E’ un po’come alla scuola guida. Le lezioni che insegnano i componenti e il funzionamento del motore, possono venire considerate da chi le segue noiose e superflue: “Sono qui per imparare a guidare. Insegnami i comandi e i segnali stradali da rispettare, non mi interessa come l’auto funziona in sé, nei suoi meccanismi. Se non funziona bene o se si scassa ci penserà il meccanico.”
Premessa – Questa lezione e quella del prossimo mese saranno più lunghe delle precedenti e molto più tecniche. Vi consiglio di stamparvele e di studiarvele con calma. E’ un po’come alla scuola guida. Le lezioni che insegnano i componenti e il funzionamento del motore, possono venire considerate da chi le segue noiose e superflue: “Sono qui per imparare a guidare. Insegnami i comandi e i segnali stradali da rispettare, non mi interessa come l’auto funziona in sé, nei suoi meccanismi. Se non funziona bene o se si scassa ci penserà il meccanico.” Un simile ragionamento non può essere fatto da un bravo pilota che deve conoscere molto bene il motore, anche per imparare a modificarlo sulla base delle proprie esigenze. Lo sceneggiatore oltretutto, da questo punto di vista, a differenza del regista e degli attori, come ruolo può venire avvicinato più al meccanico che al pilota. Lo sceneggiatore è quello che mette a punto l’auto prima che questa si metta in viaggio.
1. La curva dell’attenzione
Durante il servizio militare ebbi occasione di assistere alla proiezione di un filmato didattico prodotto dalla NATO. Sorprendentemente, ogni tanto il filmato veniva interrotto dall’apparizione di Mickey Mouse che suonava la tromba per risvegliare l’attenzione assopita degli spettatori. Ci venne in seguito spiegata la teoria che stava alla base di questa “trovata”. L’attenzione del pubblico ha un ciclo di circa venti/venticinque minuti. Parte abbastanza sostenuta e raggiunge il suo picco dopo i primi sette/dieci minuti, poi cala costantemente fino a raggiungere il minimo dopo, appunto, venti/venticinque minuti. Se la lezione continua oltre questo limite, l’attenzione risale mantenendosi abbastanza costante per altri venticinque minuti, ma non raggiunge mai l’apice dei primi dieci minuti. Lo sforzo di un comunicatore, dunque, deve essere duplice: usare i primi dieci minuti per fissare le informazioni fondamentali nella mente dello spettatore, e poi rallentare la caduta dell’attenzione, mantenendola alta con piccole “scosse”, “svolte narrative” o “colpi di scena”. Dato che i militari non vanno tanto per il sottile, il trucco escogitato ( l’apparizione divertente di Topolino e lo squillo improvviso di tromba) presuppone che a quel punto l’allievo (dopo il bombardamento informativo dei primi dieci minuti) abbia ormai le palpebre semi-abbassate e stia per crollare nel sonno. E’ evidente che siccome alla base dei processi di attenzione c’è la motivazione del soggetto, un conto è assistere per obbligo a un noioso filmato didattico, tutt’altro conto è andare al cinema, pagare il biglietto per uno spettacolo che si è scelto, e, in un ambiente raccolto che non consente molte distrazioni, assistere a un film che si presuppone di proprio gradimento. Tuttavia la Curva dell’Attenzione è stata presa molto sul serio dagli studiosi delle tecniche di comunicazione verbale, dai pubblicitari , dai produttori di programmi televisivi e, in misura crescente nel corso degli anni dal cinema americano, sempre più orientato all’Industria dell’Intrattenimento, più che alla creazione artigianale/artistica . Prendiamo ad esempio un film recente: Van Helsing di Stephen Sommers, che pare in preda a una vera ossessione di “mantenimento dell’attenzione”, cosa che si crede di ottenere con l’accumulo di scene d’azione al limite della congestione, supportate da musiche roboanti. E’ questo per la verità, un eccesso che può facilmente portare all’effetto contrario. I vecchi maestri dell’horror sapevano bene che le punte massime di tensione si ottenevano con il silenzio. Esagerare gli effetti visivi e acustici può condurre lo spettatore a una sorta di sonno ipnotico: il cervello, per difendersi dall’aggressione,”stacca” e lo spettatore si addormenta. Supporre che l’attenzione possa essere mantenuta alta con continue e aggressive “trovate” invece che con l’interesse del racconto e una sapiente regolazione dei ritmi narrativi, è pericolosissimo per chi fa cinema. Nelle scuole di sceneggiatura americane hanno però preso piede nel tempo teorie di segmentazione di ogni istante del racconto che sempre più rigidamente fanno riferimento agli studi sull’attenzione, prescrivendo passaggi obbligati di racconto al fine di stimolare costantemente il pubblico. La più celebre e influente di queste teorie è dovuta a Syd Field, lettore di sceneggiature e consulente di molte grosse major, docente di numerosi corsi per aspiranti sceneggiatori e autore di diversi libri e manuali sul tema. Ne potete trovare una puntuale spiegazione, con esercizi,nel suo libro The Screen-writer’s Workbook ( Exercises and Step-by-Step Instructions for Creating a Successful Screenplay) (Dell Publishing) , che qui di seguito analizzeremo sinteticamente e criticamente. Già fin dal titolo, comunque, risulta molto chiaro che per Syd Field, il successo di un film risiede in una sceneggiatura che applichi in ogni suo segmento delle precise regole di comunicazione.
2. Il metodo di Syd Field
a) Il modello base
Syd Field definisce un modello base di film: durata due ore circa di proiezione, suddivise in centoventi scene, dunque della durata media di un minuto. E un minuto di narrazione visiva corrisponde all’incirca ad una pagina di sceneggiatura. Dunque la lunghezza media di una sceneggiatura di un film di due ore, è di circa centoventi pagine.
Nulla da eccepire, fin qui. Un simile modello può venire definito “medio” ormai da molti anni, anche se il cinema delle origini conosceva una varietà molto maggiore di format ,varietà che l’attuale produzione di film in video sembra poter riportare in auge. Comunque, a questo modello possiamo tranquillamente attenerci.
Una prima istruzione si può già ricavare: i tempi narrativi di un film sono molto stretti e concentrati. Non dimenticate mai che dovete raccontare la vostra storia in un paio d’ore. Un film non è un romanzo che può durare quanto pare a voi. Ogni fase del racconto deve venire sviluppata in riferimento al tempo globale della narrazione. In sostanza: evitate di scrivere scene troppo lunghe. I tempi di un film, anche del più realistico dei film, non sono affatto “realistici”, non imitano cioè quelli della vita reale, li ricreano. Quando scrivete una scena, buttatela pure giù come vi viene, ma poi controllate quante pagine vi ha preso, rileggetela da capo figurandovela nel suo svolgersi, recitatene i dialoghi ad alta voce, cronometrate la sua durata. Se la scena si prolunga per troppi minuti , se occupa troppe pagine, cancellate tutto quanto è superfluo concentrandovi sul suo contenuto essenziale, su quel che serve veramente al racconto e sulle punte espressive. Se, per esempio, tutte le volte che un personaggio viene a contatto con un ambiente, voi lo fate entrare, ci descrivete il modo in cui si presenta agli altri, ciò che fa e che dice, e poi concludete con la sua uscita dall’ambiente e magari proseguite con una scena di passaggio in cui si sposta da questo all’ambiente successivo, be’ tutto questo risulterà alla fine di una lentezza mortale, ammorbante per lo spettatore. Meglio mostrare il nucleo dell’azione già in corso, eliminando testa e coda. Inoltre evitate, se non strettamente indispensabile, di allineare le scene con un ordine prevedibile e scontato. Luis Bunuel disse: “Se alla conclusione di una scena un personaggio dice all’altro: ci vediamo all’Hotel Ambassador, la scena successiva non può essere ambientata all’Hotel Ambassador. Dovunque, ma non lì.” Questo genere di raccordi tra scena e scena possono essere comodi e a volte anche utili, ma se insistiti, finiscono per negare una regola fondamentale del cinema: il racconto procede a stacchi. Su questo punto torneremo in seguito.
b) Suddivisione della sceneggiatura
- I Tre Atti
Syd Field suddivide una sceneggiatura in tre momenti fondamentali, cioè tre Atti. Nel Primo Atto, la presentazione del /dei protagonisti e della situazione (d’ambiente e di tema); nel Secondo Atto lo sviluppo, cioè il complicarsi della vicenda con l’ingresso di altri personaggi e con l’insorgere di conflitti e difficoltà; nel Terzo Atto, lo scioglimento, cioè da un lato il compimento delle premesse implicite nell’inizio, dall’altro il superamento delle difficoltà incontrate in senso positivo (il protagonista ce la fa) o negativo ( il protagonista soccombe).
Si può osservare che la divisione di un racconto in questi tre momenti, non è specifica del cinema, ma può applicarsi a molte altre forme di racconto ( musicale, letterario, teatrale) . Ogni racconto, ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Questa è certamente una struttura fondamentale, anche se bisognerebbe aggiungere che non è affatto, al contrario di quanto comunemente si crede, l’unica forma possibile di racconto. La struttura di un racconto può essere, ad esempio, anche circolare ( nel caso in cui il finale riproduca l’inizio) , oppure per frammenti, o anche trasgredire un ordine narrativo cronologico con un prima e un poi, o ripercorrere sempre la stessa vicenda, ma da diversi punti di vista, a partire dai quali la vicenda non ci appare mai come la stessa. Non è nemmeno infrequente che il racconto resti totalmente aperto e non si concluda affatto. Tuttavia la divisione in tre atti resta la struttura fondamentale di un racconto e specie in chi comincia ad affrontare i problemi della scrittura, è consigliabile attenervisi se non altro per dare un ordine alle idee e alle diverse fasi del racconto. Dunque quando pensate una storia e ne scrivete il soggetto, tenete sempre presente questa tripartizione e fissate in modo chiaro quali debbano essere l’inizio, lo sviluppo e la conclusione. Questo primo schema non esclude che in corso di scrittura voi poi non possiate cambiare questo previsto a priori per le singole parti. Per molti scrittori è molto più importante la scrittura stessa che la programmazione, cioè per questi scrittori le linee fondamentali di una storia emergono nel concreto, mentre la storia viene scritta. E’ scrivendo che spesso vengono in mente sviluppi e svolte che a freddo non avevamo previsto. Altri scrittori invece non riescono proprio ad andare avanti se non hanno chiaro fin dal principio il percorso complessivo degli eventi, per loro la scrittura è l’esecuzione di un progetto. Nessuno può sostenere che sia migliore uno scrittore del primo tipo o uno scrittore del secondo tipo. Questo non ha nulla a che fare con l’Oggetto Racconto, ha invece a che fare con il Soggetto Scrittore . Finché non avete scoperto bene che tipo di scrittore siete, è saggio mantenere una via mediana e cioè: scrivete una scaletta di quanto vi proponete di raccontare, a partire dai tre momenti fondamentali ( inizio, sviluppo e conclusione) e mettendo in ordine, all’interno dei singoli momenti, le diverse cose che prevedete debbano accadere, ma non applicate troppo rigidamente questa scaletta e all’occorrenza cambiatela se dalla scrittura concreta emergono in voi idee e spunti che vi spingono a modificare (con maggiore o minore radicalità) il progetto originario.
Tuttavia questa suddivisione in Tre Atti, come si è osservato al principio, non ci dice ancora nulla sulla specificità del racconto cinematografico e dunque Syd Field non si limita a questa prima indicazione, spingendosi oltre, nell’esame scrupoloso di ogni singolo Atto ( nella sua specificità cinematografica) e delle diverse fasi narrative all’interno di ogni singolo Atto.
Qui le indicazioni diventano estremamente minute e richiederebbero troppo spazio per essere esaminate. Mi limiterò dunque ai cenni fondamentali, rinviando chi fosse interessato ad approfondire, al testo sopra segnalato di Syd Field.
- Equilibrio delle parti
Anzitutto Syd Field ripartisce così i tempi dei tre Atti. Primo Atto , dalla scena 1 alla scena 30. Secondo Atto, dalla scena 31 alla scena 90. Terzo Atto dalla scena 91, alla scena 120. Cioè nell’equilibrio generale, lo sviluppo (il Secondo Atto) deve occupare pari spazio al Primo e al Secondo Atto sommati. Cioè significa , come indicazione agli aspiranti sceneggiatori, che la Presentazione non deve prolungarsi troppo, per non tradire l’attesa del pubblico che si entri nel cuore della vicenda vera e propria, e che la conclusione non deve essere “sbrodolata” . Anche qui, come indicazione di massima può risultare utile, ma non sta scritto da nessuna parte che obbligatoriamente un racconto cinematografico debba essere scandito così e con questi tempi. Né è obbligatorio che il racconto debba essere per forza equilibrato nelle sue parti, questa è una scelta che riguarda l’autore, è un fatto eminentemente stilistico che non può venire prescritto, pena la riduzione di ogni autore ad esecutore di progetti industriali pre-formattati nei dettagli.
Ora: è proprio questa seconda opzione che viene scelta da Syd Field,il quale proseguendo nell’esame dei singoli Atti, prescrive ad esempio, nel caso del Primo, una ulteriore tripartizione: tre momenti di dieci minuti ciascuno, dedicati alla progressiva individuazione del focus narrativo, cioè dai primi dieci minuti in cui necessariamente la presentazione è più generale e generica, ai secondi dieci minuti in cui si individuano con maggiore precisione il carattere del protagonista e il tema da narrare (quello che ci interessa di più tra i tanti possibili), al terzo segmento in cui si stringe ancora di più su un protagonista che ha ormai definito il suo obiettivo e sul nucleo centrale della vicenda.
Ma Syd Field non si ferma a questo. Prescrive ai suoi studenti di stendere una scaletta estremamente precisa e dettagliata, al punto da suddividere la vicenda nei suoi singoli istanti, cioè tutte le cose che devono accadere, una per una, ciascuna da appuntare su un foglietto separato e numerato. Si prescrive anche un certo numero di foglietti per ogni segmento dell’ Atto, in modo da poter assegnare un ritmo preciso e ordinato alla narrazione.
Esaminerò nella prossima lezione alcune reazioni degli autori di cinema a questo modo di intendere e di organizzare il lavoro di scrittura, qui per non rendere troppo astratto il problema, ho cercato di sottoporre la indicazioni di Syd Field a una verifica sperimentale, cui egli stesso invita i suoi allievi.
Cioè per stabilire se queste indicazioni servano davvero a individuare il Modello Vincente di racconto, cioè la Sceneggiatura di Sicuro Successo, ho scelto abbastanza a caso quattro film, di epoche, di stile e di genere molto diversi tra loro, ma tutti egualmente premiati da un indubbio successo sia sul piano commerciale che su quello dell’apprezzamento estetico. Ho esaminato questi film al videoregistratore, cosa che ciascuno di voi può fare, per vedere se effettivamente il loro modo di scandire la vicenda corrisponda allo schema tracciato da Syd Field.
- A qualcuno piace caldo ( di Billy Wilder)
Il film inizia come un film d’azione tipicamente gangsteristico: inseguimenti, sparatorie, irruzioni della polizia in bische. Dopo una decina di minuti così, si presentano i due protagonisti (due musicisti di jazz) Jack Lemmon e Tony Curtis che scappano nel corso di una retata e poi cercano, invano, un altro ingaggio. Al quindicesimo minuto, apprendono che l’unico ingaggio possibile è in un’orchestra femminile. L’altra protagonista del film, Marilyn Monroe, compare solo al minuto 24 (in singolare coincidenza, si può osservare, con la prevedibile flessione della curva dell’attenzione. Nel caso, bastano altre curve a risollevare subito il pubblico).
Grosso modo si può affermare che questo film non smentisce affatto il modello di Syd Field, anche se presenta una sua indubbia originalità per esempio presentandoci un lungo prologo d’azione, quasi che non si trattasse affatto di una commedia, ma di un film di gangster. Nei primi dieci minuti , i veri protagonisti non ci sono neppure. Questo film è dunque un prezioso esempio di come lo schema possa ( debba, direi) venire interpretato con la massima libertà creativa e non venir inteso come una “gabbia” entro la quale incastonare gli avvenimenti.
- L’esorcista ( di William Friedkin)
Dopo un misterioso flash urbano iniziale (notturno, su una casa normale, ma immersa in un’atmosfera spettrale) il film si sposta su un lungo prologo assolato nell’Iraq del nord, dove sono in corso scavi archeologici nel corso dei quali Max Von Sidow rinviene una statuetta di un demone e ha in seguito oscure premonizioni e visioni, si torna poi con uno stacco brutale allo scenario metropolitano. Dopo questi primi dieci minuti di racconto, ci vengono presentati i personaggi della madre di Reagan e di Reagan stessa ( un ragazzina posseduta dal demonio, ma non lo sappiamo ancora) . La madre è un’attrice e sta studiando un copione per la scena che dovrà girare il giorno dopo e , verso l’alba, viene destata da strani rumori che sembrano provenire dalla soffitta. Reagan, appura la madre, non si è svegliata e pare dormire placidamente nel suo letto. Il film prosegue con un tono di racconto del tutto anti-avventuroso, come una normale storia di vita quotidiana. Il percorso narrativo è reso in modo non lineare , anzi del tutto spiazzante, quando vediamo che il film in cui la madre di Reagan recita, è un film tipicamente anni 70 sulla Contestazione. Il racconto prosegue molto lentamente da qui in poi, facendoci intendere che Reagan soffre di qualche misterioso disturbo che richiede esami clinici, ed è solo dopo 45 minuti di film che questo genere di disturbi si manifesta in un’azione davvero inquietante: Reagan appare in camicia da notte nel salotto dove sua madre intrattiene degli ospiti e piscia sul tappeto.
Questo film non prolunga il prologo oltre i dieci minuti e in questo senso, ma solo in questo senso, può venire letto alla luce dello schema di Syd Field, ma poi prosegue con uno stile narrativo tutto suo, che spiazza continuamente il pubblico con salti di genere e di ritmo, quasi fosse un montaggio di film diversi, e che prima di entrare nel vivo della vicenda prolunga la nostra attesa a dismisura.
Il rigido schema di Syd Field è inapplicabile alla lettura di questo film.
- Il sorpasso ( di Dino Risi)
I protagonisti compaiono fin dai titoli di testa e ci vengono presentati nel contesto di una Roma deserta, in piena estate. La svolta del decimo minuto è rappresentata dall’uscita dei due da Roma, a bordo di una veloce macchina sportiva. La guida di Vittorio Gassman è così disinvolta che il suo compagno di viaggio Jean Louis Trintignant, osserva: “ Sono nelle mani di un pazzo!”. Si entra insomma nel pieno della vicenda, con una scena che è già una premonizione dell’incidente stradale che chiuderà drammaticamente il film. Ma questo il pubblico non lo sa ancora, non può ancora leggere questa scena e quella battuta come un “segnale”, perché questo evento è raccontato in assoluta fluidità con quelli che lo precedono e lo seguono. In altre parole, il pubblico non ha alcuna chiara percezione che il racconto sia entrato in una nuova fase. Non c’è nessun colpo di scena , nessun salto narrativo, nessun “cambiamento apparente di genere” che ci segnali che stiamo entrando in un’altra fase del racconto. Il sorpasso ci insegna qualcosa di molto prezioso: lo sceneggiatore deve avere una scaletta ( senza una scaletta che già prevedesse quel finale, la scena dell’uscita da Roma con l’auto che strombazza e va a gran velocità e la battuta di Trintignant non sarebbero state significative) , ma il pubblico non deve essere costretto a riconoscerla. La struttura di una narrazione deve essere ben presente a uno sceneggiatore consapevole, ma il pubblico non deve necessariamente accorgersene, anzi in una narrazione fluida è bene che non la avverta neppure.
- Shrek ( di Andrew Adamson e Vicky Jenson )
Nei primi dieci minuti si presentano l’Orco Shrek (protagonista del film) e il suo asino, in una scena molto animata in cui li vediamo vittime della persecuzione e della paura di contadini superstiziosi.
Dopodiché quando ci spostiamo nel rifugio di Shrek il film svolta presentandoci una vera e caotica irruzione di personaggi di favole diverse: la Bella Addormentata, il Pifferaio Magico, Cappuccetto Rosso eccetera. Il vero tema del film è appunto “il mondo delle favole” che visto come un insieme, anarchicamente mischia racconti separati in un’unica narrazione, avventurosa , ironica e parodistica.
Anche questo film corrisponde solo in modo molto libero alla scaletta di Syd Field.
- In conclusione
Dagli esempi di cui sopra, risulta insomma chiaramente che ( si faccia o meno riferimento alla curva dell’attenzione) il criterio secondo cui dopo dieci minuti di film si deve entrare nel vivo della vicenda e far “decollare” la narrazione, non è senza fondamento. Ma che prescrivere uno stile di narrazione punto per punto, minuto per minuto, oltre a violentare la libertà stilistica del narratore, non è affatto di per sé garanzia né di Successo, né di Qualità. Casca a fagiolo una citazione di Piaget, il grande pedagogo, che ha tra l’altro studiato attentamente i meccanismi dell’attenzione nei bambini: “Ascoltare una sinfonia è ben più che ascoltare una serie di note musicali separate”. In altre parole il ritmo , la fluidità, l’equilibrio oppure gli squilibri che vogliamo introdurre in una narrazione, non attengono affatto alle singole parti della narrazione e non possono venire stabiliti a priori, pena una semplificazione letale della comunicazione espressiva. Filosoficamente il problema può venire accostato al celebre paradosso di Zenone della Freccia Ferma. Cioè , se si considera il tracciato compiuto dalla freccia scoccata, essendo esso composto da un insieme infinito di punti, c’è sempre un punto che dovrà venire attraversato dalla freccia prima del successivo, dunque la freccia non si muove affatto e il suo movimento è pura apparenza. Ora: una pellicola cinematografica è composta da fotogrammi e il movimento è appunto frutto di un’illusione. Fotogrammi di per sé immobili, proiettati a un certo ritmo,vengono percepiti dall’occhio in una sequenza mobile. Ma se noi facciamo il procedimento inverso e frammentiamo il movimento nelle sue singole componenti, fino al singolo fotogramma, il risultato di questo modo di procedere è che il film non esiste più! Il singolo fotogramma , di per sé, non ha neppure la dignità estetica di una fotografia, in quanto non è fatto per essere visto nella sua singolarità, ma in sequenza.
Dividere la sceneggiatura in singoli istanti parcellizzati, può avere l’effetto, del tutto rovinoso, di distruggere il movimento, la fluidità narrativa, la percezione del racconto come un unicum. In altre parole, se l’assunto di Syd Field era quello di educare i suoi studenti a un racconto unito ed equilibrato, il risultato è l’opposto: un racconto macchinale che procede a scatti, prevedibile in ogni sua fase ( se non altro perché visto applicato pedissequamente in centinaia e centinaia di film) , senza vere alterazioni di ritmo e senza movimento alcuno. Il Motore Immobile.
-Esercizio: come affrontare la Scaletta.
Il consiglio che mi sento di dare agli sceneggiatori esordienti è dunque di studiare sì una partitura del film nei suoi momenti essenziali, ma di non applicare una struttura troppo rigida e vincolante al racconto.
Ci sono ben altri vincoli strutturali di cui un film deve tenere conto e questi li vedremo nella prossima lezione.
Nell’attesa, cominciate comunque ad esercitavi a scrivere una scaletta della vostra storia, dividendola in tre atti al fine di poterla intendere come un percorso d’insieme nel quale ogni momento (ogni cosa che deve succedere) sia pensato in rapporto con il tutto e con la durata complessiva. Ma tenete anche in conto che quasi mai la scaletta coincide con il momento ispirativo di un film. Lo stimolo per un racconto può essere fornito anche da una sola scena, da un singolo momento espressivo. A uno sceneggiatore molto di rado capita di incontrare un regista che gli racconti una storia nel suo completo percorso. Molti registi, non necessariamente “visionari”, possono dirvi: nel film deve esserci questo, e vi raccontano una situazione. Per esempio, per riferirsi a un noto film di Dario Argento: il protagonista assiste a qualcosa di terribile, vorrebbe chiudere gli occhi, ma non può, perché le sue palpebre in qualche modo sono bloccate. Al regista interessa raccontare questa situazione angosciosa. Il punto è come arrivarci, come collocarla nell’insieme del film, come elaborarla ( studiando ad esempio come poter realisticamente bloccare le palpebre del protagonista o a quale evento terribile egli venga fatto assistere e da chi, perché eccetera). Insomma : il più delle volte in partenza ( quando si pensa a un film) non c’è affatto, non c’è ancora un racconto, ma c’è una situazione fortemente emotiva, attorno alla quale costruire racconto. Spesso queste situazioni sono molte di più di una e dunque occorre scoprire come legarle tra loro in un racconto unitario. Se parto da singoli momenti climax, situazioni fortemente espressive, e poi costruisco il racconto, allora la scaletta è il risultato di un’elaborazione di elementi sparsi da approfondire e chiarire. Dunque i famosi foglietti da mettere in fila possono anche essere scritti prima della scaletta e approfonditi ben più che in una riga essenziale. I momenti dominanti di un film possono venire intesi non come scansioni del racconto, ma come momenti fondanti del racconto. In questo caso, il racconto dipende da loro, non sono loro a dipendere dal racconto.
Schematizzando: un modo di raccontare è partire dalla storia e poi piazzare ogni tanto un Mickey Mouse che suona la tromba, giusto per dare qualche scossa al pubblico. Resta però il fatto che in questo modo la forzatura si avverte, perché Mickey Mouse non c’entra nulla con la storia che sto raccontando. Anzi la storia di per sé potrebbe venire raccontata senza Mickey Mouse, se fossi in presenza di un pubblico molto motivato che non ha bisogno alcuno d’essere costantemente risvegliato.
Un modo completamente opposto di raccontare è: la storia mi serve solo per arrivare a Mickey Mouse, che è comunque la parte più divertente del film, più Mickey Mouse ci sono, meglio è, la storia è mero pretesto.
E infine c’è un modo più “equilibrato” di raccontare, che non consiste affatto nel dedicare un minutaggio fisso alle singole parti di un film, ma nell’articolare la narrazione fluidamente in modo che ( come nell’esempio del Sorpasso) i singoli episodi e gli scatti narrativi di un film non siano semplicemente assemblati e neanche siano percepibili come momenti distinti dal pubblico. Lo sceneggiatore deve avere in testa una struttura, ma il pubblico deve assistere a una storia, mentre la struttura può benissimo risultargli invisibile. E la storia è altrettanto importante dei singoli elementi che la compongono e la scandiscono. L’insieme e i singoli momenti si tengono l’un l’altro.
Non intendo dare un giudizio di merito su queste tre procedure, ciascuna a suo modo legittima, ma mostrare che il cosa e il come raccontare non sono mai riconducibili a un unico modello.
Cosa voglio raccontare? E’ la prima domanda da porsi: riguarda la scelta del tema centrale, la definizione del protagonista, del genere, di quello che mi preme mostrare, anche di singole scene o situazioni. E’ una fase libera e anarchica, da affrontare con la massima carica esplorativa, senza preoccuparsi di incongruenze, passi falsi, digressioni . In cinema è la fase in cui “si va a ruota libera” , occupata da lunghe conversazioni anche senza centro apparente, anche apparentemente improduttive, ma assolutamente fondamentale per trovare un’intesa tra sceneggiatori, tra questi e il regista e/o il produttore e/o l’attore protagonista. E’ la fase in cui anche lo sceneggiatore attraversa il caos per afferrare gli elementi veramente essenziali su cui fondare il proprio racconto.
La seconda è: Come voglio raccontare? Quale ritmo, quale stile espressivo esprime meglio il senso ( non solo contenutistico, anche emotivo) di questo film? Anche questa fase è esplorativa. Non la si decide semplicemente a priori ma sperimentando nel concreto la scrittura, per esempio, come suggerito dalla prime lezioni di questo corso, provando a presentare il protagonista , studiando il modo più efficace di rappresentarlo in una situazione definita. Questo genere di esercizio è quello che avete fatto scrivendo la prima scena del vostro film e sottoponendola a revisioni fino a trovare la versione per voi più convincente e corrispondente al racconto che avete in testa. Le scelte che fate nei primi dieci minuti di film, vi condizioneranno per tutto il racconto. Una falsa partenza non è recuperabile, va ripensata e riscritta.
Soltanto dopo aver chiarito a voi stessi e con il regista questi aspetti fondanti del film allora potete passare alla stesura di una scaletta che rappresenti un primo ordine da dare agli elementi del racconto e che vi funzioni da modello di riferimento nel corso della sceneggiatura vera e propria.
1. La curva dell’attenzione
Durante il servizio militare ebbi occasione di assistere alla proiezione di un filmato didattico prodotto dalla NATO. Sorprendentemente, ogni tanto il filmato veniva interrotto dall’apparizione di Mickey Mouse che suonava la tromba per risvegliare l’attenzione assopita degli spettatori. Ci venne in seguito spiegata la teoria che stava alla base di questa “trovata”. L’attenzione del pubblico ha un ciclo di circa venti/venticinque minuti. Parte abbastanza sostenuta e raggiunge il suo picco dopo i primi sette/dieci minuti, poi cala costantemente fino a raggiungere il minimo dopo, appunto, venti/venticinque minuti. Se la lezione continua oltre questo limite, l’attenzione risale mantenendosi abbastanza costante per altri venticinque minuti, ma non raggiunge mai l’apice dei primi dieci minuti. Lo sforzo di un comunicatore, dunque, deve essere duplice: usare i primi dieci minuti per fissare le informazioni fondamentali nella mente dello spettatore, e poi rallentare la caduta dell’attenzione, mantenendola alta con piccole “scosse”, “svolte narrative” o “colpi di scena”. Dato che i militari non vanno tanto per il sottile, il trucco escogitato ( l’apparizione divertente di Topolino e lo squillo improvviso di tromba) presuppone che a quel punto l’allievo (dopo il bombardamento informativo dei primi dieci minuti) abbia ormai le palpebre semi-abbassate e stia per crollare nel sonno. E’ evidente che siccome alla base dei processi di attenzione c’è la motivazione del soggetto, un conto è assistere per obbligo a un noioso filmato didattico, tutt’altro conto è andare al cinema, pagare il biglietto per uno spettacolo che si è scelto, e, in un ambiente raccolto che non consente molte distrazioni, assistere a un film che si presuppone di proprio gradimento. Tuttavia la Curva dell’Attenzione è stata presa molto sul serio dagli studiosi delle tecniche di comunicazione verbale, dai pubblicitari , dai produttori di programmi televisivi e, in misura crescente nel corso degli anni dal cinema americano, sempre più orientato all’Industria dell’Intrattenimento, più che alla creazione artigianale/artistica . Prendiamo ad esempio un film recente: Van Helsing di Stephen Sommers, che pare in preda a una vera ossessione di “mantenimento dell’attenzione”, cosa che si crede di ottenere con l’accumulo di scene d’azione al limite della congestione, supportate da musiche roboanti. E’ questo per la verità, un eccesso che può facilmente portare all’effetto contrario. I vecchi maestri dell’horror sapevano bene che le punte massime di tensione si ottenevano con il silenzio. Esagerare gli effetti visivi e acustici può condurre lo spettatore a una sorta di sonno ipnotico: il cervello, per difendersi dall’aggressione,”stacca” e lo spettatore si addormenta. Supporre che l’attenzione possa essere mantenuta alta con continue e aggressive “trovate” invece che con l’interesse del racconto e una sapiente regolazione dei ritmi narrativi, è pericolosissimo per chi fa cinema. Nelle scuole di sceneggiatura americane hanno però preso piede nel tempo teorie di segmentazione di ogni istante del racconto che sempre più rigidamente fanno riferimento agli studi sull’attenzione, prescrivendo passaggi obbligati di racconto al fine di stimolare costantemente il pubblico. La più celebre e influente di queste teorie è dovuta a Syd Field, lettore di sceneggiature e consulente di molte grosse major, docente di numerosi corsi per aspiranti sceneggiatori e autore di diversi libri e manuali sul tema. Ne potete trovare una puntuale spiegazione, con esercizi,nel suo libro The Screen-writer’s Workbook ( Exercises and Step-by-Step Instructions for Creating a Successful Screenplay) (Dell Publishing) , che qui di seguito analizzeremo sinteticamente e criticamente. Già fin dal titolo, comunque, risulta molto chiaro che per Syd Field, il successo di un film risiede in una sceneggiatura che applichi in ogni suo segmento delle precise regole di comunicazione.
2. Il metodo di Syd Field
a) Il modello base
Syd Field definisce un modello base di film: durata due ore circa di proiezione, suddivise in centoventi scene, dunque della durata media di un minuto. E un minuto di narrazione visiva corrisponde all’incirca ad una pagina di sceneggiatura. Dunque la lunghezza media di una sceneggiatura di un film di due ore, è di circa centoventi pagine.
Nulla da eccepire, fin qui. Un simile modello può venire definito “medio” ormai da molti anni, anche se il cinema delle origini conosceva una varietà molto maggiore di format ,varietà che l’attuale produzione di film in video sembra poter riportare in auge. Comunque, a questo modello possiamo tranquillamente attenerci.
Una prima istruzione si può già ricavare: i tempi narrativi di un film sono molto stretti e concentrati. Non dimenticate mai che dovete raccontare la vostra storia in un paio d’ore. Un film non è un romanzo che può durare quanto pare a voi. Ogni fase del racconto deve venire sviluppata in riferimento al tempo globale della narrazione. In sostanza: evitate di scrivere scene troppo lunghe. I tempi di un film, anche del più realistico dei film, non sono affatto “realistici”, non imitano cioè quelli della vita reale, li ricreano. Quando scrivete una scena, buttatela pure giù come vi viene, ma poi controllate quante pagine vi ha preso, rileggetela da capo figurandovela nel suo svolgersi, recitatene i dialoghi ad alta voce, cronometrate la sua durata. Se la scena si prolunga per troppi minuti , se occupa troppe pagine, cancellate tutto quanto è superfluo concentrandovi sul suo contenuto essenziale, su quel che serve veramente al racconto e sulle punte espressive. Se, per esempio, tutte le volte che un personaggio viene a contatto con un ambiente, voi lo fate entrare, ci descrivete il modo in cui si presenta agli altri, ciò che fa e che dice, e poi concludete con la sua uscita dall’ambiente e magari proseguite con una scena di passaggio in cui si sposta da questo all’ambiente successivo, be’ tutto questo risulterà alla fine di una lentezza mortale, ammorbante per lo spettatore. Meglio mostrare il nucleo dell’azione già in corso, eliminando testa e coda. Inoltre evitate, se non strettamente indispensabile, di allineare le scene con un ordine prevedibile e scontato. Luis Bunuel disse: “Se alla conclusione di una scena un personaggio dice all’altro: ci vediamo all’Hotel Ambassador, la scena successiva non può essere ambientata all’Hotel Ambassador. Dovunque, ma non lì.” Questo genere di raccordi tra scena e scena possono essere comodi e a volte anche utili, ma se insistiti, finiscono per negare una regola fondamentale del cinema: il racconto procede a stacchi. Su questo punto torneremo in seguito.
b) Suddivisione della sceneggiatura
- I Tre Atti
Syd Field suddivide una sceneggiatura in tre momenti fondamentali, cioè tre Atti. Nel Primo Atto, la presentazione del /dei protagonisti e della situazione (d’ambiente e di tema); nel Secondo Atto lo sviluppo, cioè il complicarsi della vicenda con l’ingresso di altri personaggi e con l’insorgere di conflitti e difficoltà; nel Terzo Atto, lo scioglimento, cioè da un lato il compimento delle premesse implicite nell’inizio, dall’altro il superamento delle difficoltà incontrate in senso positivo (il protagonista ce la fa) o negativo ( il protagonista soccombe).
Si può osservare che la divisione di un racconto in questi tre momenti, non è specifica del cinema, ma può applicarsi a molte altre forme di racconto ( musicale, letterario, teatrale) . Ogni racconto, ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Questa è certamente una struttura fondamentale, anche se bisognerebbe aggiungere che non è affatto, al contrario di quanto comunemente si crede, l’unica forma possibile di racconto. La struttura di un racconto può essere, ad esempio, anche circolare ( nel caso in cui il finale riproduca l’inizio) , oppure per frammenti, o anche trasgredire un ordine narrativo cronologico con un prima e un poi, o ripercorrere sempre la stessa vicenda, ma da diversi punti di vista, a partire dai quali la vicenda non ci appare mai come la stessa. Non è nemmeno infrequente che il racconto resti totalmente aperto e non si concluda affatto. Tuttavia la divisione in tre atti resta la struttura fondamentale di un racconto e specie in chi comincia ad affrontare i problemi della scrittura, è consigliabile attenervisi se non altro per dare un ordine alle idee e alle diverse fasi del racconto. Dunque quando pensate una storia e ne scrivete il soggetto, tenete sempre presente questa tripartizione e fissate in modo chiaro quali debbano essere l’inizio, lo sviluppo e la conclusione. Questo primo schema non esclude che in corso di scrittura voi poi non possiate cambiare questo previsto a priori per le singole parti. Per molti scrittori è molto più importante la scrittura stessa che la programmazione, cioè per questi scrittori le linee fondamentali di una storia emergono nel concreto, mentre la storia viene scritta. E’ scrivendo che spesso vengono in mente sviluppi e svolte che a freddo non avevamo previsto. Altri scrittori invece non riescono proprio ad andare avanti se non hanno chiaro fin dal principio il percorso complessivo degli eventi, per loro la scrittura è l’esecuzione di un progetto. Nessuno può sostenere che sia migliore uno scrittore del primo tipo o uno scrittore del secondo tipo. Questo non ha nulla a che fare con l’Oggetto Racconto, ha invece a che fare con il Soggetto Scrittore . Finché non avete scoperto bene che tipo di scrittore siete, è saggio mantenere una via mediana e cioè: scrivete una scaletta di quanto vi proponete di raccontare, a partire dai tre momenti fondamentali ( inizio, sviluppo e conclusione) e mettendo in ordine, all’interno dei singoli momenti, le diverse cose che prevedete debbano accadere, ma non applicate troppo rigidamente questa scaletta e all’occorrenza cambiatela se dalla scrittura concreta emergono in voi idee e spunti che vi spingono a modificare (con maggiore o minore radicalità) il progetto originario.
Tuttavia questa suddivisione in Tre Atti, come si è osservato al principio, non ci dice ancora nulla sulla specificità del racconto cinematografico e dunque Syd Field non si limita a questa prima indicazione, spingendosi oltre, nell’esame scrupoloso di ogni singolo Atto ( nella sua specificità cinematografica) e delle diverse fasi narrative all’interno di ogni singolo Atto.
Qui le indicazioni diventano estremamente minute e richiederebbero troppo spazio per essere esaminate. Mi limiterò dunque ai cenni fondamentali, rinviando chi fosse interessato ad approfondire, al testo sopra segnalato di Syd Field.
- Equilibrio delle parti
Anzitutto Syd Field ripartisce così i tempi dei tre Atti. Primo Atto , dalla scena 1 alla scena 30. Secondo Atto, dalla scena 31 alla scena 90. Terzo Atto dalla scena 91, alla scena 120. Cioè nell’equilibrio generale, lo sviluppo (il Secondo Atto) deve occupare pari spazio al Primo e al Secondo Atto sommati. Cioè significa , come indicazione agli aspiranti sceneggiatori, che la Presentazione non deve prolungarsi troppo, per non tradire l’attesa del pubblico che si entri nel cuore della vicenda vera e propria, e che la conclusione non deve essere “sbrodolata” . Anche qui, come indicazione di massima può risultare utile, ma non sta scritto da nessuna parte che obbligatoriamente un racconto cinematografico debba essere scandito così e con questi tempi. Né è obbligatorio che il racconto debba essere per forza equilibrato nelle sue parti, questa è una scelta che riguarda l’autore, è un fatto eminentemente stilistico che non può venire prescritto, pena la riduzione di ogni autore ad esecutore di progetti industriali pre-formattati nei dettagli.
Ora: è proprio questa seconda opzione che viene scelta da Syd Field,il quale proseguendo nell’esame dei singoli Atti, prescrive ad esempio, nel caso del Primo, una ulteriore tripartizione: tre momenti di dieci minuti ciascuno, dedicati alla progressiva individuazione del focus narrativo, cioè dai primi dieci minuti in cui necessariamente la presentazione è più generale e generica, ai secondi dieci minuti in cui si individuano con maggiore precisione il carattere del protagonista e il tema da narrare (quello che ci interessa di più tra i tanti possibili), al terzo segmento in cui si stringe ancora di più su un protagonista che ha ormai definito il suo obiettivo e sul nucleo centrale della vicenda.
Ma Syd Field non si ferma a questo. Prescrive ai suoi studenti di stendere una scaletta estremamente precisa e dettagliata, al punto da suddividere la vicenda nei suoi singoli istanti, cioè tutte le cose che devono accadere, una per una, ciascuna da appuntare su un foglietto separato e numerato. Si prescrive anche un certo numero di foglietti per ogni segmento dell’ Atto, in modo da poter assegnare un ritmo preciso e ordinato alla narrazione.
Esaminerò nella prossima lezione alcune reazioni degli autori di cinema a questo modo di intendere e di organizzare il lavoro di scrittura, qui per non rendere troppo astratto il problema, ho cercato di sottoporre la indicazioni di Syd Field a una verifica sperimentale, cui egli stesso invita i suoi allievi.
Cioè per stabilire se queste indicazioni servano davvero a individuare il Modello Vincente di racconto, cioè la Sceneggiatura di Sicuro Successo, ho scelto abbastanza a caso quattro film, di epoche, di stile e di genere molto diversi tra loro, ma tutti egualmente premiati da un indubbio successo sia sul piano commerciale che su quello dell’apprezzamento estetico. Ho esaminato questi film al videoregistratore, cosa che ciascuno di voi può fare, per vedere se effettivamente il loro modo di scandire la vicenda corrisponda allo schema tracciato da Syd Field.
- A qualcuno piace caldo ( di Billy Wilder)
Il film inizia come un film d’azione tipicamente gangsteristico: inseguimenti, sparatorie, irruzioni della polizia in bische. Dopo una decina di minuti così, si presentano i due protagonisti (due musicisti di jazz) Jack Lemmon e Tony Curtis che scappano nel corso di una retata e poi cercano, invano, un altro ingaggio. Al quindicesimo minuto, apprendono che l’unico ingaggio possibile è in un’orchestra femminile. L’altra protagonista del film, Marilyn Monroe, compare solo al minuto 24 (in singolare coincidenza, si può osservare, con la prevedibile flessione della curva dell’attenzione. Nel caso, bastano altre curve a risollevare subito il pubblico).
Grosso modo si può affermare che questo film non smentisce affatto il modello di Syd Field, anche se presenta una sua indubbia originalità per esempio presentandoci un lungo prologo d’azione, quasi che non si trattasse affatto di una commedia, ma di un film di gangster. Nei primi dieci minuti , i veri protagonisti non ci sono neppure. Questo film è dunque un prezioso esempio di come lo schema possa ( debba, direi) venire interpretato con la massima libertà creativa e non venir inteso come una “gabbia” entro la quale incastonare gli avvenimenti.
- L’esorcista ( di William Friedkin)
Dopo un misterioso flash urbano iniziale (notturno, su una casa normale, ma immersa in un’atmosfera spettrale) il film si sposta su un lungo prologo assolato nell’Iraq del nord, dove sono in corso scavi archeologici nel corso dei quali Max Von Sidow rinviene una statuetta di un demone e ha in seguito oscure premonizioni e visioni, si torna poi con uno stacco brutale allo scenario metropolitano. Dopo questi primi dieci minuti di racconto, ci vengono presentati i personaggi della madre di Reagan e di Reagan stessa ( un ragazzina posseduta dal demonio, ma non lo sappiamo ancora) . La madre è un’attrice e sta studiando un copione per la scena che dovrà girare il giorno dopo e , verso l’alba, viene destata da strani rumori che sembrano provenire dalla soffitta. Reagan, appura la madre, non si è svegliata e pare dormire placidamente nel suo letto. Il film prosegue con un tono di racconto del tutto anti-avventuroso, come una normale storia di vita quotidiana. Il percorso narrativo è reso in modo non lineare , anzi del tutto spiazzante, quando vediamo che il film in cui la madre di Reagan recita, è un film tipicamente anni 70 sulla Contestazione. Il racconto prosegue molto lentamente da qui in poi, facendoci intendere che Reagan soffre di qualche misterioso disturbo che richiede esami clinici, ed è solo dopo 45 minuti di film che questo genere di disturbi si manifesta in un’azione davvero inquietante: Reagan appare in camicia da notte nel salotto dove sua madre intrattiene degli ospiti e piscia sul tappeto.
Questo film non prolunga il prologo oltre i dieci minuti e in questo senso, ma solo in questo senso, può venire letto alla luce dello schema di Syd Field, ma poi prosegue con uno stile narrativo tutto suo, che spiazza continuamente il pubblico con salti di genere e di ritmo, quasi fosse un montaggio di film diversi, e che prima di entrare nel vivo della vicenda prolunga la nostra attesa a dismisura.
Il rigido schema di Syd Field è inapplicabile alla lettura di questo film.
- Il sorpasso ( di Dino Risi)
I protagonisti compaiono fin dai titoli di testa e ci vengono presentati nel contesto di una Roma deserta, in piena estate. La svolta del decimo minuto è rappresentata dall’uscita dei due da Roma, a bordo di una veloce macchina sportiva. La guida di Vittorio Gassman è così disinvolta che il suo compagno di viaggio Jean Louis Trintignant, osserva: “ Sono nelle mani di un pazzo!”. Si entra insomma nel pieno della vicenda, con una scena che è già una premonizione dell’incidente stradale che chiuderà drammaticamente il film. Ma questo il pubblico non lo sa ancora, non può ancora leggere questa scena e quella battuta come un “segnale”, perché questo evento è raccontato in assoluta fluidità con quelli che lo precedono e lo seguono. In altre parole, il pubblico non ha alcuna chiara percezione che il racconto sia entrato in una nuova fase. Non c’è nessun colpo di scena , nessun salto narrativo, nessun “cambiamento apparente di genere” che ci segnali che stiamo entrando in un’altra fase del racconto. Il sorpasso ci insegna qualcosa di molto prezioso: lo sceneggiatore deve avere una scaletta ( senza una scaletta che già prevedesse quel finale, la scena dell’uscita da Roma con l’auto che strombazza e va a gran velocità e la battuta di Trintignant non sarebbero state significative) , ma il pubblico non deve essere costretto a riconoscerla. La struttura di una narrazione deve essere ben presente a uno sceneggiatore consapevole, ma il pubblico non deve necessariamente accorgersene, anzi in una narrazione fluida è bene che non la avverta neppure.
- Shrek ( di Andrew Adamson e Vicky Jenson )
Nei primi dieci minuti si presentano l’Orco Shrek (protagonista del film) e il suo asino, in una scena molto animata in cui li vediamo vittime della persecuzione e della paura di contadini superstiziosi.
Dopodiché quando ci spostiamo nel rifugio di Shrek il film svolta presentandoci una vera e caotica irruzione di personaggi di favole diverse: la Bella Addormentata, il Pifferaio Magico, Cappuccetto Rosso eccetera. Il vero tema del film è appunto “il mondo delle favole” che visto come un insieme, anarchicamente mischia racconti separati in un’unica narrazione, avventurosa , ironica e parodistica.
Anche questo film corrisponde solo in modo molto libero alla scaletta di Syd Field.
- In conclusione
Dagli esempi di cui sopra, risulta insomma chiaramente che ( si faccia o meno riferimento alla curva dell’attenzione) il criterio secondo cui dopo dieci minuti di film si deve entrare nel vivo della vicenda e far “decollare” la narrazione, non è senza fondamento. Ma che prescrivere uno stile di narrazione punto per punto, minuto per minuto, oltre a violentare la libertà stilistica del narratore, non è affatto di per sé garanzia né di Successo, né di Qualità. Casca a fagiolo una citazione di Piaget, il grande pedagogo, che ha tra l’altro studiato attentamente i meccanismi dell’attenzione nei bambini: “Ascoltare una sinfonia è ben più che ascoltare una serie di note musicali separate”. In altre parole il ritmo , la fluidità, l’equilibrio oppure gli squilibri che vogliamo introdurre in una narrazione, non attengono affatto alle singole parti della narrazione e non possono venire stabiliti a priori, pena una semplificazione letale della comunicazione espressiva. Filosoficamente il problema può venire accostato al celebre paradosso di Zenone della Freccia Ferma. Cioè , se si considera il tracciato compiuto dalla freccia scoccata, essendo esso composto da un insieme infinito di punti, c’è sempre un punto che dovrà venire attraversato dalla freccia prima del successivo, dunque la freccia non si muove affatto e il suo movimento è pura apparenza. Ora: una pellicola cinematografica è composta da fotogrammi e il movimento è appunto frutto di un’illusione. Fotogrammi di per sé immobili, proiettati a un certo ritmo,vengono percepiti dall’occhio in una sequenza mobile. Ma se noi facciamo il procedimento inverso e frammentiamo il movimento nelle sue singole componenti, fino al singolo fotogramma, il risultato di questo modo di procedere è che il film non esiste più! Il singolo fotogramma , di per sé, non ha neppure la dignità estetica di una fotografia, in quanto non è fatto per essere visto nella sua singolarità, ma in sequenza.
Dividere la sceneggiatura in singoli istanti parcellizzati, può avere l’effetto, del tutto rovinoso, di distruggere il movimento, la fluidità narrativa, la percezione del racconto come un unicum. In altre parole, se l’assunto di Syd Field era quello di educare i suoi studenti a un racconto unito ed equilibrato, il risultato è l’opposto: un racconto macchinale che procede a scatti, prevedibile in ogni sua fase ( se non altro perché visto applicato pedissequamente in centinaia e centinaia di film) , senza vere alterazioni di ritmo e senza movimento alcuno. Il Motore Immobile.
-Esercizio: come affrontare la Scaletta.
Il consiglio che mi sento di dare agli sceneggiatori esordienti è dunque di studiare sì una partitura del film nei suoi momenti essenziali, ma di non applicare una struttura troppo rigida e vincolante al racconto.
Ci sono ben altri vincoli strutturali di cui un film deve tenere conto e questi li vedremo nella prossima lezione.
Nell’attesa, cominciate comunque ad esercitavi a scrivere una scaletta della vostra storia, dividendola in tre atti al fine di poterla intendere come un percorso d’insieme nel quale ogni momento (ogni cosa che deve succedere) sia pensato in rapporto con il tutto e con la durata complessiva. Ma tenete anche in conto che quasi mai la scaletta coincide con il momento ispirativo di un film. Lo stimolo per un racconto può essere fornito anche da una sola scena, da un singolo momento espressivo. A uno sceneggiatore molto di rado capita di incontrare un regista che gli racconti una storia nel suo completo percorso. Molti registi, non necessariamente “visionari”, possono dirvi: nel film deve esserci questo, e vi raccontano una situazione. Per esempio, per riferirsi a un noto film di Dario Argento: il protagonista assiste a qualcosa di terribile, vorrebbe chiudere gli occhi, ma non può, perché le sue palpebre in qualche modo sono bloccate. Al regista interessa raccontare questa situazione angosciosa. Il punto è come arrivarci, come collocarla nell’insieme del film, come elaborarla ( studiando ad esempio come poter realisticamente bloccare le palpebre del protagonista o a quale evento terribile egli venga fatto assistere e da chi, perché eccetera). Insomma : il più delle volte in partenza ( quando si pensa a un film) non c’è affatto, non c’è ancora un racconto, ma c’è una situazione fortemente emotiva, attorno alla quale costruire racconto. Spesso queste situazioni sono molte di più di una e dunque occorre scoprire come legarle tra loro in un racconto unitario. Se parto da singoli momenti climax, situazioni fortemente espressive, e poi costruisco il racconto, allora la scaletta è il risultato di un’elaborazione di elementi sparsi da approfondire e chiarire. Dunque i famosi foglietti da mettere in fila possono anche essere scritti prima della scaletta e approfonditi ben più che in una riga essenziale. I momenti dominanti di un film possono venire intesi non come scansioni del racconto, ma come momenti fondanti del racconto. In questo caso, il racconto dipende da loro, non sono loro a dipendere dal racconto.
Schematizzando: un modo di raccontare è partire dalla storia e poi piazzare ogni tanto un Mickey Mouse che suona la tromba, giusto per dare qualche scossa al pubblico. Resta però il fatto che in questo modo la forzatura si avverte, perché Mickey Mouse non c’entra nulla con la storia che sto raccontando. Anzi la storia di per sé potrebbe venire raccontata senza Mickey Mouse, se fossi in presenza di un pubblico molto motivato che non ha bisogno alcuno d’essere costantemente risvegliato.
Un modo completamente opposto di raccontare è: la storia mi serve solo per arrivare a Mickey Mouse, che è comunque la parte più divertente del film, più Mickey Mouse ci sono, meglio è, la storia è mero pretesto.
E infine c’è un modo più “equilibrato” di raccontare, che non consiste affatto nel dedicare un minutaggio fisso alle singole parti di un film, ma nell’articolare la narrazione fluidamente in modo che ( come nell’esempio del Sorpasso) i singoli episodi e gli scatti narrativi di un film non siano semplicemente assemblati e neanche siano percepibili come momenti distinti dal pubblico. Lo sceneggiatore deve avere in testa una struttura, ma il pubblico deve assistere a una storia, mentre la struttura può benissimo risultargli invisibile. E la storia è altrettanto importante dei singoli elementi che la compongono e la scandiscono. L’insieme e i singoli momenti si tengono l’un l’altro.
Non intendo dare un giudizio di merito su queste tre procedure, ciascuna a suo modo legittima, ma mostrare che il cosa e il come raccontare non sono mai riconducibili a un unico modello.
Cosa voglio raccontare? E’ la prima domanda da porsi: riguarda la scelta del tema centrale, la definizione del protagonista, del genere, di quello che mi preme mostrare, anche di singole scene o situazioni. E’ una fase libera e anarchica, da affrontare con la massima carica esplorativa, senza preoccuparsi di incongruenze, passi falsi, digressioni . In cinema è la fase in cui “si va a ruota libera” , occupata da lunghe conversazioni anche senza centro apparente, anche apparentemente improduttive, ma assolutamente fondamentale per trovare un’intesa tra sceneggiatori, tra questi e il regista e/o il produttore e/o l’attore protagonista. E’ la fase in cui anche lo sceneggiatore attraversa il caos per afferrare gli elementi veramente essenziali su cui fondare il proprio racconto.
La seconda è: Come voglio raccontare? Quale ritmo, quale stile espressivo esprime meglio il senso ( non solo contenutistico, anche emotivo) di questo film? Anche questa fase è esplorativa. Non la si decide semplicemente a priori ma sperimentando nel concreto la scrittura, per esempio, come suggerito dalla prime lezioni di questo corso, provando a presentare il protagonista , studiando il modo più efficace di rappresentarlo in una situazione definita. Questo genere di esercizio è quello che avete fatto scrivendo la prima scena del vostro film e sottoponendola a revisioni fino a trovare la versione per voi più convincente e corrispondente al racconto che avete in testa. Le scelte che fate nei primi dieci minuti di film, vi condizioneranno per tutto il racconto. Una falsa partenza non è recuperabile, va ripensata e riscritta.
Soltanto dopo aver chiarito a voi stessi e con il regista questi aspetti fondanti del film allora potete passare alla stesura di una scaletta che rappresenti un primo ordine da dare agli elementi del racconto e che vi funzioni da modello di riferimento nel corso della sceneggiatura vera e propria.
7° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com