Torniamo alle situazioni di vita quotidiana. Riprendiamo e approfondiamo un rito quotidiano cui abbiamo accennato di sfuggita nella prima lezione di questo ciclo: il pranzo (o la cena). Lo si ritrova in ogni genere di film, e può sembrare ovvio: le persone devono pur mangiare. Tuttavia non è per un'esigenza di verismo che si sceglie di mostrarle a tavola. In moltissimi film, infatti, primi fra tutti quelli d'azione, i personaggi non mangiano affatto. Si dà per scontato che si alimentino, ma la scena viene bypassata proprio in quanto ovvia. Del resto si dà anche per scontato che i personaggi abbiano esigenze e urgenze fisiologiche, ma non per questo li si mostrano mentre le sbrigano, a meno che ciò non serva alla narrazione. Il racconto cinematografico, come ho ripetuto più volte, sintetizza e dunque è per sua natura portato a trascurare i momenti "qualunque". Da pubblico, noi non ci domanderemo mai come faccia un eroe a superare stress indicibili senza alimentarsi mai, e in certi casi senza neppure dormire. Questa implausibilità fa parte della convenzione iniziale stabilita tra chi narra una vicenda e chi assiste e partecipa emotivamente a questa narrazione: non si spezza il ritmo raccontando momenti insignificanti.
Dunque se mostriamo i protagonisti a tavola non è per narrare l'ovvio e cioè che i personaggi essendo esseri umani devono mangiare, ma per un'esigenza espressiva. Non è il mangiare in sè, ma il Rito del mangiare che può essere una preziosa occasione per farceli scoprire e approfondire. Ho rilevato nelle prime lezioni quanto sia essenziale informare lo spettatore sulla "carta d'identità" del protagonista: da quale ceto sociale proviene, come si rapporta con il suo ambiente, dove e come vive, quali siano le sue abitudini. E questo dobbiamo rappresentarlo in pochissime scene, senza diffonderci in troppe spiegazioni verbali: dobbiamo cioè raccontare la personalità del protagonista attraverso ciò che fa. Da questo punto di vista le scene a tavola sono preziose. Ci consentono, da sceneggiatori, di collocare il personaggio nel suo ambiente, di esplorare le sue relazioni famigliari e amicali, e di capire come egli si atteggi di fronte a un rito collettivo (quello del mangiare riuniti attorno a una tavola) che tutti conosciamo a perfezione, ma di cui di rado, proprio perchè è un'esperienza abituale, avvertiamo il senso simbolico.
Traggo un esempio dal primo film che ho sceneggiato insieme a Giorgio Basile e al regista Salvatore Samperi, Liquirizia (1979). Dovevamo evidenziare la differenza tra i due protagonisti: uno studente liceale e uno studente di ragioneria alla fine degli anni cinquanta. Li vediamo uno dopo l'altro in due brevi scene a tavola: il liceale mangia con padre e madre in sala da pranzo, a un tavolo ben apparecchiato e in abito formale. Il rito borghese dell'epoca prevede che si mangi nel più assoluto silenzio. E si mangia poco, perchè i ricchi mangiano meno dei poveri. A sottolineare la sconfortante e algida cerimonia, il piatto è la solita minestra, da sorbire senza produrre risucchi sgradevoli. Poi si stacca sul giovane ragioniere che invece mangia in cucina insieme a suo padre (in pigiama) che parla anche troppo, si diffonde in memorie personali, in rivendicazioni di appartenenza politica, in rimbrotti al figlio che dal canto suo non è neanche interessato a mangiare perchè ha tutt'altri grilli per la testa e non vede l'ora di uscire. Ho già accennato a una scena simile in Saturday Night Fever (1977) di John Badham dove il protagonista Tony Manero disdegna il rito della cena in famiglia cui si presenta regolarmente in ritardo o non si presenta affatto perchè preoccupato solo di correre in discoteca. In pochissimi minuti si raccontano dunque una quantità di cose, semplicemente mostrandole: origine di classe dei personaggi, rapporti con la loro famiglia (diversità generazionali e caratteriali), loro diverse reazioni (il giovane borghese che subisce in silenzio e il giovane proletario che reagisce con sfrontata bulleria).
Una situazione diversa è quella resa celebre dal film Indovina chi viene a cena? (1967) di Stanley Kramer. Alla cena in famiglia è presente un estraneo, nel caso un uomo di colore (Sidney Poitier) legato sentimentalmente alla figlia (bianca) del capofamiglia. Stessa cosa avviene nel recente Ti presento i miei (2000) di Jay Roach, dove il giovanotto "liberal" di origine ebraica Ben Stiller viene invitato a pranzo dalla famiglia della sua fidanzata e si trova subito a doversi confrontare con l'arcigno padre italo-americano e per di più agente segreto. Le scene a tavola in questi casi consentono non solo di presentare i membri della famiglia nel loro ambiente, ma di vederli dal punto di vista di un estraneo, evidenziando il suo imbarazzo e il conflitto interiore della sua fidanzata, divisa tra due diverse appartenenze affettive. Questa situazione è diventata ormai uno standard, replicato in un'infinità di film e telefilm e particolarmente adatto a situazioni da commedia.
Il rito del pranzo in comune può andare al di là dello stretto ambiente famigliare. E' il caso de Il Grande Freddo (1983) di Lawrence Kasdan, dove un gruppo di amici si ritrova dopo anni. La riunione avviene in occasione di un funerale. E il mangiare insieme, inclusa la lunga preparazione, da un lato rinsalda i rapporti, dall'altro rivela i fallimenti e le crisi individuali. La festa è un'altalena continua tra elaborazione del lutto e percezione del senso simbolico della Fine, come fine di un'esperienza generazionale. Qualcosa di molto simile avviene nei film di Denys Arcand, a partire dal primo (Il declino dell'impero americano, 1986). Il riunirsi a tavola degli amici, da rito dell'unità di gruppo si ribalta nel suo opposto di svelamento delle solitudini e della drammaticità dei percorsi individuali. E' la festa degli opposti. La commedia si squarcia. La tragedia incalza, ma si frammenta, e di nuovo chiede ricomposizione e scioglimento "positivo" nel gruppo.
Ci sono poi casi esemplari in cui la cena collettiva diventa una vera e propria resa dei conti. Uno dei momenti topici di questa situazione è nel brindisi. Il rito del brindisi comporta che uno dei partecipanti alla tavolata esprima un omaggio alla ricorrenza che viene celebrata e/o all'ospite festeggiato. Un brindisi in teoria dovrebbe essere celebrativo e gratificante per tutti, dovrebbe sancire e consacrare l'unità solidale del gruppo. Ma è anche un'espressione individuale, dove il singolo emerge letteralmente sugli altri (si alza in piedi e pronuncia il suo discorso nel silenzio generale) e dunque l'occasione si presta ad essere usata polemicamente per svelare l'ipocrisia del rito di gruppo. La cena/festa allora diventa crudele. E' il caso de La cena delle beffe (1941) di Alessandro Blasetti ( "E chi non beve con me peste lo colga!"). E' il caso di Freaks (1932) di Tod Browning dove un banchetto di matrimonio tra un nano e una bella trapezista diventa occasione per una spietata presa in giro del povero sposo da parte della sposa (interessata unicamente ai suoi quattrini) e insieme elemento di scandalo per gli "scherzi di natura" che rinsaldano la loro solidarietà contro i "normali" che di loro si approfittano. Il brindisi qui nasce come scherno, ma l'ubriacatura collettiva lo trascina ad esiti horror. E' infine il caso di Festen (1998) di Thomas Vinterberg dove il brindisi del protagonista che dovrebbe celebrare i sessant'anni del capofamiglia, diventa astioso quanto puntuale svelamento di retroscena violenti e incestuosi.
Il Rito della tavola ha offerto anche occasione per rappresentazioni al limite del delirante, dove l'elemento simbolico assurge a protagonista al di là dei protagonisti stessi.
E' il caso del capolavoro surreale L'Angelo Sterminatore (1962) di Luis Bunuel che rappresenta un gruppo di borghesi letteralmente prigionieri di una sala da pranzo.
E' il caso di Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola dove il grottesco abboffarsi di un gruppo di sottoproletari nasconde (e insieme rivela) un avvelenamento da orda primitiva.
E' il caso della cena dei mostri di The Texas Chainsaw Massacre (1974) di Tobe Hooper in cui gli "invitati" sono vittime impotenti e sacrificali.
Se ne può concludere che la scene a tavola esprimono tutto il loro potenziale narrativo quanto meno sono puramente di passaggio, e quanto più sono scene che assumono nel contesto di un film un rilievo assoluto ed esemplare. E veniamo così al punto: come si sceneggiano queste scene? Quali difficoltà presentano e come sormontarle?
Problemi e soluzioni
Si può pensare che una scena a tavola, dato che mantiene un'impostazione teatrale di base (ambiente unico, dialoghi alternati dei protagonisti, stretta unità di tempo, luogo e azione) sia di per sè poco costosa e impegnativa. Non è affatto così. Il tempo necessario a girare una scena a tavola è in genere molto più lungo di quello necessario per una normale scena d'ambiente. Sono in scena molti personaggi, ciascuno nella sua posizione obbligata. La fissità stessa della situazione comporta, se non si vuole sprofondare nella monotonia, un frequente cambio di inquadrature e dunque di luci. A seconda della posizione della macchina da presa, la tavola dev'essere di continuo sgomberata e riarredata tra un ciak e l'altro. La pause di lavorazione sono di conseguenza continue e sfiancanti. Il contenuto dei piatti che gli attori fingono di mangiare, ma più spesso mangiano davvero per elementari esigenze di resa realistica, dev'essere costantemente rinnovato in modo che si mantenga sempre in continuità nel montaggio finale. Gli attori sopportano parecchi disagi, restando seduti per ore, sbocconcellando all'infinito lo stesso piatto (e vi assicuro che può essere una tortura... a me è capitato, da attore, di dover sforchettare per un giorno intero un piatto di riso) e pronunciando battute tra un boccone e l'altro. Se la scena prevede la presa diretta, la difficoltà aumenta, anche a evitare che il tintinnio di posate e bicchieri o il chiacchiericcio degli altri commensali risaltino troppo.
Insomma, girare una scena a tavola è lungo, complicato e affliggente per il regista, per le maestranze e per gli attori. E questo uno sceneggiatore consapevole deve tenerlo in debito conto.
Anzitutto, fatevi uno schema della disposizione dei posti. Nel caso di una cena formale, è obbligata (capofamiglia a capo tavola e ospiti sistemati in un certo ordine prescritto dall'etichetta), ma il tempo e l'evoluzione dei costumi hanno reso le cene formali piuttosto antiquate e l'ordine dei posti più casuale. Voi sceneggiando dovete comunque averlo ben chiaro e sistemarlo sulla base delle vostre esigenze narrative.
Prendiamo ad esempio una delle situazioni più replicate dalla commedia all'italiana o meglio dalle sue propaggini degli anni 70 e 80: gli intrallazzi sotto il tavolo dei commensali (quello che fa piedino, quello che tocca le cosce della vicina eccetera). E' di per sè evidente che la disposizione dei posti dovete averla prevista e precisata in partenza. Ma se vi sono casi in cui la vicinanza tra due personaggi è obbligata, vi sono casi opposti in cui è obbligata la distanza e anzi va enfatizzata proprio per sottolineare la difficoltà dei due a relazionarsi anche solo verbalmente. Vi sono casi in cui i vicini di posto bisbigliano tra loro (ad esempio due ragazzini che si scambiano battute sugli altri commensali) oppure in cui si ignorano totalmente perchè preoccupati solo di intratterenere (a parole o a sguardi) chi gli sta di fronte, altri casi in cui i due seduti di fronte sono davvero due "opposti": il solo fatto di fronteggiarsi è una sfida e guasta il pranzo di entrambi. Ciascuna di queste situazioni comporta scelte narrative diverse e l'ordine dei posti deve poterle favorire. Il vostro schema iniziale dei posti dovrà dunque avere le caratteristiche di un progetto narrativo, che consenta di raccontare in modo fluido, espressivo e coerente.
Sarà anche bene prevedere dei momenti che "muovano" la fissità della scena e dei personaggi. Il servizio dei diversi piatti, l'alzarsi e sedersi dei personaggi, tutti gli elementi dinamici devono trovare il modo e il tempo giusto per poter intervenire a rendere più vivace la scena. Questo genere di accortezza vale anche per film che simulano un'impostazione "documentaristica" e dunque non artefatta. Guardatevi la scena di Borat (2006) di Larry Charles, in cui il protagonista è ospite a cena da una famiglia americana "per bene"). Naturalmente questi elementi dinamici possono essere a loro volta occasione di narrazione. In Hollywood Party, film del 1968 di Blake Edwards, diventano i veri protagonisti della scena a tavola. Controllate come nel susseguirsi delle gag soltanto alcuni dei personaggi intorno al tavolo ne siano protagonisti. Non è affatto detto che in una tavolata di venti persone noi si debba dare un ruolo definito a ciascuna di queste persone. Le posizioni rispettive sono piùimportanti del numero globale.
In certi casi la scena può essere anche spezzata da intermezzi in cucina o in altri ambienti, ma anche questo non dovete usarlo come mero espediente dinamico. Anche questi intermezzi vanno considerati per le possibilità narrative che offrono. Se sono mere pause di stacco, non servono a molto. Rischiano anzi di evidenziare per contrasto la stasi della scena a tavola.
Considerate infine l'elemento tempo, inteso come tempo necessario alla ripresa della scena, che non deve confliggere con il budget previsto per il film. L'inserimento di gag (come ad esempio l'oliva che schizza via da un piatto e colpisce il commensale di fronte) allunga di molto i tempi di ripresa. Le inquadrature sotto il tavolo sono molto più complicate da realizzare di quanto sembri in proiezione: il posizionamento corretto delle luci e della macchina richiede tempo e presenta parecchie scomodità.
Non voglio dire con ciò che lo sceneggiatore debba escludere a priori queste situazioni o inquadrature, ma valutarne la necessità rispetto ai tempi previsti di lavorazione. Le scene a tavola, come detto, già solo per il fatto di richiedere la compresenza di molti attori, hanno un costo di base più elevato. Uno sceneggiatore non può considerare le esigenze narrative come riferimento unico ed esclusivo, deve valutarne anche la praticabilità e il costo, di cui è elemento essenziale il tempo necessario alla realizzazione della scena. Se non si è attenti a questo elemento, la scena verrà girata sciattamente, perchè sarà il regista a doversi fare carico di equilibrare quanto richiesto dallo script con i tempi di realizzazione del film e il budget previsto e lo farà sotto necessità, dunque improvvisando sul momento soluzioni di compromesso. Insomma, tra le tante situazioni quotidiane rappresentate in un film, non c'è scena che richieda una programmazione nei dettagli più di una scena di gruppo a tavola.
Dal punto di vista strettamente drammaturgico, se siete tra quegli sceneggiatori che pensano di risolvere una scena sulla base del dialogo, più o meno come a teatro, allora una scena a tavola potrebbe rivelarsi per voi una vera trappola. Pensate sempre, quando scrivete, a come apparirà la scena montata: una collezione di primi piani di commensali che si scambiano battute? La monotonia visiva sarebbe devastante. Le scene a pranzo sono scene eminentemente corali e come tali vanno pensate. Dovete fornire occasioni di movimento tra i personaggi, e di varietà di inquadrature. Dovete immaginarvi la scena e la sua dinamica complessiva, non limitarvi allo scambio delle battute. E queste battute devono essere pensate in quella situazione. Un dialogo tra due persone nel chiuso di un'automobile, è strutturalmente diverso da un dialogo pubblico come quello che avviene a una tavolata. Dal contesto collettivo non si può assolutamente prescindere. Questo contesto è dominato da un rituale. Un pranzo o una cena non devono essere usati come semplice pretesto per far parlare due o più persone tra loro, ma come una rappresentazione d'insieme, nella quale ogni cosa detta viene condizionata dall'occasione e dalla ritualità che gli è propria.