Il telefono viene presentato all’Esposizione Universale del 1889. Non è ancora concepito come un mezzo di comunicazione privata, ma come uno strumento di puro intrattenimento che consente di ascoltare rappresentazioni teatrali, opere e concerti, senza muoversi da casa, cioè come un antenato della radio. Nel 1901 viene messo in scena al Théâtre-Antoine di Parigi, l’atto unico Au Téléphone di André de Lorde, che verrà poi ripreso nel 1922 dal Grand-Guignol. Già Marcel Proust aveva intuito che da semplice strumento di ricreazione, il telefono sarebbe diventato terribilmente intrusivo (“un vrai casse-tête”) nella vita privata. La pièce di de Lorde ne mostra il lato angosciante: un uomo telefona a casa sua, ascolta rumori misteriosi, frasi smozzicate e impaurite, urla di terrore. Sta ascoltando in diretta un’aggressione a sua moglie e ai suoi cari, ma non può intervenire. Nulla di ciò che avviene in casa degli aggrediti viene mostrato in scena. Si sentono soltanto i rumori e si assiste all’angoscia del protagonista impotente. Il debutto del telefono in una rappresentazione è dunque drammatico, un racconto di forte tensione emotiva al confine con l’orrore.
Nel film Il terrore corre sul filo (Sorry, Wrong Number, 1948) di Anatole Litvak con Barbara Stanwyck, la protagonista, costretta a letto, sola in casa, ascolta al telefono una conversazione apparentemente frutto di un’intercettazione casuale, nella quale si programma un delitto. Scopre in seguito d’essere la vittima predestinata e cerca di usare il telefono per salvarsi. Il film è l’adattamento di unradio-dramma di Lucille Fletcher. La sceneggiatura è scandita su questi passaggi che sono altrettanti effetti del telefono: intrusione nel privato altrui ( si ascolta una conversazione tra due sconosciuti), scoperta che quel privato ci riguarda molto da vicino (noi siamo oggetto “sacrificale” di conversazioni altrui) e tentativo di convertire un mezzo di comunicazione ansiogeno in strumento di salvezza personale. Come si vede, la storia è in qualche modo anche un’analisi del mezzo. Il telefono non è un semplice strumento che interviene nella storia per comodità o per opportunità, è un protagonista del racconto. Il primo problema che uno sceneggiatore cinematografico si trova ad affrontare è la staticità. Il telefono fisso costringe il protagonista a restar fermo nella stessa posizione. In teatro una scena fissa con un attore monologante attaccato al telefono, e in radio, cioè in una rappresentazione semplicemente auditiva, non ci sono gli stessi problemi che si incontrano in un racconto, come quello cinematografico, per immagini in movimento e alternarsi di scene. Gli sceneggiatori di Sorry, Wrong Numer, scelgono di sfruttare emotivamente questo limite, lo dilatano addirittura: la protagonista è invalida e non può muoversi dal letto. Non è il telefono a tenerla lì, è la sua condizione. D’altro canto questa condizione ha molto a che fare con il telefono che è per eccellenza lo strumento delle persone sole. Lo strumento che può farle sentire meno sole, ma che allo stesso tempo ne rivela l’angoscia e le avvince alla loro disperata solitudine, ostacolandole addirittura in quel che resta loro di possibilità di movimento. Il telefono è paralisi.
Questa situazione di costrizione esasperata è sfruttata in molti film thriller e horror che hanno il telefono per protagonista. Vi consiglio di vedere il classico When a Stranger Calls (1979) di Fred Walton, recentemente oggetto di un brutto remake e fonte principale di ispirazione per la prima parte di Scream (1996) di Craven. La protagonista è una baby sitter (costretta in casa per badare ai bambini, dunque anche lei in qualche modo impossibilitata a muoversi) che viene perseguitata dalle telefonate di un maniaco. Scopre poi che il maniaco conosce a perfezione i suoi movimenti per casa tra una telefonata e l’altra (come fa a vederla?). E infine che la telefonata arriva da una derivazione. L’assassino usa il telefono in modo paradossale: non telefona da fuori, ma dalla casa stessa, e l’effetto ansiogeno e intrusivo caratteristico del mezzo si dilata a incubo. La casa che prima è protezione rispetto all’esterno, si capovolge nel centro del pericolo: la salvezza è fuori. Il film è costruito, dal punto di vista della sceneggiatura, in modo schizofrenico. Alla claustrofobia della prima parte tutta rinchiusa in un unico ambiente, segue una seconda parte tutta en plein air, con una spietata caccia all’uomo, in ambienti estremamente realistici e del tutto “non teatrali”: vicoli di periferia, dormitori pubblici per vagabondi, eccetera. Allo scambio verbale della prima parte, si sostituisce un “tutto azione”. E’ un insegnamento importante dal punto di vista della scrittura. Quasi tutti i corsi di sceneggiatura insegnano a scrivere in modo equilibrato, alternando sapientemente interni ed esterni, scene statiche e scene dinamiche. Scelta saggia nella maggior parte dei film, ma non l’unica percorribile. L’equilibrio può essere raggiunto in altro modo, cioè per violenta contrapposizione. Invece di smussare rendendo più dinamica la prima parte, e meno vorticosa la seconda, si può sprigionare forza espressiva, sottolineando il contrasto. La narrazione viene equilibrata, nel film citato, da una chiusura circolare (più esattamente a spirale): il maniaco, sfuggito alla caccia, torna a minacciare la baby sitter dell’inizio, ma stavolta lei è preparata ad affrontare l’emergenza. La chiusura alterna interni ed esterni con notevole dinamismo.
Ma il telefono può essere usato anche come meccanismo anti-ansiogeno, anzi come simbolo del comfort, delle nuove comodità borghesi. Alla fine degli anni 30, in Italia, nasce il cinema dei “telefoni bianchi”. Il cinema epico e guerrafondaio della stagione precedente, viene sostituito da un cinema leggero e svagato che celebra insieme il telefono e la radio come nuovi lussi che rendono più piacevole la vita e coincidono più che con l’intrattenimento popolare, con qualcosa di esclusivo, un privilegio per ricchi gaudenti. Le attuali campagne pubblicitarie sulla telefonia mobile hanno esattamente questa origine: si propagandano per il consumo di massa strumenti presentati come esclusivi, come status symbol. In questi film, oltre al telefono e alla radio, si celebrano altri simboli di eleganza che diventa “a portata di tutti”: per esempio in Grandi Magazzini (1939) film di Camerini, sceneggiato, tra gli altri, da Cesare Zavattini. Ma anche i dopo-teatro, i ricevimenti privati dove si sorbiscono cocteilli (sic), dove c’è sempre musica in sottofondo senza bisogno di orchestrali perché viene dalla radio che muta ogni abitazione di classe in una sala da ballo, e in più si fa gran mostra di auto ultimo modello e sfoggio di vestiti alla moda, tutto ciò disegna il quadro di un’Italia che vuole uscire dai modelli guerreschi, rustici e dai grandi drammoni popolari. Essendo questo cinema apparentemente evasivo meno soggetto alle attenzioni della censura, consente a una nuova generazione di sceneggiatori di debuttare, letterati, umoristi, giornalisti poco inclini alla retorica di Regime, dando vita sullo schermo a una società fiabesca che ha qualcosa dell’operetta, cioè un ambiente sociale che non esiste nella realtà, ma ne rappresenta l’allegra utopia. Nel 1940 Mussolini invade la Francia, ma il cinema dei telefoni bianchi continua imperterrito, come se raccontasse una realtà puramente virtuale in cui il telefono è protagonista. Ed è un telefono bianco, cioè liberato da quella nera intimidatoria cupezza che conserva soltanto nelle piccole pensioni , dove l’apparecchio è in corridoio, e il suo uso è sorvegliato e regolato dalla pensionante. Il telefono bianco è la privacy esclusiva che i ricchi condividono tra loro, mentre è per il popolo un apparecchio pubblico, che pone l’umile utente in una costante situazione di disagio costringendolo a parlare dei fatti propri davanti a tutti. Ci sono poi le ragazze centralino dei Grand Hotel, massa di operaie nevrotizzate dai vorticosi ritmi di lavoro. Per loro il telefono non è né bianco, né nero, è una consolle in cui si infilano e si staccano dei cavi. La loro voce è impersonale e macchinale, a volte mentre parlano si danno lo smalto sulle unghie, non gliene importa nulla delle conversazioni altrui, sono delle regolatrici dell’anonimato universale. Le voci che si accalcano sono un’unica conversazione confusa e dilagante che non comunica alcunche, se non l’atto stesso del comunicare. Sotto l’apparente evasività, gli autori rappresentano attorno al telefono, non un aperto conflitto di classe, ma delle condizioni di evidente disparità sociale e la ricaduta di una tecnologia moderna sui comportamenti dei singoli. Ci dicono dunque che la tecnologia non è mai neutra. Uno sceneggiatore deve sempre tenere presente che l’inserimento in un film di un mezzo di comunicazione è da un lato un’espressione del mezzo di comunicazione stesso, della sua natura, e dall’altro un modo per raccontare, attraverso i suoi diversi impieghi, i soggetti sociali.
Il cellulare ha rivoluzionato le abitudini cinematografiche oltre che quelle quotidiane.
Molti meccanismi tipici dei film d’azione come ad esempio la ricerca spasmodica di un telefono, sono crollati o quanto meno hanno dovuto essere ridefiniti. Accade spesso oggi nei film che il cellulare sia presente, per realismo, anche se non viene usato. Dato che l’uso del cellulare (da cui si può chiamare soccorso) pregiudicherebbe lo sviluppo della vicenda, ma l’assenza totale di cellulari la renderebbe implausibile, si ficca per solito un breve momento in cui uno dei protagonisti fornito di cellulare, dice “non c’è campo”. E così ci si sbarazza del problema. Oppure lo si usa quando non serve e poi si scaricano le batterie, proprio quando servirebbe (ai protagonisti) per accentuare un momento di panico. Raramente nei film si vede usato il cellulare in tutte le sue funzioni. Questo non è dovuto al fatto che gli sceneggiatori non siano ferratissimi negli aggiornamenti tecnologici, ma a questi motivi: 1 - la scrittura drammaturgica soprattutto in cinema ha sempre a che fare con meccanismi narrativi rodati che hanno una permanenza più lunga delle tecnologie attuali; come vedremo parlando dei computer, i primi film in cui apparivano le schermate dei computer sembrano oggi terribilmente invecchiati, invece che metterci di fronte a una tecnologia avveniristica quelle scene ci mostrano una tecnologia (e una grafica) arretrate e dunque il risultato espressivo appare totalmente mutato di segno; 2 - i tempi di realizzazione di un film e quelli del suo sfruttamento commerciale si sono molto allungati, mentre l’obsolescenza dei modelli di cellulare è rapidissima. Ciò significa che il cellulare usato nel film data il film irrimediabilmente e può apparire superato al momento in cui il pubblico vede il film.
Ciò spiega la scelta operata dai film di usare il cellulare prevalentemente per normali conversazioni telefoniche e tenendolo il più possibile occultato in mano in modo che non sia troppo identificabile.
Consideriamo ora i problemi specificamente di sceneggiatura posti dalle conversazioni telefoniche.
1) A telefona a B per comunicargli informazioni o istruzioni. In questo caso si può fare a meno di mostrare B, e condurre sinteticamente la conversazione, che è unidirezionale.
2) A riceve una telefonata da B. In questo caso le scelte possono essere diverse. Possiamo ascoltare la voce fuori campo di B, anche senza mostrare B. Oppure possiamo restare sempre su A e intuire dai suoi commenti o richieste di conferma e chiarimento quanto gli viene detto, oppure ancora sfruttare narrativamente il mistero (sappiamo che A ha ricevuto una telefonata importante, ma non sappiamo cosa gli viene detto e magari neppure da chi).
3) A e B scambiano informazioni tra di loro. In questi casi difficilmente si può prescindere dal mostrare entrambi i personaggi nei rispettivi ambienti. Si può anche mostrarli contemporaneamente in split screen, ma questo genere di scelta è da usare con estrema cautela, perché può servire ad aumentare ritmo e dinamica, ma è una tipica scelta estetica che riguarda più la regia che la sceneggiatura.
In un film con molte conversazioni telefoniche è importante variare modelli di riferimento perché la scena non sia raccontata sempre allo stesso modo. Da questo punto di vista vi sarà utilissimo studiare i film in cui il telefono ha un ruolo primario, per vedere quante varianti possono essere messe in campo.
Nelle conversazioni telefoniche, scordatevi il realismo. Una telefonata tra due amici nella realtà può durare un’ora e passa e divagare su più argomenti. In cinema tutto dev’essere ovviamente condensato. I testi delle intercettazioni telefoniche rivelano inoltre quanto sia difficile per un estraneo afferrare il contenuto integrale di una conversazione: se ne deduce il senso, ma il testo è oscuro, pieno di allusioni, di frasi lasciate a metà, di vezzi verbali eccetera. Se il senso che vogliamo dare alla scena è proprio questo, allora questa indecifrabilità andrà rimarcata, ma il più delle volte dovremo tenere in debito conto che ciò che A e B si stanno raccontando tra loro, noi lo stiamo raccontando a C, cioè al pubblico, che dev’essere messo in condizioni di comprenderlo. Lo stesso vale per le pause, che un buon attore regola seguendo esigenze di espressività di battuta e di atteggiamento, non seguendo pedissequamente un’imitazione naturalistica.
Resta il fatto che un dialogo tra due personaggi presenti uno di fronte all’altro sarà sempre più espressivo di un colloquio a distanza, dunque non abusate del telefono se non è strettamente necessario. E soprattutto non dimenticate che il telefono è per sua natura, INVASIVO, non solo perché turba la serenità di Marcel Proust, ma perché tende al protagonismo e altera la struttura narrativa. Il telefono rompe l’unità aristotelica di tempo-luogo-azione, frammenta la narrazione, sposta l’attenzione sugli elementi verbali e richiede dunque che il visivo non ne risenta, incrocia vicende parallele e distinte, insomma rimescola per sua natura un ordine drammaturgico che si è codificato in secoli di narrazione. Il telefono modifica il modo di raccontare.
Usarlo come mero attrezzo utilitaristico senza tener conto di queste implicazioni, significa, da sceneggiatori, usarlo male. Tenete conto che una scena al telefono non è affatto la più semplice e la più ovvia, perché invece presenta quasi sempre problemi complessi, di struttura narrativa, di efficacia espressiva e stilistica. E’ ben vero che negli anni il telefono da mezzo tipico dell’emergenza, si è convertito nel suo contrario, come mezzo di relazioni sociali virtuali quanto abitudinarie, ma mostrare questa nuova realtà in un film comporta una grande consapevolezza tecnica e una notevole gamma di soluzioni visive e narrative, altrimenti diventa anticinematografico. Se in un film medio si fuma ancora oggi una quantità di sigarette nettamente superiore alla media (cosa provata dalle statistiche), si telefona invece in misura nettamente inferiore alla media, per il semplice fatto che la stragrande maggioranza delle telefonate che facciamo sono (narrativamente) inutili. Il tempo del telefono è sempre più un tempo morto, dal punto di vista degli eventi, e il cinema per sua natura e per suo format tende ad eliminare i tempi morti.
LEZIONE XXXIV di Gianfranco Manfredi