete pensare ad utilizzare musica classica: ne esiste una grande varietà adatta a tutti i generi. Tutte queste possibilità non vi faranno pagare i diritti alla SIAE per l'utilizzo di musica commerciale, una volta avuta l'autorizzazione di chi ne detiene i diritti...
Tra i primi registi a comprendere le potenzialità espressive e artistiche del montaggio vi è sicuramente il russo Vsevolod Pudovkin. Fondamentale in questo senso è l’esperimento da lui condotto insieme a Lev Vladimirovic Kuleshov sulle possibilità del “cutting”. Unirono alcuni primi piani dell’attore Mosjukhin con tre inquadrature differenti (nella prima un piatto di minestra, nella seconda una bara con un cadavere, nella terza una bambina intenta a giocare). Presentate le sequenze al pubblico i due registi notarono come la gente avesse la sensazione che l’espressione dell’attore cambiasse a seconda delle situazioni che si trovava di fronte mentre nella realtà l’inquadratura del volto di Mosjukhin era sempre la stessa: “Quando mostrammo le tre combinazioni a un gruppo di spettatori ai quali non avevamo comunicato il segreto dell’operazione, ottenemmo un risultato stupefacente. Gli spettatori erano convinti che la recitazione fosse splendida. Lodarono l’atteggiamento pensoso davanti alla minestra dimenticata, furono commossi dalla profonda tristezza con cui guardava la donna morta, ammirarono l’espressione sorridente e contenta con cui guardava la bambina. Noi però sapevamo che in tutti e tre i casi l’espressione era esattamente la stessa” (V. I. Pudovkin, Film technique, Newnes, 1929 in Karel Reisz-Gavin Millar, la tecnica del montaggio cinematografico, SugarCo edizioni, Milano, 1983). Pudovkin e Kuleshov avevano capito che il montaggio offriva al regista una grande libertà e la possibilità di dar sfogo alla propria creatività. Montando a suo piacimento il materiale girato il regista poteva dar forma a nuove idee semplicemente accostando due inquadrature. Questo esperimento portò Kuleshov a ritenere che il film diventasse arte non nel momento in cui vengono effettuate le riprese ma, esclusivamente, nella fase di montaggio. Pudovkin partì da questi esperimenti per sviluppare il suo stile filmico basato su scene nate dalla contrapposizione di una serie di dettagli. Esemplare in tal senso è una scena di “Madre” nella quale il regista di Penza doveva rendere lo stato d’animo di un carcerato prima di uscire di prigione: “Così mostro i movimenti nervosi delle mani e un dettaglio della parte inferiore del viso, con l’angolo delle labbra incurvato in un sorriso. Tra queste due inquadrature inserisco vario materiale: spezzoni di un ruscello gonfiato dalle piogge di primavera, riflessi del sole sull’acqua, uccelli che si tuffano nello stagno del villaggio e, infine, un bambino che ride. Unendo tutti questi elementi prende forma l’espressione di gioia del nostro prigioniero”. (Karel Reisz-Gavin Millar, op.cit.) In effetti in questa sequenza il montaggio consentiva a Pudovkin di esprimere i sentimenti del prigioniero non in maniera banale, come ad esempio mostrandolo mentre si apriva in un sorriso, ma in forma indiretta, simbolica. Mostrare le idee in maniera metaforica e non esplicita è caratteristica tipica del fare artistico come ricorda Rudolf Arnheim citando la Divina Commedia: “Prendiamo un esempio a caso: quando Francesca da Rimini, narrando come s’innamorò dell’uomo con cui stava leggendo, dice soltanto: ‘Quel giorno più non vi leggemmo avante’. Dante dice così indirettamente, accennando semplicemente alle conseguenze, che in quel giorno i due si baciarono. E questa rappresentazione indiretta colpisce con straordinaria efficacia” (Rudolf Arnheim, Film come arte, Giangiacomo Feltrinelli editore, Milano, 1989). A Pudovkin non interessava la fluidità delle sequenze ma le idee e le emozioni che creano un rapporto (anche indiretto) tra le varie inquadrature. Egli arriva a teorizzare le proprie idee elaborando un sistema fondato su cinque metodi di montaggio: per contrasto (unione di inquadrature discordanti: una festa lussuosa e un uomo che muore di fame): parallelismo (sorta di montaggio parallelo con l’alternanza delle inquadrature); analogia (come nella famosa sequenza di “Sciopero” di Eisenstein con inquadrature degli operai fucilati insieme a quelle di un bue macellato); sincronismo (due fatti che avvengono nello stesso momento); tema ricorrente (impiego del leitmotiv). Essendo portato anche per la musica, Pudovkin riuscì a impiegare queste sue teorie dando un senso ritmico alle sue opere nelle quali il suo massimo interesse era rivolto ai cambiamenti psichici dell’uomo sotto le pressioni della società moderna. Pudovkin, che fu anche attore, doveva la sua curiosità nella sperimentazione cinematografica ai suoi studi scientifici: era infatti ingegnere chimico, avendo frequentato la facoltà di Scienze di Mosca: “Senza dubbio questa sua primitiva formazione scientifica gli è di aiuto nel trattamento della fotografia dei suoi film” (Carl Vincent, Storia del cinema 1, Garzanti Editore, 1988). Oltre a queste importanti basi teoriche per l’arte cinematografica Pudovkin ci lascia un capolavoro assoluto quale “La madre” (1926), nel quale gioca abilmente con metafore liriche e stile realistico, “La fine di San Pietroburgo” (1927) e “Tempeste sull’Asia” (1929). In seguito l’avvento del sonoro segna l’inizio del declino cinematografico di Pudovkin che sembra ritrovare la sua vena creativa con “Il ritorno di Vasilij Bortnikov” del 1953, anno della scomparsa del regista.
di Fabio Massimo Penna per
Una delle sfide principali del montatore William Goldenberg è stata quello di creare un senso di urgenza, anche nelle sequenze che coinvolgono gli studiosi di codici che svolgono un lavoro scrupoloso nel loro rifugio, presso la tenuta britannica di Bletchley Park. L’intento era quello di creare la sensazione che ci fosse una grande quantità di pressione su Turing e la sua squadra – il senso del ticchettio dell’orologio – perché gli alleati al momento stavano perdendo la guerra. Nel montaggio, ciò veniva tradotto nell’aumento di ritmo – non in un modo molto evidente, ma con la volontà di far sentire il pubblico dentro la pancia dei personaggi. Il taglio di alcune inquadrature al culmine della tensione, per dare una sensazione di ansia, e ricordarci che questi personaggi hanno un’urgenza.
Nel 2013, il montatore veterano William Goldenberg ha detto, è stato “turbato ed entusiasta” quando ha preso il suo primo Oscar sul palco del teatro Dolby per il montaggio del thriller di Ben Affleck, “Argo”. Era stata una gara in cui aveva avuto l’onore di competere contro se stesso: quell’anno infatti, Goldenberg ha anche ricevuto una nomination all’Oscar per il montaggio del film sulla caccia a Bin Laden ”Zero Dark Thirty”, al fianco di Dylan Tichenor.
Due anni dopo, il montatore era di nuovo in corsa con una nomination per il suo lavoro su un altro film drammatico, basato su una storia vera: “The Imitation Game”, che mette in luce il brillante, anche se insopportabile, matematico Alan Turing (interpretato da Benedict Cumberbatch, candidato all’Oscar per il ruolo di attore protagonista), che decifrò il complicato codice segreto di comunicazione nazista grazie alla macchina Enigma, durante la seconda guerra mondiale.
Si stima che il lavoro di Turing abbia salvato di 14 milioni di vite, accorciando in modo efficace la guerra di due anni, ma nei primi anni 1950 egli fu perseguitato e condannato per la sua omosessualità, morendo suicida nel 1954, all’età di 41 anni.
Goldenberg ha parlato molto di come sia per ‘Argo’ che ‘Zero Dark Thirty’, egli sia davvero attratto da piccole storie su una parte di mondo che poche persone hanno mai sentito parlare. Egli aveva sentito parlare di Alan Turing e il codice Enigma, ma non conosceva la storia che lo mandò in crisi, e tutte le cose orribili che gli successero dopo la guerra.
Nel corso di nove mesi fra il 2013 e il 2014, Goldenberg ha effettuato il montaggio di “The imitation Game” lavorando su circa 200 ore di filmati, su Avid Media Composer 5.5 negli EPS-Cineworks a Santa Monica.
Una delle sue sfide principali è stata quello di creare un senso di urgenza, anche nelle sequenze che coinvolgono gli studiosi di codici che svolgono un lavoro scrupoloso nel loro rifugio, presso la tenuta britannica di Bletchley Park.
L’intento era quello di creare la sensazione che ci fosse una grande quantità di pressione su Turing e la sua squadra – il senso del ticchettio dell’orologio – perché gli alleati al momento stavano perdendo la guerra.
Nel montaggio, ciò veniva tradotto nell’aumento di ritmo – non in un modo molto evidente, ma con la volontà di far sentire il pubblico dentro la pancia dei personaggi. Il taglio di alcune inquadrature al culmine della tensione, per dare una sensazione di ansia, e ricordarci che questi personaggi hanno un’urgenza.
Quando il passaggio al montaggio non lineare diventa semplice: War Horses.
Per alzare la posta, Goldenberg ha inframmezzato il montaggio con filmati di repertorio, come le marce delle truppe e carri armati nazisti, all’interno di scene in cui Turing che lavora sulla sua macchina decodificatrice, che ha chiamato “Christopher” come la sua cotta d’infanzia. Per Goldenberg, quella era una giustapposizione: i macchinari di guerra tedeschi, contro Christopher, l’arma di Turing.
Per la scena di tensione in cui la Macchina di Turing, infine, decodifica il codice, Goldenberg ha creato un montaggio mozza fiato degli scienziati che lavorano per tutta la notte, che traducono i messaggi decodificati mettendo puntine su una mappa che indica la posizione dei sottomarini tedeschi nell’Atlantico.
Come Goldenberg avanzava il lavoro su ogni sequenza, aumentavano le conversazioni con il regista Tyldum su ciò che stava attraversando la mente pungente di Turing. Per loro era come essere sempre più consapevoli di lui. Turing aveva la sindrome di Asperger, e quello che mostrava fuori, era così anche dentro.
Il montatore racconta della scena del colloquio con Bletchley, dove il materiale girato era enorme, perché Benedict Cumberbatch ha dato loro più indicazioni e scelte sul modo in cui Turing doveva apparire.
Una scena sgradevole porta con sé complesse scelte di montaggio, come in 12 Anni Schiavo
Quello che il team di montaggio decise, era che in fondo egli fosse consapevole di come appariva, ma di non essere sgradevole in maniera intenzionale. Era Turing che faceva Turing, e ogni scelta di montaggio era basata su queste indicazioni di performance attoriali.
Il lavoro del montatore inoltre, è stato quello di intrecciare senza complicare la trama, tre linee di storia che saltano avanti e indietro fra tre periodi di tempo: gli anni giovanili di Turing in collegio nel 1920, i suoi sforzi top secret durante la guerra, e i maltrattamenti per essere omosessuale, nel 1950.
Una scena cruciale è stata posizionata in maniera sublime da Goldenberg: la sequenza in cui Turing viene a sapere che il suo amato Christopher è morto di tubercolosi. Nella sceneggiatura la scena si svolge in precedenza, ma il montatore la trasferisce circa 15 minuti dopo, verso la fine del film, con un taglio dal primo piano del volto in lutto del giovane Turing a un’immagine del vecchio lui, perseguitato e affranto, di fronte alla sua macchina. Goldenberg sostiene che per lui quello “È stato come l’ultimo pezzo del puzzle che porta al suo suicidio”.
Ma in ultima analisi, i realizzatori hanno scelto di eliminare una sequenza in cui un detective scopre Turing che giace senza vita nel suo letto. “Abbiamo deciso che era più elegante ed emozionale finire con Turing che dice essenzialmente buonanotte a ‘Christopher,’ spegnendo la luce e scomparendo in una stanza buia”, ha detto Goldenberg. “Quella scena sottolinea appena il dramma di questa storia che doveva essere raccontata”.
di Simone Verrocchio per romeuracademy.it
I. LO SPETTACOLO CINEMATOGRAFICO
«La cinepresa è diventata mobile come l’occhio umano, come l’occhio dello spettatore o come l’occhio dell’eroe del film». di Georges Sadoul
Cominciamo questo nostro tentativo di ripercorrere l’evoluzione del montaggio cinematografico, nell’epoca del cinema muto, partendo da una significativa affermazione apparsa sul quotidiano parigino La Poste de Paris nel 1896; a proposito del Cinematografo dei fratelli Lumière, l’articolo recensisce così la nascita del nuovo fenomeno spettacolare: «Poiché ora siamo in grado di fotografare i nostri cari, non soltanto immobili, ma anche mentre si muovono, ritraendoli così come essi si agiscono, compiono gesti a noi familiari e parlano, la morte cessa di essere assoluta». Un’affermazione di questo tipo indica almeno due questioni sulle quali vale la pena di soffermarsi. Innanzitutto il Cinematografo, che fu l’invenzione che meglio raccoglieva in sé almeno cinquant’anni di sperimentazioni e di ricerche attorno alla fotografia e alla cronofotografia, fu da subito considerato – prima di divenire un linguaggio, un’arte, un mezzo espressivo – un’attrazione spettacolare che si confondeva, convivendoci, con altre attrazioni dello stesso genere; in secondo luogo, il fenomeno cinematografico fu visto ed apprezzato soprattutto per la sua straordinaria capacità di riprodurre la realtà fenomenica: osservare sullo schermo gli operai che uscivano dalle officine Lumière, oppure un bambino mentre fa colazione, era già di per sé uno spettacolo unico ed imprevedibile, che non richiedeva nessun altro tipo di ingrediente “spettacolare” per essere fruito da un pubblico entusiasta. Era dunque il “realismo” della rappresentazione che colpiva il pubblico meravigliato, era la “verità” delle persone e degli oggetti che costituivano il fascino e la novità del mezzo cinematografico.
Quindi il cinema fu considerato, fin dalle sue origini, un mezzo spettacolare per riprodurre la realtà fenomenica in modo assolutamente oggettivo; il cinema doveva soprattutto fornire informazioni, illustrare la realtà quotidiana, riprendere i soggetti così come essi si presentano dinanzi ai nostri occhi. Ecco che allora tutto ciò che si può definire “quotidiano” – dalle persone che si muovono ai monumenti della città, dai paesaggi più favolosi alle usanze popolari più diffuse – diveniva un utile soggetto per una produzione documentaristica assai efficace. Quindi il cinema, all’inizio, fu inteso soprattutto come un mezzo per riprodurre in modo instancabile la realtà quotidiana; e non solo dal pubblico di allora, ma anche dagli stessi Lumière, che consideravano il Cinematografo un’invenzione redditizia senza futuro.
Tuttavia un segnale minimo dell’evoluzione del linguaggio cinematografico (ma non ancora del montaggio) possiamo rintracciarlo anche in un piccolissimo film dei fratelli Lumière: L’innaffiatore innaffiato è da molti considerato il primo film narrativo della storia del cinema, nonché il primo film comico. Infatti, pur ricalcando la struttura dei precedenti film, basati su di un’unica inquadratura di circa un minuto (il tempo massimo consentito dalla durata di un caricatore), questo film presenta già quello schema base di equilibrio – squilibrio – riequilibrio (formulato da André Gardies) che ritroveremo in tutti i successivi film narrativi.
Tuttavia il cinema dei fratelli Lumière, per la sua stessa volontà di riprodurre il reale senza nessun artificio, va messo da parte in uno studio sull’evoluzione del montaggio cinematografico; purtroppo essi non seppero intuire le grandi potenzialità espressive del mezzo, pertanto spetterà ad altri il compito di teorizzare e di mettere in pratica quei primi procedimenti che porteranno alla nascita vera e propria del montaggio cinematografico come noi lo intendiamo.
Nonostante Edgar Morin affermi più volte che con Georges Méliès si ha il passaggio dal Cinematografo al Cinema (espressione che indica la conquista di un linguaggio da parte del cinema), i molti studi di Antonio Costa dimostrano come anche i film di Méliès – soprattutto i suoi primissimi lavori – vadano inseriti nella sfera del pre-cinema, ovvero prima di tutta quella serie di processi che, da Edwin S. Porter in poi, porteranno alla nascita del nuovo linguaggio e delle nuove pratiche di produzione narrativa, tra le quali il montaggio. Infatti, secondo Costa, non è importante saper distinguere l’opera di Lumière da quella di Méliès, magari fino a renderle incompatibili; l’importante, semmai, è comprendere che sia la riproduzione di un evento reale in un film di Lumière (L’arrivo del treno alla stazione), sia la simulazione di un evento in un film di Méliès (Il viaggio sulla Luna), sono due momenti di un unico processo che porterà il cinema ad essere un qualcosa che, come dice Baudrillard, è sempre e comunque già riprodotto, iperreale.
Tuttavia è innegabile che le féeries in miniatura di Georges Méliès si differenzino nettamente dai mini film dei fratelli Lumière: se Méliès non seppe costruire una vera e propria grammatica cinematografica (anzi, una delle cause principali del precipitoso declino della sua arte fu proprio la sua incapacità di adattarsi all’evoluzione del linguaggio cinematografico), è anche vero però che seppe organizzare in modo innovativo lo spazio ed il tempo del racconto. Con uno sforzo possiamo allora individuare, in alcuni dei film più famosi del mago di Montreuil (tra i quali Il viaggio sulla luna, I quattrocento scherzi del diavolo, Alla conquista del Polo, Viaggio attraverso l’impossibile), un primissimo passo dell’evoluzione del montaggio cinematografico nella sua componente essenziale: la successione delle inquadrature. Infatti questi piccoli film, la cui durata difficilmente supera i dieci minuti, presentano una significativa scelta di cambiare l’ambiente in cui si svolge l’azione; si verifica così un’importante volontà di ampliare lo spazio narrativo del film, seppur nei limiti piuttosto evidenti di un montaggio che unisce semplicemente queste diverse scene-inquadrature.
Le novità fondamentali, anche per quanto riguarda alcune forme di punteggiatura e di montaggio presenti nel linguaggio cinematografico vero e proprio, Méliès le apporta attraverso il suo straordinario lavoro sugli “effetti illusionistici”: da questo punto di vista possiamo dire che Méliès inventa tutto, ma proprio tutto, ciò che appare fondamentale per la grande stagione del cinema muto (dalle dissolvenze in apertura ed in chiusura alle dissolvenze incrociate, dalle tendine ai mascherini fino alle tecniche di sovraimpressione). Naturalmente questi sono solo alcuni degli elementi che interverranno nel montaggio di un film vero e proprio, tuttavia essi saranno fondamentali per lo sviluppo di alcune fra le più diffuse forme di punteggiatura di tutto il cinema successivo.
Dunque, ricapitolando, i primissimi film della storia del cinema (sia quelli di Lumière che quelli di Méliès, ma anche quelli di alcuni loro instancabili imitatori, come Ferdinand Zecca) erano perlopiù costituiti da un’unica inquadratura, un solo campo medio di circa un minuto, dove la macchina da presa non veniva né mossa né spostata, limitandosi a riprendere la scena in modo teatrale. Siamo dunque al grado “zero” del montaggio cinematografico. Di montaggio vero e proprio non si può parlare neanche a proposito di quei film di maggiore durata, che – come abbiamo visto – sono costituiti da più scene girate ognuna come se fosse una singola inquadratura e poi “attaccate” l’una all’altra in successione.
Gli storici del cinema sono abbastanza d’accordo nell’attribuire alla scuola inglese (nota come Scuola di Brighton) i primi significativi passi in avanti nell’ambito dell’evoluzione del montaggio; spetta soprattutto a George A. Smith, regista inglese attivo a cavallo tra i due secoli, introdurre l’utilizzo del primo piano in modo da modificare il punto di vista dello spettatore. Come vedremo, il primo piano sarà uno degli elementi fondamentali della grammatica cinematografica, tuttavia non sempre in passato fu utilizzato per scopi narrativi ben precisi (come nel caso de La grande rapina al treno di Edwin S. Porter – su cui torneremo – dove il primo piano del bandito che spara verso il pubblico poteva essere collocato indifferentemente all’inizio o alla fine del film).
Nel film del 1903 L’incidente di Mary Jane, invece, Smith utilizza il primo piano in modo da ottenere una maggiore descrizione delle azioni ed una maggiore efficacia drammatica. Nel film vediamo una maldestra casalinga, ripresa in campo medio, alle prese con una serie di operazioni domestiche; nel corso di queste azioni, Smith passa dal campo medio a piani più ravvicinati, modificando all’improvviso il punto di vista dello spettatore (ed incrementando, come dice Jurgenson, l’efficienza drammatica o comica della situazione). Pur non esistendo ancora una precisa scala dei campi e dei piani, i registi della Scuola inglese intuiscono le possibilità espressive offerte dal semplice spostamento della macchina da presa durante lo svolgersi dell’azione. Del resto il già citato montatore Jurgenson afferma, nella sua fondamentale opera Pratica del montaggio, che la nascita del montaggio cinematografico avviene nel momento in cui si è pensato di modificare il punto di vista della macchina da presa nel corso della stessa scena; di modificare cioè la sua posizione con lo scopo di descrivere al meglio l’azione o con lo scopo di avere una migliore costruzione drammatica.
Insomma, se non nasce ancora il vero e proprio montaggio cinematografico, nasce però la consapevolezza che il cinema ha qualcosa in più da offrire che la semplice ripresa di un’azione nel suo insieme. È attraverso la sperimentazione, soprattutto in Europa, che si muovono i primi passi dell’evoluzione del montaggio, ma è altrettanto vero che la professione del montatore nasce nel continente solamente verso il 1917; dunque il montaggio non è ancora una pratica ben chiara e definita, per questo il testimone della sua evoluzione passa dalle mani degli inglesi a quelle degli americani. Negli Stati Uniti, già a partire dal 1913, il ruolo del montatore cinematografico è riconosciuto al pari degli altri ruoli.
II. LA NASCITA DEL MONTAGGIO
«La questione di fondo era e rimane tutt’oggi il fatto che il giuntaggio di due riprese non rappresenta semplicemente il collegamento di due spezzoni di pellicola, ma un’autentica creazione».
di Sergej M. Ejzenštejn
Nel cosiddetto periodo di transizione fra quello primitivo (1902-1908) e quello classico (1925-1955), quindi fra il 1909 ed il 1924, il cinema americano inizia a dare corpo non solo al proprio sistema produttivo ma anche ai suoi modelli di narrazione e di montaggio. I tagli all’interno delle scene, che vengono così frammentate in diverse inquadrature, aumentano in larga misura. Nel 1915 la durata dei film arriva a settantacinque minuti; dal 1917 in poi le inquadrature vengono effettuate da diverse angolazioni, il campo medio non è considerato più importante degli altri, e si hanno in un unico film più di mille fra campi e piani.
Impossibile, per un discorso rapido ma preciso, non parlare di un regista ritenuto dalla storiografia cinematografica molto importante nell’evoluzione del montaggio cinematografico: si tratta di Edwin S. Porter, forse il più instancabile imitatore di Georges Méliès, che seppe però andare ben oltre il cinema limitato del mago francese. Infatti il merito principale di Porter sta nella sua capacità di non essersi fermato alla semplice documentazione passiva dell’avvenimento.
Con Porter si ha il primo esempio concreto di cinema narrativo: gli storici identificano questo momento della storia del cinema con il film La vita di un pompiere americano, che Porter realizza nel 1902. Porter, che copiando Méliès aveva acquisito una notevole padronanza del mezzo cinematografico, realizza questo film lontano da ogni intento meramente documentaristico, optando per un film di finzione con sviluppi drammatici e narrativi. Infatti la grande innovazione apportata da Porter, nel descrivere un normale intervento dei pompieri, sta nell’aver inserito queste immagini documentaristiche all’interno di una “storia” (quella di una madre e di un bambino che, avvolti dalle fiamme, saranno salvati dopo una scena di forte impatto drammatico).
L’alternanza della scene tra realtà e finzione, in interni e in esterni, l’inserimento di qualche piano ravvicinato (come quello della sirena dei pompieri), ed un montaggio molto semplice ma efficace, fanno di questo piccolo film una tappa importante nell’evoluzione del montaggio cinematografico. Certo, non siamo ancora all’utilizzo delle inquadrature in funzione narrativa (poiché anche Porter si rifugia perlopiù nell’utilizzo di campi medi in modo da riprendere l’azione sempre da una certa distanza), tuttavia si hanno già i primi significativi segnali di un cinema che mira – in quanto mezzo sostanzialmente dipendente dalle altre arti – ad ottenere un’identità propria.
Un discorso diverso va fatto per il successivo film di Porter, La grande rapina al treno (1903), in cui il regista abbandona ogni intento documentaristico a favore di una maggior attenzione alle nuove regole del romanzo cinematografico. Anche in questo breve film si parte da un fatto di cronaca quotidiana – la rapina al treno ad opera di alcuni banditi – per colpire la sensibilità dello spettatore più che per descrivere semplicemente una serie di fatti oggettivi. Porter, anche in questo film, non usa angolazioni particolari della macchina da presa, né utilizza un’alternanza significativa fra campi e piani; occorre però soffermarsi su un particolare sicuramente non trascurabile: il primo piano del bandito che spara in direzione del pubblico a conclusione del film.
Nonostante in passato si sia cercato di attribuire una funzione narrativa a questa inquadratura, la lettura del catalogo della Edison riporta una brillante illuminazione: «Scena 14: un primo piano di Barnes che guarda e spara sul pubblico. L’impressione è notevole. Questa scena può essere messa all’inizio o alla fine del film». Ciò significa che la drammaticità dell’immagine ingrandita del fuorilegge serviva, in prima istanza, ad ottenere un effetto drammatico sullo spettatore che lo predisponesse alla visione, oppure che lasciasse in lui una particolare impressione dopo la visione del film. Quindi l’utilizzo del primo piano non avviene ancora in funzione della narrazione; si tratta però di un’attesa piuttosto breve, perché di lì a poco il montaggio raggiungerà la prima tappa della sua piena maturità. L’esame dell’opera di un autore come David W. Griffith ci permetterà, in questo nostro rapido exploit, di comprendere uno dei punti d’arrivo dell’evoluzione del montaggio cinematografico.
Il fatto che gli storici e gli studiosi del cinema stravedano per l’opera di David W. Griffith non ci sorprende affatto; di lui si è detto moltissimo nel corso degli ultimi ottant’anni: regista di grande talento, grande direttore di attori, straordinario inventore del montaggio narrativo. Insomma, i film di Griffith sono considerati i primi veri capitoli d’una storia del cinema come arte. Naturalmente ciò che a noi interessa di più sono le fondamentali novità che Griffith apporta al linguaggio cinematografico attraverso la pratica del montaggio.
Partiamo dalla considerazione fatta da Karel Reisz e Gavin Millar sulle pagine del loro indispensabile manuale La tecnica del montaggio cinematografico: Edwin S. Porter, modificando il metodo della continuità dell’azione, mostrò la via per sviluppare la narrazione con il mezzo filmico; egli aveva limitate possibilità di controllo delle inquadrature, e gli avvenimenti venivano ripresi in modo non selettivo da una distanza sempre fissa. La scoperta essenziale di Griffith è stata quella di comprendere la necessità di spezzare la scena in diverse inquadrature incomplete, scelte e poi ordinate esclusivamente in funzione drammatica. Diciamo allora che, mentre la cinepresa di Porter riprendeva la scena sempre in totale o in campo medio, Griffith dimostrò che la macchina da presa poteva avere un ruolo attivo nella narrazione. Frantumando l’avvenimento in diverse angolazioni, ognuna capace di riprendere l’azione dalla posizione più adatta, si poteva modificare anche l’importanza di ogni singola inquadratura.
Questa, in breve, la scoperta essenziale di Griffith. Ma restiamo ancora sul manuale di Reisz e Millar per approfondire un po’ i diversi passaggi: in un film fondamentale come La nascita di una nazione, realizzato nel 1914, Griffith raggiunge oramai la sua piena maturità espressiva, anche dal punto di vista del montaggio. Il film narra una vicenda che, realizzata da Porter, si sarebbe risolta in una dozzina di inquadrature: il presidente Lincoln viene ucciso a teatro mentre la sua guardia del corpo si è allontanata irresponsabilmente. Ma a Griffith non interessa la semplice riproduzione del fatto, egli costruisce la sua storia attorno a tutti i personaggi che compongono il film; quando, allora, il montaggio diviene alternato (ed anche parallelo), saltando dalla vicenda di un personaggio a quella di un altro personaggio, il principio di continuità introdotto da Porter non viene tradito, poiché noi spettatori sappiamo benissimo che tutti i personaggi sono contemporaneamente presenti nella medesima scena.
Tuttavia i motivi per cui, sia Porter che Griffith, frantumano la scena in diverse inquadrature sono molto diversi, e questa differenza assume un rilievo principale: mentre Porter staccava da un’immagine all’altra per motivi fisici (per esempio non era possibile mostrare tutti gli avvenimenti nella medesima inquadratura), Griffith non permette mai all’azione di proseguire ininterrotta: egli cambia il punto di vista dell’azione non per ragioni pratiche, bensì per ragioni drammatiche. Lo fa perché vuole mostrare allo spettatore un particolare che, in quel determinato momento dell’azione, ha un significato rilevante nell’intreccio drammatico. In questo modo il regista ha più possibilità di orientare le reazioni degli spettatori, in quanto egli sceglie ciò che in quella particolare circostanza vuole che lo spettatore veda.
L’altro grande merito che va riconosciuto a Griffith è quello di aver introdotto l’utilizzo del primo piano in funzione esclusivamente narrativa. Egli comprese fin da subito le potenzialità offerte dalla possibilità di avvicinare la macchina da presa al viso dell’attore, cogliendone la sofferenza, le emozioni, le reazioni ad un preciso evento; sarebbe tuttavia inutile ridurre ad un solo esempio l’uso che Griffith fa dei primi piani: basti pensare che il primo piano è forse una delle inquadrature fondamentali di tutto il cinema successivo, e che fu Griffith il primo ad intuirne un utilizzo in funzione drammatica.
Siamo allora giunti ad individuare la prima tappa fondamentale del montaggio cinematografico nella storia della sua evoluzione. Finalmente il montaggio è una pratica riconosciuta e, da questo momento in poi, verrà considerato l’elemento specifico del linguaggio cinematografico, la sua quintessenza. Non si tratta solo di un momento che definisce una volta per tutte come il cinema sia sostanzialmente un’arte indipendente dalle altre, ma di un vero e proprio punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo dell’arte cinematografica.
Con Griffith, ed in parte anche con le esperienze dei primi pionieri, il montaggio cinematografico assume le fattezze che oggi noi conosciamo bene. Siamo ancora lontani dalle diverse forme di montaggio (che si configureranno di lì a poco soprattutto grazie all’intervento dei cosiddetti “formalisti” russi), ma anche dal raffinato e scrupoloso montaggio invisibile imposto, attraverso il découpage classico, dal nascente impero hollywoodiano. Tuttavia esiste già ogni elemento costitutivo del montaggio che appare indispensabile per un film narrativo: la scala dei campi e dei piani, le dissolvenze al nero ed incrociate, il flashback e le ellissi. A questo punto, allora, possiamo approfondire che cos’è il montaggio cinematografico alla luce di quanto detto, cercando soprattutto di coglierne gli aspetti fondamentali del suo essere “meccanismo per produrre senso”.
Tecnicamente parlando, il montaggio è quell’operazione che consiste nell’unire la fine di un’inquadratura con l’inizio della successiva; se per il montatore questa operazione può essere considerata il momento in cui si costruisce il senso del film, per lo spettatore essa si traduce in quello che possiamo definire l’effetto montaggio, ovvero il passaggio da un’immagine A ad un’immagine B. Montare un film, allora, significa innanzitutto mettere in relazione due o più elementi fra loro (funzione connettiva), sia sul piano diegetico (il personaggio dell’inquadratura A con quello dell’inquadratura B), sia su quello discorsivo (l’angolazione dall’alto nell’inquadratura A e quella dal basso nell’inquadratura B), sia infine sul piano diegetico-discorsivo (Il personaggio ripresa dall’alto in A con quello ripreso dal basso in B). Dunque unire due inquadrature tra loro è molto di più di un semplice fatto tecnico: questa operazione può avere diverse funzioni narrative, semantiche o estetiche.
Nel corso della sua evoluzione il linguaggio cinematografico ha imparato, attraverso il montaggio, a scomporre lo spazio diegetico in diverse unità capaci di evidenziare i momenti essenziali nello sviluppo del racconto; un discorso analogo può essere fatto anche per l’asse temporale: il montaggio, allora, assume anche il compito di selezionare quei momenti della narrazione che sono più importanti di altri, e di confinare questi ultimi nel vuoto delle ellissi. Dunque il montaggio diviene lo strumento attraverso il quale l’istanza narrante seleziona il punto di vista attraverso il quale osservare l’evento, ma anche lo strumento con il quale essa costruisce il proprio racconto. Vediamo meglio questi due aspetti, ovvero come il montaggio organizza lo spazio ed il tempo del racconto.
Facendo riferimento al Manuale del Film di Gianni Rondolino e Dario Tomasi, è possibile comprendere facilmente questa duplice funzione del montaggio cinematografico: per quanto riguarda lo spazio, attraverso il montaggio il cinema trasforma lo spazio diegetico in uno spazio filmico; esiste quindi un ambiente (spazio diegetico) ed una rappresentazione di questo ambiente attraverso una successione di diverse inquadrature scelte e organizzate dall’istanza narrante (spazio filmico). Esistono due modi per dare vita ad una rappresentazione filmica di uno spazio diegetico: la prima si ha quando ad un piano d’insieme dell’ambiente (campo medio o totale) seguono diverse inquadrature che lo scompongono in tanti frammenti comunque presenti nel piano d’insieme; la seconda, invece, si ha quando lo spazio d’insieme viene costruito attraverso diverse inquadrature parziali che non ci mostrano mai lo spazio diegetico nella sua globalità. Nel primo caso il montaggio scompone un qualcosa di intero, nel secondo caso costruisce quel qualcosa.
Se si è insistito molto su questa componente fondamentale del montaggio cinematografico lo si è fatto perché questo gioco di segmentazione dello spazio – da cui deriva l’espressione découpage tecnico (si tratta dell’ultima fase letteraria prima dell’inizio delle riprese, ovvero di una sceneggiatura “tecnica” sulla quale il regista appunta tutte le inquadrature, indicate da un numero progressivo, nonché i suoni ed i rumori che comporranno ogni singola scena) – è praticamente assente nel cinema primitivo. Si tratta quindi di un momento chiave nell’evoluzione del montaggio, anche se occorre ancora soffermarsi sulla seconda questione: quella del tempo filmico.
Per quanto riguarda il tempo, il montaggio è il mezzo che, innanzitutto, decide la durata di ogni singolo campo e piano; attraverso questa operazione, il regista impone allo spettatore un tempo preciso per “leggere” una determinata inquadratura. Esiste un criterio generale per definire la durata delle inquadrature: poiché un campo lungo contiene molte più informazioni di un primo piano, la regola base è che il primo duri di più del secondo; naturalmente però si tratta di un’affermazione un po’ approssimativa, visto che spesso interviene la soggettività dell’autore che può modificare in modo anche sostanziale la durata delle singole inquadrature.
La questione del rapporto fra il tempo ed il montaggio si estende poi dal livello dell’inquadratura al livello del film nelle sue complesse articolazioni. Il montaggio è lo strumento che permette di stabilire il rapporto fra l’ordine degli eventi previsto dalla fabula e l’ordine degli eventi previsto dall’intreccio. Come sappiamo, l’esposizione degli eventi non deve necessariamente seguire l’ordine cronologico degli stessi, in quanto è possibile ottenere degli effetti assolutamente efficaci attraverso una narrazione ad incastro. Il montaggio permette questo tipo di narrazione grazie all’utilizzo, appunto, di espedienti come le ellissi, il flashback ed il flashforward.
Giunti a questo punto del nostro percorso è possibile mettere un po’ d’ordine fra i dati finora accumulati; cerchiamo di trarre delle conclusioni dopo questa breve analisi dell’evoluzione del montaggio nei primi vent’anni della sua storia. La prima cosa che appare evidente, dopo aver sottolineato l’importanza di registi come Porter e Griffith nell’affermarsi del montaggio narrativo, è che ci sono alcune forme di montaggio finalmente ben definite. Certo ancora dobbiamo arrivare al momento forse più importante di questo discorso sul montaggio nel cinema muto (ovvero la “rivoluzione” dei maestri russi), tuttavia mi pare di poter dire che ci sono già dei modelli di montaggio ben definiti sui quali occorre soffermarsi.
La convinzione che il montaggio sia una delle fasi più importanti e delicate nella realizzazione di un film ha portato alcuni studiosi a teorizzare alcune forme di montaggio ben precise che è possibile rintracciare già negli anni che a noi interessano. La prima di queste forme di montaggio, che è possibile delineare soprattutto grazie a Griffith, è il montaggio alternato: questo sintagma alterna le inquadrature di due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi ma, molto spesso, simultaneamente. Dal punto di vista narrativo, il montaggio alternato permette all’istanza narrante di mostrare allo spettatore due o più eventi che accadono contemporaneamente ed in diversi luoghi, conferendogli più informazioni di quelle che gli stessi personaggi hanno.
Il secondo “tipo” di montaggio che possiamo prendere in considerazione è il montaggio ellittico: nel cinema le ellissi sono fondamentali, poiché – a meno che non si voglia riprodurre un evento in tempo reale – le storie che si raccontano difficilmente rientrerebbero in un massimo di due o tre ore di proiezione. Il montaggio ellittico è allora un montaggio di contrazione temporale che omette il superfluo oppure ciò che non si vuole mostrare allo spettatore; l’ellisse può manifestarsi sotto diverse forme, come alcuni tipi di punteggiatura molto utilizzati nel cinema muto (fondù in chiusura o in apertura, tendine, iris ecc.).
Dunque queste due tipologie di montaggio possono essere considerate un po’ il punto di arrivo di tutte le attività pionieristiche fin qui trattate, ad eccezione degli straordinari risultati raggiunti da David W. Griffith. Il cinema acquisisce coscienza di sé e dei propri mezzi proprio grazie alle possibilità che gli offre il montaggio. Se oggi ci sono altre forme di spettacolo e di intrattenimento che lo utilizzano a loro volta (video-clip, video games, computer grafica), ai tempi del cinema muto il montaggio era un procedimento che riguardava solo il cinema e che, quindi, lo differenziava nettamente dalle altre arti.
Tuttavia, dagli anni venti agli anni trenta, il montaggio sarà più che mai oggetto d’analisi teorica e di sperimentazione empirica. Dobbiamo ora esaminare tutte le altre forme di montaggio che, prima dell’avvento del sonoro (che, come si sa, modificherà in modo significativo i metodi di produzione e di fruizione del film), influenzeranno decisivamente gli ultimi dieci anni di vita del grande cinema muto. Se è vero che le teorie elaborate in questa direzione andranno incontro ad un rapido declino nel momento stesso in cui il film rivede il suo statuto grazie all’avvento del sonoro, è anche vero che parecchie di queste tipologie di montaggio (specie il lavoro teorico/pratico di Ejzenštejn) influenzeranno notevolmente il montaggio cinematografico nell’era del “post découpage classico”.
III. 1923-1930: FORME, FUNZIONI E IDEOLOGIE DEL MONTAGGIO
«Ancora un volta ripeto che il montaggio è la forza creativa della realtà filmica e che la natura fornisce solo la materia prima sulla quale essa agisce. Questa è esattamente la relazione esistente tra il montaggio e il film».
di Vsevolod Pudovkin
Abbiamo visto come il montaggio sia una pratica, ed una tecnica, oramai largamente diffusa fra i cineasti del cinema muto. Prima di iniziare il discorso sui contributi del cinema sovietico al montaggio cinematografico, occorre precisare che nel frattempo la produzione di film continua a definire un po’ in tutto il mondo diversi modi di intendere l’arte cinematografica. Infatti ogni paese, ed ogni regista, realizza un determinato numero di film a partire dal contesto artistico, culturale e sociale (ma anche economico) in cui la pratica cinematografica prende forma. Quindi avremo una quantità di film anche molto diversi tra loro, non solo sul piano dei temi e dei contenuti, ma anche su quello – in questa sede ben più importante – dell’utilizzo del mezzo espressivo, dei modi e delle forme con cui viene portata avanti la narrazione. Si pensi, per esempio, alle “modifiche” apportate dalle avanguardie storiche (come il surrealismo o l’espressionismo) al modo di concepire e di realizzare i film, che sicuramente risultava un prodotto ben diverso da quello di altre cinematografie minori.
Comunque, se noi preferiamo concentrare la nostra attenzione sulle avanguardie russe, e sulle personalità che in quegli anni si (pre)occupano di teorizzare le diverse forme di montaggio, è perché riteniamo che l’ultimo decennio del cinema muto sia profondamente influenzato da quel modo sostanzialmente nuovo di intendere il cinema, ed anche perché – come forse abbiamo già accennato nel precedente paragrafo – ancora oggi è possibile rintracciare il grande patrimonio teorico che i registi russi hanno lasciato in eredità al cinema moderno.
Gli scritti teorici dei maestri russi appartengono a due scuole distinte: da un lato abbiamo le ricerche di Vsevolod Pudovkin e Lev Kulesov, riassunte successivamente nel libro di Pudovkin La settima arte; dall’altro gli scritti ostici e straordinariamente dettagliati di Sergej M. Ejzenštejn. Se a questi nomi aggiungiamo l’attività, soprattutto pratica, di un’altra personalità molto importante del cinema russo, Dziga Vertov, possiamo iniziare ad inquadrare meglio l’attività teorico/pratica svolta dai registi russi.
Innanzitutto va precisata una cosa molto importante: i maestri russi si preoccupano per primi di lanciare una vera e propria teoria del cinema, cosa che invece Griffith non aveva mai tentato di fare; in secondo luogo, vista la situazione generale del cinema sovietico nei primi venti anni di storia, appare evidente il loro bisogno di avviare un progetto ben preciso capace di favorire lo sviluppo concreto di una valida cinematografia nazionale. Completiamo il quadro aggiungendo che il mezzo cinematografico fu inteso, dai registi russi, come un mezzo fortemente rivoluzionario: non solo perché innovativo, ma soprattutto perché capace di diffondere gli ideali del socialismo.
Tutto comincia con i primi cinegiornali (Kinopravda) realizzati da Dziga Vertov all’inizio degli anni venti; si tratta di opere perlopiù dedicate alla propaganda e alla diffusione delle notizie di cronaca, eppure già in questi primi esperimenti il regista russo riesce a mettere in evidenza la sua volontà di coniugare la realtà quotidiana, colta nelle sue componenti naturali, ad un procedimento artificiale come il montaggio. L’interesse per la sua opera, e soprattutto per il suo film di montaggio L’uomo con la macchina da presa, sta proprio in questo rapporto tra la natura documentaristica del materiale girato (realizzato sempre lontano dai teatri di posa) e l’artificio del procedimento di organizzazione attraverso il montaggio. In questo caso, il montaggio delle immagini diviene addirittura centrale: Vertov si preoccupa non solo di mostrare le attuali potenzialità del mezzo cinematografico e del suo elemento specifico, ma anche di sperimentare diversi tipologie di organizzazione ritmica del materiale attraverso un montaggio che ancora oggi stupisce per l’efficacia. Possiamo allora considerare il suo film sopra citato, che tra le altre cose è completamente privo di didascalie, una sorta di saggio metacinematografico in cui è il cinema stesso ad interrogarsi sul proprio linguaggio.
Tuttavia, soprattutto nei primi anni della loro attività, i maestri russi realizzano perlopiù dei contributi teorici di grande importanza, che – da un lato – mettono in evidenza la loro volontà di conoscere e padroneggiare il mezzo cinematografico, dall’altro giustificano il loro imminente debutto nella regia. Cercando di proseguire in modo lineare nel nostro discorso, è forse opportuno fare un passo indietro e tornare a quella distinzione iniziale fra due diverse “scuole” lungo le quali si sviluppa il cinema sovietico nel decennio che va dal 1920 al 1930. Come abbiamo già detto, troviamo da una parte l’attività di ricerca teorica capitanata da Lev Kulesov (e costantemente assistita dal lavoro teorico e pratico di Pudovkin), dall’altra parte l’attività straordinariamente proficua di Ejzenštejn. Cominciamo dagli importanti esperimenti svolti da Kulesov e Pudovkin in merito alla convinzione che il montaggio assume il compito, nella costruzione di un film, di produrre senso.
Nel già citato libro di Pudovkin La settima arte, egli ricorda come andò uno dei più significativi esperimenti svolti da Kulesov all’inizio della sua carriera: si trattò di scegliere alcuni primi piani di un celebre attore che fossero particolarmente statici e privi di ogni qualsivoglia sentimento; subito dopo si unirono questi primi piani, del tutto simili tra loro, con altrettanti spezzoni di pellicola in diverse combinazioni. Kulesov e Pudovkin ottennero così tre brevi filmati composti da due inquadrature ciascuno: nel primo caso la figura dell’attore era seguita dall’immagine di un piatto di minestra; nel secondo caso era seguita dal cadavere di una donna, e nel terzo caso il primo piano dell’attore era seguito da una bambina che giocava con un buffo orsacchiotto. L’esperimento prevedeva che questi tre brevi filmati venissero mostrati ad un pubblico inconsapevole. L’affermazione di Pudovkin sul risultato ottenuto appare addirittura sconvolgente: il pubblico era in delirio dinanzi alle straordinarie qualità dell’attore, ora capace di osservare con straordinaria intensità il piatto di minestra, ora di esternare il suo dispiacere per la morte della donna, ora di sorridere intensamente dinanzi ai movimenti divertenti della bimba. Ma Pudovkin e Kulesov sapevano perfettamente che in tutti e tre i casi l’espressione dell’attore era la stessa.
In realtà non sapremo mai se le cose andarono così per davvero, tuttavia l’importanza di un esperimento di questo tipo sta nel formidabile lavoro teorico che ne seguì: il montaggio, a questo punto della sua evoluzione, diviene la parola chiave del fatto cinematografico; anzi, preso di per sé – senza il fondamentale ricorso al montaggio – il cinema non ha alcun senso.
Queste considerazioni sono giustificate da quello che venne definito, proprio grazie a questo esperimento, L’effetto Kulesov: l’associazione dell’immagine A con l’immagine B produce un senso diverso da quello che le due immagini produrrebbero prese di per sé; quindi, unire l’immagine A all’immagine B, fa sì che la prima venga letta in modo diverso dallo spettatore. Grazie a questa sua capacità fondamentale, il montaggio cinematografico si caratterizza per la sua funzione di produzione del senso.
A questo punto cerchiamo di addentrarci un po’ di più nel discorso sulle forme, le funzioni e le ideologie del montaggio nella pratica cinematografica dei registi sovietici. Conviene partire da Vsevolod Pudovkin e da quella tipologia di montaggio che egli stesso definisce montaggio costruttivo. Dominique Villain, nel suo libro Il montaggio al cinema, riconosce a Pudovkin il merito di aver teorizzato per primo l’opera di David W. Griffith: infatti, mentre quest’ultimo si accontentava di risolvere i problemi pratici che di volta in volta si presentavano, Pudovkin formulava una teoria del montaggio che si basava di gran lunga sul lavoro pratico svolto dal regista americano.
Nasce così, da una base pratica altrui, la convinzione da parte di Pudovkin che il regista possiede una quantità di materiale grezzo (i pezzi di pellicola impressionata) con i quali deve costruire l’immagine che forma la rappresentazione filmica; egli infatti non dispone della realtà, ma solamente di un supporto di celluloide dove quella realtà è stata registrata. Durante il montaggio questi spezzoni di pellicola vengono sottoposti alla volontà del regista, che compone la realtà filmica eliminando tutti quegli intervalli che non permettono all’azione di rientrare nel tempo previsto e nello spazio previsto.
Questo, in breve, il principio che venne definito da Pudovkin con l’espressione montaggio costruttivo. Il regista, che dispone di una certa quantità di pellicola su cui sono registrate le singole parti dell’azione, opera attraverso la selezione e l’eliminazione di questi spezzoni. Egli, cioè, stabilisce quali sono i materiali necessari per costruire la rappresentazione filmica dell’azione ripresa.
Questo concetto di eliminazione di alcuni pezzi di pellicola può essere meglio compreso in base ad un esempio riportato nel più volte citato manuale La tecnica del montaggio cinematografico: Pudovkin afferma che, per mostrare sullo schermo un uomo che si getta dalla finestra e che cade sull’asfalto, si possono organizzare le riprese in modo da riprendere quest’azione in due inquadrature. La prima ci mostra l’uomo gettarsi dalla finestra (senza però mostrarci la rete che lo salva), la seconda ci mostra l’uomo cadere in terra (gettandosi però da un’altezza limitata). L’effetto ottenuto montando queste due riprese è notevole; della caduta vera e propria ci vengono mostrati solo due punti, l’inizio e la fine. La traiettoria intermedia viene quindi eliminata. Secondo Pudovkin non si tratta di un trucco, bensì di un metodo di rappresentazione filmica che corrisponde esattamente a quanto avviene in teatro quando tra un atto e l’altro passano alcuni anni.
Fin qui, comunque, Pudovkin si limita a teorizzare quanto il suo collega americano Griffith aveva messo in pratica. Tuttavia egli sente presto la necessità di andare oltre, di confrontarsi con la pratica. Possiamo allora dire che un’importante spinta in avanti il suo lavoro teorico la ottiene dall’esperienza che egli farà come regista. Kulesov scoprì che due inquadrature, contrapposte in modo esatto, potevano produrre dei significati diversi: la conclusione fu che l’arte cinematografica non nasce al momento delle riprese, bensì nel momento stesso in cui il regista comincia a combinare insieme le varie inquadrature per produrre dei significati.
Naturalmente queste considerazioni, come già accennato in precedenza, trovarono ampio riscontro nei film realizzati da Pudovkin in quegli stessi anni. Se confrontassimo i suoi lavori con quelli di Griffith, non potremmo che notare una differenza abbastanza significativa: mentre nei film di Griffith l’elemento narrativo viene comunicato agli spettatori attraverso il comportamento e i gesti
dell’attore, Pudovkin costruisce le sue scene a partire da una serie di inquadrature precedentemente pianificate e poi accuratamente contrapposte. Ecco perché per la maggior parte dei registi russi è importante effettuare le riprese del film con il costante sussidio di una sceneggiatura di ferro (espressione con la quale si intende un découpage tecnico assolutamente dettagliato e preciso).
Uno dei risultati più efficaci raggiunti da Pudovkin attraverso il montaggio fu la scena – all’interno del film La madre – in cui il figlio, chiuso in una cella, riceve un biglietto con cui gli si annuncia che il giorno dopo verrà liberato. Il problema era quello di esprimere la gioia del personaggio senza ricorrere ad espedienti troppo banali come il viso dell’attore che si riempie di gioia; Pudovkin allora pensò di mostrare un particolare dei movimenti nervosi delle mani ed un dettaglio del sorriso del giovane. Tra queste due inquadrature, però, Pudovkin decise di inserire diverse inquadrature contrapposte: un ruscello primaverile, i riflessi del sole sull’acqua, degli uccelli che si posano ai bordi dello stagno e, infine, un bambino che ride. Unendo tutte queste inquadrature, Pudovkin ottenne l’espressione di gioia del prigioniero.
Dunque abbiamo visto come anche il punto di arrivo del montaggio in Griffith conosce una fase successiva di approfondimento. La grande attività teorica e pratica svolta da Kulesov e Pudovkin (ma anche da Vertov) raggiunge dei riscontri concreti che ci confermano come, a questo punto cruciale della sua evoluzione, l’arte del montaggio cinematografico abbia ancora molto da offrire. Infatti, come fin dall’inizio avevamo intuito, è impossibile proseguire il nostro discorso – che per la verità si avvia di già verso la sua conclusione – senza soffermarci su una personalità centrale nella storia dell’evoluzione del montaggio nel cinema muto (e poi anche sonoro). Si tratta di un’intellettuale che, come dice il teorico Jacques Aumont, resta una figura impressionante nella storia del cinema per la sua intelligenza e per la sua cultura; ovviamente stiamo parlando di Sergej M. Ejzenštejn.
Una cosa è certa: parlare di Ejzenštejn può farci sentire un po’ in imbarazzo, visto che egli è divenuto fin troppo presto un mito per gli storici e gli studiosi del cinema; noi cercheremo, pur con i nostri evidenti limiti, di mettere in evidenza soprattutto come la sua attività di teorico e regista ha contribuito all’evoluzione del montaggio cinematografico nell’epoca del cinema muto.
Per comprendere il fondamentale contributo di Ejzenštejn al montaggio è necessaria la lettura di almeno due testi fondamentali oggi in circolazione: La teoria generale del montaggio e Il montaggio. Nel saggio introduttivo al secondo volume citato, Jacques Aumont parla di Ejzenštejn come di una personalità più nota che conosciuta, la cui storia bisogna sempre intenderla in duplice modo: da un lato abbiamo la storia di uno straordinario cineasta che non riusciva a fare film e che, quando li faceva, venivano distrutti, rimontati, nascosti o proibiti. Dall’altro lato abbiamo l’attività teorica di uno scrittore autodidatta (al pari del cineasta), che risulta molto prolisso, ripetitivo, noioso e mai in grado di giungere ad una teoria definitiva. Infatti, come è ben noto, Ejzenštejn preferiva sempre elaborare una nuova teoria piuttosto che approfondirne una precedente.
Tuttavia a noi sembra che esista un termine che attraversa tutta la travagliata carriera del regista russo: si tratta del termine montaggio (che per Ejzenštejn è assolutamente fondamentale), e a ben vedere è anche l’unico, visto che l’altro termine spesso chiamato in causa, il conflitto, finirà anch’esso con lo sparire dagli anni trenta in poi. Cerchiamo allora, non con qualche difficoltà, di trovare un modo per iniziare: abbiamo parlato di metodi di montaggio, delle funzioni e delle ideologie che essi ricoprono; bene, in questo senso siamo quasi obbligati a tirare in ballo l’attività teorica e pratica di Ejzenštejn sul montaggio. Dopo aver osservato il montaggio costruttivo di Pudovkin e Kulesov, passiamo ora all’altro grande sintagma di quegli anni: il montaggio intellettuale (noto anche come montaggio connotativo).
Partiamo dalle considerazioni dello stesso Ejzenštejn sul lavoro teorico svolto da Kulesov e Pudovkin: innanzitutto, il cinema è per sua natura basato sul montaggio perché, al pari di altre forme di comunicazione, esso opera attraverso una serie di elementi il cui significato non è dato dalla loro somma bensì dal prodotto risultante (L’esempio fatto da Ejzenštejn è quello dei geroglifici: una bocca più un cane significa abbaiare, una bocca ed un bambino significa urlare, un coltello ed un cuore significa tristezza e così via; lo stesso vale per il cinema, quindi Ejzenštejn condivide l’effetto Kulesov, per il quale due immagini messe insieme producono un senso diverso da quello che ognuna possiede di per sé). Nel cinema questa possibilità è offerta solamente dal montaggio, che si pone dunque come l’elemento indispensabile per produrre senso.
Secondo Kulesov, ed il suo allievo prediletto Pudovkin, essendo ogni singola inquadratura un elemento del montaggio, il montaggio è a sua volta un insieme di elementi; Ejzenštejn non è d’accordo, poiché per lui l’inquadratura è una cellula del montaggio, è qualcosa in più di un semplice elemento costitutivo. Ciò che, di conseguenza, caratterizza sia il montaggio cinematografico che la singola cellula (l’inquadratura) è il conflitto, la collisione fra due diverse inquadrature o all’interno della medesima inquadratura. Kulesov sosteneva che il montaggio è una concatenzaione di singoli pezzi-inquadrature, una specie di catena composta da diversi “mattoncini”; i mattoncini, che vengono posti uno di seguito all’altro, espongono un pensiero. Ejzenštejn contrappone a questa visione del montaggio, dedotta da Kulesov, il concetto di conflitto: quando due dati entrano in collisione si produce un pensiero.
Questa sua convinzione, probabilmente, Ejzenštejn la ricava da una personale (e giusta) rielaborazione del fenomeni PHI, ovvero di quel fenomeno di permanenza ottica dell’immagine che permette l’illusione del movimento dinanzi ad una proiezione cinematografica. Secondo lui, infatti, questa illusione di movimento non è data dalla successione dei singoli fotogrammi, né dalla velocità della loro successione; infatti avviene qualcosa di diverso: anziché percepire il movimento attraverso la visione di due immagini diverse in successione, tutto nasce dalla non corrispondenza (dal contrasto, dal conflitto, dalla collisione) di due immagini che si sovrappongono nel nostro cervello. Quindi la questione del montaggio si pone proprio alla base dei fenomeni percettivi della proiezione cinematografica.
Detto questo, cerchiamo di definire meglio come si configura il montaggio cinematografico nel lavoro proficuo di Ejzenštejn: innanzitutto la prima cosa importante da precisare è che per Ejzenštejn la riproduzione filmica della realtà non suscita di per sé particolare interesse; interessante, invece, è il senso che ad essa si può attribuire attraverso una sua interpretazione. Il cinema, quindi, non può limitarsi a riprodurre la realtà, poiché è solamente attraverso una sua interpretazione che esso può costituirsi come un discorso articolato. Il montaggio, allora, diviene lo strumento indispensabile per poter effettuare questa interpretazione, questa costruzione del senso.
Il montaggio, pertanto, si configura come produttore del senso: questa teoria, basata però sul “conflitto” (a differenza della teoria di Kulesov e Pudovkin), affonda le proprie radici in una delle elaborazioni teoriche più importanti fatte da Ejzenštejn: il montaggio delle attrazioni. Non ci sembra questa la sede più adatta ad approfondire questo discorso che, come si sa, attiene perlopiù al teatro; tuttavia, anche in questo caso – sia che si tratti della recitazione di un attore teatrale, sia che si tratti del montaggio cinematografico – il comune denominatore rimane sempre il termine conflitto.
Alla base dell’intera concezione che Ejzenštejn ha del cinema c’è dunque il termine conflitto, la collisione tra due inquadrature poste l’una accanto all’altra. Questo conflitto può darsi sia fra due diverse inquadrature, sia all’interno della medesima inquadratura. Ejzenštejn individua diversi tipi di conflitti che intervengono nel montaggio di un film: si parte dai conflitti più semplici (come quelli fra due piani o campi) fino ad arrivare a conflitti più o meno complessi (dei volumi, delle masse, degli spazi ecc.); per quanto riguarda il conflitto presente all’interno di un’unica inquadratura, Ejzenštejn riporta l’esempio della profondità di campo, dell’orientamento grafico divergente, delle parti chiare e scure e così via.
Da queste, e molte altre, considerazioni nasce il montaggio connotativo voluto da Ejzenštejn: il carattere fortemente connotativo del montaggio sta nel fatto che il segno cinematografico, al pari di quello teatrale, non è mai un segno d’oggetto poiché rimanda sempre ad un significato ulteriore; quindi è sempre segno di segno d’oggetto. Il montaggio intellettuale di Ejzenštejn si presenta, allora, come un montaggio fortemente simbolico. Un esempio da produrre immediatamente proviene dal film Ottobre (1927), in cui vi è la celebre sequenza del “pavone meccanico” che accompagna l’ingresso di Kerenskij nella sala del trono degli Zar; lo scopo che Ejzenštejn vuole ottenere è quello di dimostrare l’assoluta lontananza di Kerenskij dai veri ideali rivoluzionari ed il suo rapporto di sostanziale continuità con il regime zarista. Per ottenere ciò, Ejzenštejn ricorre al montaggio connotativo che si concretizza in almeno quattro modi diversi di rappresentare l’azione; quello che più ci interessa è il ricorso ai cosiddetti inserti non-diegetici. È il caso del pavone meccanico che, dopo una serie di inquadrature, aprirà la coda ruotando su se stesso, proprio mentre Kerenskij entra nella grandiosa sala dello Zar. Questa associazione, creata abilmente da Ejzenštejn, permette di esplicitare al meglio il “pavoneggiarsi” del personaggio al momento di prendere il potere. Subito dopo siamo al “climax” dell’intera sequenza (preparato dalla sequenza del pavone), che Ejzenštejn mostra facendo rivedere allo spettatore, per ben quattro volte e da diverse angolazioni, la porta della stanza reale che viene aperta da Kerenskij.
Un montaggio più strettamente simbolico è possibile rintracciarlo nel film forse più famoso di Ejzenštejn, La corazzata Potemkin (1926). In una delle sequenze più memorabili del film, quella della “scalinata di Odessa”, lo spettatore assiste al rapido montaggio di tre inquadrature riguardanti un leone di pietra che si alza e “risponde” al grido rivoluzionario; lo studioso italiano Galvano Della Volpe, nel suo saggio sul cinema Il verosimile filmico, nota come una sequenza di questo tipo sia fortemente portatrice di simboli e di idee astratte almeno quanto l’immagine verbale o letteraria. Allora noi spettatori possiamo leggere questa sequenza non “verosimile” come una protesta ideologica al bagno di sangue sulla scalinata di Odessa.
Naturalmente non è possibile trattare in questa sede i numerosi contributi teorici, ma soprattutto pratici, che Ejzenštejn ci ha lasciato; non è possibile per almeno due motivi fondamentali: il primo, più oggettivo, è che la complessità dell’oggetto di studio ci rende assai difficile il compito; il secondo, più banale, è che probabilmente occorrerebbe dedicare alle teorie sul montaggio di Ejzenštejn un’intera tesina di chissà quante pagine. E forse neanche questo gli renderebbe giustizia. Si è comunque deciso di approfondire questo argomento attraverso la lettura della fondamentale raccolta di saggi Il montaggio, in modo da essere più precisi in merito a quanto, fino ad ora, abbiamo tralasciato. Ejzenštejn resta l’autore che forse più di tutti si è dedicato alla teoria del montaggio cinematografico, e che più di tutti ha combattuto per rivendicarne l’assoluta centralità nel processo di produzione del film; o, per lo meno, così è stato per tutto il periodo del cinema muto. Infatti, crediamo che sia importante ricordarlo, a partire dall’avvento del sonoro (innovazione che Ejzenštejn, inizialmente, non condivide), egli considererà il montaggio solamente uno degli elementi che compongono il film, la cui importanza non è superiore alle altre fasi. Tuttavia, visti gli eccellenti risultati raggiunti da Ejzenštejn con il suo montaggio verticale nel film Aleksandr Nevskij, non possiamo certamente dire che la sua attività di teorico si concluda con la fine dell’epoca del cinema muto.
Ma dove possiamo rintracciare l’eredità lasciataci da Sergej M. Ejzenštejn? Certamente molte delle sue sperimentazioni le ritroviamo nel primo Godard, nei film pubblicitari e nei video-clip; Ejzenštejn è stato da alcuni considerato, forse erroneamente, il precursore della semiologia del cinema, quando in realtà ha messo in luce diverse situazioni senza possibili sbocchi. Del resto lui stesso aveva creato dei modelli di montaggio – etichettati con nomi precisi (montaggio armonico, tonale, ritmico e via dicendo) – che poi rielaborava a favore di nuove teorie, nuove sperimentazioni, nuove pratiche sul montaggio. Ecco perché si è detto, all’inizio del discorso, che anche il termine conflitto verrà scartato a favore di altre ragionate conclusioni.
Del resto questa non appare né una contraddizione, né un’assurda incoerenza da parte del regista russo: se, infatti, questo modo di procedere non ci scandalizza più di tanto è perché – oramai lo sappiamo bene – non erano i film a nascere da un discorso teorico ben preciso, semmai erano le teorie a nascere da un discorso strettamente pratico.
IV. UNA CONCLUSIONE (PROVVISORIA)
«Un abile uso del sonoro non consiste soltanto nell’aggiungere la più efficace colonna sonora a un film elaborato in precedenza, ma nel concepire il film in funzione del suono».
di Karel Reisz
Siamo così giunti alla fine di questo nostro rapidissimo excursus; ci piaceva concludere così – con questa frase pronunciata da uno dei più autorevoli esponenti del free cinema, nonché co-autore di uno dei manuali più importanti mai pubblicati sul montaggio, La tecnica del montaggio cinematografico (che è stato un po’ il nostro punto di riferimento costante) – perché il cinema sonoro, mentre si producono gli ultimi capolavori del cinema muto, è oramai alle porte e bussa con prepotenza; il cinema, quindi, sarà presto costretto a rivedere il suo statuto, le sue teorie, i suoi metodi di produzione e di fruizione. Non si tratterà di rivedere vecchie questioni, né di teorizzare nuove forme di montaggio: l’avvento del sonoro sarà una vera e propria rivoluzione che cambierà in modo sostanziale l’utilizzo del mezzo cinematografico. Allora diamo ragione ad Antonio Costa quando dice che il cinema muto era un cinema troppo diverso da quello moderno, e che come tale non può essere fruito con le stesse competenze e le stesse aspettative; del resto – aggiungiamo noi – nessuna pianta è mai cresciuta senza quel seme che inevitabilmente deve precederla. Forse, allora, possiamo concepire il cinema sonoro come una semplice evoluzione del cinema muto; ma nessuna rivoluzione, nessun cambiamento è indolore: occorre sempre mettere sul piatto della bilancia ciò che si lascia e ciò a cui si spera di andare incontro.
Tornando a noi, e al nostro discorso, crediamo di aver tracciato grossomodo tutte le tappe più importanti che il montaggio cinematografico ha incontrato nel corso della sua evoluzione. Forse qualcuno potrà accusarci dell’eccessiva “faciloneria” con la quale abbiamo indicato il nostro percorso (senza contare la “frustrante” convinzione di aver dimenticato momenti molto importanti), ma bisogna essere obiettivi e comprendere come la nostra volontà – tenuto conto anche dei limiti imposti dalle conoscenze che abbiamo – era rivolta al semplice fatto di illustrare quello che è stato il processo di evoluzione del montaggio cinematografico dai primi film dei fratelli Lumière fino agli straordinari risultati ottenuti da Ejzenštejn. Forse lo abbiamo fatto di proposito in modo così semplice, sperando così di mettere in evidenza soprattutto una cosa che davvero ci preme: la curiosità di chi – come noi – guarda al cinema muto come ad un qualcosa che non c’è più e che non si è mai avuto modo di conoscere. Naturalmente senza un’improbabile nostalgia, semmai con un pizzico di rammarico.
Quel rammarico di chi, nell’epoca confusa della rivoluzione digitale, “gioca” con i sofisticati sistemi di montaggio AVID senza aver mai avuto il piacere di “toccare” una moviola.
Tesina di di CLAUDIO DEZI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
– (a cura di) Pietro Montani, Sergej M. Ejzenštejn. Il montaggio, Saggi Marsilio, Venezia, 1992;
– (a cura di) Pietro Montani, Sergej M. Ejzenštejn. La teoria generale del montaggio, Saggi
Marsilio, Venezia, 1992;
– David Cheshire, Cinematografare, Mondadori, Milano, 1981;
– Antonio Costa, La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, Clueb, Bologna, 1995;
– Sergej M. Ejzenštejn, Lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1964;
– Aldo Grasso, Sergej M. Ejzenštejn, Il Castoro, Milano, 1994;
– Karel Reisz e Gavin Millar, La teoria del montaggio cinematografico, Sugarco, Varese, 1981;
– Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Manuale del Film, Libreria UTET, Torino, 1995;
– Gianni Rondolino, Storia del Cinema, Libreria UTET, Torino, 1995;
– Dominique Villain, Il montaggio al cinema, Lupetti, Milano, 1996;
– Rodolfo Tritapepe, Linguaggio e tecnica cinematografica, Paoline, Roma, 1985.
La luce può essere di tonalità calda, come in questa immagine:
oppure di tonalità fredda, come questa:
La differenza è subito visibile: ognuna delle due immagini ci trasmette una sensazione diversa. Fredda, invernale la seconda, calda, estiva ed accogliente la prima.
Queste sono immagini tratte dal film "La ragazza con l'orecchino di perla" del regista Peter Webber che racconta come il pittore Jahannis Vermeer arrivò a dipingere il quadro Girl with a pearl earring.
Le sequenze con luce bianca, quella che noi consideriamo normalmente normale, sono relativamente poche.
Infatti, cosa ci ha colpito di più di questo film? Le atmosfere che il regista col suo direttore della fotografia ha saputo presentarci, nella Venezia del nord, entriamo nella vita quotidiana di una famiglia molto agiata... e la luce è un elemento predominante per portarci istantaneamente in una lontana epoca, quando non esisteva la luce elettrica ma solo illuminazione con lanterne e candele (da qui tutte le inquadrature con la luce calda rossastra). E fuori di casa è inverno, con una luce fredda, bluastra... Avete presente tutti quei quadri dei pittori fiamminghi?.... ecco nel film c'è quella stessa luce.
I titoli di testa, quella breve sequenza che precede l'inizio di un film, sono sicuramente importanti, non solo per fornire delle indicazioni sui produttori, autori ed interpreti principali del film (in testa ci troviamo quelli che maggiormente si sono impegnati nella sua realizzazione), ma sono anche un elemento fondamentale che contribuisce a creare l'atmosfera, a introdurre lo spettatore nel mondo della narrazione e a dare un'impronta stilistica all'opera.
Siamo andati ad effettuare riprese video dell'Evento, in cui suonava l'orchestra Filarmonica d'Opera di Roma diretta dal maestro Gianfranco Plenizio, e durante le loro prove ci siamo sbizzarrito con la telecamera. Senza fare rumore (naturalmente) abbiamo girato intorno all'orchestra ed abbiamo catturato dei momenti interessanti: durante gli accordi, durante i cambipagine, mentre il direttore d'orchestra dirigeva con la bacchetta, abbiamo catturato primi piani e particolari, fatto attenzione ai suoni ripetuti, all'attenzione di ogni maestro, ai colori cangianti delle illuminazioni, alle forme degli strumenti, alla profondità di campo delle varie inquadrature,....
Quali possono essere i vantaggi ad utilizzare 2 videocamere in contemporanea, durante la ripresa di un cortometraggio? In breve, possiamo dire: Maggiore flessibilità in post-produzione per ottenere un risultato più dinamico, Sicurezza evitando di perdere riprese importanti, Diverse prospettive di ripresa della scena ed Ottimizzazione generale dei tempi durante le riprese.