Differenze tra CORTOMETRAGGIO e LUNGOMETRAGGIO

dalla tesi di Emanuele SANA

SECONDO CAPITOLO

 

Raccontare una storia

 

“Non sei fregato veramente finchè hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla.” (da Novecento, A.Baricco)

Edward M. Forster, nel suo libro Aspects of a Novel , porta un esempio sintetico quanto significativo: “Il re morì e poi morì la regina” è un'affermazione, “Il re morì e la regina ne morì di dolore” è una trama. Si comprende come, a differenza del descrivere, il narrare abbia una serie di implicazioni che superano il semplice ordinare visivamente le immagini: i suoni, le voci, la musica, il montaggio, le dissolvenze, gli stacchi sono tutti elementi che regalano una gamma di valori diversi alle immagini, sottolineandone la drammaticità, la sorpresa, la distanza, l'inevitabilità, la riflessione.

Raccontare una storia vuol dire “tradurre in un linguaggio compreso da molti quanto è possibile portar fuori dalla fantasia” come afferma Vincenzo Cerami o anche “mostrare un'inestricabile mescolanza di sincerità e di invenzione, di voglia di stupire, di confessarsi, di assolversi, di desiderio spudorato di piacere, di interessare, di fare la morale…far ridere e commuovere”, come scrive Federico Fellini nel suo libro Fare un film . Sicuramente il raccontare è tradurre un'idea, personale o ricavata dalla realtà, letta in un romanzo o estrapolata da un articolo di giornale: questo punto di partenza viene reso completo da sensazioni, esperienze desunte dall'attualità in cui vive l'autore.

Il cinema, nella sua qualità di medium audiovisivo, possiede due caratteristiche che non troviamo nell'opera scritta: le immagini ed il sonoro permettono alla realtà di essere portata sullo schermo nella quasi totalità delle sue manifestazioni, raggiungendo una perfezione che ne denota contemporaneamente la sua fortuna e la sua difficoltà di realizzazione. E' necessaria una precisazione rispetto a questo concetto: parlando di una prima differenza tra pellicola e digitale, nel capitolo precedente mi sono servito degli studi di A.Cervini e di Kiarostami per mostrare un paradosso: tanto più la tecnologia sembra in grado di imitare in modo dettagliato la realtà, quanto questa stessa imitazione si dimostra menzognera, poiché il digitale si discosta completamente dal reale sensibile. Ora, allargando la riflessione alla totalità della macchina filmica, la differenza con la parola scritta risulta più sottile: tale differenza risiede nel fatto che, a differenza dell'opera scritta in cui possiamo solo immaginare personaggi, ambienti, voci dei protagonisti e rumori, il film offre una possibile forma a questa realtà, campiona cioè una porzione di essa e la restituisce allo sguardo dello spettatore. Questa realtà risulta però limitata dallo sguardo del regista o dell'operatore, manipolata dal montaggio, perfezionata o stravolta nel suo modo di essere dalla messa in quadro o da artifici moderni quali la computer graphics. Quando si parla di messa in scena della realtà, si pensa quindi alla potenziale possibilità di restituirla nella sua originalità, sempre non dimenticando che ogni piccolo movimento di macchina ne indica una possibile (e vincolante) interpretazione. Seguendo il pensiero di Casetti, si parla qui di mondo possibile e mondo rappresentato . Il primo passo di questo processo è la sceneggiatura , con la sua genesi che si muove dal soggetto al trattamento, fino alla stesura che avviene attraverso precisi passaggi.

Scrivere una sceneggiatura è un'impresa assai ardua che prende le mosse da due diversi punti di partenza: può essere il tentativo dello scrittore di professione che vuole tradurre una propria idea in pellicola, quindi crea senza precise competenze registiche e la sua stesura non sarà vincolata ad immagini o alla colonna sonora. L'altro percorso è quello del regista che ha in mente alcune scene (molto spesso solo quella iniziale) ed una sensazione che vorrebbe comunicare: cerca così di inserire il tutto in una scrittura che ha il compito di presentare non solo a produttori ma, una volta decisa la realizzazione del film, ad attori, operatori ed a tutte le persone interessate nel progetto.

Questo secondo scenario è stato il mio punto di partenza: erano presenti nella mia mente immagini sparse del protagonista, un'idea guida di questa storia ed alcuni particolari delle scene che avrei voluto inserire nel cortometraggio. Da qui sono passato alla formulazione di un soggetto, quindi al trattamento ed infine alla prima stesura che ha visto le correzioni di professionisti del settore per poi raggiungere la versione definitiva.

Prima di passare al caso particolare di Appunti di vite, che occuperà il resto di questa tesi, vorrei completare la trattazione del primo capitolo, analizzando l'ultima differenza tra lungometraggio e cortometraggio, sicuramente la più importante: la sceneggiatura sarà lo strumento per definire il divario strutturale tra le due differenti durate.

Sceneggiature a confronto

  Il modo migliore per sottolineare (e concludere) che il cortometraggio è una creatura autonoma è senza dubbio quello che ci riporta alla sua genesi: la sceneggiatura, che ne costituisce le fondamenta, mostra diversi punti di specificità rispetto a quella del lungometraggio.

Il primo elemento di distinzione è sicuramente la dimensione effettiva, in termini di pure e semplici pagine utilizzate: prendendo il modello master-scene , per un film di novanta minuti si pensa che debbano essere circa centoventi le pagine da compilare, mentre per il corto si deve cercare di non superare le trenta. Non tenendo conto della diversa durata che possono avere questi film e della possibile esagerazione descrittiva dell'autore, è evidente che la proporzione risulti più o meno rispettata: se scaviamo a fondo, però, osserviamo che questa non è sinonimo di una identica strutturazione.

LA TRAMA In un film, come scrive la maggior parte dei teorici del cinema, è fondamentale la divisione in tre atti: premessa, sviluppo, risoluzione. I primi minuti della storia possono essere i più importanti: creare un film significa scrivere per un mezzo di comunicazione che utilizza le immagini in movimento per produrre significato, ed è proprio da immagini iniziali forti e ricche di informazioni che la premessa definisce la narrazione e la direzione che avrà la storia. In questo primo atto troviamo la domanda centrale che avrà risposta solo nel culmine della vicenda, ma soprattutto si passa allo sviluppo del racconto grazie al catalizzatore : questo può essere rappresentato da un'azione forte, da un'informazione che riceve un personaggio, da una situazione particolare, l'importante è che da questo prenda il via l'azione.

Il catalizzatore è la prima delle due svolte che possiamo riconoscere all'interno di una sceneggiatura di centoventi pagine (la prima dopo circa mezz'ora dall'inizio del film, la seconda quando mancano quindici-venti minuti alla conclusione): la svolta è l'elemento che lega due atti successivi, serve a tenere l'azione in movimento cambiandone la direzione, risollevando la domanda centrale (molte volte ponendola sotto un altro evoluto punto di vista) e definendosi come momento di decisione.

Il secondo turning point lega lo sviluppo al terzo atto e, a differenza del catalizzatore, non è composto da un solo elemento ma si divide in due cadenze successive: il climax e la risoluzione. Il climax è il culmine della storia e viene anticipato da un crescendo di emozioni poiché, nella maggior parte dei casi, tutte le soluzioni sembrano essere impossibili da raggiungere per il protagonista. Da qui il secondo pilastro della svolta, la risoluzione, che permette di legare tutti i fili che sono rimasti sciolti: la storia risponde alla domanda centrale in modo univoco e definitivo e, dopo le riformulazioni diverse che questa ha avuto nel corso del film, si chiude, definendo i destini dei personaggi (ha la caratteristica de “la quiete dopo la tempesta” poiché frena il ritmo dopo l'escalation che ha portato una scena dentro l'altra per il raggiungimento del momento clou).

La relazione che lega le strutture di lungo e cortometraggio è piuttosto labile, sia in termini di proporzioni che formali: la proporzione fra gli atti del lungometraggio è circa 1:2:1, difficilmente una simile suddivisione può reggere in un film di quindici, trenta minuti e l'elemento che differenzia maggiormente la trama dei due lavori è il posizionamento dei momenti forti della storia.

Se nel lungometraggio la prima svolta avviene alla fine della premessa, nella quale vengono fornite le informazioni vitali per la comprensione della situazione di partenza, nel cortometraggio il catalizzatore deve giungere molto prima di un quarto del film: analizzando una serie di film brevi, scopriamo che il primo atto è molto limitato, non serve a fornire tutta quella gamma di dati, motivazioni ed elementi che lo rendono indispensabile nel film di durata maggiore. Addirittura capita che i cortometraggi siano spesso privi di questo ingresso graduale nel film e che siano caratterizzati da una struttura a due atti, meccanismo narrativo molto più efficace: questo permette di dedicare la maggior parte del corto alla ricerca della risoluzione da parte del personaggio.

Riassumendo, l'evento dinamico (o catalizzatore) è quell'evento critico che precipita il personaggio principale nell'azione: se nel lungometraggio tale elemento è solo il primo punto di svolta ed è l' inizio di un'azione che avrà diversi cambi di direzione nel suo sviluppo, nel cortometraggio è centrale perché accelera la storia e, in diversi casi, può addirittura coincidere con il climax. Nell'affrontare la stesura di un film breve, quindi, sono diverse le strutture di base alle quali fare affidamento: quella a tre atti, dove le proporzioni sono però nettamente diverse da quelle del lungometraggio, dato che la parte centrale (lo sviluppo per tornare alla dicitura iniziale) è predominante. Tale struttura è sempre meno sfruttata da sceneggiatori e registi: sembra infatti che sia diventato uso comune attribuire fondamentale importanza al culmine della vicenda, sfruttando i due atti.

Questo secondo modo di intendere il cortometraggio risponde alla proporzione 3:1 e risulta efficace perché si definisce un ingresso nella vicenda in cui vengono fornite le informazioni necessarie, si segue il protagonista in scene che sembrano caratterizzate dalla normalità, per raggiungere poi il climax che sovverte quest'ordine e viene risolto in un lasso di tempo molto breve. Visionando i film vincitori agli ultimi festival internazionali appare interessante la ricerca del culmine più efficace, sorprendente, spiazzante e particolare: l'ultima delle tre strutture che possono essere considerate è addirittura costituita da un solo atto. In questo caso il climax viene inserito all'inizio o alla fine: nel primo caso troviamo l'ingresso ex abrupto nel film, siamo sbalzati all'interno di una vicenda che si mantiene sempre sul medesimo livello di straniamento per lo spettatore il quale vede passare immagini che capirà solo a visione terminata; manca, cioè, la cosiddetta establishing scene , quella scena che orienta il pubblico in maniera inequivocabile, offrendo una linea guida all'unità ed alla compattezza del testo filmico. Nel secondo caso, lo sviluppo della vicenda si evolve e termina con un culmine che non viene risolto. Questo stile narrativo ricerca nel pubblico una sorta di partecipazione che supera i limiti di titoli di testa e di coda: è volontà di stupire e di lasciare aperte molte possibilità interpretative, derivando dalla videoarte e dalla pubblicità la forte componente patemica.

Questa prima, fondamentale differenza tra cortometraggio e lungometraggio sottolinea i diversi obiettivi ricercati dalle due durate e testimonia come la macrostruttura (divisione in tre atti e posizionamento dei punti di svolta) sia sostanzialmente diversa: tale distanza sembra ulteriormente chiarita da due ulteriori campi d'indagine, il subplot e i personaggi.

 

IL SUBPLOT La sottotrama viene inserita nelle sceneggiature per aggiungerne spessore: si interseca con la trama principale non agendo sulla storia principale e quindi non facendola avanzare, ma contribuendo a diversi scopi quali la maturazione del personaggio o la complicazione di una storia troppo prevedibile. Nei lungometraggi, i subplot vanno da un minimo di due ad un massimo di cinque o sei, molte volte uno di essi rappresenta il termine del film (in chiave comica o thriller), quando ormai la risoluzione si è conclusa. Funzionano se ricalcano la struttura precedentemente sottolineata, quindi con un inizio, un mezzo ed una fine e se compaiono saltuariamente nel corso del film; sono però molto difficili da creare e, soprattutto, da integrare con il resto della narrazione poiché non devono essere né troppo invadenti, né troppo deboli e privi di struttura. Il posizionamento di tali sottotrame è una pratica difficile se si pensa che in alcuni casi queste sono simbolo di una proliferazione di linee guida che non permettono allo spettatore di trovare un legame tra le varie situazioni narrate.

Nel cortometraggio la trama deve essere semplificata al massimo, dato che non si ha una durata estesa per spiegare al pubblico elementi troppo complicati: tale semplicità si traduce nell'impossibilità di costruire sottotrame che finirebbero solo per essere d'intralcio all'effettiva comprensione della storia. Il film breve si caratterizza sempre più per la sua vicinanza alla pubblicità ed ai videoclip e, proprio per questa sua vicinanza, deve avere come caratteristica prima l'essenzialità: con il minor numero di elementi possibili deve essere in grado di narrare, consegnare un significato allo spettatore ed essere testo unico proprio per la sua brevità.

Per sostenere l'importanza della trama unica e semplicemente strutturata, porto l'esempio del mio primo cortometraggio, Storie di fiori e di carta (E.Sana, Italia 2003, 15'): dopo la postproduzione, risultava necessario rivedere il film alcune volte per riannodare tutti i fili della sceneggiatura. L'errore di questo cortometraggio, dopo attenta analisi, è risultato essere l'inserimento di due sottotrame che, seppur efficaci per l'effetto comico, rischiavano di fuorviare l'attenzione dello spettatore: la mia volontà era quella di chiudere a tutti i costi le vicende dei personaggi con i quali avevo iniziato il film, non capendo che uno spettatore neutrale non può ricordarsi la fisionomia di attori che vede per pochi istanti e che ritrova a metà film. In secondo luogo, nel cortometraggio non è necessario chiudere ogni singola vicenda perché l'attenzione va portata sulla trama principale.

IL PERSONAGGIO L'entità che offre complessità alla storia e la porta avanti è il personaggio il quale, mosso da un obiettivo, impone una direzione al racconto. La sua genesi parte dalla creazione di una solida spina dorsale, che è determinata dal rapporto tra motivazione, azione e obiettivo : la motivazione è il catalizzatore che, all'inizio della storia, costringe il personaggio a muoversi; tale motivazione può essere fisica, espressa attraverso il dialogo o di situazione, ma è facilmente comprensibile come questa funzioni soprattutto inserita al tempo presente, chiara ed espressa con azioni piuttosto che con parole. L'azione è il metodo con cui si persegue l'obiettivo, quest'ultimo lega il personaggio al culmine della storia e deve essere difficile da raggiungere in modo che il personaggio cambi nel tentativo di perseguirlo; più forte è quindi l'azione necessaria a muoversi, più forte e ricco di spessore è il personaggio.

Lo sviluppo del personaggio, nella maggior parte dei casi, muove da un conflitto : questo può essere interiore (quando vi è insicurezza delle proprie azioni e della propria volontà, ci si proietta al di fuori verso le altre persone), di relazione (quando con l'antagonista esistono obiettivi reciprocamente esclusivi), sociale (quando il tema ha a che vedere con la giustizia, la corruzione, l'oppressione), situazionale ( quando il contrasto è di una persona con altri e diversi punti di vista), cosmico ( quando abbiamo lo scontro tra il personaggio ed una forza sovrannaturale e il conflitto ricade comunque sull'essere umano). Il personaggio, quindi, deve acquistare dimensione mentre la storia e gli altri personaggi agiscono su di lui, modellandosi nelle tre dimensioni di pensieri, azioni ed emozioni: risponde ad una catena dimensionale che muove dalla filosofia del personaggio, passa attraverso il rapporto decisioni-azioni per poi chiudersi con l'unione delle risposte emotive che lo definiscono più intimamente.

I personaggi sono organizzati in una gerarchia particolare, a seconda del loro ruolo essenziale e specifico:

- il protagonista compie l'azione, è colui che muove la storia in avanti, è il centro del film: lo spettatore deve seguirlo, deve tifare per lui, con lui deve simpatizzare e, elemento molto più importante, suo è il punto di vista dal quale si racconta;

- i personaggi secondari permettono al protagonista di non attraversare la storia da solo, collaborano con lui o si oppongono alle sue scelte ed alle sue azioni; molto spesso tali personaggi sono sfruttati per fornire informazioni al pubblico o per diventare elemento catalizzatore per il cambio di direzione nella narrazione;

- i personaggi che aggiungono altre dimensioni spezzano la linearità della storia, il più delle volte allentando la tensione del film, altre volte creando un ulteriore contrasto: in tal modo lo spettatore viene aiutato a comprendere meglio il protagonista poiché, attraverso le differenze con gli altri, ne emerge la profondità;

- i personaggi tematici servono a manifestare e ad esprimere il tema del film, evitando talvolta le mal interpretazioni o manifestando il punto di vista dell'autore;

- i personaggi massa e peso servono a dimostrare il prestigio, il potere o la statura del protagonista o dell'antagonista, in modo da offrire un contributo allo svolgersi della storia.

In un film, quindi, oltre al protagonista (o ai protagonisti), possiamo riconoscere una serie più o meno ampia di personaggi secondari, caratterizzati da un ruolo ben preciso o semplicemente contorno alla narrazione: il modo migliore per ricordare un personaggio è la tipizzazione che permette di distanziarlo dall'insieme di tutte le persone che troviamo sullo sfondo. Se lo spettatore si identifica con il protagonista, allora questo è un personaggio che funziona: l'errore di alcuni film è proprio non permettere questa identificazione ammassando molti personaggi con caratteristiche forti e ben delineate oppure non caratterizzando il protagonista con dovuta ricchezza.

Il parallelo con il cortometraggio è immediato: disponendo di una durata minore, il tempo che permette allo spettatore di accogliere il punto di vista del protagonista è piuttosto limitato e sono due gli accorgimenti ai quali è necessario pensare.

Innanzitutto, nel corto non c'è spazio per occuparsi della complessità delle relazioni, quindi l'ideale sarebbe ridurre al minimo il numero dei personaggi (o per lo meno di quelli principali) e creare entità che non acquistano profondità dalla trama delle relazioni complesse, bensì che nascono già come creature a tutto tondo: Edward M. Forster li descrive come “personaggi capaci di sorprenderci, che manifestano l'incalcolabilità della vita poiché sono più imprevedibili” . Quindi è errato pensare che a breve durata corrisponda minore attenzione da offrire al personaggio: il film breve si basa principalmente su di esso, quindi la caratterizzazione va ricercata fortemente, anche perché, se lo spettatore deve riconoscersi nel protagonista, tutto risulterà più semplice se questo è dotato di caratteristiche particolari ed evidenti. Da qui la rapidità con cui il personaggio principale dev'essere delineato: a questo proposito nascono alcuni artifici molto sfruttati nei cortometraggi per favorire questa veloce definizione quali il leit-motif (immagine, ritmo o suono ricorrente che accompagna in continuazione il protagonista), un comportamento abituale o l'uso di un'espressione verbale singolare.

Una caratterizzazione minore deve essere di conseguenza data ai personaggi secondari, che diventano molto spesso degli stereotipi o dei semplici catalizzatori che fanno proseguire la trama: se la scelta migliore è quella della prima persona nel seguire il protagonista, è facilmente intuibile che le persone che lo circondano abbiano ruoli marginali, semplici cammei nella storia.

Prima di passare all'analisi di Appunti di vite, è doveroso fare un accenno al dialogo: come tutti gli altri elementi del cortometraggio, anche questo deve essere utilizzato con economia ed in modo motivato. Non c'è tempo per lunghi discorsi o per esposizioni eccessive, l'importante è considerarlo un'ulteriore opportunità per aumentare la spinta emotiva della storia: in un film, il dialogo deve collaborare con le immagini, deve fornire credibilità ad un personaggio.

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V. Cerami, Consigli ad un giovane scrittore, Garzanti, Milano, 2002, pag.13.

F. Casetti, F. DiChio, analisi del film, Bompiani, Milano, 1990.

Per questo confronto mi servirò del libro Come scrivere una grande sceneggiatura di Linda Seger per i tratti relativi al lungometraggio e di Come scrivere un cortometraggio di P. Cooper e K. Dancyger. E' facilmente comprensibile che, sfruttando altri testi, sarebbero stati diverse le caratteristiche: questi due esempi mi sembrano, comunque, piuttosto attendibili.

Che sarà utilizzato per la stesura della mia sceneggiatura e che si caratterizza per una struttura simile al modello americano, con una schematizzazione piuttosto precisa di dialoghi e scene, oltre ad essere quasi completamente priva di indicazioni tecniche: in tal modo viene facilitata la lettura di tipo narrativo-descrittivo.

Aprendo una parentesi, un'ulteriore libertà del corto rispetto al lungometraggio risiede nella possibilità di utilizzare metafore o altre figure retoriche per raccontare la storia: servendosi di questi artifici, si può sfruttare un oggetto o una scena rimandando il pubblico alla sua comprensione o alla ricerca di quei sottotesti che, per limiti temporali, non si possono mostrare.

E.M.Forster Aspects of the Novel.

 

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