LEZIONE XXV
I GENERI MODERNI (VII)
IL FILM STORICO
Nella precedente lezione (dedicata al Fantasy) abbiamo parlato della narrazione di un mondo inventato, non quale è stato, qual è o quale sarà, ma quale “vorremmo”. In questa e nelle prossime lezioni parleremo della narrazione del mondo qual è stato (film storico e biografico), quale sarà (la fantascienza, come narrazione del futuro) e qual è (il cinema politico-sociale o d’ambiente contemporaneo). Si potrebbe supporre che quando parliamo del passato (di ciò che è già avvenuto) la nostra libertà inventiva ne risulti limitata e che il nostro lavoro di sceneggiatori si ritrovi alle prese con gli stessi problemi che abbiamo esaminato nelle lezioni sull’adattamento. Lì si trattava di trasferire sullo schermo opere letterarie (e dunque d’altra natura), raccontando di nuovo storie già raccontate e spesso anche già molto note. Qui (nel caso del film storico) di raccontare vicende avvenute, immutabili, documentate e “reali”. Spesso i film storici fanno tra l’altro riferimento a romanzi storici, e sono dunque trasposizioni al quadrato. Già questo dovrebbe bastare a farci capire che la Storia di cui si parla, è all’origine Storia tramandata, narrata: si tratta insomma di una realtà largamente “immateriale” , fin dal principio, cioè dalle sue “fonti”, ricostruita , interpretata. Molto di quanto si racconta (di quanto ci hanno raccontato gli storici) è ipotetico, opinabile, a volte falsificato per esigenze di propaganda o di parte, oppure dilatato e gonfiato dalla tradizione orale , prima che scritta, fino ad assumere contorni leggendari. Non sempre è facile sceverare in un evento storico la realtà “oggettiva”, dal punto di vista soggettivo dello storiografo che quella realtà, quegli eventi ha trasmesso ai contemporanei e ai posteri. Quando dunque ci troviamo a scrivere un film storico, il primo problema è quello di definire il punto di vista dal quale consideriamo la Storia. Punti di vista differenti, producono narrazioni totalmente differenti anche se muovono dagli stessi contesti e dagli stessi eventi. Vediamo in breve alcuni punti di vista che identificano ed esemplificano diversi generi di racconto storico.
1. L’Histoire en travesti ovvero il Film in Costume
In questo popolare filone narrativo e cinematografico la Storia appare fondamentalmente come arredo. I personaggi sono travestiti da faraoni, da crociati, da cortigiani settecenteschi, ma la loro veridicità storica e psicologica non va molto al di là del vestito che indossano ( il costume), il loro ambiente è “di cartapesta”, la loro vita quotidiana sintetizzata in quadri coreografici di maniera. L’anacronismo ci colpisce solo quando è vistoso (un orologio al polso di un centurione romano, o i pali della luce su un campo di battaglia medievale), ma ci sono una quantità enorme di anacronismi che passano inosservati o che sono per tradizione tollerati (antichi romani con il ciuffo alla Elvis e la brillantina, donne preistoriche con bikini e calzari di pelle). Ci troviamo come a una festa in maschera: se avete scelto di travestirvi da sceicco, avrete un costume vagamente da beduino, vi sarete magari scuriti la pelle o annerito le ciglia, ma nessuno pretenderà da voi che per tutta la durata della festa parliate in arabo. Similmente nessuno si scandalizzerà se in un romanzo o in un film inventerete la figura di un detective d’epoca romana che raccoglie indizi ed elementi di prova e li analizza con la stessa scrupolosità di Sherlock Holmes. Non importa a nessuno, del pubblico, che la detection sia figlia della rivoluzione industriale e del metodo scientifico. Potrete anche raccontare una storia d’amore e di gelosia che faccia riferimento ai tipici problemi della famiglia borghese, proiettandoli inalterati in epoca pagana, senza che nessuno noti l’improponibilità della cosa. In questo genere di film, al fondo, noi diamo per scontato che i costumi attuali, il nostro modo di intendere e di vivere i rapporti sociali , il nostro modo di ragionare abbiano caratterizzato sempre il genere umano, siano rimasti eterni, come una sorta di legge naturale, indipendente dal mutare delle epoche storiche. In questi film non c’è bisogno di spiegare niente perché le relazioni tra le persone sono esattamente quali le conosciamo già, qui ed ora. Vengono soltanto rese più spettacolari, ricche, evocative, rivestendole di Storia. Può esserci egualmente un fondamento “storico” al nostro racconto (un Imperatore realmente esistito, un intrigo documentato dalla tradizione) , ma eviteremo di approfondire tutti quegli elementi specificamente d’epoca che comporterebbero nel film troppe spiegazioni o scostamenti da quanto consideriamo abituale. Un esempio: Il Gladiatore di Ridley Scott. Non c’è nulla nello spettacolo del Circo Massimo di storicamente autentico. Il pubblico sugli spalti (rigidamente inquadrato in epoca romana secondo criteri di ceto sociale) è lo stesso anonimo pubblico di massa che potrebbe assistere oggi a un concerto o a uno spettacolo sportivo. Reagisce a ciò che accade nell’arena con la stessa passività, corale e partecipata, dei moderni raduni di massa. Le azioni che si verificano sul campo, si susseguono secondo ritmi, dinamiche, colpi di scena spettacolari e continui, lontanissimi dal cerimoniale d’epoca ricostruito dagli storici. Questi film, come nel fantasy, inventano il passato ad uso e consumo del presente, ma a differenza del fantasy (che riesce a stupirci per la capacità di invenzione di razze, costumi, usi e linguaggi) si fa forte di tutti i luoghi comuni possibili e non immaginati: non c’è alcun bisogno di immaginarli, fanno parte , devono far parte, di un mondo visivo codificato e ben riconoscibile dal pubblico nei suoi tratti più vistosi ed esteriori. Gli attori vengono scelti indipendentemente dalla loro aderenza fisica all’epoca rappresentata: un eroe deve sembrare alto, non importa se all’epoca del personaggio l’altezza media era di un metro e mezzo. La dentatura dev’essere impeccabile, non importa se all’epoca quasi nessuno aveva la dentatura intatta, tanto meno splendente. La corrispondenza somatica conta ancor meno: noi non stiamo realmente raccontando Cleopatra, ma Liz Taylor nella parte di Cleopatra, e non importa a nessuno che l’attrice sembri egiziana neanche approssimativamente. Così nel Gladiatore, un’algida biondina del nord europa con un fisico da modella come Connie Nielsen può venire scelta per rappresentare una matrona romana, senza che il pubblico ne avverta la scarsa aderenza al ruolo. Anzi, mentre in un film di ambientazione contemporanea, si tende al massimo scrupolo realistico nell’attribuzione di un ruolo (al punto che De Sica rifiutò l’offerta di Cary Grant nel ruolo del protagonista di Ladri di Biciclette) , in un film in costume ogni presenza si integra perfettamente alle caratteristiche visibilmente finte della ricostruzione: tutto è décor, attori inclusi.
2. Il Film storico-documentario
L’istanza di Roberto Rossellini , nei suoi grandi cicli televisivi di storia documentaria degli anni 60 (come L’Età del Ferro e La presa del potere di Luigi XIV ) è totalmente, programmaticamente e anche polemicamente opposta a quella sopra esaminata. Il plot viene cancellato, a vantaggio di un proposito didascalico: quello di farci comprendere, attraverso una serie di scene indipendenti, cioè per frammenti esemplari, qual era la vita quotidiana nell’epoca rappresentata. Un cavaliere come sceglieva la propria armatura? Nessun dettaglio ci viene nascosto: dall’entrata in bottega alla scelta dei materiali, dalla discussione sul prezzo alla prova dell’armatura. Come si combatteva così bardati e con spadoni di quelle dimensioni? Rossellini ce lo mostra scrupolosamente e nulla ci sembra più lento, faticoso e antieroico, di un combattimento del genere, tanto che la stessa situazione può fornire lo spunto (ne L’armata Brancaleone di Mario Monicelli) per una scena irresistibilmente comica, tanto è lontana da quello che nel nostro immaginario “codificato” è un epico scontro tra cavalieri. Ma si può avere altrettanto scrupolo di precisione anche in film che non intendono essere didascalici, ma raccontare una storia. E’ nota la maniacalità di Visconti nella ricostruzione degli ambienti e degli stili di vita nei suoi film storici (Senso, Il Gattopardo, Ludwig). Per Visconti il passato va raccontato (neo realisticamente) secondo i codici propri dell’epoca narrata, non solo quelli d’arredo, ma anche quelli relativi ai rapporti sociali, all’emergere di particolari ideali politici, di scelte estetiche ben definite, al modo di intendere ed esprimere i sentimenti. Il fatto che i personaggi vivano e agiscano in modo diverso da noi, non ce li allontana affatto. La scelta di raccontare quel mondo che non è più, ci aiuta a riflettere su ciò che abbiamo perso, su come diversamente viviamo problematiche analoghe nella nostra contemporaneità e su come quel lontano passato ancora ci parli e ci influenzi profondamente. La Storia è in qualche modo la parte rimossa della nostra vita collettiva e individuale, l’eredità che ha contribuito a renderci tali e quali siamo e che abbiamo disimparato a conoscere e a distinguere in noi. Noi uomini contemporanei siamo fatti di passato, anche di quella parte che consideriamo morta e sepolta, ma che sopravvive nel nostro codice genetico, nell’organizzazione della nostra società, nelle nostre lotte civili e politiche, nelle sedimentazioni del gusto, nel nostro stesso linguaggio. Si tratta dunque di evidenziare nella narrazione il legame tra ciò che non è più e quanto continua ad esistere al di là e attraverso i cambiamenti. Solo considerando e rappresentando con estrema precisione il passato, possiamo attivare nello spettatore questo continuo raffronto, questo perpetuo ondeggiare tra stupore e abitudine, tra inattualità e permanenza, tra smarrito e ritrovato, tra sconosciuto e ri-conosciuto.
In questo genere di film, uno dei problemi fondamentali che lo sceneggiatore si trova a dover risolvere è dato dalla compresenza tra personaggi storici (di cui dobbiamo rispettare la biografia) e personaggi inventati (la cui biografia creiamo noi) e tra eventi storici reali (grandi battaglie per esempio, il cui andamento e il cui finale è segnato) ed eventi immaginati (cui siamo noi a dover stabilire un inizio, uno svolgimento e una conclusione). E’ in genere nel personaggio e nell’episodio inventato che l’autore può meglio esprimere il suo punto di vista, la sua interpretazione del periodo e delle vicende narrate e trovare insieme la necessaria distanza e libertà rispetto al dato storico. Il personaggio inventato è in qualche modo il mediatore, a noi vicino, che ci permette di rivivere il passato, essendone insieme partecipi e spettatori. Considerate ad esempio l’efficacissimo personaggio (del tutto inventato) di Nicholas Garrigan il medico scozzese del dittatore Idi Amin nel recente The Last King of Scotland di Kevin MacDonald (regista che proviene da un’esperienza di documentarista). Le ambiguità della discussa figura storica del tiranno sono meglio raccontate ed esplorate attraverso un personaggio fittizio, prima sedotto dal personaggio emergente di Idi Amin, poi suo smarrito complice e amico nei primi anni del potere e infine tragicamente consapevole non solo degli errori del leader africano, ma dei propri, nell’averlo investito di un’aura quasi mitica. Non si racconta in questo modo soltanto la storia di Idi Amin, ma anche quella dell’ambiguo rapporto delle potenze occidentali con lui. Nicholas Garrigan incarna il punto di vista dell’autore e insieme lo sguardo attratto e turbato di noi pubblico che alla conoscenza del personaggio e di quella pagina di storia recente, ci accostiamo. Va notato che anche nei film televisivi di Rossellini, il passato non si presenta da solo. La voce narrante, la struttura della narrazione per scene esemplari, l’ironia sottile e il distacco sempre presenti nella “messa in scena”, costituiscono anche qui un intreccio tra fiction e documentazione, cioè l’antecedente più chiaro e smagliante di quel genere oggi definito docu-fiction, in altre parole un equilibrato mix tra Storia e Interpretazione della Storia, tra Storia reale e storia narrata , tra testimonianza documentaria e sua ricostruzione nel tempo fittizio della narrazione cinematografica.
3. Il film storico-visionario
C’è un altro modo di raccontare il passato e cioè quello di rappresentarlo come totalmente altro dalla nostra esperienza, come qualcosa di irriconoscibile. Di questo passato ci restano soltanto rovine, frammenti, vuoti incolmabili. Se viaggiassimo indietro nel tempo e ricomparissimo in un’altra epoca, tutto ci sembrerebbe ignoto, indecifrabile, non solo i connotati esteriori delle cose, non solo la lingua, anche gli atteggiamenti, i costumi, i riti. Avremmo l’impressione di non ritrovarci nella realtà, ma in un sogno. E’ questo il punto di vista in cui si colloca Federico Fellini quando decide di trasferire sul grande schermo il Satyricon di Petronio. (Rimando per un esame più approfondito al saggio di Raffaele de Berti ed Elisabetta Gagetti “Fare un po’ come fa, appunto, l’archeologo”. L’antichità ambigua di Fellini-Satyricon contenuto nel volume a cura di Raffaele De Berti, Federico Fellini, Analisi di film: possibili letture, McGraw-Hill, Milano 2006).
Per Fellini, il mondo di Petronio “è un mondo perduto, scomparso, defunto. Un mondo totalmente estraneo.” Come un archeologo dissotterra il passato per ritrovarne solo frammenti enigmatici, così noi di fronte a un mondo che non è più, non possiamo che restare turbati dall’apparente mancanza di senso, o più esattamente dal nostro non sapere attribuire senso a ciò che vediamo. Ciò non riguarda soltanto l’aspetto visivo. Come possiamo dopo secoli di cristianesimo comprendere la mentalità pagana? Fellini fa un esempio: “ ci sfugge completamente il senso di un mondo nel quale si passava al botteghino e si acquistava un biglietto che dava il diritto di divertirsi con l’agonia di un proprio simile.” In verità questo esempio pare fuori bersaglio: Fellini stesso non ci ha raccontato la crudeltà del mondo di Zampanò e degli spettacoli da fiera in cui un pubblico pagante assisteva se non al sacrificio umano, certo all’esibizione impudica e umiliante della brutalità, della miseria, della degradazione? I jeek dei Freak Show che mangiavano topi vivi ed escrementi per la delizia degli spettatori non sono poi tanto lontani da noi. E il mondo (vero o fittizio che sia) degli snuff movies o degli spettacoli della morte dal vivo (corride, combattimenti di galli e di cani, cronache della morte in diretta TV) non è ancora ben vivo e presente? Eppure è vero che queste forme di spettacolo anche quando non ci appaiono deviate e degradanti, ci lasciano un profondo disagio e disturbo. Questo disturbo “etico” non ci coglie solo di fronte al “vero” (come guardando le fotografie delle torture di Abu Ghirba), ma persino quando è chiaro che si tratta di fiction (come nel film Hostel). Cioè simili rappresentazioni sono da noi considerate “estreme” e tutt’altro che normali (anche se ne produciamo in grande quantità). Nel mondo pagano invece si andava a vedere lo spettacolo della morte con la stessa serenità d’animo con cui oggi una famiglia va a vedere un film della Disney. Non è lo spettacolo in sé, è questa serenità a risultarci indecifrabile, incomprensibile, aliena. Altrettanto incomprensibile ci risulterebbe un concerto di musica dell’antica Roma. Ne abbiamo smarrito i codici. Possiamo egualmente riprodurla ed ascoltarla, ma non possiamo provare le emozioni che il pubblico del tempo ricavava da quella musica. In altre parole, più che l’insondabilità delle cose, siamo di fronte all’insondabilità del senso e delle emozioni. Perché allora non scegliere di raccontare proprio questo? Non dobbiamo cercare di colmare i vuoti, di spiegare, di dare strumenti al pubblico perché possa capire ciò che rappresentiamo, ma dobbiamo fare tutto il contrario: dilatare i vuoti, sottolineare l’ignoto e l’incomprensibile, porre il pubblico di fronte all’esperienza dell’estraneità assoluta. Alberto Moravia chiede a Fellini: “In che lingua parleranno i personaggi?” Fellini risponde: “In latino. Questo accentuerà il senso di estraneità.” E’ strano che nessun critico (forse qualcuno sì, ma non me ne sono accorto) abbia rilevato la stretta contiguità tra questa scelta di Fellini e quella di Mel Gibson nel suo film sulla Passione di Cristo (recitato in aramaico) e in Apocalypto (recitato in lingua Maya). Poco importa se il latino di Fellini, l’aramaico o la lingua maya di Mel Gibson siano usate con proprietà e pronunciate correttamente, quello che conta è che ci sono, devono risultarci, incomprensibili. Il problema diventa questo: come può il pubblico appassionarsi a due ore di spettacolo incomprensibile? Questa è la risposta che dà Fellini: “ In senso figurativo, cercherò di operare una contaminazione del pompeiano con lo psichedelico.” Nel suo saggio, Raffaele de Berti nota acutamente: “ E’ interessante ricordare, a testimonianza del clima culturale di quegli anni, che nel 1971 i Pink Floyd realizzarono un film-concerto con riprese diurne e notturne nell’anfiteatro di Pompei (Live at Pompei)”. In altre parole, il punto di vista onirico e visionario proposto da Fellini come finestra sul passato più remoto, è però radicato (e non potrebbe essere altrimenti) nella visionarietà tipica della sua epoca e del periodo in cui il film viene realizzato. D’altra parte questo vissuto visionario si fonda su una filosofia: quella dell’allargamento della percezione , delle porte dell’immaginazione, del fare esperienza di ciò che è al di là della nostra esperienza sensibile in stato di veglia o di lucidità. Anche in Mel Gibson la scelta visionaria si fonda su una filosofia: quella del delirio di onnipotenza, dell’indulgere alla violenza estrema vissuta come esperienza mistica. Se Fellini ci conduceva ad ogni passo verso la sessualità pagana (che pareva rinascere nell’esperienza hippie) , Gibson ci conduce verso lo spettacolo del sangue, l’ingiustificabile barbarie di un’epoca di guerra, prevaricazione e tortura, come la nostra attuale, ma che a differenza dell’attuale la esibisce senza sentirsene affatto colpevole. Se Fellini giudicava incomprensibile pagare un biglietto per assistere ad un’agonia, per Gibson la sfida è proprio questa: vincere al botteghino grazie al puro spettacolo dell’agonia. In entrambi i casi, la spettacolarità (grandiosa) della messa in scena ci inchioda alle poltrone. La totale incomprensibilità del passato viene alchimisticamente trasmutata in esperienza visionaria emotivamente vissuta, secondo la sensibilità tipica del nostro tempo. Un antico romano dell’epoca di Petronio, o un maya dell’epoca di Apocalypto, di fronte a una simile rappresentazione del loro mondo, la troverebbero infinitamente più estranea di come la troviamo noi. Ma noi scriviamo e facciamo cinema per la gente della nostra epoca, non per gli antichi romani o per i maya. E’sempre il nostro punto di vista che mettiamo in scena, anche quando assumiamo un punto di vista “delirante”.
In tutti e tre gli esempi di cinema storico che abbiamo esaminato, per lo sceneggiatore la documentazione ha un’importanza decisiva.
Nel caso dell’Histoire en travesti, magari ci sarà utile per escluderla dalla narrazione, ma non potremo ugualmente prescinderne. Anche se questo filone ha conosciuto una certa rinascita letteraria negli ultimi anni, va comunque tenuto conto che la conoscenza storica diffusa è nel frattempo cresciuta. Oggi non è soltanto l’orologio al polso del centurione che può minare la credibilità del nostro racconto, anche sentire un faraone usare la parola “inconscio” può apparirci ridicolo. Una maggiore attenzione, pur in una cornice di cartapesta, è fondamentale. La soglia della percezione degli anacronismi si è alzata, e bisogna tenerne conto. Vanno limitati al massimo. E per poterlo fare, è indispensabile una buona conoscenza storica. Nelle scelte di racconto e di rappresentazione inoltre bisogna essere molto rigorosi : bisogna sapere se il nostro Attila è un puro film d’avventura in costume cui il personaggio storico fa da occasione e da pretesto, o se il nostro film intende invece essere la biografia storica (per quanto romanzata) del personaggio. Le due scelte non possono convivere: o l’una o l’altra. Molti insuccessi (come l’Alexander di Oliver Stone) sono dovuti in larga parte alla totale improbabilità e incoerenza della rappresentazione. In un film in costume che mira puramente all’avventura (come Troy) si possono ancora tollerare, in un combattimento corpo a corpo, balzi degni di Batman e dell’Uomo Ragno, ma in un film che ambisce anche e soprattutto ad essere ricostruzione storica e biografia di un grande personaggio questo genere di esasperazioni mandano in pezzi la credibilità dell’operazione.
Se scegliamo di narrare un film storico-documentario è evidente che l’attenzione dev’essere suprema. Le scene, gli oggetti usati, le abitudini di vita quotidiana, anche nel più didascalico di questi film non possono però limitarsi a far da cornice, dovrebbero avere un ruolo direttamente narrativo. Dobbiamo cioè affrancarli dalla funzione puramente decorativa e farli diventare uno spunto per quanto raccontiamo. Esempio: se fate una visita in un castello, noterete che i letti sono molto corti, e ciò non è dovuto solo all’altezza media delle persone, ma al fatto che (soprattutto i ricchi) dormivano quasi seduti. Gli storici spiegano che questo era dovuto a due fatti: 1. Le frequenti malattie bronchiali potevano causare soffocamento se si dormiva in orizzontale; 2. L’avvelenamento, principale strumento di delitto dell’epoca, era più semplice se la vittima se ne stava coricata e magari dormiva a bocca aperta. Ora: questi sono i dati. Da questi dati potete ricavarne una narrazione, rappresentando le situazioni di cui sopra (un soffocamento, un avvelenamento). Se invece nel vostro film a nessuno capita un “incidente” nel sonno, se nessuno neppure teme un simile incidente, è narrativamente piuttosto inutile mostrare gente che dorme seduta . Sarebbe mero didascalismo. Se lo spiegate (e non c’entra nulla con la vicenda) distraete il pubblico con una digressione superflua, se non lo spiegate, lo distraete ugualmente con una stranezza immotivata.
Nel modello storico-visionario il documento e il reperto storico-archeologico hanno una funzione anche più marcatamente espressiva: tutto ci appare misterioso, frammentario, unico. Un’arma ci affascina perché non riusciamo a prima vista a comprenderne l’uso, poi certo possiamo vedere come la si usa e quali effetti produce, eppure nella sua forma permane qualcosa di non puramente funzionale, qualcosa che attiene ad un’estetica che non conosciamo, a significati simbolici che non afferriamo, insomma: non dobbiamo aver paura di non spiegare perché quell’arma è fatta proprio così, dobbiamo invece guardarci dallo spiegarlo troppo. L’abbiamo scelta sulla base della documentazione, dopo averla vista magari su un bassorilievo, proprio perché ci è sembrata strana e misteriosa. E’ così che funziona davvero nei confronti del pubblico. In un racconto visionario non è affatto necessario che gli oggetti rispondano a criteri di utilità/funzionalità, sono funzionali e utili in quanto “segno”, proprio come enigmatici glifi rupestri. Possono venire accostati tra loro per analogia, come gli oggetti dei sogni, non necessariamente per coerenza logica o d’insieme o per uno scopo pratico.
Ultimo avviso. Nella storia umana il tempo non corre omogeneo, più ci si avvicina alla contemporaneità e più i cambiamenti nel costume, negli stili di vita, nel paesaggio, diventano frequenti. In un film storico-documentario un arco narrativo di venti anni determina necessari cambiamenti nei costumi, nelle scenografie, nelle abitudini. Questo però non vale allo stesso modo per tutte le epoche. Se il vostro film è ambientato nel tredicesimo secolo, non c’è grande differenza tra il 1220 e il 1240. Se il vostro film è ambientato tra la fine del XIX e all’inizio del XX , la differenza tra il 1890 e il 1910 è già molto più sensibile. Più ci avviciniamo alla nostra epoca e più, anche nelle conoscenze del pubblico, le differenze diventano notevoli: non possiamo vestire un personaggio allo stesso modo nel 1960 e nel 1980, gli oggetti che usa sono diversi, le abitudini quotidiane, i gesti di lavoro, tutto è cambiato e il pubblico lo sa, dunque il minimo anacronismo (anche linguistico) viene colto e diventa un elemento di disturbo. Per uno sceneggiatore contano molto anche gli eventi storici di rilievo del periodo considerato, siamo liberi di utilizzarli oppure no, ma dobbiamo conoscerli. E’ anche molto utile consultare libri di storia comparata : eventi lontani geograficamente o culturalmente dall’ambiente che stiamo raccontando, possono esserci comunque utili ad entrare nel clima complessivo di un’epoca. Infine molti spunti possono venirvi dai libri di storia del costume e della vita quotidiana. Dovete imparare a vedere vivere il vostro personaggio, sapere cosa mangia, come lavora e come passa il tempo libero, quali ambienti e situazioni trova abitualmente intorno sé e sulla sua strada. Senza figurarvi tutto questo, il vostro personaggio resterà una figura astratta, imprecisa e spaesata.
1. L’Histoire en travesti ovvero il Film in Costume
In questo popolare filone narrativo e cinematografico la Storia appare fondamentalmente come arredo. I personaggi sono travestiti da faraoni, da crociati, da cortigiani settecenteschi, ma la loro veridicità storica e psicologica non va molto al di là del vestito che indossano ( il costume), il loro ambiente è “di cartapesta”, la loro vita quotidiana sintetizzata in quadri coreografici di maniera. L’anacronismo ci colpisce solo quando è vistoso (un orologio al polso di un centurione romano, o i pali della luce su un campo di battaglia medievale), ma ci sono una quantità enorme di anacronismi che passano inosservati o che sono per tradizione tollerati (antichi romani con il ciuffo alla Elvis e la brillantina, donne preistoriche con bikini e calzari di pelle). Ci troviamo come a una festa in maschera: se avete scelto di travestirvi da sceicco, avrete un costume vagamente da beduino, vi sarete magari scuriti la pelle o annerito le ciglia, ma nessuno pretenderà da voi che per tutta la durata della festa parliate in arabo. Similmente nessuno si scandalizzerà se in un romanzo o in un film inventerete la figura di un detective d’epoca romana che raccoglie indizi ed elementi di prova e li analizza con la stessa scrupolosità di Sherlock Holmes. Non importa a nessuno, del pubblico, che la detection sia figlia della rivoluzione industriale e del metodo scientifico. Potrete anche raccontare una storia d’amore e di gelosia che faccia riferimento ai tipici problemi della famiglia borghese, proiettandoli inalterati in epoca pagana, senza che nessuno noti l’improponibilità della cosa. In questo genere di film, al fondo, noi diamo per scontato che i costumi attuali, il nostro modo di intendere e di vivere i rapporti sociali , il nostro modo di ragionare abbiano caratterizzato sempre il genere umano, siano rimasti eterni, come una sorta di legge naturale, indipendente dal mutare delle epoche storiche. In questi film non c’è bisogno di spiegare niente perché le relazioni tra le persone sono esattamente quali le conosciamo già, qui ed ora. Vengono soltanto rese più spettacolari, ricche, evocative, rivestendole di Storia. Può esserci egualmente un fondamento “storico” al nostro racconto (un Imperatore realmente esistito, un intrigo documentato dalla tradizione) , ma eviteremo di approfondire tutti quegli elementi specificamente d’epoca che comporterebbero nel film troppe spiegazioni o scostamenti da quanto consideriamo abituale. Un esempio: Il Gladiatore di Ridley Scott. Non c’è nulla nello spettacolo del Circo Massimo di storicamente autentico. Il pubblico sugli spalti (rigidamente inquadrato in epoca romana secondo criteri di ceto sociale) è lo stesso anonimo pubblico di massa che potrebbe assistere oggi a un concerto o a uno spettacolo sportivo. Reagisce a ciò che accade nell’arena con la stessa passività, corale e partecipata, dei moderni raduni di massa. Le azioni che si verificano sul campo, si susseguono secondo ritmi, dinamiche, colpi di scena spettacolari e continui, lontanissimi dal cerimoniale d’epoca ricostruito dagli storici. Questi film, come nel fantasy, inventano il passato ad uso e consumo del presente, ma a differenza del fantasy (che riesce a stupirci per la capacità di invenzione di razze, costumi, usi e linguaggi) si fa forte di tutti i luoghi comuni possibili e non immaginati: non c’è alcun bisogno di immaginarli, fanno parte , devono far parte, di un mondo visivo codificato e ben riconoscibile dal pubblico nei suoi tratti più vistosi ed esteriori. Gli attori vengono scelti indipendentemente dalla loro aderenza fisica all’epoca rappresentata: un eroe deve sembrare alto, non importa se all’epoca del personaggio l’altezza media era di un metro e mezzo. La dentatura dev’essere impeccabile, non importa se all’epoca quasi nessuno aveva la dentatura intatta, tanto meno splendente. La corrispondenza somatica conta ancor meno: noi non stiamo realmente raccontando Cleopatra, ma Liz Taylor nella parte di Cleopatra, e non importa a nessuno che l’attrice sembri egiziana neanche approssimativamente. Così nel Gladiatore, un’algida biondina del nord europa con un fisico da modella come Connie Nielsen può venire scelta per rappresentare una matrona romana, senza che il pubblico ne avverta la scarsa aderenza al ruolo. Anzi, mentre in un film di ambientazione contemporanea, si tende al massimo scrupolo realistico nell’attribuzione di un ruolo (al punto che De Sica rifiutò l’offerta di Cary Grant nel ruolo del protagonista di Ladri di Biciclette) , in un film in costume ogni presenza si integra perfettamente alle caratteristiche visibilmente finte della ricostruzione: tutto è décor, attori inclusi.
2. Il Film storico-documentario
L’istanza di Roberto Rossellini , nei suoi grandi cicli televisivi di storia documentaria degli anni 60 (come L’Età del Ferro e La presa del potere di Luigi XIV ) è totalmente, programmaticamente e anche polemicamente opposta a quella sopra esaminata. Il plot viene cancellato, a vantaggio di un proposito didascalico: quello di farci comprendere, attraverso una serie di scene indipendenti, cioè per frammenti esemplari, qual era la vita quotidiana nell’epoca rappresentata. Un cavaliere come sceglieva la propria armatura? Nessun dettaglio ci viene nascosto: dall’entrata in bottega alla scelta dei materiali, dalla discussione sul prezzo alla prova dell’armatura. Come si combatteva così bardati e con spadoni di quelle dimensioni? Rossellini ce lo mostra scrupolosamente e nulla ci sembra più lento, faticoso e antieroico, di un combattimento del genere, tanto che la stessa situazione può fornire lo spunto (ne L’armata Brancaleone di Mario Monicelli) per una scena irresistibilmente comica, tanto è lontana da quello che nel nostro immaginario “codificato” è un epico scontro tra cavalieri. Ma si può avere altrettanto scrupolo di precisione anche in film che non intendono essere didascalici, ma raccontare una storia. E’ nota la maniacalità di Visconti nella ricostruzione degli ambienti e degli stili di vita nei suoi film storici (Senso, Il Gattopardo, Ludwig). Per Visconti il passato va raccontato (neo realisticamente) secondo i codici propri dell’epoca narrata, non solo quelli d’arredo, ma anche quelli relativi ai rapporti sociali, all’emergere di particolari ideali politici, di scelte estetiche ben definite, al modo di intendere ed esprimere i sentimenti. Il fatto che i personaggi vivano e agiscano in modo diverso da noi, non ce li allontana affatto. La scelta di raccontare quel mondo che non è più, ci aiuta a riflettere su ciò che abbiamo perso, su come diversamente viviamo problematiche analoghe nella nostra contemporaneità e su come quel lontano passato ancora ci parli e ci influenzi profondamente. La Storia è in qualche modo la parte rimossa della nostra vita collettiva e individuale, l’eredità che ha contribuito a renderci tali e quali siamo e che abbiamo disimparato a conoscere e a distinguere in noi. Noi uomini contemporanei siamo fatti di passato, anche di quella parte che consideriamo morta e sepolta, ma che sopravvive nel nostro codice genetico, nell’organizzazione della nostra società, nelle nostre lotte civili e politiche, nelle sedimentazioni del gusto, nel nostro stesso linguaggio. Si tratta dunque di evidenziare nella narrazione il legame tra ciò che non è più e quanto continua ad esistere al di là e attraverso i cambiamenti. Solo considerando e rappresentando con estrema precisione il passato, possiamo attivare nello spettatore questo continuo raffronto, questo perpetuo ondeggiare tra stupore e abitudine, tra inattualità e permanenza, tra smarrito e ritrovato, tra sconosciuto e ri-conosciuto.
In questo genere di film, uno dei problemi fondamentali che lo sceneggiatore si trova a dover risolvere è dato dalla compresenza tra personaggi storici (di cui dobbiamo rispettare la biografia) e personaggi inventati (la cui biografia creiamo noi) e tra eventi storici reali (grandi battaglie per esempio, il cui andamento e il cui finale è segnato) ed eventi immaginati (cui siamo noi a dover stabilire un inizio, uno svolgimento e una conclusione). E’ in genere nel personaggio e nell’episodio inventato che l’autore può meglio esprimere il suo punto di vista, la sua interpretazione del periodo e delle vicende narrate e trovare insieme la necessaria distanza e libertà rispetto al dato storico. Il personaggio inventato è in qualche modo il mediatore, a noi vicino, che ci permette di rivivere il passato, essendone insieme partecipi e spettatori. Considerate ad esempio l’efficacissimo personaggio (del tutto inventato) di Nicholas Garrigan il medico scozzese del dittatore Idi Amin nel recente The Last King of Scotland di Kevin MacDonald (regista che proviene da un’esperienza di documentarista). Le ambiguità della discussa figura storica del tiranno sono meglio raccontate ed esplorate attraverso un personaggio fittizio, prima sedotto dal personaggio emergente di Idi Amin, poi suo smarrito complice e amico nei primi anni del potere e infine tragicamente consapevole non solo degli errori del leader africano, ma dei propri, nell’averlo investito di un’aura quasi mitica. Non si racconta in questo modo soltanto la storia di Idi Amin, ma anche quella dell’ambiguo rapporto delle potenze occidentali con lui. Nicholas Garrigan incarna il punto di vista dell’autore e insieme lo sguardo attratto e turbato di noi pubblico che alla conoscenza del personaggio e di quella pagina di storia recente, ci accostiamo. Va notato che anche nei film televisivi di Rossellini, il passato non si presenta da solo. La voce narrante, la struttura della narrazione per scene esemplari, l’ironia sottile e il distacco sempre presenti nella “messa in scena”, costituiscono anche qui un intreccio tra fiction e documentazione, cioè l’antecedente più chiaro e smagliante di quel genere oggi definito docu-fiction, in altre parole un equilibrato mix tra Storia e Interpretazione della Storia, tra Storia reale e storia narrata , tra testimonianza documentaria e sua ricostruzione nel tempo fittizio della narrazione cinematografica.
3. Il film storico-visionario
C’è un altro modo di raccontare il passato e cioè quello di rappresentarlo come totalmente altro dalla nostra esperienza, come qualcosa di irriconoscibile. Di questo passato ci restano soltanto rovine, frammenti, vuoti incolmabili. Se viaggiassimo indietro nel tempo e ricomparissimo in un’altra epoca, tutto ci sembrerebbe ignoto, indecifrabile, non solo i connotati esteriori delle cose, non solo la lingua, anche gli atteggiamenti, i costumi, i riti. Avremmo l’impressione di non ritrovarci nella realtà, ma in un sogno. E’ questo il punto di vista in cui si colloca Federico Fellini quando decide di trasferire sul grande schermo il Satyricon di Petronio. (Rimando per un esame più approfondito al saggio di Raffaele de Berti ed Elisabetta Gagetti “Fare un po’ come fa, appunto, l’archeologo”. L’antichità ambigua di Fellini-Satyricon contenuto nel volume a cura di Raffaele De Berti, Federico Fellini, Analisi di film: possibili letture, McGraw-Hill, Milano 2006).
Per Fellini, il mondo di Petronio “è un mondo perduto, scomparso, defunto. Un mondo totalmente estraneo.” Come un archeologo dissotterra il passato per ritrovarne solo frammenti enigmatici, così noi di fronte a un mondo che non è più, non possiamo che restare turbati dall’apparente mancanza di senso, o più esattamente dal nostro non sapere attribuire senso a ciò che vediamo. Ciò non riguarda soltanto l’aspetto visivo. Come possiamo dopo secoli di cristianesimo comprendere la mentalità pagana? Fellini fa un esempio: “ ci sfugge completamente il senso di un mondo nel quale si passava al botteghino e si acquistava un biglietto che dava il diritto di divertirsi con l’agonia di un proprio simile.” In verità questo esempio pare fuori bersaglio: Fellini stesso non ci ha raccontato la crudeltà del mondo di Zampanò e degli spettacoli da fiera in cui un pubblico pagante assisteva se non al sacrificio umano, certo all’esibizione impudica e umiliante della brutalità, della miseria, della degradazione? I jeek dei Freak Show che mangiavano topi vivi ed escrementi per la delizia degli spettatori non sono poi tanto lontani da noi. E il mondo (vero o fittizio che sia) degli snuff movies o degli spettacoli della morte dal vivo (corride, combattimenti di galli e di cani, cronache della morte in diretta TV) non è ancora ben vivo e presente? Eppure è vero che queste forme di spettacolo anche quando non ci appaiono deviate e degradanti, ci lasciano un profondo disagio e disturbo. Questo disturbo “etico” non ci coglie solo di fronte al “vero” (come guardando le fotografie delle torture di Abu Ghirba), ma persino quando è chiaro che si tratta di fiction (come nel film Hostel). Cioè simili rappresentazioni sono da noi considerate “estreme” e tutt’altro che normali (anche se ne produciamo in grande quantità). Nel mondo pagano invece si andava a vedere lo spettacolo della morte con la stessa serenità d’animo con cui oggi una famiglia va a vedere un film della Disney. Non è lo spettacolo in sé, è questa serenità a risultarci indecifrabile, incomprensibile, aliena. Altrettanto incomprensibile ci risulterebbe un concerto di musica dell’antica Roma. Ne abbiamo smarrito i codici. Possiamo egualmente riprodurla ed ascoltarla, ma non possiamo provare le emozioni che il pubblico del tempo ricavava da quella musica. In altre parole, più che l’insondabilità delle cose, siamo di fronte all’insondabilità del senso e delle emozioni. Perché allora non scegliere di raccontare proprio questo? Non dobbiamo cercare di colmare i vuoti, di spiegare, di dare strumenti al pubblico perché possa capire ciò che rappresentiamo, ma dobbiamo fare tutto il contrario: dilatare i vuoti, sottolineare l’ignoto e l’incomprensibile, porre il pubblico di fronte all’esperienza dell’estraneità assoluta. Alberto Moravia chiede a Fellini: “In che lingua parleranno i personaggi?” Fellini risponde: “In latino. Questo accentuerà il senso di estraneità.” E’ strano che nessun critico (forse qualcuno sì, ma non me ne sono accorto) abbia rilevato la stretta contiguità tra questa scelta di Fellini e quella di Mel Gibson nel suo film sulla Passione di Cristo (recitato in aramaico) e in Apocalypto (recitato in lingua Maya). Poco importa se il latino di Fellini, l’aramaico o la lingua maya di Mel Gibson siano usate con proprietà e pronunciate correttamente, quello che conta è che ci sono, devono risultarci, incomprensibili. Il problema diventa questo: come può il pubblico appassionarsi a due ore di spettacolo incomprensibile? Questa è la risposta che dà Fellini: “ In senso figurativo, cercherò di operare una contaminazione del pompeiano con lo psichedelico.” Nel suo saggio, Raffaele de Berti nota acutamente: “ E’ interessante ricordare, a testimonianza del clima culturale di quegli anni, che nel 1971 i Pink Floyd realizzarono un film-concerto con riprese diurne e notturne nell’anfiteatro di Pompei (Live at Pompei)”. In altre parole, il punto di vista onirico e visionario proposto da Fellini come finestra sul passato più remoto, è però radicato (e non potrebbe essere altrimenti) nella visionarietà tipica della sua epoca e del periodo in cui il film viene realizzato. D’altra parte questo vissuto visionario si fonda su una filosofia: quella dell’allargamento della percezione , delle porte dell’immaginazione, del fare esperienza di ciò che è al di là della nostra esperienza sensibile in stato di veglia o di lucidità. Anche in Mel Gibson la scelta visionaria si fonda su una filosofia: quella del delirio di onnipotenza, dell’indulgere alla violenza estrema vissuta come esperienza mistica. Se Fellini ci conduceva ad ogni passo verso la sessualità pagana (che pareva rinascere nell’esperienza hippie) , Gibson ci conduce verso lo spettacolo del sangue, l’ingiustificabile barbarie di un’epoca di guerra, prevaricazione e tortura, come la nostra attuale, ma che a differenza dell’attuale la esibisce senza sentirsene affatto colpevole. Se Fellini giudicava incomprensibile pagare un biglietto per assistere ad un’agonia, per Gibson la sfida è proprio questa: vincere al botteghino grazie al puro spettacolo dell’agonia. In entrambi i casi, la spettacolarità (grandiosa) della messa in scena ci inchioda alle poltrone. La totale incomprensibilità del passato viene alchimisticamente trasmutata in esperienza visionaria emotivamente vissuta, secondo la sensibilità tipica del nostro tempo. Un antico romano dell’epoca di Petronio, o un maya dell’epoca di Apocalypto, di fronte a una simile rappresentazione del loro mondo, la troverebbero infinitamente più estranea di come la troviamo noi. Ma noi scriviamo e facciamo cinema per la gente della nostra epoca, non per gli antichi romani o per i maya. E’sempre il nostro punto di vista che mettiamo in scena, anche quando assumiamo un punto di vista “delirante”.
In tutti e tre gli esempi di cinema storico che abbiamo esaminato, per lo sceneggiatore la documentazione ha un’importanza decisiva.
Nel caso dell’Histoire en travesti, magari ci sarà utile per escluderla dalla narrazione, ma non potremo ugualmente prescinderne. Anche se questo filone ha conosciuto una certa rinascita letteraria negli ultimi anni, va comunque tenuto conto che la conoscenza storica diffusa è nel frattempo cresciuta. Oggi non è soltanto l’orologio al polso del centurione che può minare la credibilità del nostro racconto, anche sentire un faraone usare la parola “inconscio” può apparirci ridicolo. Una maggiore attenzione, pur in una cornice di cartapesta, è fondamentale. La soglia della percezione degli anacronismi si è alzata, e bisogna tenerne conto. Vanno limitati al massimo. E per poterlo fare, è indispensabile una buona conoscenza storica. Nelle scelte di racconto e di rappresentazione inoltre bisogna essere molto rigorosi : bisogna sapere se il nostro Attila è un puro film d’avventura in costume cui il personaggio storico fa da occasione e da pretesto, o se il nostro film intende invece essere la biografia storica (per quanto romanzata) del personaggio. Le due scelte non possono convivere: o l’una o l’altra. Molti insuccessi (come l’Alexander di Oliver Stone) sono dovuti in larga parte alla totale improbabilità e incoerenza della rappresentazione. In un film in costume che mira puramente all’avventura (come Troy) si possono ancora tollerare, in un combattimento corpo a corpo, balzi degni di Batman e dell’Uomo Ragno, ma in un film che ambisce anche e soprattutto ad essere ricostruzione storica e biografia di un grande personaggio questo genere di esasperazioni mandano in pezzi la credibilità dell’operazione.
Se scegliamo di narrare un film storico-documentario è evidente che l’attenzione dev’essere suprema. Le scene, gli oggetti usati, le abitudini di vita quotidiana, anche nel più didascalico di questi film non possono però limitarsi a far da cornice, dovrebbero avere un ruolo direttamente narrativo. Dobbiamo cioè affrancarli dalla funzione puramente decorativa e farli diventare uno spunto per quanto raccontiamo. Esempio: se fate una visita in un castello, noterete che i letti sono molto corti, e ciò non è dovuto solo all’altezza media delle persone, ma al fatto che (soprattutto i ricchi) dormivano quasi seduti. Gli storici spiegano che questo era dovuto a due fatti: 1. Le frequenti malattie bronchiali potevano causare soffocamento se si dormiva in orizzontale; 2. L’avvelenamento, principale strumento di delitto dell’epoca, era più semplice se la vittima se ne stava coricata e magari dormiva a bocca aperta. Ora: questi sono i dati. Da questi dati potete ricavarne una narrazione, rappresentando le situazioni di cui sopra (un soffocamento, un avvelenamento). Se invece nel vostro film a nessuno capita un “incidente” nel sonno, se nessuno neppure teme un simile incidente, è narrativamente piuttosto inutile mostrare gente che dorme seduta . Sarebbe mero didascalismo. Se lo spiegate (e non c’entra nulla con la vicenda) distraete il pubblico con una digressione superflua, se non lo spiegate, lo distraete ugualmente con una stranezza immotivata.
Nel modello storico-visionario il documento e il reperto storico-archeologico hanno una funzione anche più marcatamente espressiva: tutto ci appare misterioso, frammentario, unico. Un’arma ci affascina perché non riusciamo a prima vista a comprenderne l’uso, poi certo possiamo vedere come la si usa e quali effetti produce, eppure nella sua forma permane qualcosa di non puramente funzionale, qualcosa che attiene ad un’estetica che non conosciamo, a significati simbolici che non afferriamo, insomma: non dobbiamo aver paura di non spiegare perché quell’arma è fatta proprio così, dobbiamo invece guardarci dallo spiegarlo troppo. L’abbiamo scelta sulla base della documentazione, dopo averla vista magari su un bassorilievo, proprio perché ci è sembrata strana e misteriosa. E’ così che funziona davvero nei confronti del pubblico. In un racconto visionario non è affatto necessario che gli oggetti rispondano a criteri di utilità/funzionalità, sono funzionali e utili in quanto “segno”, proprio come enigmatici glifi rupestri. Possono venire accostati tra loro per analogia, come gli oggetti dei sogni, non necessariamente per coerenza logica o d’insieme o per uno scopo pratico.
Ultimo avviso. Nella storia umana il tempo non corre omogeneo, più ci si avvicina alla contemporaneità e più i cambiamenti nel costume, negli stili di vita, nel paesaggio, diventano frequenti. In un film storico-documentario un arco narrativo di venti anni determina necessari cambiamenti nei costumi, nelle scenografie, nelle abitudini. Questo però non vale allo stesso modo per tutte le epoche. Se il vostro film è ambientato nel tredicesimo secolo, non c’è grande differenza tra il 1220 e il 1240. Se il vostro film è ambientato tra la fine del XIX e all’inizio del XX , la differenza tra il 1890 e il 1910 è già molto più sensibile. Più ci avviciniamo alla nostra epoca e più, anche nelle conoscenze del pubblico, le differenze diventano notevoli: non possiamo vestire un personaggio allo stesso modo nel 1960 e nel 1980, gli oggetti che usa sono diversi, le abitudini quotidiane, i gesti di lavoro, tutto è cambiato e il pubblico lo sa, dunque il minimo anacronismo (anche linguistico) viene colto e diventa un elemento di disturbo. Per uno sceneggiatore contano molto anche gli eventi storici di rilievo del periodo considerato, siamo liberi di utilizzarli oppure no, ma dobbiamo conoscerli. E’ anche molto utile consultare libri di storia comparata : eventi lontani geograficamente o culturalmente dall’ambiente che stiamo raccontando, possono esserci comunque utili ad entrare nel clima complessivo di un’epoca. Infine molti spunti possono venirvi dai libri di storia del costume e della vita quotidiana. Dovete imparare a vedere vivere il vostro personaggio, sapere cosa mangia, come lavora e come passa il tempo libero, quali ambienti e situazioni trova abitualmente intorno sé e sulla sua strada. Senza figurarvi tutto questo, il vostro personaggio resterà una figura astratta, imprecisa e spaesata.
25° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com