♥ dalle Idee alle Sceneggiature
Buongiorno Buonasera
di Vittorio Merlo
Sinossi
“Buongiorno Buonasera nasce dalla nostalgia del mare, in particolare del Mediterraneo. Abitando in Lussemburgo da quasi 20 anni il mare è per me diventato ancora più lontano di quando ero a Milano. Sento nostalgia per i colori, gli odori e sapori. Scrivere questa canzone è stata una specie di autoterapia, un viaggio con la fantasia tra i miei ricordi di posti visti e il mio desiderio di posti ancora da visitare: il sogno del mare. La canzone vuole essere anche un omaggio alla cultura di questa zona geopolitica il cui ruolo è stato troppo spesso sottovalutato.”
Vittorio Merlo e Riccardo Zappa si conoscono da molto tempo, avendo già collaborato, negli anni ’80, per poi, come capita, perdersi di vista. Questa collaborazione nasce dalla tensione di Vittorio a “vestire” le sue canzoni in maniera assai personale; tanto da spingerlo, più recentemente, a ricontattare Riccardo Zappa, tramite un social network, per proporgli di gestirne gli arrangiamenti.
Il risultato è un tessuto sonoro assai originale, fatto unicamente di chitarre e percussioni, con l’aggiunta di pochissimi colori, come l’accordéon suonato da Patrick Bessire.
L'ARTE DEL FAI DA TE
di Alessandro Tamburini
Sinossi estesa
Alessandro è un giovane appassionato di cinema, povero in canna.
Al paese, dove sta girando il suo film amatoriale è disturbato dalle pressioni dei
compaesani affinché trovi un lavoro normale e si sistemi, lasciando perdere
definitivamente la sua passione. A partire dallo zio, che procura al ragazzo un primo
lavoro, al ragazzo romeno, che prende in giro il ragazzo per la sua scarsa voglia di
lavorare.
Alessandro si trova, quindi, in una sorta di campo minato, nella piccola realtà di un
paesino romagnolo dove l’unico modo per vivere un’esistenza tranquilla sembra quello di
trovare un lavoro sicuro.
Alessandro sceglie, quindi, di sopravvivere, a vantaggio di un maggior tempo da
dedicare alla sua passione: il cinema. “Perché il cinema è la mia prima ragione di vita”,
dice il protagonista. Due figure salvifiche si faranno strada nella vita di Alessandro, tra
queste un pittore settantenne, grande amico di Alessandro, che suggerisce al ragazzo un
modo alternativo per vivere un'esistenza tranquilla.
Note di Regia
L’Arte del Fai da Te, ovvero l’Arte di Arrangiarsi in un contesto dove molti fattori sono ostili. Qui il titolo calza alla perfezione, alludendo sia all’Arte di arrangiarsi “morale” (dopo il disfacimento della condizione sentimentale del protagonista), sia a quell’Arte “materiale” della sopravvivenza, dovuta al fatto di trovarsi di colpo con i soli introiti del padre e della sorella: quei venti euro al mese che portano il povero Alessandro in una girandola di comici sotterfugi anche solo per spostarsi da un luogo all’altro.
Cosa lo tiene in vita, cosa gli permette di affrontare ogni giorno una nuova sfida? La sfrenata passione per il cinema.
“Perché il cinema è la mia prima ragione di vita”, dice il protagonista.
E’ un cortometraggio a bassissimo budget, composto (sia in parte del cast e nella troupe) da allievi ed ex-allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Come in alcuni miei lavori amatoriali ho fatto recitare attori non professionisti, che qui fungono da pittoresco ed efficace contorno per delineare il disagio del protagonista al paese: dall’anziano e sfruttato zio che offre il primo lavoro al ragazzo; dal gruppetto degli anziani al cimitero, durante la recita di una scena horror; al ragazzo rumeno che dà in consegna il trattore ad Alessandro; al pittore, grande amico del protagonista, che gli svela la ‘strada maestra’. Tutta gente di paese che ha affrontato per la prima volta un set vero e proprio.
Fondamentale, dunque, la presenza di una strepitosa Sandra Milo. Già icona del cinema di Fellini, rappresenterà l’immagine salvifica per il ragazzo, che lo aiuterà nella sua svolta.
Sandra, entusiasta della sceneggiatura, ha acconsentito gratuitamente di partecipare al film.
Regia: Alessandro Tamburini
Anno di produzione: 2013
Durata: 15'
Tipologia: cortometraggio
Generi: commedia
Paese: Italia
Distributore: n.d.
Data di uscita:
Formato di proiezione: DV 16:9, colore
Titolo originale: L'Arte del Fai da Te
Sinossi: Alessandro è un giovane appassionato di cinema, povero in canna.
Al paese, dove sta girando il suo film amatoriale è disturbato dalle pressioni dei compaesani affinché trovi un lavoro normale e si sistemi, lasciando perdere definitivamente la sua passione. Un pittore settantenne, grande amico di Alessandro, gli suggerisce un modo alternativo per vivere un'esistenza tranquilla.
Ambientazione: Solarolo (RA) / Massa Lombarda (RA)
Come provare a venirne a capo in un mondo privo di regole (quale è la nostra immaginazione). La Poetica di Aristotele
Aristotele è il padre (in)consapevole della narrazione contemporanea. In un certo senso, se non fosse stato per lui non saremmo qui a parlare di regole, strutture e paradigmi. Non lo faremmo noi comuni mortali, ma non lo farebbe neppure Syd Field e non lo farebbero neanche Vogler o Campbell.
Intorno al 330 a.C., Aristotele è un filosofo affermato: ha già fondato la sua scuola, il suo Peripato, e si accinge a pubblicare la Poetica, un trattato che prova ad approfondire l’arte della narrazone, analizzando principalmente la tragedia e l’etica, focalizzandosi sulla mimesi (la riproduzione della realtà) e sulla catarsi (la purificazione che porta alla trasformazione).
(foto: Thelma & Louise (1991, di Ridley Scott))
Partendo da questi presupposti, Aristotele arriva a sostenere che la narrazione, per essere compiuta e “perfetta”, deve avere unità al suo interno. Ci sono, però, tre tipi di unità: unità di tempo, di luogo e di azione.
Secondo Aristotele, infatti, un’opera narrativa è tale quando si svolge in un unico spazio (unità di luogo), possibilmente in un arco temporale definito (unità di tempo) e portando avanti un unico obiettivo (unità di azione).
Il Paradigma di Syd Field
Su questa base, Syd Field (autore e sceneggiatore americano) ha sviluppato il Paradigma, un modello preziosissimo per sviluppare al meglio una storia e trasformarla, piano piano, in una sceneggiatura pronta per essere venduta al mercato americano.
Il Paradigma di Syd Field è costruito partendo dagli insegnamenti di Aristotele e arriva alla suddivisione della narrazione in 3 atti (che io preferisco chiamare parti, per non rischiare di chiudermi troppo in costruzioni “scomode”).
Secondo Field, perché una storia funzioni deve avere un inizio, una parte centrale e una fine (Atto I, Atto II, Atto III). L’inizio, detto Set Up, è l’apertura della narrazione, la presentazione dei luoghi e dei personaggi della storia. Qui conosciamo il nostro protagonista, le sue abitudini, il luogo in cui si trovava poco prima dell’inizio dell’azione. La parte centrale, detta Confrontation, è il cuore della narrazione, quella in cui il protagonista comincia il suo viaggio e affronta i suoi ostacoli, i suoi mostri, i suoi demoni. La fine, detta Resolution, è la resa dei conti, la soluzione a tutto, la fine dei giochi. Il protagonista ritorna a casa dopo il suo lungo viaggio e, forse, può tirare un sospiro di sollievo.
Come si passa da un atto a un altro, da una parte all’altra della narrazione? Ci sono due punti focali da tenere a mente, uno tra il primo e il secondo atto, uno tra il secondo è il terzo atto: Syd Field li chiama Plot Point.
Il Plot Point I è quella cosa che dà avvio alla nostra storia, l’eventoche spinge il protagonista a intraprendere il suo viaggio: succede qualcosa, all’improvviso, nella vita dell’eroe che lo porta a lasciare temporaneamente la sua vita precedente e a “partire”, anche simbolicamente, alla ricerca di qualcosa, una sola cosa, che lo riporterà a casa trasformato, diverso, possibilmente migliore. Il viaggio ha luogo durante tutto il secondo atto, la parte centrale, quella del confronto.
Questo momento, nel Viaggio dell’Eroe di Vogler, lo abbiamo riconosciuto come Il Varco della Soglia, ricordate?
Il Plot Point II, invece, è l’evento che porta l’eroe alla risoluzione dei suoi conflitti, alla fine del suo viaggio, al ritorno a casa. Nello schema di Vogler che parla del viaggio dell’eroe, questo momento specifico coincide con l’uscita dalla “caverna” verso La Via del Ritorno.
Prima di procedere alla stesura del nostro racconto, dobbiamo avere a mente, più di ogni cosa l’inizio, la fine e i due “plot point”, le due svolte narrative. Una volta chiari questi punti, siamo pronti per procedere.
La regola delle 4 pagine
C’è chi paragona il processo creativo alla gestazione di una gravidanza. Prima di partorire qualcosa di oggettivamente importante per noi e per la nostra esistenza, dobbiamo passare in entrambi i casi un periodo doloroso e faticoso, fatto di crisi, stress, paure, ripensamenti.
La fase iniziale è quella più critica: hai un quadro generale molto confuso di ciò che vorresti, il tuo protagonista è ancora un essere informe che ha bisogno di uno scopo per andare avanti e la tua narrazione è ferma a un bivio, in stallo, non sa bene dove andare.
In questa fase iniziale, Syd Field ci propone un ottimo esercizio, un piccolo trattamento di 4 pagine che funga da base e tramite tra la scaletta preparatoria e il vero trattamento che precede la sceneggiatura.
Prendete un po’ di fogli (6, se possibile, poi capirete perché).
Sul primo foglio sviluppate tutto il primo atto. Usate mezza pagina per descrivere visivamente tutto ciò che ha luogo in apertura della vostra storia. L’altra metà dedicatela, invece a creare un riassunto degli avvenimenti che accadono durante il primo atto.
Prendete un secondo foglio. Usate mezza pagina per sviluppare il Plot Point I: cosa succede? dove si trova il protagonista? qual è il suo bisogno drammatico? E’ cambiato o è sempre lo stesso?
Prendete un terzo foglio ed elencate tutti i potenziali ostacoli che il vostro protagonista affronterà in tutto il secondo atto. Mettetelo momentaneamente da parte.
Prendete un quarto foglio. Usate l’intera pagina per sviluppare tutto il secondo atto. Recuperate il foglio con gli ostacoli e cominciate a creare una linea tratteggiata da un punto all’altro. Cosa succede? Come si muove il protagonista? Chiede aiuto? Lo riceve? Chi sono i suoi nemici?
Prendete, ora, un quinto foglio. Usate mezza pagina per descrivere tutto ciò che accade durante il Plot Point II. Cosa succede a due passi dalla risoluzione del conflitto? Provate a raccontarlo anche utilizzando dei dialoghi, non siete costretti a descrivere un’azione.
(La scena finale di Thelma & Louise)
Ora prendete il sesto e ultimo foglio. Usate mezza pagina per fare un riassunto breve di tutto ciò che accade nella fase finale del racconto. L’altra metà vi servirà a descrivere visivamente i luoghi e le azioni nel dettaglio.
Come mai Field parla di 4 pagine se le pagine che vi ho chiesto di usare sono 6? Facciamo i conti insieme: ogni atto ha bisogno di una pagina intera, i plot point si sviluppano su mezza pagina e una pagina extra ci serve per appuntarci un elenco più o meno sterile degli ostacoli che il nostro eroe deve superare. 4 pagine (più 1).
Il trillo di un telefono, una donna che sale le scale di un condominio con il cellulare schiacciato sull’orecchio e una ciabatta per la corrente che le pende da una mano.
E’ l’inizio di una preparazione ossessiva ad un mondo irreale, minuziosamente architettato per conseguenza ad una società alienante e consumista. E’ l’inizio di una corsa asociale che rifiuta ogni tipo di contatto esterno alla propria intimità, trovando rifugio nel sogno illusorio di una vita parallela. Una vita dettata da un mezzo di comunicazione di massa, che addormenta.
Un tango appassionato, un uomo che sembra caduto dal cielo e che cancella la tensione provocata da qualcosa di ignoto.
Nel finale, lo sguardo inquietante della protagonista si rivolge al pubblico svelando la coscienza di essere una vittima sociale. Chissà se uno degli spettatori, specchiandosi con lei attraverso lo schermo, si domanderà: “sono anch’io nella stessa, pessima condizione?”
di Ermelinda Coccia
NOTE DI REDAZIONE: E' UNA IDEA MOLTO, MA MOLTO GENERICA. IL FINALE E' DI QUALCOSA CHE NON C'E'.
Un uomo si risveglia legato in un ambiente che non riconosce. Un ragazzo comincia la sua giornata lavorativa di venditore porta a porta. Entra in un condominio e comincia a suonare vari campanelli. Un signore risponde sgarbato. Una ragazza sembra interessata, ma poi gli sbatte la porta in faccia. Finalmente una signora lo fa entrare in casa. Gli offre tè e pasticcini mentre cerca di convincerla ad acquistare il suo prodotto. Conversando si scopre che la donna ha perso i tre figli in un incidente e la cosa sembra interessare molto al ragazzo. Senza assaggiare i pasticcini il ragazzo con una scusa se ne va. La ragazza viene rapita e si sveglia legata accanto all'uomo dell'inizio. É sera, il ragazzo è appostato sotto casa della signora. Quando la vede uscire di casa, si intrufola nel suo appartamento.
di Daniele Esposito
NOTE DI REDAZIONE: E' UNA IDEA MOLTO, MA MOLTO GENERICA. IL FINALE NON E' UN FINALE. PERCHE' VEDERE UNA STORIA SCONCLUSIONATA?
Piero vive con la madre in un piccolo appartamento nella periferia di Torino. Il giovane è alla ricerca di un lavoro, poiché la fabbrica nella quale è occupato naviga in cattive acque e presto potrebbe licenziarlo. Avrebbe la possibilità di trasferirsi, ma il desiderio di non abbandonare la madre, vedova, lo spinge a scartare quest’opportunità. Intanto, per sostenere la difficile situazione familiare, si sottopone sistematicamente a pesanti turni di straordinario, che gli consentono di arrotondare lo stipendio.
Una notte, per caso, è costretto a rinunciare ad uno di questi turni: la mattina successiva è previsto uno sciopero dei mezzi pubblici e il collega che lo dovrebbe riaccompagnare a casa in macchina viene licenziato improvvisamente. Quindi, fa ritorno anzitempo a casa e, dopo un colloquio con la madre, va a letto, sempre più in ansia per le sorti del proprio lavoro. Ma Piero non sa ancora che, proprio in quella notte d’autunno, deve accadere qualcosa di tragico; qualcosa in cui egli non viene coinvolto solo per quella fortuita assenza dalla fabbrica.
di Marco Doddis
NOTE DI REDAZIONE: E' UNA IDEA MOLTO, MA MOLTO GENERICA. E' UN RACCONTO. MOLTO DIFFICILE DA SCENEGGIARE.
La comunicazione
Gli esseri umani comunicano tra loro nelle più svariate forme e per i più diversi motivi. Ad esempio si scambiano parole per informare, gesticolano per salutare, utilizzano segnali per avvisare, producono musica per intrattenere… Ogni tipologia di comunicazione ha le sue caratteristiche, ma tutte possono essere ricondotte in ultima analisi ad un sistema che contiene, tra gli altri, tre elementi: l’emittente, il messaggio, il destinatario. Uno studente (emittente) dice ad un suo compagno (destinatario) che l’indomani non ci sarà lezione (messaggio); oppure: un pittore (emittente) espone per il pubblico di una mostra (destinatario) una sua opera (messaggio); e ancora: la radio (emittente) diffonde agli ascoltatori (destinatario) le previsioni del tempo (messaggio).
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La narrazione
Anche la narrazione è una forma di comunicazione: un ragazzo (emittente) racconta agli amici (destinatario) una barzelletta (messaggio); uno scrittore (emittente) scrive un romanzo (messaggio) per i suoi lettori (destinatario); una rete tv (emittente) trasmette un film (messaggio) per gli spettatori (destinatario).
![](https://image.jimcdn.com/app/cms/image/transf/dimension=700x10000:format=jpg/path/s2ca24585326fce04/image/if79884efc9a7b812/version/1439980238/image.jpg)
Ciò che distingue una narrazione dal resto delle comunicazioni (che possono essere denominate “non narrative”) è la particolare forma che assume il messaggio. La barzelletta, il romanzo, il film posseggono, tra tutte le tipologie di messaggi, una caratteristica unica: l'esistenza necessaria e contestuale di eventi e personaggi. Nessuna barzelletta divertirebbe se si limitasse a descrivere gli eventi rinunciando a tratteggiare chi ne è protagonista. Film, romanzi, programmi tv raccontano una serie di fatti che sono vissuti da persone ben caratterizzate. Può esistere una narrazione senza eventi? No, perché descriverebbe solo i personaggi, limitandosi unicamente ai loro connotati psicologici e fisici: una sorta di affresco, immobile, senza azione. Può esistere una narrazione di eventi senza personaggi? No, perché sarebbe solo una fredda cronologia. É soltanto la combinazione di eventi e personaggi che dà vita ad una narrazione. Le altre tipologie di messaggi sono costituite invece da dati, informazioni, descrizioni… e gli eventi e i personaggi eventualmente presenti non sono strettamente legati tra loro. Una discussione politica, un segnale stradale, un saluto, non sono narrazioni. Uno stesso tema può essere oggetto di una comunicazione narrativa o di una non narrativa. Ad esempio:
"Per farmi passare la bronchite il medico mi ha dato degli antibiotici da prendere per sei giorni". E' una comunicazione non narrativa, diversamente da:
"Oggi sono andato dal dottore per la bronchite. Hai presente: è uno che non alza nemmeno la testa dal tavolo. Gli ho detto di farmi la ricetta per gli antibiotici. Lui ha farfugliato qualcosa e ha scritto quello che gli dicevo. E' una comunicazione narrativa". Ci sono due personaggi che interagiscono e un evento: una piccola storiella.
Definiamo dunque la narrazione come una forma di comunicazione il cui messaggio, che denominiamo racconto, è costituito da un insieme di eventi concatenati e correlati ad uno o più personaggi.
La narrazione, come molte modalità di comunicazione, può avvalersi di diversi linguaggi.
Uno stesso racconto può essere narrato attraverso diversi linguaggi: eventi e personaggi sono identici, ma li si può ritrovare in un film, in un fumetto, o in un programma radio: cambia solo il veicolo sul quale sale. Il dramma di Romeo e Giulietta è stato rappresentato a teatro da Shakesperare, adattato al cinema da decine di film, trasposto in balletto da Prokofiev, adattato al fumetto da Gianni De Luca. Ogni volta che cambia veicolo, il racconto deve adattarsi al diverso linguaggio. Ciò comporta inevitabilmente delle trasformazioni, ma non esiste alcuna storia che non possa essere raccontata da un linguaggio narrativo. Non tutti i linguaggi infatti si prestano per la narrazione. I linguaggi della pittura, della fotografia, della poesia, ad esempio, possono essere narrativi, ma il più delle volte sono evocativi. Parlano raramente attraverso storie, personaggi ed eventi tra loro strettamente intrecciati. La narrazione invece è sempre esplicita e deve servirsi di linguaggi che assicurino una chiara esposizione della storia.
Narrazione e linguaggio cinetelevisivo
Il linguaggio che universamente gode di maggior successo quando si tratta di narrare è quello cinetelevisivo. Gli spettatori di un film ad esempio sono sempre inesorabilmente superiori al numero dei lettori del romanzo da cui il film è stato tratto. La storia è la stessa, ma la massa del pubblico preferisce vederla al cinema o in tv. Definiamo pertanto narrazione cinetelevisiva, ogni concatenazione di eventi e personaggi raccontata con il linguaggio cinetelevisivo.
Il linguaggio cinetelevisivo è naturalmente narrativo. La lingua parlata e scritta può essere usata per pregare, elencare, incitare, non solo per raccontare. Il linguaggio cinetelevisivo invece si è costituito solo per raccontare qualcosa a qualcuno. O è così o non è. Se filmiamo un evento senza creare un racconto, il girato potrà essere conservato come archivio e memoria, ma nessuno lo vedrà mai come "pubblico", sarà qualcosa di simile alla registrazione di una telecamera di sicurezza.
Persino l'informazione, passando attraverso il linguaggio cinetelevisivo, diventa narrazione. Il telegiornale presenta una o più persone che raccontano storie fatte di eventi e personaggi. Queste storie possono essere vere o false oppure distorte, non ha importanza in questa sede. Fatto sta che qualsiasi TG deve organizzare la notizia come se fosse un racconto. Nei programmi di varietà televisiva sono gli stessi presentatori a farsi personaggi: sono scelti per disporre di un insieme di caratteristiche pubbliche che li rende credibili per quel certo tipo di trasmissione. Gli autori studiano come questo personaggio deve comportarsi, quello che deve dire, come deve vestirsi e truccarsi. Poi redigono la scaletta degli eventi che si svolgono sotto gli occhi dello spettatore, magari facendo entrare in scena altri personaggi secondari, gli "ospiti". Anche nelle cronache sportive televisive la tendenza è sempre quella di creare il personaggio ed enfatizzare l'evento. Un documentario naturalistico sui ghepardi, seguirà uno solo di loro, gli darà un nome, racconterà le sue avventure, cioè cercherà di articolare una storia, anche se nella realtà per costruire quel filmato sono stati ripresi diversi ghepardi in diversi momenti e luoghi.
Il ruolo della narrazione nelle opere cinetelevisive
Si è portati a pensare che il prodotto cinetelevisivo sia, in ultima analisi, un insieme di immagini e suoni. Nella realtà è soprattutto narrazione. Non è un caso se la progettazione della narrazione, dal punto di vista produttivo, viene prima della ripresa filmata: tutte le opere cinetelevisive sono precedute da un lavoro di scrittura chiamato fase letteraria. Esso parte sempre da idee base che si arricchiscono successivamente di dettagli sino a costituire la tela, più o meno precisa secondo la tipologia dell'opera, che reggerà la successiva fase produttiva. Il lavoro letterario costituisce sempre la percentuale maggioritaria del tempo dedicato alla realizzazione di un'opera: la sceneggiatura di un film viene elaborata mediamente nel corso di un anno, le riprese invece possono risolversi in due mesi; l'edizione di un telegiornale di venti minuti, del resto, è preceduta da ore di scrittura a più mani. La fase letteraria serve a mettere a fuoco la narrazione, in tutti i suoi aspetti. Le immagini e i suoni intervengono successivamente, sono la realizzazione di ciò che prima è stato pensato, dibattuto, scritto e riscritto. Una volta che l'opera è conclusa essa appare costituita solo da immagini e da suoni, nella realtà essa sta in piedi perché vi è, in filigrana, una trama narrativa che regge tutto.
Forme discorsive e forme drammaturgiche della narrazione cinetelevisiva
La narrazione cinetelevisiva si articola in due tipologie di opere: quelle discorsive e quelle drammaturgiche. Le opere discorsive sono caratterizzate dalla presenza di uno o più narratori che si rivolgono direttamente al pubblico per raccontare o presentare la storia. Questa modalità suona assai familiare agli spettatori perché richiama la piccola narrazione, quella in cui chiunque può prendere l'iniziativa di raccontare qualcosa a qualcuno: un aneddoto, una barzelletta, un accadimento. Ma è stata anche l'antica forma della grande narrazione, quando le mitologie erano trasmesse oralmente e non attraverso i libri. Si tratta di opere che possono essere presenti sia al cinema, attraverso i documentari, sia alla televisione con i telegiornali, i talk show, i varietà musicali, i programmi sportivi, i reportage, ecc.
Le opere drammaturgiche sono caratterizzate invece dalla rappresentazione di una storia. Anche questa modalità è familiare al pubblico perché recitare e mettere in scena fanno parte del repertorio dei giochi infantili ma anche delle tradizioni più ancestrali. Le opere cinetelevisive che si presentano in questa forma comprendono i film di vario metraggio e varia tipologia (dai lungometraggi ai corti, dalla serie tv alla telenovela).
Denomineremo le forme drammaturgiche della narrazione cinetelevisiva fiction, e quelle discorsive non fiction. Sia l'una che l'altra sono costituite da personaggi ed eventi, ma nelle prime i personaggi sono gli attori, e si relazionano tra loro di fronte ad un pubblico che ha il ruolo di osservatore esterno, nelle seconde i personaggi sono narratori (presentatori, giornalisti, esperti, ecc. presenti anche solo con la voce) e si rivolgono direttamente al pubblico come interlocutore muto; per quanto riguarda gli eventi, nelle fiction essi sono rappresentati, nelle non fiction sono raccontati oppure mostrati. Una news che visualizza un giornalista sul luogo di un disastro e che informa su quanto è appena accaduto, dà vita ad un'opera non fiction. Un film dove un attore recita la parte di un giornalista che parla sul luogo di un disastro ricostruito, è fiction. Nelle popolazioni cosiddette primitive gli uomini raccontavano intorno al fuoco le avventure vissute durante una battuta di caccia: era narrazione non fiction; la stessa storia raccontata attraverso ruoli in cui uno "faceva la parte" del cacciatore e l'altro quella dell'animale cacciato, costituiva il passaggio dal racconto orale alla sua rappresentazione, cioé alla sua drammatizzazione. Era fiction. La drammatizzazione è basata sulla convenzione, tacitamente concordata tra attori e pubblico, che tutti devono fingere che gli eventi raccontati stiano accadendo in quel momento, davanti agli occhi degli spettatori.
Tra i due poli, drammaturgico e discorsivo, vi sono numerose possibilità di ibridazione. Nei documentari spesso alcune situazioni vengono ricostruite, si chiede cioé ai protagonisti di ripetere qualcosa che è accaduto fingendo che sia l'originale. Del resto abbondano i film dove interviene anche del materiale documentario di repertorio. Anche uno spot interamente costruito su una fiction contiene comunque quasi sempre una parte, come minimo grafica, in cui un narratore, anche se virtuale, si rivolge direttamente al pubblico.
di Michele Corsi per cinescuola.it
Le tappe del viaggio dell'eroe – un’analisi del film Django unchained di Quentin Tarantino (USA, 2012) secondo il modello di Vogler
La struttura generale del film è molto simile a quella di “Bastardi senza gloria”: anche qui ci sono tre atti ben definiti, ma non come li intendeva Field nel suo “paradigma”. Qui ogni atto è come se fosse “concluso”, una storia è con principio, svolgimento e fine, con un personaggio principale – mai lo stesso e non sempre quello che chiameremo eroe – che viene seguito e raccontato in maniera più approfondita. Ogni atto ovviamente segue il filo rosso principale della vicenda che si conclude nel terzo atto.
Atto I: partenza, salita (Departure)
- Mondo ordinario (Ordinary World): L'eroe lascia un mondo per cominciare un viaggio, ed entra in un altro mondo (Special World). È il mondo consueto da cui proviene l’eroe, quello da cui parte, e può essere ovviamente positivo o negativo, prevedere quindi un peggioramento delle condizioni iniziali o un miglioramento. Nel caso di Django è ovvio che la condizione di partenza del protagonista è estremamente sfavorevole: Django è uno schiavo, in catene, e si sta muovendo in un luogo imprecisato (così descritto perfino dalla didascalia), al buio, una specie di limbo pieno di difficoltà da cui sembra non avere alcuna possibilità di uscire.
- Richiamo all'avventura (Call to Adventure): La sfida per l'eroe, dove si stabilisce l'obiettivo e il percorso da farsi. La chiamata all'avventura stabilisce il rischio o il prezzo da pagare e rende chiaro l'obiettivo (goal) dell'eroe. Un certo evento, un accidente iniziale (initiating incident) è necessario per far partire la storia. Il dottor Schultz libera Django (incidente iniziale che cambia completamente le prospettive del protagonista e gli permette di fare una scelta, di cambiare il corso della propria vita) e gli propone una collaborazione, ma prima di tutto gli offre la libertà.
- Rifiuto del richiamo (Refusal of the Call): Ci sono casi d'eroi riluttanti (proprio perché in questo modo aumentano la percezione del rischio che correranno) che cercano di "negare" la chiamata e fanno sforzi per fuggire. Django non fugge, ma inizialmente non è convinto della proposta del dottore: ha bisogno di una vera motivazione per intraprendere il viaggio, ovvero la possibilità di liberare sua moglie.
- Incontro col mentore (Meeting with the Mentor: Quello di cui ha bisogno l'eroe per mettersi in viaggio: consigli, direzione, guida, uno strumento "magico" da portarsi (un'arma, ma anche una conoscenza, o la fiducia in se stesso, la protezione, l'allenamento). È ovvio che il mentore del film è il dott. Schultz, che incarna il ruolo di “saggio” del film – che accresce le sue conoscenze non solo grazie alle esperienze ma anche grazie alla cultura, in questo caso di matrice europea - di guida e di “donatore” di strumento magico, in questo caso più di uno: la libertà, la pistola, la motivazione, l’insegnamento di un mestiere, ecc.
- Varco della prima soglia (Crossing the First Threshold): L'eroe accetta la sfida. Qui si entra nel mondo speciale del racconto. È il momento più difficile dell'atto I, il suo vero inizio. È una soglia su cui ci sono guardiani (vedi sopra tra i personaggi/archetipi), esseri che cercano di fermare l'eroe e che vanno ignorati, assorbiti, riconosciuti o trasformati in alleati. Django inizia il viaggio, si allea con il dott. Schultz e va alla ricerca dei fratelli Brittle, li trova e permette al dottore di riscuotere la taglia. Contemporaneamente si imbatte nella materializzazione del razzismo (tematica di fondo lungo tutto il film), ovvero Big Daddy e i suoi sodali pasticcioni e insieme al dottore li ridicolizza, assorbendone metaforicamente l’energia: l’eroe è pronto per progredire nel suo viaggio, è più forte e più sicuro di sé, infatti accetta la proposta del mentore (diventare cacciatore di taglie per l’inverno, aumentare la propria forza, sviluppare le proprie qualità, in vista dell’obiettivo)
Atto II: discesa, iniziazione (Initiation)
- Prove, nemici, alleati (Tests, Allies, and Enemies): In questa zona l'eroe fa i primi incontri, viene coinvolto nelle sfide che servono a imparare le regole del mondo speciale. Qui si rivela il vero carattere dell'eroe, si mettono in evidenza i sentimenti, i ritmi, le priorità, i valori e le regole che contano. Essenziale in questa fase la scena in cui Django esita nello sparare al delinquente che sta lavorando nei campi con suo figlio: l’eroe sta “familiarizzando” con il nuovo mondo in cui ha deciso di entrare una volta abbandonato il “mondo ordinario”, ne sta conoscendo le regole, contemporaneamente conosciamo qualcosa di più del suo carattere, dei suoi valori di riferimento (l’importanza della famiglia), e si stabiliscono le priorità: se salvare Broomhilda è l’obiettivo, non bisogna guardare in faccia a nessuno. poco dopo finisce la fase “preparatoria”, Django è cresciuto, è pronto e insieme al dottore scoprono che Calvin Candie tiene schiava Broomhilda nella sua piantagione. Si incontra il primo vero nemico di Django, ma non il peggiore (che sarà Stephen); si affrontano prove difficili (fare finta di essere un negriero, assistere alla morte di uno schiavo sbranato dai cani, ecc.).
- Avvicinamento alla caverna più recondita (seconda soglia) (Approach to Inmost Cave): L'eroe si avvicina all'apice, al posto pericoloso. L'eroe si sta formando una nuova percezione di sé e degli altri, È anche la fase dove i compagni di viaggio spariscono e la lotta si fa più dura, con la sorpresa di veder emergere nuove qualità nei personaggi. Django, letteralmente, si avvicina alla “caverna”, o nascondiglio dell’obiettivo (Broomhilda), che è anche il posto più pericoloso dove essere, la piantagione di Candie. È una fase estremamente tesa e piena di suspence: poco prima della “prova centrale” il mentore soccombe, sottolineando ancora una volta la sua statura morale (morte del dott. Schultz).
- Prova centrale (Supreme Ordeal): È il momento critico della battaglia con l'ombra, lo scatenamento della suspense. La prova in cui l'eroe rischia davvero di morire o muore per poter rinascere di nuovo. Nel momento cruciale in cui l'eroe o i suoi obiettivi sono a rischio in genere c'è un rovescio di fortuna, temporaneo, che mette suspense. Durante la prova centrale l'eroe si trova faccia a faccia con le sue più grandi paure, con il fallimento dell'impresa, o con la fine di un rapporto, dove si conclude definitivamente la sua vecchia personalità e si torna cambiati. La sparatoria a Candyland è il “secondo punto di svolta” secondo la struttura di Field: il piano di Django è stato scoperto, il mentore è stato ucciso, tutto sembra volgere al peggio. L’eroe rischia di morire, ma riesce a cavarsela anche se le sue prospettive sono cambiate in peggio. Dalla prova centrale Django esce trasformato, ma riappropriato della sua vera – nuova – identità. Non deve più fingere, né interpretare parti: è se stesso, ma ancora in difficoltà.
- Ricompensa (Reward): L'eroe, sopravvissuto, "festeggia" Se c'è un tesoro da prendere, questo è il momento. Qui anche è il momento di un piccolo riposo prima del viaggio di ritorno (spesso una scena d'accampamento, o d'amore). Finita la burrasca ci si misura, si diventa consapevoli della propria volontà o forza, raggiungendo il rispetto di sé. Dopo un momento di sconforto e di paura, Django ritrova la forza e la determinazione, inganna i due che lo stanno portando ai lavori forzati, conquista un vero “tesoro” (la dinamite che gli servirà per la “Resurrezione”), diventa consapevole della sua forza e conquista anche il rispetto degli altri (in questo caso degli altri schiavi).
Atto III: ritorno (Return)
- Via del ritorno (The Road back): Bisogno del ritorno, ma trasformato. L'eroe non è ancora fuori dalla "foresta". Django torna a prendersi sua moglie, non è ancora tempo di riposare. Cavalcando a pelo, in ralenti, verso sua moglie e i suoi nemici l’eroe ha ritrovato se stesso, il suo vero io, la sua vera missione ed è pronto ad affrontarla.
- Resurrezione (terza soglia - climax) (Resurrection). Non è la prova più grande, ma la definitiva. È come un esame finale per provare che si è imparata la lezione, è la purificazione, l'adattamento al ritorno, il momento delle carte in tavola. È anche il momento della catarsi, dove si porta il materiale emozionale in superficie, facendo che la consapevolezza dell'eroe diventi anche del lettore (o spettatore) della storia. Tarantino conosce bene il potere della catarsi finale e la realizza come suo solito, con i fuochi d’artificio. Django torna da “uomo nuovo”, definitivamente più potente del suo nemico: la resa dei conti finale è con il nemico più subdolo che potesse incontrare, Stephen,il “nero bianco”, il “mentore” – in negativo – di Candie, suo servitore/amico/padre/confessore/protettore.
- Ritorno con l'elisir (Return with Elixir): L'eroe è tornato rinato, definitivamente cambiato, e ha portato con sé l'esperienza raggiunta, un dono da usare nel mondo ordinario. Django ha finalmente raggiunto il suo obiettivo, ha trovato sua moglie, l’ha liberata (letteralmente e metaforicamente, le ha dato nuova vita). Ora sono entrambi pronti per tornare nel mondo ordinario, ma da ex schiavi, con in più l’esperienza, la forza, la consapevolezza e soprattutto i documenti che attestano la libertà.
Articolo di Maria Elena Arcangeletti per cinescuola.it
Per scrivere una sceneggiatura cinematografica non ci sono regole precise, anche i manuali che insegnano i trucchi per sfornare uno script di successo sono da leggere con prudenza. Quello dello sceneggiatore è un mestiere delicato, che si fonde su alcune qualità o talenti specificatamente cinematografici: non necessariamente un bravo scrittore è anche un bravo sceneggiatore, i codici e i linguaggi utilizzati fanno parte di mondi diversi ( che qui approfondiremo). Esistono comunque delle “strutture narrative” di riferimento che possono aiutare, in particolar modo nella fase iniziale di scrittura, per organizzare meglio le idee ed evitare almeno gli errori più grossolani. Una di queste è la “struttura in tre atti” o “paradigma di Syd Field”.
Un altro esempio di struttura narrativa a cui è possibile ispirarsi nella scrittura di una sceneggiatura è quella cosiddetta del “Viaggio dell’eroe”, teorizzata da Christopher Vogler, uno sceneggiatore statunitense di Hollywood. Vogler ha lavorato per la Disney ed insegna alla UCLA. Il suo nome è legato al saggio The Writer's Journey: Mythic Structure For Writers, pubblicato in italiano come Il viaggio dell'eroe e nato come quaderno di appunti personali.
Influenzato dagli studi di Joseph Campbell, e dal suo L'eroe dai mille volti (The Hero With a Thousand Faces, 1973*), Vogler approfondisce la struttura del mito a uso di scrittori di narrativa e cinema. I miti sono qualcosa di cui la gente ha bisogno, momenti chiave di passaggio da uno stadio della vita al prossimo, racconti che segnano la strada. Ogni racconto ha quindi degli elementi universalmente rintracciabili nel viaggio di un eroe, essi consistono di moduli (patterns) e varianti. Dunque è possibile tracciare un atlante dei comportamenti d'un eroe: una mappa per il suo viaggio di trasformazione (cresce, cambia, fa un percorso da un modo d'essere a un altro). Sono dodici fasi (stages) sul cui telaio stanno appunto le molte possibili varianti.
Vogler, nel Viaggio dell'eroe ha analizzato diverse decine di film trovando delle strutture ripetitive ricorrenti. Possono essere personaggi positivi e negativi, fisici o metaforici, persone od oggetti. Un personaggio può rappresentare in sé più di una funzione.
Seguendo lo schema riportato nella Guida Pratica All’Eroe dai Mille Volti la Disney fu in grado di uscire dal periodo nero in cui si era ritrovata tra gli anni ’80 e ’90, producendo i film che l’aiutarono a risollevarsi, a partire dal Re Leone su cui ha lavorato lo stesso Vogler. In seguito Vogler torno sul suo compendio e lo ampliò fino a sviluppare il libro Il Viaggio dell’Eroe, che parte dalle considerazioni teoriche di Joseph Campbell per arrivare a un pratico manuale per scrittori.
*Lo studioso di mitologia comparata Joseph Campbell sostiene nel suo L’Eroe dai Mille Volti che diversi miti, provenienti da diverse regioni del mondo e diverse epoche storiche, condividono la stessa struttura narrativa. Una successione di eventi ed episodi che si ritrova praticamente invariata in ogni storia o leggenda di sapore iniziatico, che lui riassume così:
Un eroe si avventura dal mondo di tutti i giorni in una regione di meraviglia sovrannaturale: lì incontra forze favolose e ottiene una vittoria decisiva. L’eroe ritorna da questa misteriosa avventura con il potere di conferire doni favolosi agli altri uomini.
Campbell chiama questa struttura narrativa “monomito” e la scompone in 17 passi fondamentali. Il lavoro di Campbell ha avuto una grande influenza nella narrativa moderna.
Il suo ammiratore più celebre è probabilmente George Lucas, amico e studioso di Campbell, che in più di una occasione ha affermato che la sceneggiatura di Guerre Stellari ricalca fedelmente la struttura del Viaggio dell’Eroe. Altre opere in cui si ritrova questo schema sono Matrix, Il Gioco di Ender di Orson Scott Card, i libri di Harry Potter di J. K. Rowling, Il Re Leone della Disney, la serie di Indiana Jones, molte opere di Neil Gaiman e numerosi altri film, romanzi, fumetti.
In alcuni casi, gli autori riconoscono di aver seguito consapevolmente lo schema di Campbell, in altri hanno seguito gli stessi schemi archetipali che lui ha analizzato per sintetizzare i passaggi del monomito.
I 7 archetipi - principali personaggi funzione (basic figures) - non sempre sono tutti presenti, a volte un personaggio può racchiudere in sé più di una funzione
- L'eroe (Hero): È colui che muove la storia, compie il viaggio, fisico o mentale. Ha in genere un punto debole (fatal flaw) su cui può essere colpito, e deve confrontarsi con la morte (spesso simbolica, e comunque l'eroe accetta la possibilità del sacrificio). Ha inoltre qualità con cui possiamo identificarci ed è sospinto da motori universali e originali. Può anche avere impulsi contraddittori.
- Il mentore (Mentor): Se l'eroe è l'io della storia, il mentore è il suo sé. È la guida che aiuta, allena o istruisce l'eroe. Gli procura doni, lo convince o sospinge nell'avventura. Spesso il mentore è un ex-eroe, una persona saggia o maestro, come una coscienza o codice di comportamento morale, e serve a motivare l'eroe.
- Guardiano della soglia (Threshold Guardian): Mette alla prova l'eroe creandogli difficoltà: ne sonda la volontà e la rinforza. Apparentemente è un nemico, ma può anche essere sorpassato o trasformato in alleato. A volte non è nemmeno un nemico, ma qualcuno che l'eroe incontra lungo il cammino e che deve conquistare, assorbendone l'energia. Naturalmente anche il guardiano può essere interno, un aspetto dell'eroe stesso con cui deve avere a che fare.
- Messaggero (Herald): Comunica l'inizio dell’avventura, il cambiamento che arriva, la sua necessità. È l'incidente scatenante. Può anche essere un oggetto, come una telefonata o un telegramma. Risveglia la motivazione.
- Mutaforme (Shapeshifter): Cambia forma, si traveste. È l'archetipo instabile, l'amico che diventa nemico. Questa figura ha la funzione di seminare dubbi e suspense.
- Ombra (Shadow): In genere è l'antagonista. Anche gli opponenti hanno però bisogno di risultare umani, e non sono mai solo stereotipi di cattiveria (anche perché in fondo un nemico è un "eroe" di un suo proprio viaggio mitico, e Vogler suggerisce di attraversare o rileggere la storia almeno una volta dal punto di vista dell'ombra). È l'incontro-scontro ombra-eroe che muove il motore della storia.
- Imbroglione (Trickster): è la spalla e il momento goliardico. Crea contrattempi, stimola cambiamenti, anche in senso negativo. È un'energia infantile da marachella, se incarnata in un personaggio in genere con caratteristiche di confusionario, nemico dello status quo, dell'ipocrisia e dell'egocentrismo. Naturalmente questa sua funzione, legata all'eroe, non va confusa con la figura dell'imbroglione di certe storie, dove è invece un altro tipo di eroe.
di Maria Elena Arcangeletti
Riferimenti: Da Wikipedia l'enciclopedia libera e www.magrathea.it in cinescuola.it
Un giovane contadino si sveglia ogni mattina alle 4:30 per andare a lavorare nei campi. Ma un giorno il ragazzo si troverà a dover difendere i propri diritti, come tentò di fare suo nonno nel 1948.
DICHIARAZIONE DI INTENTI
Questo cortometraggio si pone l’intento di affrontare il tema della Politica dal punto di vista di un giovane del sud Italia ai giorni nostri. La storia si risolve in un inno alla libertà individuale: ripartire da noi stessi per ribadire la difesa dei diritti e fra questi, primo e inalienabile, il lavoro. Un grido contro le ideologie stantie e sterilmente dicotomiche che, alla stessa stregua di vecchie religioni, risultano ormai sorpassate e sempre più spesso nocive.
Pierluigi Ferrandini
Rivisitazione panoramica dei racconti di tre ragazzi che confluiscono in un unico prodotto. Uno scorcio rivelatore di una realtà non a tutti nota: quella di una Rimini invernale. Esperienze differenti e slegate tra loro, in termini di luoghi e per via delle relazioni tra gli interpreti coinvolti. Ci si muove tra una discoteca, alla strada dove si incontrano alcuni ragazzi, per giungere alla tenerezza del primo appuntamento.
Tutte e tre le linee narrative, alternate e parallele, convergono solo nel “leitmotiv” di fondo che viene esplicitato nell’epilogo da una battuta di uno dei tre protagonisti: l’orgoglio di mostrare Rimini di inverno. Ci si rivolge a coloro che affollano la nostra riviera nel periodo estivo, affermando che la vitalità e lo spirito dei riminesi, restano vivi anche nel freddo periodo invernale. Proprio il nostro protagonista volgendo lo sguardo verso il mare, come ipnotizzato dalla sua magia, suggerisce agli altri due coprotagonisti come riuscire nel loro intento, senza sapere che è già stato raggiunto attraverso la descrizione dei loro racconti. Vivendo questo racconto, come in una terapia psicanalitica, si riappropriano di una dimensione sottovalutata e trascurata. La battuta finale attribuisce un senso di incompletezza in attesa di un’ epilogo venturo.
Asade è una favola sull’amore e sull’integrazione attraverso la metafora del cinema; sul vero significato del velo, sulle difficoltà a convivere con le proprie origini in terra straniera. E’ un viaggio alla ricerca della comunicazione tra culture e linguaggi, da sempre perno mancante di comprensione e tolleranza.
Asade è una giovane ragazza di origine iraniana che giunge in Italia per completare gli studi. E’ solare ed ha una fervida fantasia che sfoga disegnando tutto ciò che le sta attorno. La prima cosa che decide di fare appena giunta in Italia è levarsi il velo che le copre il capo. Come d’improvviso, la sua vita pare trasformarsi in una favola animata piena di colori pastello e personaggi stravaganti come il buffo ragazzo che incontra per strada e che nella casualità degli eventi le lascia un grazioso pesciolino rosso tra le mani. Sarà il tempo a dimostrare le tremende difficoltà di vivere in una terra straniera dove gli individui sono incapaci di rapportarsi con la cultura altrui, di scavare sotto la sottile parete delle apparenze e dove regna la superficialità delle cose inutili e appariscenti. Asade è una favola sull’amore e sull’integrazione attraverso la metafora del cinema; sul vero significato del velo, sulle difficoltà a convivere con le proprie origini in terra straniera. E’ un viaggio alla ricerca della comunicazione tra culture, da sempre perno mancante della comprensione e della tolleranza.
Asade is a fable to the love and integration; to the true one meant of the veil, to the difficulties to cohabit with own origins in foreign earth. It's a travel to the search of the communication between cultures, from always hinge lacking understanding and tolerance.
ASADE (di Daniele Balboni)
DIALOGHI (dialogs)
SCENA 1
donna -È un bravo ragazzo, figliola.
He’s a good guy, my dear.
Asade -non gli ho nemmeno mai parlato.
I haven’t even ever talked to him.
Donna -Ti ho detto che vi conoscete da almeno 10 anni, è gentile, è un ragazzo rispettoso.
I told you you’ve known each other for almost 10 years, he’s gentle and respectful.
Asade -il problema non è questo.
That’s not the problem.
Voce di uomo al telefono, distante -Basta, devi smettere di viziarla, Mariam.
(man away from the phone) That’s enough, you must stop spoiling her, Miriam.
Voce della donna al telefono: - Adesso è ora di tornare a casa. Devi lasciare stare quei libri inutili. Basta divertirsi.
(woman) It’s time to come back home. Give up those stupid books. Stop enjoying. Stop having a good time.
Asade - Io torno a casa quando mi pare.
I’ll come back home when I want to.
Padre - Come ti permetti di parlare così con tua madre, qua c’è un ragazzo che ti aspetta, Ma cosa ti sei messa in testa figlia mia? Un’occasione così non capita a tutte, questo ragazzo è un dono, per te e per noi.
(father) how dare you treat your mother that way! There’s a man waiting for you here, what ideas are you running away with? Such a chance doesn’t happen that often, this man is a gift, both for you and for us.
Asade -Papà ti prego, ti prego, lasciatemi dare questo esame, devo preparare i documenti, devo finire delle cose e poi, c’è qualcuno che devo vedere.
Please Dad, please, let me take this exam, I have to prepare the documents, get through some other things and then, there’s someone I must meet.
Padre - Ma chi devi vedere? Avevi promesso di cambiare, di diventare una persona responsabile, io e tua mamma abbiamo fatto di tutto per realizzare il tuo desiderio di andare all’estero. Ascolta, tu devi tornare a casa con o senza quell’esame.
Who are you meeting? You promised you would change, you would become sensible, your mother and I have done all we could to satisfy your desire of going abroad. Listen, you must come back home having taken that exam or not.
1° scena con animazioni
Mo dove devi andare? Fa vedere sulla cartina.
(in local dialect) Where do you need to go? Show me on the map.
Mo l’è distante, devi prendere l’autobus 33.
(in local dialect) It’s far from here, you need to take the bus n. 33.
SCENA 4
RAGAZZO (balbetta) Io non riesco a capire, perché le cose devono andare storte, sempre tutte storte, non capisco perché?
I just can’t under stand why things are going wrong, always wrong, I can’t understand, why? After four years Why?
RAGAZZA …si hai ragione… dovevamo smettere prima prima…
You’re right, we should have given it up earlier.
RAGAZZO non è questo che intendo. Non pensi a tutte le belle cose che abbiamo passato?
Come on, I didn’t mean that. Can’t you think of all the things we’ve done together?
RAGAZZA Tipo? Gli ultimi due anni a litigare? Non fai altro che analizzare film muti nei minimi dettagli e non ti accorgi di come cambiano le persone che ti stanno davanti. Io sto male.
For example? Arguing for two years? You’re always analysing your silent films, you don’t even realise how people around you change. I feel bad.
RAGAZZO Non sono film muti, sono Non Sonori e poi…Tu stai male? E quando ero io dentro una stanza di ospedale, tu dove eri? Fuori con le amiche.
It’s not silent cinema. It’s soundless cinema. So you’re feeling bad, but where were you when I was at the hospital? You were out with your friends as usual.
RAGAZZA Basta, prendi la tua roba e vattene.
That’s enough. Get your stuff and go away.
RAGAZZO Ah si è? Allora mi prendo pure Gino.
Oh yes… then I’ll take Gino away with me as well.
RAGAZZA Ecco..ecco bravo, prendi pure Gino, che non è Gino. Gino, è morto più di un anno fa…e lasciami la boccia di vetro di Murano.
Right, good. Take away Gino too. It’s not Gino by the way, you haven’t even realised it. Gino died more than a year ago. But leave the murano glass bowl here.
SCENA 8
ZEINAB Asade Asade…
Asade Asade
ZEINAB Non hai lezione oggi?
No classes today?
ASADE Si è fatto tardi…
It’s late now.
ASADE…. Proprio oggi che comincia il primo giorno del seminario.
The seminar is just starting today.
ZEINAB A cosa ti serve questa lezione di cinema, proprio non lo so.
I just can’t figure out what you need this cinema lecture for.
ASADE Dovevo scegliere una materia facoltativa, almeno è qualcosa che mi piace
I had to choose an optional subject, at least it’s something I like.
ZEINAB Dai corri che si è fatto tardi, preparo io la borsa vai.
Hurry up, it’s late, I’ll get the bag ready for you, go.
ZEINAB In questi 6 mesi che sei stata qui non sei mai arrivata in tempo, voglio vedere come farai in queste due settimane.
In six months you’ve been here you’ve never been on time, I wonder how you’ll make it these last two weeks.
ASADE Dai che ce la faccio
(in Italian) I can make it.
ZEINAB Tieni la borsa
Here’s your bag.
ASADE Ho chiesto altri 6 mesi di studi
I’ve applied for a 6-months study permit.
ZEINAB Cosa? Cosa stai dicendo? Cosa hai detto?
What? What are you saying? What did you say?
ZEINAB L’hai detto ai tuoi?
Have you told your parents?
ZEINAB Mia madre mi ha detto che la tua famiglia è preoccupata per te
My mother told me your family is worried about you.
ZEINAB È da un tanto che non li chiami, vogliono parlare con te.
You haven’t called them for a long time, they want to talk to you.
ASADE Conosci mio padre, certe cose gliele devo dire con calma.
You know my father, I must take my time to tell him certain things.
ASADE Mh, brucia.
Mh, (in Italian) it’s hot.
SCENA 9
RAGAZZO La lavagna per cortesia…Un tenero sguardo, un simbolo: un fiore che vale più di mille parole e poi sfiorarsi e riconoscersi. Il cinema di Chaplin è questo: sconfiggere le apparenze dello sguardo per rivelare la verità stessa dell’immagine.
The blackboard, please….A tender glance, a symbol: a flower worth more than a thousand words, then touching lightly and recognising each others. That’s Chaplin’s cinema: overcoming appearances of sight to reveal the actual truth of images.
RAGAZZO Va bene, si è fatto tardi, continuiamo domani intanto, ricordo per l’ultima volta: per chi vuole approfondire il discorso sul cinema muto…o meglio: non sonoro e partire da un voto più alto con il professore, può passare domani al mio studio per concordare l’argomento della tesina. Grazie e buona giornata.
Ok, It’s getting late. We’ll resume our topic tomorrow. One last thing however. Those of you who wish to delve into silent cinema, or rather soundless, and to start with a higher grade at the exam, they can arrange the subject of their paper with me tomorrow in my office. Thanks to everybody and have a nice day.
Student: professor, we would like to ask...
Professore: oh yes, we’ll talk about it tomorrow.
ASADE si ricorda di me?
Do you remember me?
ASSISTENTE (BALBETTA)S…s…s…ccc…s..s.
y.. y.. ssss
RAGAZZO Signorina, aspetti un attimo.
Please, wait a second.
RAGAZZO: che cosa ci fai qua eh?
What are you doing here?
Ex ragazza: Mi sono rotta di avere sta roba in casa.
I’ve had enough of your stuff in my house.
RAGAZZO: ho capito, la venivo a prendere io la mia roba a casa.
I see but I would have come and get my stuff myself.
EX RAGAZZA: sono passati sei mesi.
Six months have passed.
RAGAZZO: eh ho capito…e poi qua non si fuma, è un’aula universitaria.
I see… but you can’t smoke here, it’s a lecture hall.
EX RAGAZZA: e io fumo lo stesso.
I smoke all the same.
RAGAZZO: ma ti rendi conto…
Can’t you realise it…
EX RAGAZZA: e lasciami… l’hai comprata la boccia per il pesce?
Have you bought the fish bowl?
RAGAZZO: il pesce…il pesce…ah signorina?!?
The fish… the fish! Miss…
scena 11
ZEINAB si può sapere cosa succede qui?
What’s going on here?
ASADE L’ho visto, l’ho visto
I saw him, I saw him!
ZEINAB calmati fammi capire di chi stai parlando,
Calm yourself, who are you talking about?
Asade è lui, insegna cinema, è un assistente
(in italian) It’s him, he teaches cinema, he’s an assistant lecturer
Zeinab Ma di chi parli?
Who are you talking about?
Asade Il ragazzo, quello che era alla fermata dell’autobus…quello che mi ha lasciato il pesciolino rosso
(in Italian) That guy (in Persian) the one I met at the bus stop… (in Italian) the one who gave me the goldfish.
Zeinab E cosa ti ha detto?
And what did he tell you?
Asade Non mi ha detto niente…non lo so, voglio dire, è venuta una ragazza e lui se ne è andato con lei
(in Italian) He didn’t tell me anything… (in Persian) I don’t know, I mean, a girl came and he left with her.
Zeinab E tu signorina perché non gli hai detto niente?
And you, why didn’t you tell him anything?
Asade Vestita così? Sembro uno straccio. E poi Lui le metteva le mani sui fianchi.
(in Italian) Dressed like this? I look like rubbish. (in Persian) And he put his hands on her sides.
Zeinab Se le cose stanno così, non è il ragazzo per te.
If this is the way things are going, he’s not the guy for you.
Asade Dai zeinab, voglio solo sembrare un po’ come le altre. Al posto di criticare, aiutami a scegliere qualcosa tra questi vestiti.
(in Italian) Come on Zeinab, (in Persian) I just want to look more like the others. Help me choose from among these clothes and stop criticising me.
Zeinab Appena sei arrivata ti sei tolta il velo, fin dove vuoi arrivare con questi atteggiamenti? Credi che andando in giro più spogliata attirerai più attenzione?
The moment you arrived you took off your veil, where are you going with your behaviour? Do you believe that by undressing you’ll attract more attention?
Asade Qui non siamo in Iran, anche tu puoi togliertelo quando vuoi, nessuno ti obbliga.
This is not Iran, you too can take it off whenever you want, no one’s forcing you.
Zeinab Se fino ad adesso hai portato il velo perché te lo diceva tuo padre, o per la paura della polizia, allora non hai capito niente.
If you’ve worn the veil till now because your father told to, or for fear of the police, then you’ve never understood a thing.
Asade Non c’entra niente.
That has nothing to do with it.
Zeinab Questo velo ti aiuta a dimostrare ciò che sei dentro e non quello che vuoi apparire. Quella gente che frequenti non capisce niente di tutto questo.
This veil helps you show how you are inside, not how you want to appear. Those people you hang around with don’t understand anything about it.
Asade Stai parlando come i miei genitori, sono scappata da loro e sono finita con te….tu nemmeno lo conosci.
You’re talking like my parents, I’ve escaped from them and ended up with you… (in Italian) You don’t even know him.
Zeinab Tu lo conosci? Lui ti conosce? Se vali così tanto per lui, ti riconoscerà , anche con il velo.
D’you know him? Does he know you? If you’re so worth to him, he’ll recognise you, even with your veil on.
Zeinab A proposito dei tuoi genitori, questa lettera è arrivata da loro.
Regarding your parents, this letter is from them.
SCENA 12
VOCI AL TELEFONO E’ un bravo ragazzo…c’è un uomo che aspetta di diventare tuo marito… Quell’uomo è un dono…Il velo ci protegge dagli stupidi…superficiale “ragazzo”… tu lo conosci?...ti riconosce anche se porti il velo…
He’s a good guy… there’s a man waiting to become your husband… That man is a gift… The veil protects us from stupid men… shallow guy… d’you know him?... He’ll recognise you even with your veil on…
Scena 13B – Animazioni – assistente e Asade col velo
Table on the animation:
Voi? You?
Mi avete riconosciuta? Have you recognised me?
Certamente. Of course.
SCENA 15
RAGAZZA: ma chi è quella ragazza là giù in giù in fondo?
Who’s that girl over there?
RAGAZZO: avanti il primo.
Who’s next.
SCENA 16:
RAGAZZO: mi dica pure..
Tell me.
ah è qui per la tesina…
Oh, you want to talk about the paper.
mi proponga pure un titolo…
Please, suggest your topic.
mi proponga pure un titolo…
Please, suggest your topic.
vuole che le suggerisca io qualcosa?
D’you want me to suggest a subject?
Non ha un argomento che l’ha interessata? Che le piace?
Isn’t there any topic that you are interested in, that you like?
Allora?
What, then?
Senta fuori c’è altra gente eh?
Listen, there are other people waiting outside.
Ma capisce cosa sto dicendo?
Can you understand what I’m saying?
Vuole che parliamo inglese?
Do you want to talk in English?
Signorina? Signorina…
Miss! Miss!
SCENA 17:
RAGAZZO: Si ho preso anche il maglione…Soccia mamma, ci saranno cinquanta gradi all’ombra lì. Dai, ti saluto, adesso ho trovato posto. Si, ti chiamo io, ciao.
Yes, I’ve got a jumper too. Come on mum, it must be fifty degrees in the shade there. I’ll go now, I’ve just found a seat. Yes, I’ll call you, bye.
RAGAZZO: E’ libero questo posto?
Is this seat free?
RAGAZZO: Bello quel pesciolino, dove lo stai portando?
(in Persian) That fish is lovely. Where are you taking it?
FINE
THE END
Il film è come un palazzo: si arriva alla sua costruzione gradualmente, per differenti gradi. E per “mani” differenti. Ma ognuna dovrebbe essere in grado di comprendere il linguaggio utilizzato dalle altre. Per costruire un palazzo serve un’“idea”, proprio come per costruire un film. Idea che va elaborata attraverso la stesura di un progetto che deve contenere la struttura (la parte portante in cemento armato dell’edificio) e gli impianti (termico, idrico-sanitario, elettrico). Il progetto arriva quindi nelle mani di un’impresa edile (la quale mette a disposizione muratori, elettricisti, idraulici, etc.) che si mette al lavoro per dar vita fisicamente al palazzo, sotto la guida di un direttore dei lavori.
Tutti utilizzano e comprendono un linguaggio in codice. Più o meno quanto accade agli “addetti ai lavori” di un film. L’analogia è lampante: gli ingegneri che si occupano delle strutture e degli impianti sono gli sceneggiatori, non un unico individuo ma più tecnici.
La stesura di un copione cinematografico si alimenta di un linguaggio in codice che tutti gli addetti ai lavori comprendono e utilizzano, vive di convenzioni. Due sono note ai più, la terza è meno facile da assimilare:
- QUI E ORA: l’unico verbo della sceneggiatura? Il presente. Il cinema esiste solo e unicamente al presente. Anche quando la vicenda è collocata nel passato (o nel futuro), lo spettatore si trova ad assistere ad azioni che si svolgono davanti ai suoi occhi (hic et nunc/qui e ora). Una vera e propria regola di scrittura, il primo tratto distintivo rispetto alla letteratura.
- LA VISIBILITÀ: la sceneggiatura deve descrivere solo ciò che è visibile, visualizzabile. Emerge quindi una seconda differenza rispetto alla narrativa: ciò che non è visualizzabile non è filmabile, e non dovrebbe trovare posto in uno script. “Che cosa vedo ora sullo schermo?”. Non si dovrebbe scrivere che qualcuno è il migliore amico di qualcun altro, né descrivere la vita interiore dei personaggi.
- MAI SOLI: la stesura di un copione cinematografico dovrebbe essere un lavoro eseguito a più voci, a più mani, proprio come il progetto di un palazzo. Le ragioni sono tante. Banalmente, sarebbe meglio non trovarsi soli ad affrontare questo impegno su cui si regge tutto il film.
Articolo di CRISTINA BORSATTI per FareFilm.it
Secondo il professore dell'UCLA Corey Mandell, tra tutte le sceneggiature che vengono sottomesse alle varie case di produzione, solo il 2% finisce per essere considerato dai capi, mentre il rimanente 98% viene direttamente cestinato. Ecco gli errori più frequenti che sono stati scovati in questi poveri script buttati via senza pietà:
Leggi tutto: Gli errori più comuni che commettono gli aspiranti sceneggiatori
Telecamera fissa su donna che si distende completamente sul divano; uomo fuori campo mette sul giradischi un disco.
“I’ll be your mirror” da “The Velvet Underground & Nico” si diffonde nell’appartamento.
Uomo canticchia la canzone guardando la donna.
La donna sorride di nuovo e abbassa gli occhi.
U: “Cosa ti ha fatto innamorare di me?”
D: “I tuoi occhi disperati, i tuoi modi pacati, la tua curiosità e il tuo talento.”
U: “Il Mio Talento?”
D: “ Certo non esistono molti clown al giorno d’oggi e tu sei molto bravo”
U (contrito): “Io non sono un clown. Sono Un Pierrot. E’ una cosa diversa.”
D: “Ah si? Coraggio, spiegami la differenza!”
U (ironico): “Ok… Hai un paio d’ore?”
D (sbadigliando): “No mi sta venendo sonno!
Tra poco vado a dormire, domani mattina presto devo andare all’aeroporto a prendere Nadia”
U: “Perché?”
D: “Perché resta da noi un paio di giorni, te l’avevo detto!”
U: “Devo avere aggiunto questa informazione allo scompartimento del mio cervello che contiene le cose che non mi interessano o non voglio ricordare. Comunque com’è questa Nadia?”
D: “Il tipo di donna che non sopporti: finta alternativa, impegnata nel sociale, che vuole l’acqua pubblica ma non si lava e ascolta musica orribile che non si caga nessuno.
U: “Tette?”
D (toccandosi i piccoli seni [la donna porta una seconda scarsa]):
“Più o meno come le mie”
U: “Tornando al perché mi ami; c’è dell’altro?”
D: “Si, ma prima voglio sapere perché tu mi ami”
U (sorpreso): “Perché ti amo?”
D: “Si!”
U: “Perché hai due tette enormi!”
Fondo al nero con September di David Sylvian
di opinionidiuncane [31-10-2012] da http://www.ewriters.it
', '', 1, 2, 0, 66, '2017-12-13 00:00:00', 63, 'opinionidiuncane [31-10-2012] da http://www.ewriters.it', '0000-00-00 00:00:00', 0, 0, '0000-00-00 00:00:00', '2017-12-13 00:00:00', '0000-00-00 00:00:00', '', '', 'show_title=\nlink_titles=\nshow_intro=\nshow_section=\nlink_section=\nshow_category=\nlink_category=\nshow_vote=\nshow_author=\nshow_create_date=\nshow_modify_date=\nshow_pdf_icon=\nshow_print_icon=\nshow_email_icon=\nlanguage=\nkeyref=\nreadmore=', 1, 0, 9, '', '', 0, 1256, 'robots=\nauthor='),
Sono trucchi per ingannare noi stessi e anche se lo sappiamo già prima, a volte funzionano, magari non tutti per tutti, ciascuno ha i suoi punti deboli. Sono solo attrezzi in più che teniamo nella nostra cassetta immaginaria.
1. Abbassa i tuoi standard. Li rialzerai più tardi.
Il foglio immacolato davanti e standard troppo alti sono una miscela altamente inibitoria. Meglio abbassarli all'inizio, quando l'importante è cominciare. Potrete rialzarli fase di revisione, con tante pagine ormai sotto gli occhi.
2. Prima di scrivere, immagina la tua storia.
La scrittura inizia molto prima che le mani comincino a muoversi. Più si lavora nella testa, meglio riuscirà la prima bozza.
3. Recita l'inizio come se stessi parlando con una persona.
Si può scrivere anche con la voce. Ascoltare, e poi scrivere.
4. Non stai scrivendo il tuo pezzo, ma un promemoria per te.
Se immagini di scrivere per te stesso, abbassi i tuoi standard in modo naturale e produttivo. Una volta che le mani si mettono in moto, anche le parole cominciano a fluire.
5. Scrivi più veloce che puoi per dieci minuti. Senza fermarti.
Ogni scusa è buona per procrastinare. Meglio mettersi a scrivere presto e velocemente. Il risultato forse non sarà dei migliori: chiamiamola "bozza zero". Ci insegnerà come scrivere meglio la prima.
6. Metti a tacere il critico che è in te.
Il critico ci serve in fase di revisione, quando gli standard qualitativi devono essere altissimi. Ora serve solo a metterci in crisi.
7. Se non riesci a scrivere nel solito posto, cambia posto.
Di solito le abitudini aiutano, ma se alla scrivania non riusciamo ad andare avanti, meglio il tappeto col computer in grembo o il bar di fronte.
8. Prendi carta e matita.
Lo schermo fa apparire bello e nitido qualsiasi testo, anche una pessima prima bozza, scritta tanto per cominciare. Questo non succede con carta e matita, che ci rendono più attenti e meno ansiosi.
9. Chiedi a qualcuno di farti un po' di domande sul testo che devi scrivere.
Le domande, soprattutto quelle aperte, ci possono mostrare il nostro tema da altri punti di vista e darci finalmente lo spunto per cominciare.
10. Per il momento scordati l'inizio. E comincia dalla fine.
Se all'inizio è il blocco, basta fare una deviazione e cominciare da un'altra parte. Quella più semplice, o quella che ci piace di più.
da Il mestiere di scrivere di Luisa Carrada
Mi viene in mente il cosidetto fraintendimento del Terzo Atto. Ovvero, quella particolare scena, piuttosto comune nelle commedie romantiche ma non limitatata ad esse, e posta generalmente verso i 3/4 del film, in cui fra i protagonisti scatta un qualche tipo di disaccordo o incomprensione, necessario a reintrodurre un nuovo elemento di tensione che "tenga su" l'atto finale.
Tipicamente: la dolce A e l'affascinante B si sono appena dichiarati eterno amore, ma la rivale C fa intendere a A che B è ancora interessato a lei (cioè C).
Una infuriata A non vuole ascoltare le motivazioni del presunto fedifrago B (anche se avrebbe tutti i motivi per credere che la rivale C stia mentando apposta per farli mollare) e d'altro canto questi viene colto da una improvvisa incapacità di spiegarsi chiaramente. Poi comunque litigano e non si vogliono più vedere.
Amici impiccioni e coincidenze improbabili a volte complicano ulteriormente la situazione.
Questo momento non è necessariamente imbarazzante di per sé, ma quando è scritto male fa sembrare i protagonisti degli idioti che, con un minimo di comunicazione in più risparmierebbero (a sé stessi e a noi) un'altra mezz'ora di incomprensioni, e di conseguenza fa sembrare lo sviluppo degli eventi forzato e artificiale, utile solo a separare i protagonisti a forza per poi riavvicinarli sul finale.
Non è in discussione ovviamente l'efficacia drammatica di questo meccanismo, solo la sua esecuzione di qualità spesso altalenante. Va detto anche che si tratta di uno sviluppo narrativo abusatissimo e che quindi risente della sua condizione di cliché.
di Michele Zaccaria per it.quora.com
Molte persone credono (erroneamente) che scrivere un romanzo (o una serie di romanzi) fantasy di sucCESSO sia una impresa epocale che soltanto poche penne elette posso portare a termine ! Niente di piu´ sbagliato ! Malachi Harkonnen, con un´altra delle sue veloci e snelle guide on-line, vuole dimostrare l´esatto contrario ! Seguite i consigli qui riportati e la strada come futuro scrittore di fama universale sara´ alla vostra portata:
1) Una delle prime uno stile di scrittura particolare o addirittura conoscere le regole grammaticali di base della vostra madre lingua: niente di cose che bisogna immediatamente smentire a proposito della stesura di un romanzo fantasy e´ che sia necessario avere piu´ sbagliato. Eventuali errori e/o svarioni da fa rivoltare nelle rispettive tombe tutti gli scrittori da Omero a Pirandello, verra´ commentato dai critici dei giornali ( gente, che secondo alcuni, dovrebbero essere considerati al pari dei criminali di guerra) come : "un perfetto esempio di innovazione stilistica in un panorama letterario altrimenti stagnante ".
2) Punto chiave della carriera di ogni futuro scrittore di un romanzo fantasy che si rispetti e´ aver letto il Signore degli Anelli ... lo so´, alcuni di voi potrebbero avere improvvisi attacchi di sonno al secondo capitolo del suddetto tomo, a causa del vivace stile di Tolkien che arriva subito al punto, senza perdersi in inutili spiegazioni che nulla hanno a che fare con la storia o canzoncine per bambini, ma il vostro destino dipende da questo !
Una volta terminata la lettura di suddetto capolavoro epico ( si consiglia di assumere 50 cc di caffeina per capitolo se non volete cadere in letargo), copiate la trama e il gioco e´ fatto. Plagio ? No, citazione, lo fanno tutti da piu´ mezzo secolo e nessuno si e´ mai lamentato.
3) Come gia´ detto precedentemente, la trama in un romanzo fantasy non ha molta importanza visto che piu´ o meno sono tutti plagi.. ehm... copi... ispirati al capolavoro del Signor Tolkien ( un professore inglese amante della birra alla spina e delle dormite epocali). Per chi nonostante la buona volonta´ e´ caduto in coma profonda dopo il primo paragrafo de " La compagnia dell´Anello " ecco un breve riassuntino dei punti cardine da rispettare:
- In passato tutti vivevano in pace, amore e armonia (come una comunita´ hippy, ma senza canne, orge gigantesche e nemmeno musica rock ...) , poi gli umani corrotti da un´oscuro signore del male (spuntato dal nulla) hanno alterato l´equilibrio cosmico generando una serie di giganteschi casini che rischiavano di portare il mondo sull´orlo della distruzione.
- Ci fu´ una violenta battaglia, gli elfi con la loro perfettosita´ sconfissero il signore del male e le sue armate ... o almeno cosi´ sembrava perche´ ...
- ... Dopo N (dove N, e´ un numero naturale intero bello grosso) migliaia di anni il signore del male si ripresenta con tanto di armate invincibili, fortezze inespugnabili e branchi di mostri schifosi (il tutto ovviamente spuntato dal nulla senza che nessuno notasse minimamente la cosa ... hey ! Non ricordavo che la fattoria di Tuc, aveva una lugubre torre per esporre le teste decapitate dei suoi nemici ancora grondanti di sangue ... ), pronto a disputare il secondo tempo della partita.
- Ma L´oscuro signore del male ha un punto debole ! Un artefatto, che ha perso durante la battaglia con gli elfi, gli e´ necessario al fine di conservare tutto il suo potere ...
- ... Destino vuole che questo artefatto sia nelle mani dell´alleanza del bene ( capitanata dagli elfi perfettini, che non si fidano dei propri alleati, e li considerano " minus quam merda ", visto che non sono assolutamente perfetti come loro). Di solito l´artefatto ha bisogno di un particolare rituale per essere distrutto, rituale che necessita, lunghi viaggi in terre pericolose infestate da gente che ti vuole abbassare di una testa con una roncola arrugginita ...
- ... Un qualsiasi deficiente affiderebbe l´artefatto ad un gruppo di marines cazzuti e indistruttibili, armati fino ai denti e capitanati da un sempre incazzato sergente urlante spara-ordini. Ma la logica ( che non c´e´) dei romanzi Fantasy preferisce affidare tale gravoso compito a 5 cretini di passaggio che si odiano a pelle, che non hanno esperienza alcuna di combattimento e si lamentano ogni due per tre dei calli ai piedi o del drago nero che vuole ridurli in cenere.
3) Gli elfi devono essere OBBLIGATORIAMENTE PRESENTI, magari gia´ che ci siete create un centinaio di diverse sottorazze ( elfi del sole, elfi della luna, elfi del sottosuolo, elfi metalmeccanici, elfi comunisti mangiabambini, ecc ...) una piu´ perfetta dell´altra.
Gli elfi devono essere OBBLIGATORIAMENTE: belli ( al contrario degli orchi, che sembrano avere un´esempio pratico di teoria del caos, sul viso), agili, scattanti, incorruttibili (al contrario degli umani, che vendono l´anima anche per un lecca lecca con su´ scritto "MAGGIA POTENTTE"), amici della natura, abili arcieri, maghi imbattibili, custodi di antichi segreti, immortali, omosessuali (i maschi, i nani con folte barbe e alito impestato da birra, sono un must), ninfomani ( le femmine, ma solo nei confronti del vigoroso eroe umano, sembrano disdegnare i maschi della loro stessa specie) ma soprattutto perfettini.
Gia´ perfettini, cosa significa cio´ ? Che qualsiasi cosa, loro la fanno meglio: Riesci a colpire un fagiano a 25 metri di distanza con un´arco ? Loro uccidono un topolino che si trova a mezzo chilometro di distanza dietro un monte con gli occhi bendati. Tu sei un´abile cantante ? Loro riescono a ruttare in Doulby Sorround, da soli. Fulmine, il tuo cavallo, ha vinto tutte le gare possibili nella contea ? Bene, state sicuri che anche il piu´ scalcinato ronzino elfico puo´ batterlo in corsa, trottando all´indietro e utilizzando una sola zampa.
4) Un´altro punto importante di ogni capolavoro fantasy sono i nomi da affibbiare a persone/luoghi/regni/oggetti magici/razze/super alcolici/ecc ... tutti devono avere le seguente caratteristiche:
- devono essere lunghi
- devono essere impronunciabili
- devono assomigliarsi tra di loro
- devono essere difficili da ricordare
Ecco un paio di esempi (visto che siete duri come nemmeno il granito):
- " La mite popolazione dei Rogi viveva nella vallata di Sandu, rinomata per la produzione di Kiram, un vino ad alta gradazione alcolica che fungeva anche da collutorio e liquido per frizioni idrauliche. I loro acerrimi nemici, I Gonrak intanto tramavano nell´ombra ... " - Oh mio dio che orrore ! In questa maniera il lettore potrebbe perfino CAPIRE qualcosa della storia !
- " La mite popolazione dei Vringherbilltinky viveva nella vallata di Vringherbilinky , rinomata per la produzione di Ingherbilltinky, un vino ad alta gradazione alcolica che fungeva anche da collutorio e liquido per frizioni idrauliche. I loro acerrimi nemici, I Vringerbilstiky intanto tramavano nell´ombra ... " - Ottimo, sublime ! in questa maniera il lettore perdera´ il filo del discorso entro 5 righe, ma poco importa visto che i romanzi fantasy, non ne hanno.
5) Siate schifosamente razzisti: gli elfi perfettini sono tutti perfetti, buoni e carini, i nani sono tizi barbuti dalla voce roca e il commento gagliardo che vivono in buche, gli hobbit sono una razza di neocon pigmei, bigotti, amanti della birra e nemici dell´igene degli arti inferiori, gli umani sono una plebaglia di contadinotti e sovrani corrotti, gli orchi sono tutti cattivi dal primo all´ultimo ( qualcuno sostiene che XicH@ilYn´ibFlitirbilJ la divinita´ elfica dei denti cariati gli abbia scagliato contro una terribile maledizione) e il loro unico scopo e quello di finire infilzati dall´eroe di turno,
6) ECCEZZIONE alla regola sopraccitata ! Gli eroi si elevano sopra la marmaglia per diritto divino ! Non perche´ hanno le abilita´, la forza o l´intelligenza per vincere, ma perche´ gli dei (lo scrittore) ha deciso cosi´ (meritocrazia nel Fantasy, ma dico siete impazziti per caso ?!). Gli eroi ce la fanno sempre e comunque, sono il meglio del meglio ! Perfino gli elfi perfettini accettano di buon grado di aver a che fare con eroi umani e le elfe hanno ricorrenti perdite di sangue al naso, non appena vedono il rude eroe scendere da cavallo con la barba incolta, mentre sventola un´arma/simbolo fallico.
Come gia´ detto il principale potere degli EROI e´ il fatto che sono PREDESTINATI: non avendo dalla loro nessuna abilita´ di sorta per affrontare le avversità, si possono affidare soltanto al loro CVLO ( o meglio, agli strani eventi favorevoli che guarda caso capitano intorno a loro e permettono di proseguire nei loro viaggi).
Voglio dire, secondo voi, un nano di 90 cm, senza ne´ armi, ne´ armature, ne´ addestramento militare, che possibilita´ ha di passare attraverso le fila dell´esercito nemico, infilarsi nel suo Santa Sanctorum, passare sotto il naso (o l´occhio) del signore del male e distruggere l´artefatto del male nel cortile di casa del rispettivo padrone ?
Nessuna, risponderanno i miei lettori che hanno ancora 6 neuroni in parallelo nella scatola cranica ... ERRATO ! E´ predestinato ! Quindi avra´ successo, anche se e´ un pollo con la difterite e la forfora.
7) Ho citato la predestinazione per caso ? O si altro fetis... ehm ... punto chiave della narrazione fantasy: ogni personaggio e´ predestinato e non puo´ scappare al suo destino. Korris il pavido morira´ affogato anche nel bel mezzo del deserto del Sahara, se Lala la sibilla ninfomane (lo scrittore ) ha stabilito´ cosi´. Bergaramh V il casto (o " colui che si amputo´ le mani pur di non toccarsi " ) sconfiggera´ il terribile Vrumgrum scorticatore della valle dei fucili a tappo poiche´ il profeta ha cosi´ predetto (anche se magari Bergham e´ un tizio con piu´ testicoli che neuroni nella scatola cranica).
Il fantasy e´ il mondo del politically correct al 100 %, nessuna remora morale se massacrate villaggi su villaggi di orchi, goblin e troll, anzi ! Siete un rispettabile eroe che combatte il male. Viceversa, se un´orco pensa anche di aver un benche´ minimo diritto (oltre quello di rantolare e contorcersi dal dolore dopo essere stato colpito a morte dall´eroe ) e fa´ notare che anche la sua specie e´ in fondo una civilta´ degna di rispetto, questo dovra´ essere massacrato seduta stante per le sue assurde idee !
Altra particolarita´ e´ l´immutabilità´ totale del mondo: i contadini sono amorevolmente sfruttati dal loro signore che lascia loro la possibilita´ di scegliere di morire in maniera violenta durante una battaglia come truppe sacrificabili o come zappatori malnutriti, il tutto da 12.000 anni circa.
9) Prendetela larga. Molto Larga. Il 99.9 % del testo di un qualsiasi libro fantasy e´ composto da parti che nulla hanno a che vedere con la trama principale: antiche leggende di come il mondo e´ stato creato da 4 divinita´ ubriache che giocavano a Twister, descrizioni delle perversioni sessuali del sindaco della citta´ nei confronti degli ortaggi da giardino, ricette a base di testicoli di orco, canzoncine senza senso ( da cantare ad alta voce nel bel mezzo di una foresta oscura piena zeppa di bestie sbrindella-carne), storielle piccanti con elfe e minotauri, ecc ...
Dette parti devono essere piazzate strategicamente, per distruggere psicologicamente il lettore. Per esempio : l´eroe e´ circondato dai nemici, si trova sul precipizio di un baratro, la sua lama e´ rotta e la sua fidanzata lo ha appena lasciato per un´ogre impotente. Carica, gettandosi nella mischia, gli occhi carichi d´ira e mentre un´orco perdeva la sua virilita´ a causa di un suo fendente, gli torno´ in mente una filastrocca della sua infanzia: " oh balla l´elfo ballerino / balla sotto la luna / dolce stellina, chioma fatata / si chino´ scurreggiando a tonalita´ alternata / ... ( la filastrocca prosegue per circa altre 180 pagine..)"
Tutto cio´ ha tre scopi fondamentali: 1) Gonfiare una storia che poteva tranquillamente finire in un´edizione tascabile, in un´interminabile raccolta di 150 volumi da 600 pagine cadauno 2) Nascondere al lettore, il fatto che sta´ leggendo un´altra versione del signore degli anelli 3 ) Far addormentare il lettore
10) La copertina e il titolo del vostro libro non sono cose da sottovalutare ! Anzi molto probabilmente il vostro cliente (non lettore, quello e´ un termine che utilizzano ancora soltanto scrittori comunisti mangia bambini) acquistera´ il vostro capolavoro basandosi sui colori presenti sul frontespizio. Se volete sperare di vendere piu´ di una dozzina di copie la vostra copertina dovra´ presentare:
- Draghi ( da soli o cavalcati come un qualsiasi animale da soma, poco importa, un drago e´ sempre un drago)
- Tizie anoressiche con addominali scolpiti e seni giganti, (S)vestite con aderenti tutine in cuoio borchiato (poco importa se nel periodo in cui e´ narrata la storia il must dell´abbigliamento e´ il pastrano in pelliccia di orso) e/o bikini in ferro battuto e ghisa (per qualche strana ragione, il costume a due pezzi, se indossato da una femmina, offre la medesima protezione di un´armatura completa), mentre brandiscono spadoni/simboli fallici grandi quanto loro
- Brutte copie di Conan il barbaro.
- Fortezze a 150 piani piazzate in posizioni assurde (di fronte ad una montagna, sotto terra, sotto un ponte, ecc ...)
- Personaggi carismatici che fanno qualcosa che non avra’ luogo nel libro.
- Eventi epocali che non hanno luogo nel libro
- Navi volanti
- Giardini fantastici con zucchini troppo cresciuti
- Miss luglio in pose equivoche
Per il titolo invece esistono delle leggi codificiate, come al solito non rispettarle vi condannera´ ad un´esitenza da mesto scrittore fallito tra sciroppi per la tosse contraffatti e reality show in terza serata:
- Le <avventure/cronache/storie/leggende> di <nome impronunciabile>
- La <condanna/sfida/maledizione> di <nome che che provoca spasmi involontari alla lingua se pronunciato correttamente>
- Il/la <nome arma> di <parola pronunciabile solo in un dialetto thailandese dimenticato da tempo >
- < nome protagonista > e < oggetto magico/congiura galattica/luogo sacrilego/mago che soffre di areofagia / ecc ... >
Piccola nota, non prendete questo topic seriamente !
Premetto che le fasi sotto esposte non sono in alcuna maniera vincolanti nella redazione di una sceneggiatura. Nel mio caso, ad esempio, passo dalla creazione del "Soggetto" alla redazione della "Sceneggiatura" aperta o letteraria in cui viene specificata la successione di inquadrature, scene e sequenze (con indicazioni sommarie su ambienti, azioni e movimenti, e note sulla rispettiva colonna-dialoghi). Lascio al regista o ai suoi collaboratori l'eventuale trattamento o scaletta e il cosidetto découpage tecnico.
"Esistono regole, ma per essere violate"
La redazione della sceneggiatura, che prevede sovente la stesura dei dialoghi, segue solitamente alcune fasi fondamentali che possono essere sviluppate in modo diverso a seconda dei metodi e delle preferenze del regista e del produttore del film. Scopo della sceneggiatura è quello di riassumere e ordinare le indicazioni relative alle azioni e operazioni da effettuare sul set, in modo da consentire il passaggio dalla fase ideativa a quella operativa.
IL SOGGETTO
La progettazione del film parte solitamente da un testo, detto "soggetto", nel quale sono esposti l'argomento, la trama e l'intreccio del racconto; il soggetto può derivare da un'idea preesistente (come ad esempio un'opera letteraria o teatrale, da "adattare" alle esigenze cinematografiche) oppure risultare "originale", vale a dire scritto espressamente per lo schermo. Questo testo, che mantiene una forma di tipo letterario e non contiene alcuna specificazione tecnica e operativa, viene poi sottoposto al cosiddetto "trattamento" e trasformato infine in "scaletta".
TRATTAMENTO E SCALETTA
Per trattamento si intende uno sviluppo della struttura narrativa esposta nel soggetto che contenga già un principio di articolazione per scene, una traccia degli snodi della progressione drammaturgica e i tratti principali della psicologia dei personaggi, nonché una descrizione di massima dei luoghi nei quali si ambienterà la vicenda e (talvolta) l'abbozzo di alcune battute di dialogo. Il trattamento rivela le intenzioni programmatiche e le peculiarità stilistiche dello sceneggiatore, la cui attività può prevedere talvolta la partecipazione diretta dello stesso regista (qualora le due figure, come sovente accade, non siano riunite in una sola persona).
Con la scaletta, infine, viene resa maggiormente esplicita la suddivisione per scene, e si precisano gli eventi contenuti in ciascuna di esse.
A questo punto si perviene alla stesura "definitiva" del testo sceneggiato.
TIPOLOGIE DI SCENEGGIATURE
Il complesso percorso sin qui descritto può sfociare, come si è accennato sopra, in esiti differenti. Infatti, accanto a sceneggiature per così dire "aperte", o semplicemente ancora "letterarie", in cui viene specificata la successione di inquadrature, scene e sequenze (con indicazioni sommarie su ambienti, azioni e movimenti, e note sulla rispettiva colonna-dialoghi), vi sono sceneggiature dettagliate fin nei minimi particolari, tali da richiedere solamente l'esecuzione; questo è ad esempio ciò che accade nel "découpage tecnico" (o "sceneggiatura di ferro") caro a cineasti come Alfred Hitchcock, che giunge persino a contemplare i tipi di obiettivi o le fonti luminose da utilizzare e viene elaborato dal regista in accordo con i suoi più stretti collaboratori.
Vi sono inoltre casi in cui la sceneggiatura si risolve in uno scarno e schematico insieme di appunti, modificabili in qualsiasi momento in base agli stimoli indotti dal set, ad esempio dall'improvvisazione di dialoghi e situazioni o da semplici imprevisti; è questo un procedimento diffuso nel neorealismo italiano o in alcune correnti cinematografiche europee degli anni Sessanta e Settanta.
Ultimamente, soprattutto nelle produzioni di maggior impegno finanziario o in quelle in cui l'adozione di complicate scenografie e di raffinati effetti speciali rende particolarmente delicate le operazioni di ripresa, si tende ad affiancare alla sceneggiatura un insieme di visualizzazioni grafiche (note col termine anglosassone di story-board). Va inoltre precisato che il découpage finale di un film, oltre che direttamente sul set, può essere considerevolmente modificato anche in sede di montaggio. Infine, non è infrequente la pubblicazione come testi autonomi tanto delle sceneggiature "letterarie" quanto di quelle cosiddette "desunte", ovvero delle trascrizioni delle pellicole cinematografiche così come sono state portate sullo schermo.
di Massimo D. Zilioli
Qualche tempo fa ho visto a un festival un cortometraggio premiato per la migliore sceneggiatura. La sceneggiatura infatti era ottima ma fin quasi al termine, secondo me, fino a che proprio coi titoli di coda gli autori non hanno avuto un cedimento per un grosso errore. Evidentemente la giuria non si è accorta di questo errore. E’ interessante parlarne perché nel contempo si comprenderà cosa è il colpo di scena.
Il corto narra di un giovane alla disperata ricerca di un lavoro. Un giovane “avanzato in età”, Mario ( per dargli un nome), con fidanzata che vorrebbe sposarsi, con genitori che si avviano alla pensione, con una sorellina che gli vuol bene, con uno zio premuroso, con una nonna che capisce e non capisce. Storia dei nostri giorni ben costruita, famiglia convincente per le dinamiche relazionali che esemplificano ciò che accade comunemente nella realtà. La storia è centrata su un ennesimo tentativo di colloquio di assunzione, sul colloquio stesso e sull’attesa dei risultati. Proprio durante il colloquio la nonna viene ricoverata in ospedale. Abbastanza normale, non è la prima volta, in fondo è molto anziana.
Mario dopo il colloquio viene avvertito dalla segretaria dell’azienda, in tono confidenziale, che se non riceverà alcuna telefonata entro le tredici del giorno dopo potrà considerarsi assunto; la telefonata ufficiale di assunzione e l’invito a presentarsi viene di norma inviato in seguito. Mario sembra soddisfatto del colloquio sostenuto, racconta a casa che bisogna pregare che non arrivi nessuna telefonata da quella azienda fino alle tredici del giorno dopo.
E il giorno dopo verso le undici la madre impaziente e speranzosa, che “ sente che questa è la volta buona”, prepara di nascosto una torta, mentre lo zio anche lui ottimista corre a comprare lo spumante. Insomma c’è chi spera e c’è pure chi si tormenta: e se questa volta sarà come le altre? I pessimisti sono, oltre Mario, il padre, serio, preoccupato, che non commenta e attende; la fidanzata che oscilla tra fiducia e sfiducia, anche lei in ansia; la sorellina di Mario che la imita. Alle tredici meno dieci, ormai quasi ora di pranzo, alcuni sono già seduti a tavola e c’è chi guarda l’orologio di nascosto, e chi proclama l’orario apertamente. Alle tredici meno cinque lo zio fa apparire la bottiglia di spumante e subito la madre mette la torta in bella vista. Mancano ormai pochi secondi alle tredici e tutti sono in fibrillazione, persino il padre ora sorride, la fidanzata esulta, figurarsi madre e zio! ma ecco che squilla il telefono… e continua a squillare lacerando il silenzio.
Fermiamoci un attimo per spiegare il colpo di scena. Mettiamoci dalla parte degli spettatori, non è difficile immedesimarsi e pensare come loro. Gli spettatori, a questo punto in tensione come i personaggi del film, si chiedono ansiosi: chi sarà!?, oppure sono già delusi: addio! ecco la telefonata che boccia Mario. Dunque il percorso della narrazione scivola perfettamente: tutto accade come in una famiglia qualsiasi, la telefonata che si teme arriva. Potrebbe essere un’altra persona che telefona. Oppure Mario non ce l’ha fatta. In tutti e due i casi ( la telefonata di altri e la telefonata di bocciatura ) siamo di fronte a un normale svolgersi degli eventi. Invece colpo di scena, ossia svolta nella narrazione: accade qualcosa d’altro, che non si attendeva, o di cui ci si era dimenticati.
Risponde ovviamente Mario, con la faccia che pende. Dall’altra parte c’è qualcuno dell’ospedale che avvisa che è morta la nonna. Gli spettatori ascoltano, come Mario, e apprendono la notizia, e siccome sono al di fuori della storia, per quanto partecipi siano, rimangono un po’ costernati: è vero che non è stato bocciato, però la notizia è una notizia di morte. Ma gli altri personaggi del film non sanno ancora e sono in attesa spasmodica. Mario non reagisce subito, chiude il telefono e dà la notizia. Non è la notizia temuta! Tutti esultano, urlano di gioia, lo zio stappa lo spumante, si fanno gli auguri. Questa reazione è il secondo colpo di scena.
Mettere un intero gruppo in condizioni di reagire esultando a una notizia di morte, senza per questo apparire crudeli è una trovata geniale. La risata del pubblico scaturisce dal paradosso, dall’equivoco emotivo che sorge per via dell’attesa di qualcosa che rinvierebbe il gruppo nella penosa realtà di un giovane che non ha lavoro. Se questo qualcosa non avviene l’emotività positiva, la gioia, è così alta che tutto ciò che avviene è come se non avvenisse. Se il film termina qui lo spettatore va via soddisfatto, col volto sorridente, convinto di ciò che è accaduto, non importa se è un evento estremo. Il colpo di scena, l’evento paradossale, è riuscito. E oltretutto Mario è stato assunto. Che è importante per il lieto fine, che ha il suo peso sullo spettatore. Questo secondo colpo di scena veramente straordinario avrebbe dovuto chiudere il film.
Ma il film non termina qui, continua nei titoli di coda. La segretaria dell’azienda, che gli spettatori conoscono, è al telefono. Il direttore le chiede se ha avvertito tutti gli esclusi e la segretaria risponde che le è rimasto l’ultimo, un tal Mario… il cui telefono prima era occupato…
Il film termina con questo terzo colpo di scena. Un colpo di scena di troppo, secondo me. Ben tre colpi di scena! Se si utilizzano più colpi di scena, e ovviamente si vuole che funzionino, devono essere organizzati in progressione di efficacia sempre maggiore. In questo caso l’ultimo non si può paragonare certo al secondo quanto a originalità e forza. Perché accade facilmente che un Mario sia bocciato per l’ennesima volta ( purtroppo oggi ) e che la persona che glielo deve comunicare trovi il telefono occupato. Mentre è molto improbabile che si esulti di gioia a una notizia di morte. Non solo. C’è un altro aspetto. In questo caso si raggiunge un obiettivo non voluto, quello di mandar via gli spettatori delusi. Forse sorridono pure per questo finale, ma di sicuro non ridono come prima. E questo è il grave errore.
Maurizio Mazzotta - www.essereuomo.it
Fare cinema
di Maurizio Mazzotta
Il colpo di scena
Il film può essere scritto a vari livelli di precisazione. E si può partire da un’idea abbozzata in poche righe o da un racconto letterario. Si può scrivere una semplice scaletta o una sceneggiatura precisata in ogni parte. E si può arrivare a disegnare la singola inquadratura, come una vignetta, modalità preferita spesso da Fellini.
Naturalmente condiziona se il film è un corto ( misura variabile dai 10 ai 20 minuti ) o un medio-lungometraggio (dai 20 ai 90 minuti e oltre). Per un cortissimo (cinque minuti) l’idea, pure solo abbozzata, è in genere sviluppata e tradotta direttamente in una scaletta, cioè una sequenza di azioni descritte ( chi sono e cosa fanno i personaggi e dove agiscono ) con un dialogo accennato. Ma se si considera un corto che abbia uno sviluppo di eventi o a maggior ragione un lungometraggio e se si parte da un soggetto scritto da altri, allora bisogna sedersi a tavolino e pensarlo per immagini e a questo punto più il film scritto è definito meno problemi si affronteranno in seguito sul set e in fase di montaggio. Ciò non significa che in queste fasi non si possa intervenire con modifiche. La sceneggiatura serve per avere tutto chiaro il film nella testa, poi in ogni momento se sorgono idee si può cambiare. Dunque sceneggiatura precisata ma flessibile.
La sceneggiatura parte da un’analisi approfondita della storia e dei personaggi e questi ultimi sono costruiti rivelando tutto ciò che può essere utile: dai gesti ai modi di dire ai difetti ai modi di muoversi, di acconciarsi, di vestire. In questo senso lo sceneggiatore dà suggerimenti ai truccatori e ai costumisti che in seguito saranno coinvolti. Così pure gli ambienti sono descritti per facilitare il compito dello scenografo. Ci sono sceneggiatori che suggeriscono a chi dirigerà il set i tempi di durata delle inquadrature. Se non sempre almeno quando una inquadratura è significativa. Comunque è necessario stabilire il tempo delle scene per un’ipotesi di durata totale del film.
Ecco un esempio di descrizione di ambienti e personaggi.
Il tribunale della Sacra Rota ( dal sito www.essereuomo.it )
Vicariato. Tarda mattina di primavera. Personaggi principali: Giò il Rosso, il Monaco Dottore, il monaco segretario.
Per le Inquadrature alternare Campi Lunghi ( CL ) e Totali ( CT ) con Figure Intere ( FI), Primi Piani (PP) e Dettagli ( DET). Evitare i Campi e i Piani Medi ( PM,CM).
Per il sonoro solo dialoghi e rumori d’ambiente.
Scena I. - Interno-esterno. Durata 1 minuto.
Corridoi che si affacciano in un chiostro. Netto contrasto di luci e ombre. Distorsione percettiva delle profondità e delle altezze. I corridoi sono larghissimi e si restringono a cuneo allo stesso modo delle autostrade quando si procede ad altissima velocità. Questa percezione contrasta con il procedere al rallentatore dei personaggi.
Giò, il Rosso, indossa un paio di jeans estivi celesti, mocassini di cuoio chiaro, giacca avana di cotone, camicia a fiorellini celesti su fondo nocciola, cravatta azzurra con petali di fiori colorati delicatamente di giallo e di marrone, i ray-ban per via della luce bianca e violenta. Ha in mano un libro.
CL - Il Rosso segue un monaco tutto nero: il saio e anche la testa, rallegrata da riccioli scuri.
Vanno lungo corridoi con svolte ad angolo retto, per scale interminabili.
Corridoi e scale sempre più stretti.
PP – del monaco accompagnatore che bussa con eccessiva discrezione. Viene da pensare se chi sta dentro può aver udito quel tocco leggero.
FI - La porta viene aperta da qualcuno che sembra sia stato là dietro appostato con una rapidità che contrasta con il movimento lento dei personaggi. E’ un monaco bianco e marrone. La sua figura è attraversata dalla luce.
PIANO SEQUENZA – di Giò. Il monaco accompagnatore si fa da parte per lasciar passare Giò, e diventa un affresco sulla parete della scala, mentre Giò va incontro al viso radioso e dolcissimo del monaco bianco e marrone.
Scena II. - Interno. Molta luce. Durata 10 minuti
Macchina da ripresa ( MdR ) a terra in angolo. C L. Si tratta di uno studio, pareti di legno massiccio foderato di libri. Lungo, rettangolare, volta bassa, archi gotici alle finestre. In fondo una grande scrivania. Di spalle, seduto, Giò il Rosso.
CARRELLO IN AVANTI. La MdR si alza lentamente e si scopre a poco a poco un altro personaggio, seduto dall'altra parte della scrivania, di fronte a Giò: è il Monaco Dottore. Giò è inquadrato sempre di spalle, ma viene decentrato dal movimento della MdR che avanza fino a inquadrare parte della scrivania (carte e libri giganteschi ), il busto e il volto del Monaco Dottore.
La MdR avanza fino a PP del Monaco Dottore.
La sua figura è assimilabile a una raffigurazione pittorica, senza profondità, dalle linee essenziali, ricca di colori sfumati. Un volto tondo con una cornice di capelli castano-chiari ben ordinati, occhi nocciola che esprimono severità con dolcezza. Incarnato molto chiaro. La testa potrebbe essere un cerchio poggiato sulla sommità di un triangolo. Il triangolo è il saio marrone con sfumature di luce che in certi punti lo sbiancano. Il saio parte direttamente dal collo come un tetto spiovente a formare le maniche sicché il monaco pare senza spalle: una figura ieratica ritagliata da una pala d'altare. La sedia ha una spalliera assai più alta della figura del monaco che risulta come fosse un dipinto su legno…..
Maurizio Mazzotta www.essereuomo.it
Un colpo di scena è diverso da una sorpresa. Ecco la differenza.
Una sorpresa nella trama
Succede qualcosa che è in linea con quello che è successo prima. Potrebbe esserci stata anche una sorta di prefigurazione. Ma la sorpresa non sconvolge l’aspettativa del lettore, perché il lettore non aveva formato alcuna aspettativa particolare in relazione a questo particolare problema.
Poniamo il caso che un personaggio passi molto tempo a cercare oro in un canyon noioso Il lettore non ha idea di che cosa troverà. Quando trova l’ingresso di una grotta, il lettore è sorpreso, ma non turbato. Semplicemente non aveva idea a cosa stesse portando l’intera faccenda della ricerca dell’oro.
Il lettore è attanagliato perché vuole sapere quale significato ha la grotta. Ma non è confuso o spaventato, perché non aveva alcuna aspettativa precedente su ciò che sarebbe potuto accadere.
Un colpo di scena
Perché qualcosa possa essere considerato un colpo di scena, il movimento della trama deve sorprendere, ovviamente. Deve anche essere perfettamente coerente con ciò che è successo prima. Potrebbe esserci stata qualche prefigurazione piuttosto sottile che per il lettore ha senso solo in retrospettiva.
In aggiunta – ed è questo l’elemento nuovo – lo sviluppo della trama deve ribaltare, e ribaltare violentemente, un presupposto che il lettore aveva precedentemente sostenuto con totale fiducia. In Psyco di Hitchcock si suppone che Janet Leigh, la star al centro del film – sopravviva almeno fino agli ultimi dieci minuti del film, visto che la prima parte è incentrata quasi completamente su di lei, d’altronde valeva oro al botteghino.
Non è che lo spettatore si chieda consapevolmente se la Leigh sopravvivrà o meno. Presume semplicemente di sapere come funzionano i film e quindi sa che il regista non ucciderà il personaggio principale a metà film. Ma Hitchcock ha fatto esattamente questo e il film ha deviato in una direzione assolutamente imprevedibile.
Perché i lettori amano i colpi di scena
Una scena che ha la forza di confondere il lettore sembra sia più sorprendente e coinvolgente. C’è qualcosa in essa, come un trucco da circo, una manovra tecnica difficile da eseguire che abbaglia il lettore. Questa qualità narrativa è il motivo per cui i lettori amano i colpi di scena e tendono a commentarli.
Se pensi di inserire un colpo di scena nel tuo libro, il punto di partenza è l’aspettativa del lettore che devi provare a ribaltare:
1. Crea un’aspettativa
2. Rafforza la convinzione creata
3. Prefigura e suggerisci una possibile verità
4. Ribalta l’aspettativa
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Quando ho iniziato a scrivere Vietato leggere all’inferno non mi ero mai cimentato con la struttura del romanzo, anzi, a dire la verità non sapevo nemmeno cosa fosse. Ho iniziato a scrivere, ho seguito la strada tracciata dai miei personaggi. Sembrava facile, nessuna differenza con i racconti che ero abituato a scrivere. Poi però Amleto, Eleonora e Caterina hanno perso l’orientamento, hanno cominciato a cazzegiare, e io ho capito l’importanza dell’ultimo parametro dedicato alle variabili di narrazione. La struttura serve a trasformare una semplice sequenza di fatti (il soggetto) in una storia.
Scegliere il modo in cui gli eventi vengono svelati al lettore/spettatore è una delle abilità più importanti nel campo dell’ingegneria delle storie. La variazione dei parametri strutturali del tuo progetto può alterare sensibilmente il risultato finale, con un’incidenza pari solo a quella della scelta del POV.
Immagina una storia con più personaggi: puoi narrare i fatti in maniera cronologica, oppure partire dal mezzo e alternare gli avvenimenti del presente con dei flashback. Oltre a questo, puoi decidere di portare avanti contemporaneamente tutte le storie dei protagonisti, oppure di separarle alternando la narrazione, o addirittura di creare episodi (collegati tra loro) da raccontare senza rispettare la sequenza temporale (come avviene in Pulp Fiction). Ogni ipotesi sopra elencata cambia la tensione narrativa e sposta la concentrazione del lettore/spettatore, modificando di conseguenza il tono e la complessità della tua storia.
Le opzioni possibili nella scelta della struttura sono molteplici, quasi infinite, ma ognuna di esse è creata a partire dal modello in tre atti, basato sul concetto (di origine aristotelica) che ogni storia è formata da tre parti, proporzionate tra loro, attraverso le quali le vicende vengono presentate al lettore/spettatore, hanno un loro svolgimento, e infine trovano una conclusione.
Primo atto — Presentazione
Il primo atto è un’unità drammatica di grandezza pari a un quarto della lunghezza totale della storia. Inizia con l’incipit e si conclude con il primo colpo di scena. Ha il compito di attirare l’attenzione del lettore/spettatore e quello di impostare la storia, cioè di presentare tutti gli elementi utili a preparare le future svolte narrative della trama.
I primi a dover essere introdotti sono i protagonisti. Durante il primo atto, il lettore/spettatore deve capire quali sono i personaggi principali, quali sono le loro esigenze drammatiche, e quali sono gli iniziali contesti emotivi e sociali. Sono i punti di partenza per il processo di trasformazione che subiranno nel corso della storia.
La presentazione, tuttavia, deve estendersi anche a tutte le situazioni, gli oggetti o i luoghi che saranno fondamentali per la costruzione e la spiegazione dell’intreccio. Per farti un esempio (molto stupido): se prevedi che il tuo protagonista avrà dei problemi per un’allergia alle arachidi, tale intolleranza non può saltar fuori all’improvviso, ma deve essere descritta nella prima parte della tua storia. Allo stesso modo, se decidi che il Voldemort di turno può essere ucciso solo dalla Sacra Spada Sterminatrice dei Malvagi, l’esistenza di tale arma deve essere anticipata all’inizio e non comparire solo al momento dell’utilità.
A conclusione di questa unità drammatica c’è il primo colpo di scena, cioè il circuito d’innesco che amplifica il segnale d’uscita del primo atto e lo indirizza verso il secondo. Questo colpo di scena aggancia l’azione e la spinge verso una direzione nuova: è quell’evento che cambia la routine dei protagonisti e li convince (o costringe) a intraprendere il metaforico viaggio.
Secondo atto — Svolgimento
Il secondo atto è la parte centrale della struttura e ha una lunghezza pari alla metà del intero racconto (quindi doppia rispetto quella del primo e del terzo atto). È compreso tra i due colpi di scena principali della trama — quello dell’innesco e quello in cui si ottiene il climax della tensione narrativa — e contiene tutte le difficoltà, gli ostacoli e le sfide che i protagonisti devono affrontare e superare (o non superare) per realizzare le loro esigenze drammatiche.
Data la lunghezza e la complessità del contenuto del secondo atto, per aiutarti nella stesura puoi ricorrere a una struttura più rigida introducendo i tre elementi che Syd Field (autore de La sceneggiatura. Il film sulla carta) chiama pinza 1, pinza 2 e punto centrale.
Il punto centrale è un evento collocato a metà del secondo atto che costituisce il punto di non ritorno nel processo di trasformazione dei personaggi: potrebbe essere una situazione da affrontare, oppure una scelta da prendere, ma in ogni caso deve rappresentare un momento dal quale loro non potranno più tornare indietro.
Il punto centrale divide il secondo atto in due parti che possono essere a loro volta suddivise a metà da due scene chiave (spesso collegate tra loro da una sorta di collegamento narrativo) che tengono in linea la storia e che impediscono all’azione di perdere ritmo e efficacia: tali scene vengono dette pinze.
Troppa teoria, dico bene? Noi ingegneri dello storytelling non amiamo le definizione, meglio un esempio concreto. Lo prendo in prestito proprio dal manuale scritto dall’autore americano:
Ne Il ritorno dello Jedi il primo atto mostra la liberazione di Han Solo dalle grinfie di Jabba the Hutt. Tutto l’atto parla della fuga di Solo. Il colpo di scena avviene quando lui e i suoi amici lasciano finalmente Totooine. Quando tornano a casa, Luke Skywalker ritrova l’antico e venerabile Jedi, Yoda. In una scena molto commovente, il vecchio sapiente avverte Luke che prima di poter diventare un autentico cavaliere Jedi ‘deve scoprire e affrontare il lato oscuro della Forza’ — suo padre, Darth Vader. In seguito il vecchio Jedi muore. È la pinza 1 […]. Il punto centrale è quando inizia la missione per distruggere la nuova Morte Nera, la pinza 2 quando Luke si arrende e può quindi affrontare il padre. Il secondo colpo di scena si ha all’inizio del loro duello, Quando Solo e la principessa Leia attraversano le gallerie per disattivare lo schermo protettivo.
Terzo atto — Conclusione
Il terzo atto è un’unità drammatica di grandezza pari a quella del primo. Inizia subito dopo il secondo colpo di scena e si conclude con lo scioglimento di tutti i nodi narrativi rimasti in sospeso. Non solo il finale, quindi, ma la vera e propria risoluzione della tua storia.
Il terzo atto deve mostrare il cambiamento dei protagonisti, evidenziare le conseguenze del loro processo di trasformazione, ma, soprattutto, deve essere coerente e rispettare le aspettative create. Gran parte del giudizio che il lettore/spettatore darà alla tua storia dipenderà dalla soddisfazione ricevuta dal finale. È l’ultima cosa che legge/vede, l’ultima che gli rimarrà impressa, e se non sarà all’altezza vanificherà tutto quanto scritto in precedenza.
Non forzare la storia per inserire il finale che preferisci, sarebbe come barare, una violazione del patto firmato con il lettore/spettatore. Il terzo atto è la diretta conseguenza dei primi due, per cui limitati a osservare e trascrivere il naturale corso della trama che hai creato. Se non sei soddisfatto da quello che vedi, puoi tornare indietro e riprogettare le prime parti. È un lavoro faticoso, specialmente quando pensi di essere in prossimità del traguardo, ma è l’unico modo a disposizione per non rovinare il tuo progetto. Nel complesso circuito del grande pulsante rosso gli elementi rabberciati fanno perdere potenza a tutto il sistema, con conseguente degenerazione del segnale d’uscita.
Appunti finali
La struttura in tre atti può sembrare rigida, limitante e poco originale, ma può allo stesso tempo diventare un sostegno essenziale durante la scrittura. Non sei costretto a seguirla, puoi tentare di dare libero sfogo alla tua creatività senza ricorrere a schemi preconfezionati, e se in questo modo riesci a concludere il lavoro il tuo progetto sarà probabilmente migliore di quello dei tuoi colleghi. Il processo creativo, tuttavia, non è sempre fluido e omogeneo, l’ispirazione può attraversare dei momenti di appannamento, e quando capita rischi di ritrovarti a zoppicare nel labirinto della tua fantasia. Una struttura ben progettata potrebbe diventare la tua stampella, con tanto di navigatore GPS incorporato. Difficile farne a meno, soprattutto all’inizio della tua carriera.
Ho cercato di spiegarti tutto quello che so sulla struttura e spero che possa esserti utile, ma se vuoi approfondire l’argomento ti suggerisco di leggere il già citato La sceneggiatura. Il film sulla carta, scritto da Syd Field: il volume è un po’ datato ed è dedicato solo alle sceneggiature cinematografiche, ma i consigli che offre e gli esercizi che propone sono sia attuali che applicabili a ogni forma di storia.
Come di consueto ti invito a darmi una tua opinione sull’argomento di questo capitolo, puoi scriverlo tra i commenti qui sotto o raggiungermi su Facebook. In attesa di sapere la tua opinione…
HopEnjoY
Bibliografia
La sceneggiatura. Il film sulla carta, di Syd Field — Editori di comunicazione, 1999
Un sentito grazie a Cristiana Melis per la correzione e la consulenza.
di Roberto Gerilli lettore anconetano di trentasei anni.
Nella puntata precedente di Come scrivere una sceneggiatura, abbiamo visto come dividere un racconto filmico in tre atti, quindi adesso abbiamo un'idea più precisa di come impostare la storia, di quale conflitto crearee di come proseguire per raggiungere la risoluzione al conflitto.
La divisione in tre atti di origine aristotelica è quasi totalmente adottata dai saggisti che si occupano di scrittura filmica.
Il primo ad usarla con successo è stato Syd Field nel suo The Foundations of Screenwriting dove viene studiata la struttura con il relativo paradigma. Se la struttura è lo scheletro di una storia, il paradigma è il suo modello, uno strumento che permette di lavorare e di verificare.
Se guardiamo con attenzione i primi trenta minuti di un film ci accorgiamo che avviene sempre qualcosa d'importate dopo una dozzina di minuti dall'inizio e non si tratta di una pinza, cioè di un piccolo evento legato al primo colpo di scena, è invece un evento autonomo e importante che inciderà nella vita del protagonista anche dopo il primo colpo di scena.
In alcuni saggi questo momento viene confuso o chiamato erroneamente incidente scatenante, invece David Trottier nel suo Screenwriter's Bible lo chiama più propriamente Evento Catalizzatore.
David Trottier mantiene la divisione in tre atti e inserisce sette grandi eventi nel suo paradigma. Sostiene che una storia, comunque venga divisa, resterà sempre formata da tre momenti, un inizio, un centro e una fine.
All'interno di quei tre momenti si nascondono dei Punti di svolta (Turning points), tutti quegli eventi importanti che complicano o addirittura capovolgono l'azione del protagonista e che possono essere dati da momenti di suspense, rivelazioni e crisi.
Nel concreto, una storia può avere dozzine di punti di svolta ma solo due sono quelli che permettono il passaggio da un atto all'altro.
Il primo di questi due grandi punti di svolta, che Field chiamava Primo Colpo di Scena, chiude il primo atto e trasporta il lettore nel secondo atto. Trottier li chiama Grandi Eventi perché è solo un grande evento che drammaticamente colpisce la vita del personaggio principale.
Il secondo grande punto di svolta porta il lettore all'interno del terzo atto e quindi al regolamento dei conti passando per una Crisi che spinge con forza il protagonista verso l'azione finale o una serie di azioni risolutive.
Riassumo in una lista la teoria degli Eventi di David Trottier:
- un antefatto che tormenta il protagonista.
- un catalizzatore che troviamo tra pagina 10 e pagina 15. Per fare un esempio pratico, l'evento catalizzatore del primo film di Guerre Stellari si ha quando Luke, armeggiando con R2-D2, fa partire un'immagine olografica della Principessa Leila che dice: «Aiutami Obi-Wan, sei la mia unica speranza». Da quel momento in poi Luke avrà il desiderio di aiutare la bella principessa.
- un Grande Evento che cambia la vita del personaggio. Sempre citando il primo Guerre Stellari, il Grande Evento si verifica quando Luke, tornando a casa, scopre che gli zii sono stati trucidati. In quel momento il protagonista si unisce a Obi-Wan per combattere l'impero.
- il Punto Medio, che è all'incirca a pagina 60, è un punto di non ritorno e anche un momento di profonda motivazione. Dal Punto medio in poi, il protagonista porta avanti con maggiore forza le azioni, il conflitto s'intensifica e il ritmo narrativo si accelera fino a quando non viene raggiunta la Crisi.
- la Crisi è il punto più basso, un evento che impone una decisione chiave che porta alla conclusione della storia. La crisi, il momento in cui tutto sembra perduto, è il punto in cui il protagonista si trova di fronte a una decisione cruciale.
- il Climax è la prova di forza, è il faccia a faccia finale tra protagonista e antagonista.
- la Realizzazione si verifica quando il lettore o il pubblico vede che il protagonista è cambiato o ha realizzato qualcosa.
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A differenza di Field e di Trottier, Cristopher Vogler, nel suo Il viaggio dell'eroe, permette un vero approfondimento del personaggio.
La teoria di Vogler proviene da lontano, da studi psicologici e antropologici come quelli di Carl G. Jung, Mircea Eliade, Theodore Gaster, Heinrich Zimmer e Joseph Campbell.
Ne Il viaggio dell'eroe, Cristopher Vogler definisce la funzione psicologica e drammatica dell'eroe e spiega la diversa tipologia di ogni archetipo.
Il viaggio dell'eroe è la metafora di un viaggio interiore di profonda trasformazione che eroi in ogni tempo e luogo hanno avuto in comune. Le tappe che l'eroe segue durante il suo percorso sono dodici:
- il mondo ordinario;
- il richiamo verso l'avventura;
- il rifiuto dell'avventura;
- l'incontro con il mentore;
- l'attraversamento della prima soglia;
- le prove, gli alleati e i nemici;
- l'avvicinamento alla grotta più recondita;
- la prova suprema;
- la ricompensa o l'impadronirsi della spada;
- la strada del ritorno;
- la rinascita;
- il ritorno con l'elisir.
Il percorso disegnato da Vogler è ciclico
ma può essere disposto sull'asse del tempo dei tre atti:
Chiudo questa puntata di Come scrivere una sceneggiatura con la frase scherzosa di William Somerset Maugham: «Vi sono tre regole fondamentali per scrivere un romanzo. Per sfortuna nessuno sa quali siano».
Con questa battuta di certo non voglio sottovalutare gli studi da me citati sopra, ma piuttosto desidero osservare che talvolta un metodo che funziona per uno scrittore può non funzionare per un altro, quindi ciascuno di noi deve imparare a riconoscere qual è il metodo più congeniale a sé stesso.
Nella prossima puntata di Come scrivere una sceneggiatura applicherò queste regole e sceneggerò, facendo degli esempi, la novella di Émile Zola, Angeline o la casa infestata.
di Paola Paoletti per sulromanzo.it
TV, LA BUONA MAESTRA! - SCRITTORI (E REGISTI) ITALIANI: IMPARATE DA "LOST", RACCHIUDE IN SE IL MEGLIO DELLA NARRATIVA OCCIDENTALE - NASCE DaLL’ISOLA DEI FAMOSI AMERICANA MA DIMOSTRA la supremazia dell'ingegno vero sulla furbizia AMORALE dei reality…
Tutto è perduto, tutto è ritrovato. Come il tempo, che smarrito e recuperato ritorna ad avere senso. Lost è la più grande opera narrativa di questo nuovo millennio. Aveva buon gioco Aldo Grasso a schiantare contro Lost le velleità narrative dei letterati puri che, come Aldo Nove e Giorgio Montefoschi, denunciavano le cattive influenze della tv sulla narrativa italiana.
Sarà pure una cattiva maestra, ma come insegnante di ricreazione può essere fenomenale. Con Lost, storia avvincente di un gruppo di sopravvissuti a un disastro aereo su di un'isola misteriosa, torniamo infatti nell'Eden, nel Paradiso perduto della narrazione occidentale.
Schemi, stilemi, tecniche, personaggi, e valori, sedimentati in secoli di storie, sembrano darsi appuntamento nell'isola sperduta più appassionante e famosa al mondo. Con buona pace di quella honduregna di Simona Ventura del reality L'isola dei famosi.
Lost è nato, come idea, dalla versione americana dell'Isola dei famosi. Ma con la sua finzione perfetta dimostra la supremazia dell'ingegno vero, cine-televisivo, sulla furbizia dei reality. Che è una realtà posticcia, che non è né vera né falsa, che non ha morale ma è una favola raccontata in forma di barzelletta grottesca.
Lost ha elementi dell'epica teologica medioevale, regolata dal contrappasso dantesco - ognuno sull'isola sembra scontare i suoi peccati complementari -, e di quella moderna cavalleresca.
Dell'epica classica ha l'inizio in medias res, reiterato in molte puntate con la scena dei primi sopravvissuti; la catàbasi, il viaggio nell'Ade, e in generale il rapporto con i morti, è molto forte; il tempo è vissuto sfericamente, come flashback, cioè la digressione nel passato, o come flashforward, ossia l'anticipazione del futuro, che nell'epica era attuata attraverso le profezie.
Dell'epica moderna, Lost ha il meccanismo perfetto dell'entrelacement che permette una narrazione policentrica e sincronica, lasciando un personaggio sul più bello per seguirne un altro. Creando, ovvio, una suspense continua che dà corso all'alternanza di forze centrifughe e centripete.
Epico, in senso moderno, è anche il sistema dei valori: l'erranza dei buoni, che non sono cattivi, ma fanno errori, si perdono nella selva o in altri luoghi esoticamente rinascimentali, cui conducano cavalli bianchi e altre apparizioni, rimorsi in forma di fantasmi, ombre di donne amate o padri perduti.
I valori in gioco e il sistema dei personaggi, i loro rapporti di forza, sono schiettamente epici: ognuno ha una sua ricerca da svolgere, una vendetta, un nodo irrisolto: il rapporto col padre, il bandito dalla legge, una madre che cerca la figlia, un giovane che decide di non sfuggire più alla morte. La partita è quella delle armi e degli amori delle muse dell'epica. Tra Dante, Ariosto e Tasso, Lost ha più tratti epici italici della Nuova epica italiana.
Nel Dna di Lost, ovviamente, ci sono i robinsonade, alla Defoe, e gli altri romanzi d'appendice e d'avventura, a sfondo scientifico, in particolare di Jules Verne; ci sono le distopie, ovvero i racconti di utopie sociali finite male, come Il signore delle mosche, che è pure citato nella serie, dove il delinquente Sawyer, soprattutto, e la dottoressa Juliet sono avidi lettori.
Se la matrice può sembrare letteraria, il motore narrativo d'altissimo livello, la carrozzeria non è da meno. Lost è una serie televisiva girata con la qualità del cinema - anzi, del grande cinema americano, perché quello italiano ha una produzione media da fiction storico-politica - e chiari rimandi i disaster movie: primi piani e controcampi, lunghi piani-sequenza, ritmo incalzante, colpi di scena cinetici, non statici.
I siti Internet dedicati alla serie, numerosissimi, suggeriscono svolte e trame che gli sceneggiatori prendono in considerazione al punto da avere una interazione autore-lettore degna di Rayuela di Cortàzar.
Lost è un'opera mondo dopo la fine della mondo cioè dopo il disastro. Per Franco Moretti - italianista fratello di Nanni - «un'opera mondo» è la moderna versione dell'epica antica. Opere come il Faust, Moby Dick, L'anello del Nibelungo, Buvard e Pecuchet, Ulisse, i Cantos, La terra desolata, Gli ultimi giorni dell'umanità, L'uomo senza qualità, Cent'anni di solitudine. Sono romanzi, ma non solo. Quasi libri sacri, libri sapienziali, fondatori di civiltà, cattedrali.
Sono opere aperte e universali, scritte non per un individuo, ma per un'intera società, totalitarie, ma non reazionarie: «culturalmente impure», «transnazionali», indulgenti verso il consumo, innamorate delle bizzarrie e degli esperimenti. Lost è un'opera mondo perduto e ritrovato. Forma vivissima d'epica postmoderna. Il tempo è quello del dopostoria di Pasolini, gli stili si mescolano, le finzioni e le digressioni regnano sovrane.
Siamo giunti alla quinta serie di Lost (in onda su Fox). L'anno prossimo dovrebbe esserci l'ultima. Il finale, assicurano gli sceneggiatori, c'è già. Doveva durare meno, ma il successo planetario ha spinto i produttori ad allungare il brodo, primordiale, di questa serie. Ogni stagione presenta un tratto particolare: dalla sopravvivenza pura, alla scoperta degli Altri come Noi, la preistoria dell'isola, il futuro fuori dall'isola. Il tempo collassa, il senso si moltiplica.
Come viaggiatori del tempo, gli spettatori, così come il personaggio Desmond, imprigionato tra ricordi e profezie, rischiano di fondersi il cervello. Lost non è consolatorio, è piuttosto una divagazione, una erranza tra la vita e la morte. Una partita a scacchi con la morte, come nel Settimo sigillo.
Ma la scacchiera di Lost non è quadrata, non è regolare, complanare, ma si espande, supera le 8 caselle per lato. In questo gioco degli scacchi, ogni pezzo fabbrica la sua casella, inventa le sue mosse. Dietro, infatti, ci sono decine di sceneggiatori falegnami. Un plotone di inventori di storie che lanciano la serie televisiva nell'orbita delle grandi narrazioni occidentali.
La serie televisiva americana che sta spopolando in mezzo mondo è nata tra mille traversie di produzione. Lanciata in grande stile perché si era già investito troppo con la puntata pilota. Sulle spiagge americane arrivarono migliaia di bottiglie con dentro i messaggi dei naufraghi dell'aria, i sopravvissuti, forse, al disastro del volo 815 dell'Oceanis.
I loro nomi sono Jack, John Locke, Sawyer, Benjamin e così via. Nomi che parlano, nomi di filosofi che, però, si danno immediatamente anche per sviare. Per significare altro. I nomi ingannano o fanno finta di ingannare. Si fanno scoprire per celarsi meglio. Il medico non sa curare se stesso, il pragmatico col nome del filosofo inglese diventa mistico, Sawyer è un delinquente in cui si cela un bambino dall'infanzia assai difficile.
Sayd Jarrah è un torturatore iracheno, ma non è un personaggio negativo. Pronunciato come Said, ricorda, anche di viso, l'autore di Orientalismi, mentre il cognome è lo stesso di uno degli attentatori dell'11 settembre, Ryad Jarrah. Vale la lezione della lettera rubata di Poe, che nessuno trova perché sotto gli occhi di tutti. Il miglior modo per nascondere è ostentare, dissimulando.
Tra i complimenti più belli che possa ricevere un autore/autrice, c’è proprio questo: sapere che il proprio lavoro cattura chi legge, e spinge a proseguire con un livello di coinvolgimento e curiosità costante. Perché ciò accada dobbiamo adottare una serie di strategie e tecniche che trasformino il romanzo in un “page-turner”, “gira-pagine”, come dicono gli anglosassoni: locuzione che rende bene l’idea!
A incollare il lettore e la lettrice al libro (od al film - diciamo noi) può essere una vasta gamma di elementi, tra cui i più noti e largamente utilizzati sono i colpi di scena.
I colpi di scena sono delle svolte impreviste e improvvise che deviano l’intreccio dalla sua traiettoria, danno nuove chiavi di lettura di eventi o personaggi, oppure ribaltano la prospettiva. Il loro scopo è sorprendere, aumentare la tensione e ravvivare l’interesse per la storia.
Perché la curiosità di lettrici e lettori si mantenga costante, dobbiamo essere attenti a distribuire i colpi di scena in punti strategici del romanzo.
Questo non significa che ogni due capitoli debba entrare in scena chissà quale sconvolgimento: possono essere anche piccoli dettagli introdotti e strutturati in modo efficace.
Come utilizzare i colpi di scena in modo da catturare l’attenzione del lettore e della lettrice?
Ecco cinque tecniche che ci possono tornare utili allo scopo!
#1: CLIFFHANGER
Tra le tipologie più celebri di colpi di scena c’è il cosiddetto cliffhanger (termine difficile da tradurre in italiano, almeno letteralmente: indica qualcuno o qualcosa che pende su uno strapiombo). Si parla di cliffhanger quando un colpo di scena è posizionato alla fine di un capitolo, obbligando chi legge a iniziare quello successivo per sapere come va a finire.
Pur essendo un espediente narrativo molto più comune nel cinema e nella tv (tra gli esempi più recenti: la sorte di Jon Snow ne “Il trono di spade”), il cliffhanger può essere uno strumento prezioso anche in narrativa.
Non c’è bisogno che lasci “appesi” eventi estremi o assurdi: per le sue stesse caratteristiche intrinseche, il cliffhanger è efficace anche quando chiude su elementi più semplici e quotidiani (una frase in sospeso, lo squillo del telefono, una piccola anticipazione).
#2: AGNIZIONE
Altra tecnica molto nota è l’agnizione: un colpo di scena che riguarda l’identità del protagonista, e che può cambiare radicalmente il suo ruolo all’interno degli eventi narrati.
Per citarne una che ha fatto epoca: l’intramontabile “Io sono tuo padre!”; ma anche la presa di coscienza del protagonista di “Fight Club” di Chuck Palahniuk.
Rispetto ad altre tipologie di colpi di scena, l’agnizione è più complessa da usare perché va a incardinarsi nella struttura stessa della narrazione, modificando il corso degli eventi. Non è quindi una tecnica da usare sempre e a cuor leggero: ma, laddove ben condotta, lascia chi legge a bocca aperta.
#3: PERIPETEIA
Quando il rovesciamento riguarda le circostanze in cui si trova un personaggio, parliamo invece di peripeteia.
Il termine, di origine greca, fu approfondito da Aristotele nella sua Poetica e definito un cambiamento attraverso il quale l’azione vira verso il suo opposto.
Esempi classici di peripeteia si trovano proprio nella tragedia greca, come l’Edipo Re di Sofocle, che nella sua inarrestabile ricerca della verità si ritrova vittima di un terribile destino.
Altro esempio è il romanzo per ragazzi “La piccola principessa”, dove la protagonista, in seguito all’improvvisa morte del padre e alla perdita di tutti i beni di famiglia, passa da allieva privilegiata a sguattera maltrattata.
#4: PLOT-TWIST FINALE
Spesso, il colpo di scena principale viene lasciato per il gran finale. Anche se non possiamo usarlo per “obbligare”chi legge ad arrivare fino a quel punto, sapremo che difficilmente egli o ella dimenticherà poi la conclusione dell’opera.
Al cinema il twist finale ha reso celebri molti film, come “Il sesto senso” di M. Night Shyamalan.
Il finale di un romanzo può assolvere diverse funzioni, come legare insieme gli eventi narrati fino a quel momento, risolvere una volta per tutte misteri e indizi disseminati sul percorso, o a sua volta introdurre un rovesciamento che, in forma retroattiva, cambierà la nostra visione di tutto ciò che abbiamo appena letto.
Due esempi di questa tipologia di colpo di scena si trovano in altrettanti romanzi di Philip K. Dick, “Un oscuro scrutare” e “Ubik”.
5#: FLASHBACK
Ultimo della nostra lista, ma non meno importante, è il flashback. Non necessariamente un flashback è un colpo di scena, ma possiamo utilizzarlo con questa funzione, spostando temporaneamente lo sguardo di chi legge sul passato, per fornire elementi che aiutino a leggere il presente con occhi diversi.
I flashback sono importanti soprattutto per dare corpo ai personaggi e alle loro motivazioni, come se accendessimo una luce su un aspetto della loro personalità, mostrando gli antefatti che li hanno resi così come sono.
Un’opera televisiva che fece larghissimo uso del flashback fu “Lost”, che intrecciava di continuo presente e passato dei personaggi.
...............
Trattandosi di uno strumento narrativo che deve sorprendere il lettore, valutare la riuscita o meno di un colpo di scena non è affatto facile, per l’autore/autrice: conosciamo la nostra storia fin dall’inizio, quindi non possiamo essere sicuri della sua efficacia su terzi.
A chi rivolgersi?
A Studio83, naturalmente: una scheda di valutazione professionale del manoscritto analizza anche i colpi di scena e la loro resa complessiva, fugando ogni dubbio e dando eventuali consigli su come correggere la rotta. Provare per credere!
Un impiegato amministrativo di una grossa catena di bed and breakfast viene improvvisamente incaricato di recarsi in regione per risanare il deficitario bilancio di una filiale. Le cose sembrano andare abbastanza bene. Tuttavia si troverà in grosse difficoltà poiché dalla sede centrale cominceranno a giungere pressioni troppo gravose. Pur non riuscendo a sanare la situazione si guadagnerà la stima e l’affetto di tutti.
SINOSSI:
Un impiegato amministrativo di una grossa catena di bed and breakfast viene improvvisamente incaricato di recarsi in (regione) per risanare il deficitario bilancio di una filiale. Nonostante il suo iniziale distacco da tutti pian piano comincerà ad affezionarsi al personale. La situazione economica è piuttosto grave, ed egli tenterà strade innovative per risanare i bilanci (pubblicità internet, convenzioni, ecc.). Le cose sembrano andare abbastanza bene. Tuttavia si troverà in grosse difficoltà poiché dalla sede centrale cominceranno a giungere pressioni troppo gravose. Il nuovo sistema sembra funzionare e dare risultati migliori del previsto. Avrà un piccolo flirt (solo un bacio) con una ragazza francese moglie di uno dei dipendenti. Tornato a (città) presenterà il progetto di risanamento alla commissione delegata, ed è li che scoprirà l’amara verità. La società lo aveva mandato a compiere l’impresa disperata in quella filiale per giustificarne la chiusura. 10 siti della catena infatti andranno chiusi entro il prossimo anno per ordini dall’altro, e nonostante il sistema ideato funzioni la commissione minimizza e cerca di insabbiare il tutto. A quel punto si scopre il vero ruolo di “tagliatore di teste” che gli era stato subdolamente e inconsapevolmente assegnato, certi del passivo insanabile dei bilanci. Tornerà sul posto e confesserà il tutto ai dipendenti che organizzeranno anche un incontro con la stampa. Nulla da fare quando arriverà il vero tagliatore di teste, che licenzierà tutti. Anch’egli allora si licenzierà. Avrà la stima e l’affetto di tutti. Si congederà e tornerà a casa senza aver però salvato gli amici e senza aver più un lavoro.
TITOLO: Sistemo tutto io!
GENERE: Commedia
AUTORE/I SOGGETTO: Mauro Corsaro
SCENEGGIATURA: In fase di scrittura
AUTORI DELLA SCENEGGIATURA: Mauro Corsaro
VARIE: Colonna sonora di Mauro Corsaro
Tema principale (apertura e chiusura): https://www.youtube.com/watch?v=kGC9uMlPI10&feature=youtu.be
Tema principale versione per archi: https://www.youtube.com/watch?v=uYeACG2qDj4&feature=youtu.be
Tema n.5 Orchestra francese: https://www.youtube.com/watch?v=kTHh9tpyZho&feature=youtu.be
Tema "francese" (prima conversazione): https://www.youtube.com/watch?v=mCnhSx9C40U&feature=youtu.be
Tema n.5 Commovente/drammatico: https://www.youtube.com/watch?v=hU-Q34_s7CA&feature=youtu.be
La prima parte del film è seriosa divertente. Particolarmente ironiche saranno le situazioni di distacco autoimposto dal protagonista.
Nella parte centrale del film c’è la soddisfazione che si raccoglie con il lavoro di squadra e si svolge la storia sentimentale clandestina.
La parte finale è lievemente drammatica, si chiude la storia extraconiugale, ma si lasciano senza rancori. Tutti i dipendenti gli saranno grati per ciò che ha tentato di fare per loro. Fallita l’impresa salvifica se ne ritornerà da dove è venuto.
di Mauro Corsaro da maurocorsaromusica.blogspot.it
Costruire e presentare una soluzione di continuità, in una buona sceneggiatura, significa introdurre un colpo di scena in grado di segnare la fine di qualcosa e l’inizio di qualcosa d’altro. Sì, d’accordo, ma la fine di cosa esattamente? Se il colpo di scena del primo atto si trova, più o meno, venti minuti dopo l’inizio del film, come può segnare la fine di qualcosa? Niente è ancora realmente iniziato, e dunque, come può esserci già una fine?
Ogni fine racconta un nuovo inizio
Costruire e presentare una soluzione di continuità, in una buona sceneggiatura, significa introdurre un colpo di scena in grado di segnare la fine di qualcosa e l’inizio di qualcosa d’altro.
Sì, d’accordo, ma la fine di cosa esattamente?
Se il colpo di scena del primo atto si trova, più o meno, venti minuti dopo l’inizio del film, come può segnare la fine di qualcosa? Niente è ancora realmente iniziato, e dunque, come può esserci già una fine?
L'indiscussa importanza del personaggio
Eppure, il primo atto sta per concludersi e il colpo di scena ci vuole, va piazzato proprio lì, perché la vicenda deve esplodere.
In più, il colpo di scena non deve solo esserci ma deve anche emozionare.
Eventi inaspettati come la caduta di un muro, un incidente, un incontro, l’atterraggio di un’astronave sono solo fatti, sono contorni, sono, certamente, l’involucro del colpo di scena del primo atto ma non provocano emozione.
Per diventare emozioni, è necessario che quei fatti accadano a qualcuno.
Ecco, di nuovo in primo piano la nostra risorsa più grande: i personaggi. Ancora una volta, sono i personaggi la nostra materia prima. Sempre loro ci permettono di emozionare (o non emozionare) il pubblico.
L'importanza di un giudizio affrettato
Qualunque sia il fatto che abbiamo deciso di inserire per scombussolare l’equilibrio che abbiamo mostrato nei primi venti minuti circa, esso dovrà accadere al nostro personaggio. E’ a lui che accade. Il muro che crolla, distrugge la sua casa. La rapina in banca, ferisce i suoi risparmi, i suoi sentimenti o direttamente la sua carne.
Non è la storia che viene interrotta, distrutta e cambiata, ma è il personaggio che dovrà fare i conti, improvvisamente, con qualcosa di nuovo, di inaspettato.
Il pubblico, a questo punto, dovrebbe già conoscere quel personaggio. Lo avrà sentito parlare, avrà compreso le sue priorità, la sua etica, qualunque essa sia, gli avrà già dato ragione oppure torto. In ogni caso, il pubblico, durante il primo atto, avrà interagito con il personaggio/protagonista della storia, criticandolo per le sue prime mosse, ridendo per le sue strambe battute, accusandolo per il comportamento tenuto in famiglia, amandolo per il coraggio del suo impegno sociale. Soprattutto (e questa è la cosa fondamentale), il pubblico avrà già iniziato a esprimere un giudizio sul personaggio, si sarà fatto un’idea circa i suoi valori forti.
Se questo è avvenuto, allora il pubblico potrà davvero sorprendersi, non per ciò che sta per accadere al personaggio, ma per il giudizio affrettato espresso su di lui.
Sì, perché quel giudizio iniziale va ribaltato.
Il ribaltamento di ogni certezza
E invece no.
Ecco che il colpo di scena arriva e spazza via ogni certezza.
L’astronave atterra e il pavido personaggio che credevamo di conoscere, tira fuori gli artigli per difendere i suoi cari. Oppure il coraggioso padre di famiglia, premuroso e amabile, fugge via all’arrivo di una valanga, lasciando moglie e figli in pericolo. O ancora, il mite impiegato assicurativo, incontra casualmente un killer professionista e si rivela assetato di sangue e ripicche.
Ecco, questi sono colpi di scena riusciti.
E’ un gioco tra autore e spettatore.
Prima mostriamo un personaggio, conduciamo il pubblico a formulare un giudizio e poi gli diciamo: guarda che ti sbagli.
E’ questo l’unico tipo di sorpresa in grado di suscitare un’emozione vera.
Presentare, suggerire, capovolgere
Per farlo, è sufficiente rispettare alcune semplici regole entro i minuti che abbiamo a disposizione nel primo atto:
- Presentare un buon personaggio, credibile, forte e reale (presentazione);
- Suggerire apertamente l’etica di quel personaggio (approfondimento);
- Capovolgere completamente quella prima versione (colpo di scena).
In definitiva, il vero colpo di scena consiste in un occhiolino che il personaggio fa al pubblico, dicendo: mettimi alla prova.
di Sabrina Gioda
Sceneggiatrice cinematografica e televisiva, autrice di romanzi e insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa
Dal suo blog http://scriverecinema.weebly.com
Quanto spazio occorre per capire se il patto potrà essere soddisfatto? Generalmente pochi minuti, sicuramente non più di trenta: il tempo del primo atto. E’ in quella prima parentesi che incontriamo veramente il film. Sono quei primi preziosi minuti quelli che ammorbidiscono o irrigidiscono il nostro giudizio. E' la voce che esce dal buio, sono le parole che riempiono lo spazio, le immagini, le azioni calibrate, convincenti, studiate, ecco, queste sono le sole cose in grado di catturare o meno la nostra attenzione di spettatori, di suscitare amore o diffidenza. In quel lasso di tempo, il personaggio principale deve diventare reale. In lui dobbiamo rivedere noi, capire le sue ragioni, appoggiarle, sostenerle. Il suo antagonista deve diventare il nostro peggiore nemico, i suoi affetti devono sembrarci totali, irrinunciabili, tanto forti da spingerlo giustificatamente oltre ogni limite, come faremmo noi se fossimo al suo posto.
Spettatori prima che autori
Il locale è decentemente riscaldato e il nostro posto è sufficientemente comodo.
Nell'aria c'è quell'odore tipico, risultato di un miscuglio di aromi diversi che si staccano da pop corn ancora caldi, tessuti imbottiti, gomma, legno e giacche e cappotti di almeno una cinquantina di altre persone.
Le luci, finalmente, si spengono.
Ci appoggiamo meglio, accavalliamo le gambe e lasciamo che il nostro senso critico lustri gli artigli.
Ci lasciamo avvolgere da un audio amplificato che concede alla finzione un maggior senso di realtà e afferriamo incuriositi le prime parole, i chiaroscuri, la fotografia di un paesaggio che pare non avere confini.
Vogliamo e dobbiamo essere risucchiati in quel panorama: abbiamo un’urgenza catartica da soddisfare. O siamo dentro o siamo fuori. Non può esistere via di mezzo.
Cerchiamo di escludere i nostri problemi, la nostra vita personale, dimentichiamo gli impegni e concediamo alla finzione la nostra totale attenzione. Questo è il nostro patto: tempo e attenzione da parte nostra, magia da parte della favola.
Trenta minuti
Generalmente pochi minuti, sicuramente non più di trenta: il tempo del primo atto.
E’ in quella prima parentesi che incontriamo veramente il film. Sono quei primi preziosi minuti quelli che ammorbidiscono o irrigidiscono il nostro giudizio. E' la voce che esce dal buio, sono le parole che riempiono lo spazio, le immagini, le azioni calibrate, convincenti, studiate, ecco, queste sono le sole cose in grado di catturare o meno la nostra attenzione di spettatori, di suscitare amore o diffidenza.
In quel lasso di tempo, il personaggio principale deve diventare reale. In lui dobbiamo rivedere noi, capire le sue ragioni, appoggiarle, sostenerle. Il suo antagonista deve diventare il nostro peggiore nemico, i suoi affetti devono sembrarci totali, irrinunciabili, tanto forti da spingerlo giustificatamente oltre ogni limite, come faremmo noi se fossimo al suo posto.
Il primo atto, i primi trenta minuti di un film servono a questo: a introdurre protagonista, co-protagonisti e antagonisti. Sono loro gli interpreti della storia e sempre e solo loro sapranno renderla efficace o noiosa, avventurosa o ridicola, spassosa o pesante. Cosa fanno? Chi sono? Cosa dicono? Come dicono ciò che dicono? Qual è il loro movimento? Perché fanno quello che fanno?
Durante il primo atto noi, spettatori, dobbiamo arrivare a conoscere ambientazione, pelle, ossa, sentimenti, cuore e anima di buoni e cattivi, vincenti e perdenti, dobbiamo arrivare ad approfondirli quel tanto che basta per capire se abbiamo voglia di continuare a seguirli.
Scrivere
Un bravo autore, lo abbiamo già ribadito, è anzitutto un ottimo osservatore.
Prima di scrivere le azioni, i dialoghi, le ambientazioni, un autore deve vedere quel film dentro la propria mente. E’ importante per lui sentirlo scorrere, inseguirlo, crederci come fosse seduto in quel cinema, in mezzo a uno dei tanti spettatori.
La storia che sta per essere messa in scena attraverso la tastiera del pc, deve anzitutto affascinare il suo autore.
A poco serve parlare di conflitto, di equilibrio, di viaggio se prima l’autore non è capace di emozionarsi. E’ il suo film, la sua magia e porterà la sua firma, ne sarà responsabile.
Primo atto, dunque. Elaboriamo il nostro incantesimo.
La formula è semplice: il nostro eroe muove i primi passi dentro la storia. Muovendosi egli si mostra. E mostrandosi, nasce.
Il limite è altrettanto chiaro: niente dovrà essere riferito. Ogni passaggio, ogni emozione, ogni pensiero, al cinema non potrà essere riferito, raccontato, riassunto, ma dovrà essere mostrato.
Quale azione corrisponde a quella emozione? Quale azione mi svela la natura di quel personaggio? E’ un buono? Vediamola questa bontà. E’ un cattivo? Mettiamo in scena la sua cattiveria attraverso un’azione precisa. Usiamo ogni conoscenza acquisita sul personaggio per renderlo tondo, credibile, pronto ad attraversare l’intera vicenda con la sua aura di realtà.
Trenta minuti per introdurre una vicenda, senza annoiare, senza appesantire ma portando sempre avanti la linea d’attenzione del nostro pubblico.
Niente immagini scontate, nessuna ridondante rilettura di capolavori trascorsi. Dobbiamo trovare un linguaggio nuovo, originale: il nostro. Dobbiamo sorprendere ma senza eccedere per non cadere nella trappola dell’esasperazione.
Prima di chiudere il primo atto, dopo aver impostato e presentato la nostra storia, i nostri personaggi ecco che si presenta la prima grande difficoltà: trovare il giusto colpo di scena che catalizzi l’attenzione del pubblico e lo spinga direttamente nel secondo atto.
Ma di questo ci occuperemo la prossima volta.
di Sabrina Gioda
Sceneggiatrice cinematografica e televisiva, autrice di romanzi e insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa
Dal suo blog http://scriverecinema.weebly.com
Per non perdersi
Questa linea deve essere robusta e deve avere un capo e una coda, ovvero un inizio e una fine. Potremmo immaginarla come una di quelle grosse corde nautiche, affidabili e sicure che reggono le boe e delimitano gli spazi nel mare.
La storia, o anche solo l'idea iniziale di essa, dovrebbe afferrare un capo di questa corda e piano piano scivolare avanti, aggrappandosi con tenacia. Ne va della sua sopravvivenza. Se mollasse la presa, la corrente potrebbe sospingerla lontano e affogherebbe. Se si fermasse, il gelo delle acque la ucciderebbe in poche ore.
Sempre avanti, quindi, ma verso una direzione precisa: la fine della corda, il molo, l'approdo certo.
Ogni sceneggiatura ha bisogno di quella corda, più comunemente chiamata struttura.
La struttura è la linea guida della storia, è la sua ossatura e ne determina la statura e la credibilità.
Potremmo anche dire che la struttura rappresenti l'interprete nascosto tra quel fantasioso agglomerato di personaggi, colpi di scena, azioni, dialoghi, pensieri che si trovano nella testa dell'autore e il mondo esterno, quel mondo che osserva davanti allo schermo il prodotto finito.
I tre atti di Syd Field
Dapprima l'idea, poi la creazione dei personaggi, e ancora la prima bozza di un soggetto sulla carta.
Passaggi che, giunti a questo punto, dovremmo aver già compiuto. Si tratta ora di spingersi oltre, dentro la storia, anzitutto per completare quelle quattro o cinque pagine di soggetto e successivamente, per affrontare il lungo lavoro necessario per la stesura della sceneggiatura.
Questo è un momento molto delicato, perché nella testa dell'autore cominciano ad affollarsi immagini, idee, situazioni: quella piccola iniziale bolla che conteneva la scintilla di un'idea è ormai esplosa, pressata da contenuti in crescita esponenziale. Bisogna mettere ordine per proseguire. Dobbiamo, adesso, aggrapparci a quella corda.
Abbracciando la tesi di Syd Field, espressa nel suo utilissimo manuale di sceneggiatura "Il film sulla carta" (vedi scelti per voi) cerchiamo di capire in cosa consista esattamente questa corda/struttura, meglio conosciuta con il termine "paradigma".
Syd Field definisce il suo paradigma "una mappa lungo il processo della sceneggiatura". Ed è esattamente questo: uno strumento indispensabile per non perdersi né ora né nelle successive e più complesse fasi creative.
Per giungere a realizzare il suo modello, la domanda da cui parte Syd Field è: "cos'hanno in comune tutte le storie?"
La risposta è abbastanza semplice: ogni storia possiede un inizio, una parte centrale e una fine, tre punti imprescindibili. Che siano contratti o meno, posti in questo oridne o meno, questi tre elementi devono essere presenti in ogni processo creativo.
Secondo lo sceneggiatore americano, l'inizio corrisponde al primo atto, la parte centrale al secondo atto e il finale al terzo atto.
Blocchi di azione drammatica
Dovremmo provare a immaginare la nostra corda iniziale divisa in tre parti, ciascuna introdotta da un colpo di scena (che potremmo visualizzare come le piccole boe galleggianti ancorate alla nostra fune).
Syd Field pone dei termini di tempo precisi per la risoluzione di ciascun atto, che mi limito a riportare fedelmente. Non condivido appieno uno schema tanto rigido, essendo più propensa alle "varianti sul tema", ma penso che prima di poter "sfondare" le regole, occorra conoscerle perfettamente e molto a fondo. Quindi, procediamo con lo schema.
Ipotizzando una sceneggiatura di centoventi minuti (pari a centoventi pagine scritte, dato che una pagina di sceneggiatura equivale circa a un minuto di film), possiamo suddividere così i singoli atti:
- Il primo atto che, come si è detto, corrisponde all'inizio, è un "blocco di azione drammatica" di trenta minuti. Viene anche chiamato "impostazione" e termina con il colpo di scena della fine del primo atto. In esso vengono presentati i personaggi principali e, attraverso determinati movimenti, viene messo a fuoco il presupposto drammatico;
- Il secondo atto, detto "confronto" è un blocco di azione drammatica di sessanta minuti. In queste sessanta pagine c'è ampio spazio per lo sviluppo della storia. Avremo personaggi alle prese con un conflitto da risolvere, in un modo o nell'altro, e vedremo la loro anima messa a nudo dalle contingenze della vita che abbiamo stabilito per loro;
- Il terzo atto viene chiamato "risoluzione" ed è lungo trenta pagine. In questi ultimi minuti, la storia trova la sua soluzione, aperta o chiusa che sia, definita o indefinita.
Questo è uno schema semplificato, nudo e crudo di quel complesso modello chiamato paradigma, ideato da Syd Field. Presto affronteremo e approfondiremo, punto per punto, ogni singolo atto qui introdotto.
N.B.: Le 120 pagine si riferiscono alla durata di un Lungometraggio
di Sabrina Gioda
Sceneggiatrice cinematografica e televisiva, autrice di romanzi e insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa
Dal suo blog http://scriverecinema.weebly.com
Idee e azioni
Questi gli ingredienti.
Padre e figlio cercano il loro posto a sedere. La partita non è ancora iniziata ma gli spalti sono già strapieni. Il padre stringe la mano del bambino. Sono nella fila sbagliata. Devono tornare indietro e riprendere a salire. C’è aria di festa. Il bambino ride. Il padre è fiero di sé: sente il figlio al proprio fianco, sente la felicità del piccolo e si sente bene. E’ una bella giornata: sole, caldo e tutto il resto.
Chissà da quanto tempo quei due non stavano insieme. Per ora non lo sappiamo. Non sappiamo ancora niente di loro. Vediamo solo quella mano grande che stringe e quasi inghiotte la piccola mano.
Come in ogni buona storia, succede qualcosa. Un boato. Qualcuno urla. La folla si mette in azione.
Il padre riceve una spallata. La mano del piccolo si sfila. La calca spinge via il padre che non può opporsi, costretto ad assecondare la fiumana.
Quando finalmente l’uomo si ferma, fuori dal branco, il bambino non c’è più.
E adesso?
Dopo quel movimento d’apertura, tutto può accadere.
Si aprirà una storia di ricerca? Il bambino è perduto e si parlerà di questo?
Oppure vedremo una storia costruita sui sensi di colpa, fatta di atti d’accusa tra marito e moglie?
O magari avremo a che fare con un thriller agghiacciante con un investigatore e un assassino di bambini? Potrebbe anche trattarsi di un film su un’invasione aliena, oppure potrebbe essere la storia di un bambino cresciuto senza genitori, adottato da un barbone rintanato tra le fogne della città.
Indubbiamente, questa sarà la storia di un distacco.
Il risultato rimarrebbe inalterato anche se ambientassimo la scena d’apertura in un distributore di benzina, al supermercato o al parco giochi o semplicemente in casa: due mani che si lasciano traducono l’idea in azione.
Un'alchimia fondamentale
Un bambino che mangia un gelato non significa niente. E’ una cartolina, magari bella perché inserita in un parco o sulla riva di un lago. Ma rimane una cartolina, non è cinema.
Un bambino che offre il suo gelato a un cane, invece, è già una storia. Meglio ancora, un bambino che nega il proprio gelato a un cane inizia a essere un film.
Stiamo parlando per immagini ma non mostriamo solo ciò che appare: proponendo un bambino che strappa via il gelato dal muso del cane, invitiamo lo spettatore ad andare oltre l’immagine, immergendosi in un'azione, in un mondo di sentimenti, ostilità e capricci, forse di collera e di ingiustizia: lo trasciniamo in una storia.
Il compito più difficile per uno sceneggiatore è trovare l’azione giusta che traduca l'idea in un linguaggio condiviso.
L'elefante
La mia idea, l’idea di un qualsiasi autore, è massiccia, forte, stabile. Si tratta di un pensiero al quale l’autore crede fermamente.
Deve necessariamente trattarsi di un pensiero onesto, di un’ispirazione, cioè di un’idea vera, originale, per la quale l’autore sia disposto a metterci la faccia, a tirar fuori sentimenti personali, a esporsi senza pelle per mostrarsi come è, vulnerabile e vero.
Potremmo paragonare questa idea a un elefante: un meraviglioso esemplare di quasi cinquemila chili. Uno di quegli elefanti africani che si muovono tranquillamente su terreni instabili. Animali in grado di attraversare foreste, laghi, savane, capaci di procreare, lottare e dignitosamente soccombere. Ma anche di correre, inaspettatamente leggeri per fuggire a pericoli e insidie.
L’elefante è un animale che non può nascondersi. Deve mostrarsi in tutta la sua interezza. Quello è il suo destino: essere ciò che è.
In pratica
Il percorso che conduce l’autore a delineare l’azione perfetta è uno solo: la conoscenza profonda della propria idea.
Per capire fino a che livello di conoscenza si sia arrivati, occorre iniziare a mettere su carta il pensiero.
Potremmo definire questo movimento come il primo passo per la stesura di un soggetto.
Una sola riga. Niente di più, niente di meno.
Di cosa parla questo film?
Nessun travestimento, niente colori inutili, nomi o vestiti d’epoca.
Non interessa nemmeno quanto costi questo film o dove dovrebbe essere girato o quali attori e comparse serviranno.
La domanda è una sola: di cosa stiamo parlando? Di un distacco? Da chi o da che cosa? Parliamo invece di una rinascita? Perché? Si racconta di una conquista? Chi conquista cosa e, sempre, perché?
Quella prima essenziale riga di partenza, costituisce il fulcro di ogni lunghissimo futuro discorso. Si tratta di un segno stabile, forte, ben marcato che aiuterà l’autore a non perdersi.
Dopo averla scritta, occorre osservarla, rigirarla nella mente, uscire di casa, passeggiare e dimenticarla. Bisogna tornare e riafferrarla, confrontarla con la propria vita, con i propri ideali, le paure e le credenze. Possiamo correggerla ma non allungarla: deve rimanere leggera, libera, senza schemi.
Quell’unica riga deve tenerci compagnia per diversi giorni: non bisogna avere fretta.
Stiamo edificando una base che dovrà reggere un enorme peso. Una base robusta ma allo stesso tempo in grado di staccarsi da terra.
di Sabrina Gioda
Sceneggiatrice cinematografica e televisiva, autrice di romanzi e insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa
Dal suo blog http://scriverecinema.weebly.com
L'aeroporto
La forma
Poniamo trattarsi di un uomo anziano. E’ vestito di grigio. Ha un completo elegante ma consunto: una cravatta vivace, una camicia chiara e una giacca un po’ stretta.
Quest'uomo si trova in un aeroporto.
E’ all’ingresso, dove ci sono i bar e i negozi.
I banchi dei chek in sono lontani.
Se ne sta lì, fermo, davanti a una grande vetrata che dà sulla pista e osserva gli aerei pronti al decollo o appena atterrati. Non ha bagaglio. E’ solo, ed è lì che osserva. Osserva e basta. Appare incredibilmente piccolo in quello spazio. Sembra, dopotutto, un uomo tranquillo.
L’uomo ha qualcosa in mano.
Potrebbe essere una lettera, un fazzoletto, il portafogli. No, meglio una pistola. Una di quelle piccole pistole che facilmente si possono tenere in tasca. Trovandosi all’ingresso ed essendo anziano ed elegante, nessuno ha pensato di fermarlo né di controllarlo.
Attorno a lui non c’è molta gente. Un paio di ragazzini seduti a terra, una donna, alcuni uomini, qualche hostess.
L'uomo anziano fa un passo indietro, si volta verso destra e spara.
Non gli serve prendere la mira perché è un tiratore scelto.
Spara diverse volte prima che qualcuno lo fermi e manda a segno tutti i colpi.
Uccide due persone e ne ferisce quattro.
Ecco, questa è un’immagine. Una forma. Un contenitore. Niente altro.
Non è ancora un’idea. E non la si può definire scena.
Per definirla scena, ovvero parte di un film, parte di un racconto, serve molto di più. Non bastano azioni, non bastano spostamenti esteriori di braccia, gambe, mani, occhi. Occorre un movimento interiore. E’ necessario un senso.
Il senso
La risposta a questa domande non sarà necessariamente sempre narrata, ma sicuramente sarà sempre visibile al pubblico.
Cosa intendo?
Non serve raccontare tutto, lo spettatore non ha bisogno di sapere dov’è nato l’uomo, come ha trascorso la sua infanzia, quando si è innamorato per la prima volta. Ma l’autore sì, lui deve sapere tutto.
Il movimento interiore che genera la sparatoria, determina il modo in cui l’uomo stringe la pistola, il modo in cui osserva la gente, determina la sua scelta circa chi colpire. Il senso che dà vita all’uomo, genera anche le sue azioni successive: si arrenderà o continuerà fino alla morte? Piangerà, racconterà di sé oppure si chiuderà in un silenzio ostile?
Per sapere esattamente come si muoverà l’uomo armato, dobbiamo conoscere il suo passato, il suo presente e il suo futuro. Dobbiamo sapere tutto di lui.
Costruire “forme” sembra un gioco da ragazzi: in fondo, che ci vuole a mettere qualcuno in una piazza e dargli in mano una pistola? Oppure, perché non prendere una bella ragazza e farla cantare a squarciagola in giro per le strade? O scegliere un padre violento che prende a schiaffi un figlio adolescente, o perché non ripiegare invece su un adolescente che schiaffeggia un padre?
Esistono infinite varietà di forme. Ma quello non è cinema.
E’ solo concatenazione di gesti: ginnastica visiva.
Il personaggio
E’ il personaggio l’epicentro di ogni scossa emotiva.
Senza emozione non c’è coinvolgimento, non c’è rapimento, non c’è attenzione da parte del pubblico.
Chi è, dunque, l’uomo vecchio dell’aeroporto? Cosa sappiamo di lui? Come osserva? Cosa pensa? Cosa leggono i suoi occhi?
Seguiamolo, ispezioniamo la sua vita, scaviamo nel suo passato finché non ci avrà detto tutto di sé. Decideremo poi cosa usare di quanto scopriremo. In ogni caso, tutto di lui servirà a noi. Ci permetterà di capire come parla, cosa dice, quando lo dice e perché lo dice.
Questo è il senso. Senza di esso ogni forma è vuota.
Entrambi gli elementi, senso e forma, sono indispensabili per scrivere una buona storia. Devono combaciare, consumarsi a vicenda, fino a diventare una cosa sola.
Quindi il senso è il movimento interiore che anima i personaggi nella storia. La forma è il modo in cui quella storia viene raccontata.
Forma, ad esempio, è l’attenta selezione dei fatti da esporre, è la difficile scelta dei fatti da scartare.
Della forma fanno parte il montaggio, la tecnica, lo stile narrativo, la struttura restaurativa o meno che sia, l’intreccio, il tempo, ecc.
Del senso fanno parte i personaggi.
di Sabrina Gioda
Sceneggiatrice cinematografica e televisiva, autrice di romanzi e insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa
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Nascita di un'idea
Ciascun atto creativo inizia con un battito di ciglia. Ogni nuova illuminazione (più o meno geniale che sia) nella mente di un artista, consiste in un lampo che potremmo collocare all'interno di uno spazio cronologico infinitamente piccolo e non misurabile.
Il concepimento di un'idea è un movimento, forse il solo, capace di vincere il tempo, uscendo dalle sue rigide griglie.
Avviene tanto rapidamente da sorprendere anzitutto il suo creatore e primo fruitore. E, purtroppo, il più delle volte, essendo tanto rapido, questo movimento diventa sfuggente e inafferrabile, ricadendo nel nulla (o nel tutto) da cui proviene.
Fulminea, spesso inaccessibile, stravagante e confusa, l'idea è sempre un dono prezioso.
Di tanto in tanto, accade che quel lampo creativo permanga lì, chiaro e pulsante davanti ai nostri occhi, trattenendosi fino a un secondo battito di ciglia: tempo sufficiente per riuscire a identificarlo e renderlo intelligibile. E' allora che l'istinto si deve mettere in moto.
Occorre anzitutto sbarazzarsi di schemi e senso logico per accogliere e preservare quell'embrione ancora insensato in un mondo pronto a soffocarlo con una energica risata.
Silenzio e massima attenzione sono le prime armi dell'autore che decida di nutrire e far crescere la scintilla base di una storia.
Bisogna essere rapidi e reattivi per scattare una buona fotografia che intrappoli nella mente, per il tempo necessario, quella prima splendida bozza di un'idea su cui, forse, passeremo mesi interi.
Genesi di una storia
Ogni storia, quindi, nasce da un'idea: uno scarabocchio della mente capace, fin da subito, di farsi amare oppure odiare.
Può trattarsi di un pensiero improvviso che accompagna la lettura di un libro, la visione di un film, la rievocazione di un fatto di cronaca. Oppure l'idea può scaturire da uno stato d'animo, magari durante una passeggiata, un viaggio, una lite, un'arrampicata in montagna o un'immersione nell'oceano. E' lì, spunta improvvisa, infilandosi nel quotidiano.
Ma, in qualunque circostanza si manifesti, si tratta sempre di una chiave di lettura del mondo: l'idea, a base di ogni storia, è la nostra personale interpretazione della vita.
Il principale e più difficile lavoro di un autore, sta nel trasformare quel bozzolo creativo in un primo paragrafo scritto di senso compiuto. Un lavoro che va fatto senza alcuna fretta, proprio perché si tratta del passaggio più importante.
Individuata l'idea, bisogna osservarla, leggerla con attenzione, capirla intimamente. Perché ci scuote nel profondo? Cosa sta facendo risuonare in noi? Perché ne siamo immediatamente gelosi? E, soprattutto, cosa ci sta dicendo?
Affinché nasca una buona storia, occorre dimenticare per un momento la penna o la tastiera del computer, occorre dimenticarsi di noi, per dedicarsi completamente all'ascolto rapito e oggettivo di quella eco bizzarra, affiorata da chissà dove.
Così, se è vero che ogni storia nasce da un'idea, è anche altrettanto vero che ogni storia inizia nel silenzio. E' un transito necessario che deve anticipare ogni confronto esterno, che precorre qualsiasi dialogo produttivo o qualunque legame collaborativo.
Non esistono cattive idee ma solo cattivi sviluppi
Il pericolo maggiore che si corre nell'inseguire quel primo pensiero creativo è perderlo.
L'ansia di scrivere, trasformando una buona idea in una presunta miniera di gloria, conduce sempre alla distruzione dell'idea stessa.
Quando la mente trabocca di altri pensieri, richiamando prima del dovuto volti adatti a trasformare il pensiero in azione cinematografica o immaginando difficoltà produttive, limitazione di costi, contratti, pubblico, attori, critica, fama e successo, semplicemente accade che l'idea originale scompaia, soffocata da un mare di concretezza. Rimpiazzarla è impossibile.
Per non rischiare di estinguere quel bozzolo creativo, è indispensabile accettarlo così come è, almeno per le prime ore, liberi da ogni vincolo: ci sarà sempre tempo, in futuro per capire se il progetto sarà fattibile o meno e in quale misura o con quale compromesso.
Quando ci si trova alle prime battute, bisogna assecondare la follia e bloccare l'idea originaria con meno parole possibili.
Per farlo nel modo giusto, bisogna sbarazzarsi di ogni paura:
quel film costerà troppo?
Non è un problema presente e scrivere qualche pagina anche a vuoto non ha mai mandato in rovina nessuno.
E' un'idea già sentita?
Ogni storia si basa su idee già sentite che però prendono direzioni diverse in base a dialoghi e personaggi.
Non interesserà a nessuno?
All'inizio conta solo che interessi al suo autore.
Non esistono obiezioni che tengano, nemmeno la paura di non riuscire, perché stiamo parlando solo di poche righe per bloccare sulla carta un'idea che forse non tornerà più.
C'è davvero tantissimo tempo per capire come sviluppare un soggetto e come scrivere una sceneggiatura.
Come si cattura un'idea?
Compresa l'importanza di ogni nuova idea, vediamo allora come catturarla definitivamente.
Abbiamo già detto che, anzitutto, occorre osservarla e ascoltarla in totale silenzio. Come spiegato, non si tratta di un silenzio esteriore ma di un silenzio tutto interiore, nel quale calarsi per qualche istante, prima che la scintilla fugga via e si spenga.
Quando l'idea non sarà più solo una forma nebbiosa, quando avrà parlato, raccontando tutto ciò che aveva da dire, solo allora potrà essere richiamata la giusta dose di concretezza su cui si fonda il lavoro dello sceneggiatore.
A quel punto, inizieremo a scrivere.
Carta e penna andranno bene, un file su computer andrà meglio.
Nessun freno alle parole, nessun tentennamento, non inseguite inutili artifici stilistici o schieramenti di concetti astrusi. Siate semplicemente voi perché quelle frasi che andate a bloccare sulla carta in quel momento, le leggerete soltanto voi, non sono nulla, non ancora. Serviranno unicamente per ricordare a voi nel modo più completo possibile, la forma della vostra idea. Il loro unico scopo sarà quello di stuzzicare in voi, a distanza di giorni, la stessa emozione fornita dall'improvvisa scintilla che vi ha colto in un qualsiasi giorno della vostra vita.
Perciò, scrivete. Scrivete frasi, parole corrette o sgrammaticate, non aggiungete nomi o inutili descrizioni. Scrivete e basta. Fatto questo, abbandonate tutto e fatevi una passeggiata all'aria aperta. Respirate, riflettete, rilassatevi.
Il lavoro è iniziato.
di Sabrina Gioda
Sceneggiatrice cinematografica e televisiva, autrice di romanzi e insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa
Dal suo blog http://scriverecinema.weebly.com
Sinossi: Un barbone viene aiutato da una sconosciuta accompagnata da un infante. Poco dopo la donna muore in un incidente. Il barbone si prende cura della piccola cambiando completamente vita.
Un barbone molto sporco, vestito in maniera del tutto casuale con pesanti abiti, ma visibilmente ancora giovane, con una voglia viola sulla guancia, sta rovistando tra dei bidoni della spazzatura in un vicolo nascosto e semi buio, sembra un topo. Una giovane donna, Veronica, 30 anni, con in braccio una bambina, sta passando per il vicolo e vedendo il pover’uomo si ferma, estrae dei soldi dalla borsa e gli e li dona, scambiando poche veloci parole, riprendendo poi la strada. Poco dopo il rumore improvviso della frenata di una macchina.
Il barbone, risale il vicolo, trovandosi davanti alla scena di un incidente: un crocchio di persone è intorno ad un’automobile, l’autista dell’auto ha investito Veronica; la giovane donna giace a terra immobile, un lago di sangue si sta allargando sotto la sua testa; il mendicante, con una decisione improvvisa, senza porsi domande, cerca e trova la bambina, la prende con sé sparendo poi nel vicolo.
Sette anni dopo, stesso vicolo – Un signore distinto, con una voglia viola sulla guancia, accompagnato da una ragazza ridente e spensierata stanno passeggiando per la strada, improvvisamente si fermano all’imbocco del vicolo; l’uomo ha visto un barbone che sta rovistando tra i bidoni della spazzatura; da dei soldi alla bimba e l’incarica di portarli al pover’uomo, come la bambina ritorna i due riprendono silenziosi il cammino.
La vicenda si svolge in Genova, in due vicoli e due strade - al giorno d’oggi - in pieno inverno e con uno scarto temporale di 7 anni.
Un barbone, età 30 anni, due occhi neri e vivi sospesi nel mare di fango del suo volto, una voglia viola sul viso (o altro segno facilmente riconoscibile), sporco e lacero, vestito di stracci e con un lungo cappotto addosso, macchiato e bisunto, sta rovistando tra dei bidoni della spazzatura in un vicolo molto buio e squallido, in salita. E’ schivo, si muove furtivamente, con continua paura che qualcuno lo scacci, lo mandi via anche da quella misera grigia vita da topo che gli resta. Estrae del cibo dal bidone, lo annusa, lo butta via continuando immediatamente la ricerca di qualcosa che possa soddisfare la sua fame.
Veronica, età 25 anni, vestita modestamente, con una grossa borsa che le pende da una spalla, un corpo fresco, giovane e un viso marcato dalle prove della vita, ma sorretto da uno sguardo fiero e deciso, imbocca il vicolo con decisione portando tra le braccia un fardello con fare protettivo e nello stesso tempo orgoglioso: è una bambina di pochi mesi avuta dal marito, morto prima che la figlia nascesse. Veronica ha la necessità di vivere-decisa per la figlia, sa che la sua vita è ormai indissolubilmente legata al mondo tramite quel fagotto che tiene tra le braccia, ma sa che il mondo che gli sta di fronte sarà anche frutto del suo amore. Sale per il vicolo in salita e vede il barbone. Dapprima si spaventa poi, ritornata sui suoi passi dà dei soldi al barbone con il quale scambia brevi frasi. Riprende il suo cammino in salita.
Il barbone è rimasto attonito, sta tenendo ancora con una mano il coperchio del bidone, con l’atra i soldi. Ha sentito che non era la solita carità che gli veniva donata, non era il solito scaricarsi-la-coscienza che gli veniva donato, era …. AMORE. Immobile guarda la donna svanire lentamente nella luce in cima al vicolo. Il rumore di una forte frenata provocata da un’automobile lo fa trasalire dal suo stato di dolce meraviglia e precipitare in una nuova condizione: apprensione, curiosità, sensazioni che non provava più da molto, molto tempo. Si incammina verso la luce, in alto.
Quando sbuca dal vicolo, in una strada inondata dalla luce, trova un gruppo (3) di persone che si è raccolto intorno ad una macchina. Avanza e vede Veronica: è distesa a terra, ai piedi della macchina, una grossa pozza di sangue si sta espandendo sotto la sua testa. La donna è morta e subito il barbone, senza cercare altre domande, sapendo esattamente cosa fare, si guarda intorno alla ricerca della bambina. La vede adagiata sul sedile posteriore dell’auto, le va incontro e la prende tra le sue braccia sporche svanendo subito dopo nel buio del vicolo dal quale era spuntato.
Sette anni dopo, stessa strada, stesso vicolo. Un signore 45enne, una voglia viola sul viso, ben vestito, giacca e pantaloni eleganti, dai modi sobri e composti, sta passeggiando per la strada tenendo per mano una ragazza di otto anni allegra, felice, dolce. Passando davanti ad un vicolo buio l’uomo si volta come rispondendo ad un richiamo, osservando vede un barbone, che sta rovistando tra dei bidoni della spazzatura. Estrae il portafoglio dalla giacca e dà una banconota alla bambina che la porta poi al pover’uomo.
Il barbone è rimasto attonito, sta tenendo ancora in mano la banconota. Ha sentito che non era la solita carità che gli veniva donata, non era il solito scaricarsi-la-coscienza che gli veniva donato, era …. AMORE. Immobile guarda l’uomo e la bambina svanire lentamente e silenziosamente in cima al vicolo, nella luce.
2 |
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ESTERNO – GIORNO – STRADA - 7 ANNI DOPO |
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Un signore ben vestito sta passeggiando per la strada, giacca, pantaloni e cravatta eleganti, tiene per mano una ragazzina di 8 anni, anche lei elegantemente vestita, indossa un abito multicolore, è allegra, ridente e dolce. Passando davanti al vicolo buio lui si ferma improvvisamente, ha visto un movimento. Scruta con attenzione nella stradina oscura posta in discesa, socchiudendo gli occhi, vede un barbone che sta rovistando tra due bidoni della spazzatura. Prende la bambina per mano e si avvicina al barbone, estrae il portafoglio dalla giacca e dà una banconota alla bambina sussurrandole poche parole a bassa voce e indicandole poi il pover’uomo. La bambina con la banconota in mano si avvia tranquilla verso il barbone. L’uomo rimane ad osservare con attenzione mentre con un gesto distratto si sistema i capelli con una mano scoprendo una voglia viola sulla fronte. Il barbone è rimasto attonito, ma un sorriso gli illumina il volto mentre guarda la bambina e il signore che tenendosi per mano stanno risalendo il vicolo. Li vede scomparire lentamente tra la luce. Ha la banconota ancora in mano e la guarda attentamente. Una scritta è scarabocchiata su un lato. L’avvicina molto agli occhi, socchiusi nello sforzo di decifrazione, farfuglia |
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BARBONE 2 |
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Fab…er ………… est …est suae …. q u i s q u e fortunae … |
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rialzando la testa |
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Fortuna ……… vuol dire fortuna. |
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Rivolge lo sguardo sulla cima del vicolo dove ormai c’è solo luce. |
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DISSOLVENZA |
Musica: Mario Stendardi
Formato: miniDV
Durata: 8'52"
Sottocategorie
Idee dalla realtà
Bisogna leggere per conoscere tutte le realtà che ci circondano ma che non ci toccano direttamente o di cui abbiamo solo una vaga idea.
LEGGERE = CONOSCERE = POTER SCRIVERE SU ARGOMENTI INTERESSANTI = SCRIVERE DI ARGOMENTI CHE CONOSCIAMO