Le lezioni di Gianfranco Manfredi
In conclusione del corso pongo una domanda (chi è lo sceneggiatore?) che in teoria avrebbe dovuto essere preliminare. Non ho voluto appositamente offrire una risposta a priori, chiarendo la specifica competenza professionale richiesta a uno sceneggiatore, né definirne le caratteristiche ideali come una specie di assioma vocazionale.Non esiste per gli sceneggiatori un Giuramento di Ippocrate. E' assai più frequente che gli sceneggiatori siano tendenzialmente (o inguaribilmente) spergiuri. Nella realtà esistono ovviamente sceneggiatori di tutti i tipi e livelli: preparati o improvvisati, ingenui o smaliziati, geniali o banali, cinici o sinceramente appassionati. E come in ogni ambiente professionale c'è , tra gli sceneggiatori, una diffusa prevalenza di mediocri. Ho cercato di farvi comprendere la natura del lavoro dello screenwriter, anzitutto sulla base dell'analisi dei film realizzati e dal confronto con le loro sceneggiature originali, per mostrarvi in concreto quale sia lo specifico compito dello sceneggiatore nell'ambito della realizzazione di un film.
E' anzitutto importante capire cosa NON E' lo sceneggiatore. Spesso si aspira a diventare sceneggiatori giudicando questo lavoro come una porta per entrare nel mondo del cinema, senza averne ancora una conoscenza specifica dall'interno, ma in realtà, sotto sotto, si aspira a un ruolo autoriale, cioè a raccontare le proprie storie, quelle che ci piacciono, per cui ci sentiamo orientati. Potreste restare amaramente delusi, in questo caso. Al principio e nel corso della vostra carriera, sempre che vogliate averne una e non occasionale, non fatevi venire troppe velleità da autore. Sono legittime, in certi casi, come ad esempio nelle serie TV che originano dall'ideatore e principale sceneggiatore e trovano in lui la figura di riferimento fondamentale, ben più che nel regista o nei registi che si alternano alla realizzazione del prodotto. In televisione, da sempre, conta di più l'autore del programma che il regista. Dato che un esorbitante numero di film viene oggi prodotto da e per i network televisivi, è evidente che questa centralità del ruolo dello sceneggiatore/ideatore non è affatto casuale, né momentanea. D'altra parta qualunque sceneggiatore cominci a lavorare in televisione si rende subito conto che se il suo obiettivo è quello di accreditarsi e farsi valere come autore, la realtà risulta ben diversa: si entra in un pool di sceneggiatori più o meno esperti, più o meno in grado di scrivere dei testi, delle scene o dei segmenti narrativi, di proporre idee e soluzioni. Questi pool sono in genere disorganici e caratterizzati dal precariato più assoluto. Chiunque è facilmente sostituibile. Si lavora con la costante e frustrante sensazione di far parte di una catena, di un ingranaggio, sovente più competitivo che collaborativo. Le scelte e le soluzioni che proponete sono sempre dipendenti da scelte fatte da altri, scelte che vi si chiede soltanto di eseguire. Nel cinema vero e proprio, quello delle grandi major , come quello del vivace e variegato mondo delle produzioni indipendenti, destinato alle sale, alla grande distribuzione, al mercato dell'home video e/o alla distribuzione autonoma in rete, la figura di riferimento è ancora quella del regista, che sia esso un regista-autore o un regista-tecnico non fa gran differenza. Un vecchio detto tetrale recita: "Il regista va rispettato anche se è fesso." Lo sceneggiatore deve evitare qualsiasi atteggiamento competitivo, tantomeno aspirare a sostituirsi al regista. Uno sceneggiatore non è un regista. Deve saper restare al suo posto. E' il regista a coordinare il lavoro collettivo, è lui a decidere sul set e prima del set, e deve essere lui ad assumersi il compito di trattare e mediare con la produzione. Non fatevelo scaricare addosso, questo ruolo, nemmeno sotto lusinga. Il motivo non è semplicemente etico, ma strettamente funzionale. La troupe deve sapere chi comanda, altrimenti ciascuno fa come gli pare e il film viene una porcheria.
I limiti entro cui lavora uno sceneggiatore hanno d'altro canto un vantaggio. Nella sua vita professionale lo sceneggiatore può (anzi dovrebbe) cimentarsi con i generi più diversi, cosa che a ben pochi filmaker è concesso di fare. Se come sceneggiatore prediligete un genere e intendete specializzarvi in quello, significa che non possedete una qualità specifica dello sceneggiatore: la capacità di raccontare qualsiasi genere di storia. E non si tratta soltanto di conoscenza dei generi e dei sotto-generi, ma anche e soprattutto della trasversalità dei temi rispetto ai generi. Prendiamo un tema a caso: un complotto ordito ai danni di un personaggio. Questo tema può essere al centro di un dramma, di una commedia o di un film epico, di un film di denuncia sociale o d'inchiesta, di una storia d'amore, di un thriller ansiogeno su una persecuzione privata, o di una fantasia complottistica sul genere dei film tratti dai romanzi di D.Brown, insomma di qualsiasi genere di film. Ma la descrizione di un complotto comporta una certa dinamica drammaturgica, in sè, a prescindere dai generi. E lo sceneggiatore deve impratichirsene, per fare un buon lavoro. Questa attitudine gli consente di vedere al di là dei limiti di genere, di individuare i modi di racconto appropriati al tema in sè, autonomamente dal singolo film o filone di film di immediato riferimento. Un bravo sceneggiatore deve avere questa attitudine esplorativa, sentire come propria specifica virtù e passione, il nomadismo culturale attraverso i film più diversi, i registi più inconciliabili tra loro, gli stili più vari, le tecniche narrative più disparate: da quelle tradizionali alle insolite, mantenendosi sempre aperto alla sperimentazione.
Il cinema digitale è oggi il veicolo principale, anche se non esclusivo, della sperimentazione di nuovi format cinematografici e di nuovi tipi di racconto visivo. Non lasciatevi però ingannare da chi sostiene che il cinema cosiddetto digitale abbia fondato strutture e tecniche narrative inedite, sul piano del racconto in sé. Su questo piano, infatti, non c'è nulla che la letteratura propriamente detta non abbia già esplorato. Il cinema è erede di un'arte della narrazione che lo precede di secoli e ha le sue fonti nel teatro e nella letteratura. Lo sceneggiatore, in quanto a suo modo scrittore, dovrebbe esserne consapevole. Il retaggio latterario non è cosa da esibire per sfoggio narcististico, ma certamente non è cosa di cui vergognarsi, perché senza retaggio letterario perde senso la figura stessa dello sceneggiatore. Può capitare che uno sceneggiatore sia o si senta un romanziere mancato. Capita assai più spesso che un romanziere si senta ingiustamente ignorato dal cinema. Non sono queste le cose importanti. E' importante che lo sceneggiatore sappia prendere sul serio il suo inevitabile, necessario ruolo di cerniera. Lo sceneggiatore è al contempo un esperto di narrazione in generale e un tecnico della narrazione cinematografica in particolare.
Il cinema ha attraversato numerose rivoluzioni tecnologiche. Nel passaggio tra il muto e il sonoro, per dirne una, sono sorte nuove specializzazioni e figure professionali e molte altre sono state sacrificate. La figura dello sceneggiatore è rimasta, perché fondante, ineliminabile. Lo sceneggiatore è un tecnico non soggetto a obsolescenza. Finché esisterà il cinema, ci dovrà essere qualcuno che lo scrive. Ma per scriverlo bene e corrispondere alle trasformazioni continue del mezzo, lo sceneggiatore non può limitarsi allo studio-imitazione-ridefinizione delle tecniche in atto in un certo momento. Deve fondare il suo studio e il suo approfondimento sulla drammaturgia che ha preceduto e poi accompagnato il cinema, sulle tecniche narrative inerenti ad altre forme di comunicazione (giornalismo, pubblicità, videoclip, video-art eccetera), e inoltre riservare questa stessa apertura conoscitiva alla vita reale, per la quale dovrebbe nutrire una curiosità onnivora. Il materiale di uno sceneggiatore, il suo bagaglio, non sta soltanto nella tradizione e nella consapevolezza dei suoi sviluppi attuali, ma in ciò che vede e sente intorno a sè, nell'esistenza quotidiana. Nel corso, ho usato la definizione roussoiana di "Occhio Vivente". Significa saper trovare occasione di racconto in qualsiasi cosa si veda e si senta, in qualsiasi emozione si percepisca direttamente o indirettamente. Per uno sceneggiatore è più importante imparare a essere ladri di situazioni, di linguaggi, di costumi, che esserne protagonista o autore.
Sorge dunque spontanea una domanda: uno sceneggiatore può mirare a un suo stile personale che lo renda unico e inconfondibile? Suso Cecchi d'Amico dixit: Non posso scrivere un film, se non so prima chi sarà il regista. Lo stile di uno sceneggiatore sta nella sua capacità di aderire allo stile altrui. Il pubblico non leggerà la tua sceneggiatura. La giudicherà sulla base del film realizzato. La tua scrittura è scrittura invisibile, al pubblico. Ma è importante per questo: esiste prima del film e nel film sparisce. Senza lavoro di scrittura , o di organizzazione narrativa del materiale girato, non esiste opera cinematografica definibile tale. Lo stile di uno sceneggiatore e la sua eccellenza si misurano sulla capacità di narrare ogni tipo di storia e secondo gli stili più diversi, traendo ispirazione da qualcosa d'altro che da se stessi e persino a prescindere dai propri orientamenti di gusto e dalle proprie preferenze. E' a partire da questa curiosità per la narrazione in sè e da questa disponibilità ad ampio raggio che lo sceneggiatore può, nel tempo, e se lo desidera, diventare autore cioè dedicarsi a generi, temi, moduli narrativi per cui si sente particolarmente motivato e che sente nelle sue corde espressive più e meglio di altri.
A un certo punto, se le cose vanno bene, potreste anche scoprire che sono gli altri , a partire dai vostri colleghi, a riconoscervi in quanto autore. Non ci si nomina autori da soli. Se il vostro specifico tocco diventerà inconfondibile, sarà perché gli altri hanno imparato a riconoscerlo per tale. Proclamarlo a priori, battezzandosi autori da soli o come si suol dire: in pectore, è velleitario. Servirebbe solo a farvi apparire presuntuosi. Non ho approfondito come avrei voluto e dovuto certi generi cinematografici. Non l'ho fatto o perché li ho affrontati poco (il documentario, per esempio) o per il motivo opposto, cioè perché li conosco troppo a fondo. Qualcuno di voi mi ha chiesto perché io non abbia approfondito l'analisi del western o dell'avventura in generale, in tutte le sue innumerevoli varianti, pur avendo scritto per anni e scrivendo ancora fumetti western e d'avventura. Ora: a prescindere dal fatto che il cinema è strutturalmente diverso dal fumetto, non sono entrato nei dettagli proprio perché ho frequentato così a lungo questo genere di racconto, che il corso sarebbe diventato eccessivamente specialistico e ben poco utile per voi, soprattutto se si considera che in Italia questo tipo di film non si producono più da decenni. Il filo conduttore del corso e l'aspetto su cui ho particolarmente insistito per orientare il vostro lavoro di sceneggiatori è riassunto nel titolo The Fuckin' Point. In sostanza: cercate sempre di centrare il punto.
La narrazione cinematografica è di per sè concentrata. In un film possiamo raccontare un passaggio di decenni in pochi minuti. Il cinema è eminentemente sintesi. Quando raccontate in cinema, cioè per immagini in movimento e dentro un format prefissato, bisogna cercare sempre in ogni singola scena il focus narrativo e concentrarsi su quello. Non ditevi mai: be' questa è solo una scena di passaggio. Nessuna scena è un mero passaggio, nemmeno le scene di passaggio. Bisogna imparare a essere intensi in ogni singolo momento narrativo. Tra tutti gli esercizi che vi ho consigliato, quello fondamentale è l'esercizio a ridurre. Cioé: prendete la scena che avete scritto e provate a riscriverla dimezzandone la durata e poi dimezzandola ancora e ancora, fino ad arrivare al nocciolo. Solo una volta trovato il nocciolo, preoccupatevi di dargli una polpa. Ogni azione deve avere ovviamente un suo tempo di preparazione e di sfogo per poter funzionare. Dunque una volta che avete centrato l'essenziale, sforzatevi di renderlo espressivo. Qui si entra su un terreno creativo che non può essere prescritto da un corso. Sarà utile, per chiarire ulteriormente, un altro esempio tratto da un'intervista di Billy Wilder, che illumina molto bene come si può centrare e sviluppare il fuckin' point durante le discussioni preliminari tra regista e sceneggiatori. Ecco cosa dichiara Wilder a proposito di Ninotchka di Lubitsch film per cui lui lavorò come sceneggiatore insieme a Charles Brackett.
1. Punto di partenza: le caratteristiche del personaggio protagonista.
Ninotchka was to be a really straight Leninist, a strong and immovable Russian commissar, and we were wondering how we could dramatize that she, without wanting to, was falling in love. How could we do it? Charles Brackett and I wrote twenty pages, thirty pages, forty pages! All very laboriously.
Ninotchka doveva essere una leninista tutta d'un pezzo, un commissario russo di una durezza incoercibile, e noi ci stavamo chiedendo come esprimere drammaturgicamente il fatto che lei, senza alcuna intenzione, si innamorasse. Come esprimerlo? Charles Brackett ed io scrivemmo venti, trenta, quaranta pagine! Una gran fatica.
2. Problema: il punto di rottura.
La difficoltà di cui sopra si presenta inevitabilmente quando si tratta di mettere i un scena un cambiamento di carattere del personaggio. Questa esigenza non matura solamente nel genere "commedia". Un personaggio per essere davvero interessante, dove "svoltare", a un certo punto del racconto, cioè aprirsi alla contraddizione, mostrare un lato diverso, persino opposto, del suo carattere. E' così che diventa dinamico. Come si può evidenziare questo cambiamento senza ricorrere a monologhi interiori, senza dover esplorare il vissuto biografico del personaggio, senza creare nel racconto un cambio di tono e di stile troppo brusco e ingiustificato?
Lubitsch didn’t like what we’d done, didn’t like it at all. So he called us in to have another conference at his house. We talked about it, but of course we were still, well . . . blocked. In any case, Lubitsch excused himself to go to the bathroom, and when he came back into the living room he announced, Boys, I’ve got it.
A Lubitsch non piacque quello che avevamo scritto, per niente. Così si chiamò per riparlarne, a casa sua. Ne discutemmo, ma naturalmente ci sentivamo un po' bloccati. A un certo punto, Lubitsch si scusò di dover andare in bagno e al ritorno ci annunciò: Ragazzi, ho trovato.
It’s funny, but we noticed that whenever he came up with an idea, I mean a really great idea, it was after he came out of the can. I started to suspect that he had a little ghostwriter in the bowl of the toilet there.
E' bizzarro, ma notammo che tutte le volte che se ne veniva fuori con un'idea, intendo una grande idea, era reduce dal gabinetto. Cominciai a sospettare che si tenesse un ghostwriter nella tazza del cesso.
I’ve got the answer, he said. It’s the hat.
Ho trovato la soluzione, disse. E' il cappello.
The hat? No, what do you mean the hat?
Il cappello? Che significa, il cappello?
He explained that when Ninotchka arrives in Paris the porter is about to carry her things from the train. She asks, Why would you want to carry these? Aren’t you ashamed? He says, It depends on the tip. She says, You should be ashamed. It’s undignified for a man to carry someone else’s things. I’ll carry them myself.
Ci spiegò che quando Ninotchka arriva a Parigi, il facchino si mette a scaricare i suoi bagagli dal treno. lei gli chiede perchè l' faccia, se non provi vergogna. Lui risponde: dipende dalla mancia. Lei ribatte: dovresti provare vergogna. Non è degno di un essere umano trasportare i bagagli di un'altra persona. Li porterò da sola.
At the Ritz Hotel, where the three other commissars are staying, there’s a long corridor of windows showing various objects. Just windows, no store. She passes one window with three crazy hats. She stops in front of it and says, “That is ludicrous. How can a civilization of people that put things like that on their head survive?” Later she plans to see the sights of Paris—the Louvre, the Alexandre III Bridge, the Place de la Concorde. Instead she’ll visit the electricity works, the factories, gathering practical things they can put to use back in Moscow. On the way out of the hotel she passes that window again with the three crazy hats.
Al Ritz Hotel, dove gli altri tre commissari sono in attesa, c'è un lungo corridoio di vetrine con vari oggetti in esposizione. Non sono in vendita, soltanto in mostra. Lei passa di fronte a una vetrina con tre cappellini folli. Si ferma e guardarli e commenta: " E' ridicolo. Come può un popolo civilizzato sopravvivere infilandosi in testa roba del genere? " In seguito, pianifica un tour per Parigi (Il Louvre, il Ponte Alessandro III, Place de la Concorde), ma sceglie invece di visitare le centrali elettriche, le fabbriche, per ricavarne suggerimenti pratici da imitare di ritorno a Mosca. Uscendo dall'albergo, passa di nuovo davanti ai tre buffi cappellini.
3. Il nocciolo e la polpa.
Lubitsch trova il nocciolo in un cappellino che pare a prima vista un elemento totalmente estraneo alla vicenda. Ma nel cappellino buffo possiamo già ravvisare simbolicamente tutto il contrario di quello che finora abbiamo visto essere il carattere di Ninotschka. Abbiamo identificato il punto di rottura. Ora il problema diventa un altro. Come sviluppare racconto a partire da questo nocciolo insieme simbolico e concretissimo? Anzitutto, a che punto ci troviamo della scaletta del racconto?
Now the story starts to develop between Ninotchka, or Garbo, and Melvyn Douglas, all sorts of little things that add up, but we haven’t seen the change yet. She opens the window of her hotel room overlooking the Place Vendôme. It’s beautiful, and she smiles. The three commissars come to her room. They’re finally prepared to get down to work. But she says, “No, no, no, it’s too beautiful to work. We have the rules, but they have the weather. Why don’t you go to the races. It’s Sunday. It’s beautiful in Longchamps,” and she gives them money to gamble.
A questo punto comincia a svilupparsi la storia tra Ninotchka, cioè la Garbo, e Melvyn Douglas. Queste piccole cose aggiunte, non ci erano ancora sembrate un grande cambiamento. Lei apre la finestra della sua stanza d'albergo con vista su Place Vendôme. E' uno scorcio bellissimo e lei sorride. I tre commissari entrano. Sono finalmente pronti a mettersi al lavoro. Ma lei dice: "No, è una giornata troppo bella per lavorare. Noi abbiamo , ma loro hanno il clima. Perché non ve ne andate alle corse? E' domenica. E' bellissimo a Longchamps". Detto questo, dà loro dei soldi per scommettere.
As they leave for the track at Longchamps, she locks the door to the suite, then the door to the room. She goes back into the bedroom, opens a drawer, and out of the drawer she takes the craziest of the hats! She picks it up, puts it on, looks at herself in the mirror. That’s it. Not a word. Nothing. But she has fallen into the trap of capitalism, and we know where we’re going from there . . . all from a half page of description and one line of dialogue. “Beautiful weather. Why don’t you go have yourselves a wonderful day?”
Appena i tre se ne sono andati, lei si chiude a chiave nella suite, torna in camera da letto, apre un cassetto e ne estrae il più folle dei cappellini! Se lo mette, si controlla allo specchio. Tutto qui. Non una parola. Niente. Ma ormai è caduta nella trappola del capitalismo, e sappiamo cosa ci aspetta da qui in avanti... tutto a partire da mezza paginetta di descrizione e da una singola battuta: "E' un tempo bellissimo. Perché non andate a godervelo?"
L'esempio è geniale e raccontato con fine umorismo da Wilder, che sottolinea come spesso le idee migliori vengano al cesso. Il bisogno fisiologico richiama, di nuovo, alla concretezza estrema, fisica. Un concetto deve perdere la propria astrattezza incarnandosi in qualcosa di estremamente oggettivo. Nel caso, un cappellino, il cui significato simbolico e metaforico, nel contesto, si impone senza alcun bisogno di spiegazioni. L'idea, però, deve dispiegarsi in tappe successive del racconto. Una piccola notazione che al principio pare casuale, deve essere rimarcata, e infine svelata compiutamente in un gesto. L'azione, in questo modo, racconta di per sè e si spiega da sola.
Il fuckin' point ideale fonde in sé consapevolezza tecnica e istintività espressiva. In pratica, quando rileggete una scena che avete scritto, chiedetevi: cosa volevo esprimere e significare? Sono riuscito a centrare il focus? Sono stato chiaro descrivendo la situazione e il suo sviluppo oppure mi sono rifugiato nel vago e nel generico? Quali immagini suscita ciò che ho scritto? E' davvero fondamentale una certa scena nel contesto del film o è una scena che se venisse tagliata non cambierebbe granché nell'impianto generale? Ci ho messo troppo o troppo poco per arrivare al punto?
Imparate a giudicarvi lucidamente e a correggervi. Se ci riuscite, le inevitabili richieste di modifiche che riceverete in seguito per i più diversi motivi, dalla produzione, dai registi, dagli attori, non vi peseranno. Le vostre scelte consapevoli e ben motivate vanno certo difese: non siete un tappetino su cui passano tutti all'ingresso del set. Ma nel difendere le vostre opinioni, la vostra visione del film, le vostre soluzioni, non trascendete i limiti del vostro compito. Voi non state né dietro, né davanti alla macchina da presa. Voi state prima del film. Non potete pretendere di dettar legge. Potete, dovete pretendere, anzitutto da voi stessi, di svolgere una narrazione rigorosa, coerente ed efficace. Se poi i vostri suggerimenti, le vostre indicazioni vengono trasgrediti durante la realizzazione del film , non è affar vostro. E non potete farci proprio niente: anche la battuta più efficace può risultare moscia se recitata da un attore cane, e anche la scena più espressiva può diventare insignificante in mano a un regista maldestro. Non preoccupatevi di questo. Dovete invece cominciare a preoccuparvi quando la scena che avete scritto viene cambiata e risulta in proiezione assai più bella di quella che avevate scritto. Questo significa che qualcuno ha dovuto badare a correggere un vostro sbaglio. In questo caso, cercate umilmente di capire dove e in cosa avete sbagliato. O semplicemente cosa non avevate previsto, quale diversa opportunità narrativa vi era sfuggita. Non spaventatevi mai delle revisioni e dei cambiamenti : uno sceneggiatore è un tecnico delle variazioni. Molto spesso dei limiti anche ingiusti che vi vengono posti, sono degli ostacoli che è importante ci siano, in modo da poter trovare il modo di aggirarli.
Non è un difetto per uno scrittore di cinema, anzi è un pregio apprezzare l'aspetto cangiante, fluido, e (perché no?) astuto, della narrazione. Non accontentatevi mai della prima scrittura, altrimenti andrà a finire che qualcun altro dovrà assumersi l'incombenza di riscrivere il film al posto vostro, magari riadattandolo in concreto, giorno per giorno, e rischiando di perdere il bandolo dell'insieme (esperienza frequentissima in Italia). Dunque imparate a tollerare i peggioramenti di cui non siste responsabili e a incorporare i miglioramenti frutto dalla genialità altrui, in modo da affinare costantemente le vostre capacità. Saper essere duttili è davvero fondamentale in questo mestiere. Ma se lavorando cercherete di tenere sempre presente il fuckin' point, in ogni singolo segmento narrativo e nell'insieme della sceneggiatura, diminuirete di molto il rischio degli errori, vostri e altrui.
Ultima Lezione di Gianfranco Manfredi
All'epoca del cinema muto, le sceneggiature cinematografiche americane erano impostate in questo modo: in apertura si scriveva l'elenco dei personaggi (come nei copioni teatrali). Seguiva un elenco degli ambienti, divisi in ESTERNI e INTERNI, con segnati di fianco ai singoli ambienti i numeri delle scene corrispondenti.
In una sceneggiatura del 1922, ho trovato, in fondo a quest'ultimo elenco, la seguente nota del produttore esecutivo: E' espressamente richiesto che nessun cambiamento, d'alcuna natura, sia apportato a questa sceneggiatura, nè eliminazioni nè aggiunte di scene, né correzioni o cambiamenti delle azioni descritte, senza preventiva autorizzazione. La nota chiarisce bene che la sceneggiatura è un programma di lavoro, approvato, e in quanto tale non un canovaccio di riferimento su cui si possa improvvisare o da modificare sul momento. Ciò non tanto per salvaguardare il racconto cinematografico in sè, ma il piano di lavoro, il budget stabilito per il film, e dunque la correttezza dei rapporti con la produzione. A questo gli americani tengono moltissimo, e da sempre.
In Italia molto spesso la sceneggiatura viene disattesa. Può accadere che circolino addirittura diverse versioni della sceneggiatura: una per il produttore (mirata a "non spaventarlo", oppure con scene esuberanti scritte a bella posta perchè vengano cancellate, come apparente "concessione"), una occasionale di mera opportunità (ad esempio se si deve chiedere un'autorizzazione per girare una scena in un edificio religioso, in una scuola, in un ufficio pubblico, è saggio che gli affittuari non vengano turbati con scene violente, con turpiloquio o con situazioni che possano ai loro occhi apparire "non rispettabili") e altre ancora studiate a misura dei vari soggetti cui vengono date in lettura. Quella vera e segreta è sotto il controllo del regista. Una quindicina d'anni fa, sono stato personalmente testimone d'un fatto piuttosto divertente da raccontare. Di una sceneggiatura per un film tv circolavano versioni plurime: il testo base scritto dallo sceneggiatore principale, gli interventi a revisione o integrazione di altri sceneggiatori che avevano lavorato su mandato del regista e ciascuno all'insaputa dell'altro, un testo per la RAI, un altro per il produttore, e quello che il regista aveva "composto" a suo uso e integrato con le proprie note personali. Il funzionario RAI che seguiva il film, disapprovò alcune situazioni e battute giudicate inadatte al pubblico televisivo perchè troppo spinte, se non addirittura volgari. Il regista, oggetto delle lamentele, le girò allo sceneggiatore cui questi passaggi risultavano del tutto ignoti. Il regista gli stava ordinando di cambiare delle scene che lui non aveva affatto scritto. Era accaduto questo: alla RAI era arrivata la sceneggiatura sbagliata, e il regista, avendo smarrito la propria, non riusciva più a capire tra le tante che aveva sottomano quale fosse quella giusta.
Anche in America si sono usati in passato espedienti di mascheramento della vera sceneggiatura. Alfred Hitchcock in un suo film fece approntare un set segreto dove girare una scena con un effetto speciale piuttosto costoso, che il produttore se fosse stato messo al corrente, non avrebbe mai approvato, anche perchè non cambiava nulla alla storia, era solo una scelta estetica. Il produttore, quel giorno, era convinto che si girasse in un certo teatro, dove invece c'era soltanto un finto set, perchè tutt'altra scena (quella voluta da Hitchcock) era stata messa in programma su un set distinto e segreto.
Durante le riprese di Malizia (di Salvatore Samperi) la scena clou dell'accoppiamento tanto sospirato di Laura Antonelli con il giovane Momo, venne girata di giorno. In proiezione Samperi e il suo direttore di fotografia, la trovarono deludente. Tornarono di nascosto sul set, convocarono gli attori e la girarono da capo come scena notturna, con un temporale all'esterno. Gli effetti dei lampi, resero la scena molto più erotica. Il tutto all'insaputa del produttore, che altrimenti avrebbe negato una nuova ripresa.
Gli autori, da sempre tendono a proteggersi e a non rivelare i loro piani, per tema di divieti o d'invasioni di campo. Oggi però questo non è più praticabile. La sceneggiatura approvata dal produttore viene considerata una "Bibbia" e dev'essere girata esattamente come stabilito. Al regista viene affibbiato un editor spia, il quale
controlla sul set che lo script sia eseguito scrupolosamente. E' una colossale stupidaggine: spesso una scena (per mille motivi, non necessariamente estetici, anche pratici) deve per forza essere modificata sul set. Un poco di elasticità è un vantaggio anche per la produzione. Comunque, ai fini del nostro discorso, basti sottolineare che la sceneggiatura è per certi versi un Trattato, cioè un accordo stipulato tra gli autori e il produttore e di cui si pretende il rispetto.
Torniamo alle sceneggiature americane dei tempi del muto. Le scene, come si è detto, venivano numerate e accanto si precisava se si trattava di un Interno o di un Esterno e il nome dell'ambiente. Si dava per scontato che la scena fosse di giorno. Se era invece di notte, lo si precisava. Se il luogo indicato era chiaramente un esterno, si riteneva inutile scriverlo. Ad esempio: SCENA 31 - STRADA CON PARCHEGGIO - NOTTE. Nella descrizione della scena, inoltre, si precisavano le inquadrature ed eventuali movimenti di macchina (Primo Piano, Panoramica, ecc.). C'è da dire che all'epoca le inquadrature erano prevalentemente fisse, e i movimenti di camera usati soprattutto per esplorare un ambiente.
Man mano che le inquadrature e i movimenti di macchina diventano piu' elaborati, la scrittura delle sceneggiature americane cambia. Non si numerano più le scene, ma le sequenze (cioè una serie di inquadrature). Questo tipo di numerazione consente un piano di lavorazione più preciso. E' infatti piuttosto vago stabilire che so, di girare due scene al giorno. Dipende dalle scene, non solo dalla loro durata, ma dalla quantità di spostamenti di camera e di luci che comportano. Dunque se si numera per sequenza, il programma risulta più realistico e affidabile. Se si conosce prima il numero orientativo di inquadrature da girare quel giorno risulta più evidente se il tempo previsto per le riprese è sufficiente.
La numerazione per sequenze è uno strumento di organizzazione del lavoro delle riprese, in modo da restare nei tempi previsti, tempi che sono parte essenziale del budget. Se si sforano i tempi, si sfora il budget. Il piano delle riprese deve essere il più possibile certo e "matematico".
Più un film è costoso, più la numerazione tende a coincidere con le singole inquadrature. Faccio un esempio dalla sceneggiatura de Le avventure di Robin Hood (1938), un lavoro complesso che richiese molte riscritture e rifacimenti (tra le altre cose il film era stato scritto in origine per James Cagney e solo successivamente la parte di Robin hood venne assegnata a Erroll Flynn). Prendiamo qualche passaggio a caso della sceneggiatura.
228 PIANO STRETTO PHILLIP
Si prepara a scagliare la freccia insieme agli altri. Risuona uno squillo di tromba.
229 CAMPO LUNGO
Da dietro i bersagli. Gli arcieri scagliano le frecce.
230 PIANO MEDIO ARCIERI
Cambio di posizione. Robin viene avanti, lancia uno sguardo al palco reale, poi scaglia la sua freccia.
231 PRIMO PIANO MARIAN
guarda fisso avanti, cercando di mascherare la tensione.
232 PIANO MEDIO ATTENDENTI
rimuovono le frecce dai bersagli.
A un certo punto si aggiunge una NOTA: Da quando Robin e gli altri entrano in gara, useremo particolari trucchi e angolazioni in modo tale da enfatizzare la velocità e l'impatto delle frecce. Se possibile, si faccia in modo che alcune frecce vengano scagliate direttamente in macchina, contro un cuscinetto appeso alla camera.
Come potete vedere, una sceneggiatura così scritta, è talmente tecnica, da risultare letterariamente illeggibile. E' precisa al dettaglio, anche se ipotizza delle possibili varianti e delle riprese particolari da studiare con i reparti specializzati. Quando un punto prevede due riprese, lo si scrive: TWO SHOTS, ma in genere un punto corrisponde a una singola ripresa. Il film (la realizzazione del film) è l'esecuzione di un piano predefinito minutamente in sceneggiatura. Cito per confronto la sceneggiatura di Psycho (1960), trascurando i numeri.
ESTERNO RETRO DEL MOTEL - CLOSE UP - GIORNO
Giunta sul retro del Motel, Lila esita. Guarda avanti.
CAMPO LUNGO- GIORNO
La vecchia casa si staglia contro il cielo.
CLOSE UP
Lila avanza
CAMPO LUNGO
La camera si avvicina alla casa
CLOSE UP
Lila dà un'occhiata alla reception tenendola sotto controllo. Riprende a muoversi.
CAMPO LUNGO
La casa è sempre più vicina
CLOSE UP
Lila alza lo sguardo sulla casa. Si muove avanti più decisamente.
SOGGETTIVA
La casa e il portico.
Sono passati più di vent'anni dall'epoca del Robin Hood, ma la forma della sceneggiatura è rimasta quella. Come si vede, lo script è già un piano montaggio.
Corrisponde cioè a ciò che si vedrà sullo schermo. Non ci si limita a descrivere una scena e l'azione in corso. Si descrive anche come verrà girata, inquadratura per inquadratura.
Nel cinema italiano si usa prevalentemente un altro modello di sceneggiatura.
Anzitutto si numerano le scene, non le sequenze o le inquadrature. Ad esempio, la scena precedente la si scriverebbe così:
SCENA X- RETRO MOTEL - Est. Giorno.
Lila sul retro del Motel guarda verso la casa. Controlla che la via sia sgombra e che nessuno la osservi dalla reception. Si avvicina alla casa.
Dal punto di vista del lavoro creativo, una sceneggiatura di questo genere lascia più libero il regista nelle proprie scelte, perché non lo vincola a priori a un certo numero e a un certo tipo di inquadrature. Dal punto di vista produttivo, questo tipo di scrittura della sceneggiatura, espone a delle incognite. Quanto tempo ci vorrà per girare quella scena? Non si può saperlo con certezza, perchè dipenderà anche da quante inquadrature sceglierà di fare il regista.
Viceversa, nel modello americano, il regista viene vincolato a un programma predefinito e la produzione è maggiormente in grado di tenere sotto controllo il film.
Lo sceneggiatore ha un problema diverso, sia da quello del regista che da quello del produttore. Lo sceneggiatore deve poter calcolare a colpo d'occhio, in pagina e dal numero delle pagine, quanto durerà sullo schermo ciò che scrive. Nel modello all'italiana, fino agli anni 80, nella stesura della pagina, si scriveva a due colonne.
Nella colonna di sinistra, le descrizioni, nella colonna di destra i dialoghi. Ad esempio (dalla mia sceneggiatura di una puntata della serie di film-tv Valentina):
SCENA 7. PISCINA (EST. GIORNO)
Una piscina lunga e stretta, con ninfee sulla superficie. Accanto alla piscina, vecchi spogliatoi.
In un angolo, ad un tavolino apparecchiato, siedono Alain (con panama) e Valentina. Hector, il maggiordomo, accanto a un carrello portavivande ingombro di vivandiere liberty in argento, é in attesa con una bottiglia di Chablis Premier Cru.
VALENTINA (ad Alain)
A lei non dà fastidio il sole?
ALAIN
Mi fa malissimo, ma non voglio vivere come un recluso... né durare troppo a lungo. Temo la noia più d'ogni altra cosa.
Hector gli versa un assaggio.
Alain assapora e approva con un cenno del capo.
Hector versa a Valentina e poi ad Alain.
VALENTINA
Perché non se ne va? Scusi la franchezza. Il posto è stupendo, ma non si può certo dire allegro.
ALAIN
Ci ho pensato molte volte. Purtroppo non ho nulla di mio. La villa, la macchina, persino gli abiti che indosso... é tutto dello zio Emile.
VALENTINA
Di lavorare non se ne parla, eh?
Questo tipo di modulo è piuttosto comodo per i reparti (che possono leggere le indicazioni trascurando i dialoghi), per gli attori (che hanno le battute a parte), per il regista e per altri membri della troupe che hanno in pagina degli spazi bianchi per le proprie note. Ma la comodità è anche per lo sceneggiatore: anzitutto questa forma della sceneggiatura gli consente di vedere graficamente, dalla densità delle rispettive colonne, l'equilibrio tra azione e dialoghi. In secondo luogo gli permette di valutare con una certa esattezza, per righe, la durata di una singola battuta. Infine di corrispondere pagina per pagina al format-durata complessiva del film.
Per una durata media di novanta minuti, un copione deve prevedere tra le ottanta e le cento scene. La lunghezza di una sceneggiatura scritta all'italiana è tra le novanta e le cento pagine. Se la mia sceneggiatura, indipendentemente dal numero delle scene, dura più di centoventi pagine, significa che sto scrivendo un film piuttosto lungo, che rischia cioè di sforare le due ore di proiezione. E' facile calcolare a vista con la scrittura all'italiana: ogni pagina corrisponde mediamente sullo schermo, a quaranta secondi. Ciascuna scena, deve durare mediamente un minuto. Se dunque scrivo una scena di tre pagine complete, so che ho scritto una scena di due minuti. A quel punto so anche che per corrispondere al ritmo visivo del film, sarà opportuno prevedere un cambio di scena, altrimenti quella scena, troppo prolungata, produrrà un'alterazione nella scansione e nell'equilibrio generale del film.
Quando invece si scrive una sceneggiatura "all'americana", cioé si numera per sequenze o addirittura per inquadrature, il calcolo del tempo/pagina medio, per uno sceneggiatore, si fa più complesso. Un "numero" può durare un secondo se l'inquadratura è un flash, o decine di secondi se l'inquadratura indugia su un'azione più estesa e/o se prevede un dialogo tra i personaggi. Ne consegue che una pagina di sceneggiatura numerata per inquadrature, non corrisponde a una durata predefinita.
La durata del film Le avventure di Robin Hood sopra citato, è di 102 minuti. La sceneggiatura include 410 punti. Il che vuol dire una media di 15 secondi per ogni punto. In realtà i punti da 228 a 232, sopra citati, in proiezione risultano della durata di una manciata di secondi. Mentre ci sono punti in cui dialogo e azione si prolungano per tre o più pagine e la durata complessiva non è facilmente deducibile a colpo d'occhio. Lo script non è dunque omogeneo.
In conclusione, usando il modello "all'italiana" il semplice passaggio da pagina a pagina mi funziona da metronomo, aiutandomi a restare sempre nel ritmo e nella durata complessiva del film, nell'istante stesso in cui scrivo. Usando il modello "all'americana" invece devo sviluppare un senso interiore del timing, calcolando
mentalmente ciò che con l'altro metodo vedo "graficamente" in pagina.
[Quella che ho chiamato "sceneggiatura all'italiana", in realtà non è un'invenzione nazionale, e sarebbe più corretto chiamarla "all'europea". Ad esempio Stanley Kubrick sceneggiava su tre colonne: una lasciata bianca per le note tecniche di regia, una per le azioni e la terza per i dialoghi.
La sceneggiatura de La Dolce Vita di Fellini, invece, è scritta a riga intera e numera sia le scene che le inquadrature. Ed esistono sceneggiature americane che pur scritte a riga piena, non numerano le sequenze o le inquadrature, ma soltanto le scene. Ad esempio, Rocky di Sylvester Stallone. I due modelli insomma non vanno considerati come obbligati, a volte si differenziano per una scelta di opportunità. In particolare per la numerazione, non è strettamente vincolante numerare per scene o per riprese].
Questa lunga spiegazione ha un interesse puramente storico, perchè oggi in Italia non si scrive più su due colonne, ma a riga completa, con i dialoghi al centro. Non si precisa (e numera) ogni singola ripresa o movimento di macchina, ma si cerca comunque, attraverso una scrittura più essenziale e più tecnica di tracciare un piano di lavoro già chiaro alla prima lettura. (E' qualcosa di molto simile alla sceneggiatura in uso nel fumetto italiano, quando l'autore del testo non coincide con il disegnatore.
Lo sceneggiatore di fumetti incorpora la figura del regista. Descrive dunque cosa si deve vedere in ogni singola vignetta e grosso modo come lo si vede vedere, cioè se in PP, in Campo Lungo, in Campo Medio, e con quale posizione rispettiva dei personaggi).
Sceneggiatura e costi del film
Queste modifiche del tradizionale stile all'italiana, possono sembrare puramente formali, ma segnalano in realtà un cambiamento profondo: dalla comodità per i "creativi", alla comodità per la produzione. Abbiamo insomma recepito, dopo l'ingresso in campo della televisione nella produzione cinematografica, l'istanza in primo luogo produttivistica del cinema americano. La forma della sceneggiatura corrisponde sempre più al progetto economico del film, a svantaggio della libera interpretazione del testo base. Si potrebbe anche dire: i rapporti di potere sono cambiati. Le esigenze di chi mette i soldi sono diventate più importanti di quelle di chi ci mette le idee.
Ogni cosa che si scrive ha un costo. Uno sceneggiatore non scrive soltanto nel rispetto di un format (mediamente, novanta-cento minuti di durata), ma del budget previsto. Vent'anni fa, un film medio affidato a un regista professionista, comportava almeno otto settimane di lavorazione, oggi questo tempo si è terribilmente contratto: se un regista ha a disposizione quattro settimane, già gli è andata bene. Dunque la sceneggiatura è sempre più vincolata al piano economico e deve poterlo garantire.
Questo è l'aspetto della scrittura cinematografica più difficile da imparare per uno sceneggiatore esordiente, perchè soltanto con l'esperienza ci si abitua a valutare il costo realizzativo di un'idea. Uno sceneggiatore esordiente ha in genere una visione mitica del cinema: crede di potersi permettere di tutto. Invece è il contrario: è in un romanzo (e da questo punto di vista,anche in fumetto) che ci si può consentire di tutto. Se io racconto l'incendio di Milano, a parole o disegnando, non mi costa nulla.
In un film invece non posso proprio raccontarlo senza un budget adeguato. Uno sceneggiatore cinematografico deve conoscere, prima di scrivere, quale impegno produttivo e finanziario sta a monte del film , e scrivere la storia in modo che sia possibile realizzarla con quei soldi. A volte anche in un film di notevole impegno economico può rendersi necessario che una scena particolarmente costosa sia bilanciata da altre che non comportano spese elevate.
Ora: come si fa a calcolare il costo di una singola scena? Non può essere fatto infallibilmente, perché le varianti da tenere in conto sarebbero troppe. A parte le ovvietà, per cui basta il semplice buonsenso (una scena con due persone che parlano sedute a un tavolo, costa ovviamente meno di una carica di cavalleria), ci sono delle indicazioni elementari cui spesso non si presta la dovuta attenzione, e che stanno già nella dicitura della scena. Ad esempio, confrontiamo queste due diciture:
Scena 1 - STRADA DI ROMA (Esterno-Giorno).
Scena 1- STRADA DI ROMA (Esterno-Notte).
Indipendentemente da ciò che scriverò nella scena, la seconda (cioè l'ambientazione notturna) costa di più. Di notte si lavora in genere in straordinario e l'apparato luci dev'essere più imponente. Dunque più scene notturne metto in un film, è più ne aumento i costi.
Scena 2- CAMERA DA LETTO DI AUGUSTO (Interno-Giorno)
Scena 2- CAMERA DA LETTO DI AUGUSTO (Interno-Notte)
In Interno, la differenza di costo tra giorno e notte si attenua, perché la scena notturna la si può anche girare di giorno, simulando la notte all'esterno.
Ciò non significa ovviamente escludere tendenzialmente gli Esterni Notte dal racconto, perchè comunque in un film è buona regola dare il senso dello scorrere del tempo e delle giornate, e una certa alternanza tra giorni e notti è indispensabile a una corretta narrazione. Però, da sceneggiatore, devo abituarmi a regolare questa alternanza, sapendo che in Esterni Notte non posso eccedere.
Un altro indicatore economico, sta nell'ambiente stesso e nella frequenza con cui appare. Se un singolo ambiente (la camera da letto di Augusto) torna diverse volte nel film, il costo si abbassa, perchè non è necessario spostare il set, né allestirlo di nuovo.
Si possono girare di seguito tutte le scene che si svolgono in quell'ambiente, con notevole risparmio di tempo. Ne consegue che più ambienti si mostrano in un film e più il film verrà a costare. Un film di 90 scene, in cui gli ambienti sono 70, costa molto di più di un film sempre di 90 scene, ma di 40 ambienti.
Il film muto americano del 1922 che abbiamo preso per riferimento al principio di questa lezione include:
-17 Esterni e 14 Interni.
-Ogni ambiente in Esterno prevede più riprese, fino a un massimo di 18.
-Ogni ambiente in Interno, fino a un massimo di 83.
In conclusione: anche se gli ambienti esterni sono più numerosi, le riprese in Esterno sono più fugaci di quelle in Interno. E la gerarchia tra le scene in Interno è più accentuata, cioè ci sono tre o quattro ambienti principali in cui vengono concentrate la maggior parte delle scene.
Non si tratta di una regola fissa: quel film ha un'impostazione più "teatrale" del normale, e all'epoca si preferiva girare in teatro di posa, perchè il teatro di posa era già a disposizione degli studios. Ma di base, ciò che va considerato è il costo economico dell'insieme e in particolare degli spostamenti. Dato che nel cinema d'oggi girare in studio costituisce spesso un costo aggiuntivo non sostenibile, si tende a preferire un ambiente reale. Cioè non una camera da letto costruita in un teatro di posa, ma una vera camera da letto in una casa reale da affittare per l'occasione. Ora: mentre in teatro di posa si possono costruire in un unico capannone anche ambienti di abitazioni (nel film) differenti, se si gira invece in ambienti reali, per passare da un'abitazione all'altra, la troupe si deve spostare, bisogna piazzare le luci da capo, montare e smontare il set. Tutto questo è tempo-denaro. Se io scrivo una scena in un interno che dura un minuto, e nell'ambiente della scena non torno più, perché lo vedo nel film una sola volta, questo minuto viene a costare parecchio alla produzione, perchè il tempo dell'allestimento del set non può essere ammortizzato. Allo stesso modo, più ambienti reali mostro, più ho esigenza di spostamenti della troupe, più di conseguenza diminuisco il tempo a disposizione per le riprese vere e proprie, e più alzo i tempi e i costi di realizzazione del film.
I telefilm hanno reso molto evidente l'importanza di un ambiente dominante. L'aula del tribunale in un telefilm di avvocati, le stanze d'ospedale in un telefilm di medici, la stazione di polizia in un poliziesco, sono ambienti dominanti. Cioè quello stesso ambiente ricorre nel maggior numero di scene. Questa non è una semplice scelta drammaturgica, è anche una scelta economica.
Insomma, uno sceneggiatore consapevole non può scrivere tutto quello che gli salta in mente, deve saper commisurare al budget le esigenze narrative. In generale, è bene che le scene costose siano anche assolutamente essenziali alla narrazione e ne coprano un arco adeguato in termini di minuti/racconto. Se pretendo che il produttore mi faccia costruire una strada d'epoca, con cavalli, carrozze, comparse in costume, e poi questo ambiente lo metto in scena una volta sola e per pochi secondi, mi faccio delle illusioni. La scena non verrà mai approvata, a meno che io non stia lavorando per un kolossal.
Il cinema digitale ha cambiato molte cose, in ordine ai costi, consentendo in genere notevoli risparmi. Tuttavia se scrivete una sceneggiatura per un film maker, al vantaggio di una troupe più piccola e manovriera, corrisponde lo svantaggio di un budget estremamente inferiore. Dunque il discorso da questo punto di vista non cambia, per la sceneggiatura. In un film a budget limitato, non bisogna eccedere in notti e in numero d'ambienti. Ed è bene scegliere alcuni ambienti doninanti nei quali concentrare il maggior numero di scene.
Ci sono poi Esterni che non sono né Notte, né Giorno, ma Albe o Tramonti, che si girano cioè in momenti di "luce di passaggio". Queste scene bisogna trovare il modo di condensarle, perchè il tempo a disposizione per le riprese è breve: la luce cambia in fretta. Se scrivo una scena all'alba in esterno con un'azione particolarmente complessa che nel tempo del film dura pochi minuti, ma che per essere realizzata richiede ore di lavoro, questa scena non potrà essere realizzata tutta nello stesso giorno.
Le scene esterne con complicazioni metereologiche, pioggia, neve o vento, costano di più perché richiedono apparati complessi e molto tempo a disposizione per essere girate. In un romanzo queste scene creano clima e sono fondamentali. In cinema lo sono altrettanto, ma come sceneggiatore devo sapere che una scena in un bosco sotto la pioggia, sarà quanto mai impegnativa sotto il profilo economico. Se il budget non lo consente è meglio che io rinunci all'idea. Una sceneggiatura cinematografica non può permettersi di essere velleitaria. Una sceneggiatura, qualsiasi sceneggiatura, di un kolossal o di un corto amatoriale, è la descrizione non soltanto di un'idea narrativa, ma di un progetto realizzabile.
Lezione: La Forma Della Sceneggiatura (2) - di Gianfranco Manfredi
Gli studiosi della cultura greca considerano l’Iliade di Omero come il primo testo scritto destinato al teatro. Trattandosi di un poema, è dunque evidente che siamo di fronte a una pura declamazione di un testo in scena, cioè a un teatro di parola, non a una vera e propria messa in scena. L'attore è unico, cui si alternano a volte il coro e/o degli intermezzi musicali. Il teatro nasce dunque in forma di monologo. Il che fa giustizia del luogo comune secondo cui il monologo, l'one man show, le letture dantesche o di altri classici, il cosiddetto teatro-canzone, siano forme teatrali innovative. E' vero l'esatto contrario: rappresentano l'anno zero del teatro. Non c'è scena, non c'è dialogo, non c'è molteplicità di attori, non c'è azione. La pura lettura/recitazione in scena non costituiscono un'autentica drammaturgia, ne sono al massimo l'infanzia.
Aristotele ricorda che fu Eschilo a portare a due il numero degli attori e dunque a inventare il dialogo. Successivamente, con Sofolcle, i personaggi diventarono tre e la scena più ricca. Le prime testimonianze di drammaturgia risalgono, secondo Aristotele, al VI sec. a.C. , prima non esistevano che spettacoli pre-narrativi di istrioni che venivano chiamati in modo diverso a seconda delle regioni in cui si esibivano: mimi, virtuosi, improvvisatori, burloni o dilettanti (nel senso che procuravano diletto). Si trattava di attori nomadi che intrattenevano il pubblico dei villaggi e dei borghi con lazzi e buffonagini, piccole scenette realistiche, azioni mimiche, caratterizzazioni burlesche di personaggi (l'atleta millantatore, lo spacciatore di intrugli miracolosi, il ladro di frutta, insomma "macchiette"). Le esibizioni buffonesche di Susarione ad Atene, non raccontavano una storia compiuta, erano rappresentazioni senza capo né coda.
Pulcinella viene da questa tradizione di commedia di piazza, senza strutture, senza narrazione in senso proprio, una successione di "numeri" e di "gag" come diremmo oggi, che ebbe una grande importanza nel fissare una serie di tipi (maschere) e di situazioni divertenti. Questo genere di teatro, con fini più di intrattenimento che artistico, sopravvisse, anche quando la drammaturgia teatrale vera e propria si era codificata da secoli. Non c'era un vero e proprio copione, ma una semplice traccia, un canovaccio a volte davvero minimo, come nella seguente scenetta che così Nicoletta Capozza nel suo Tutti i lazzi della Commedia dell'Arte (Dino Audino Editore, 2006) traduce in lingaggio moderno:
Pulcinella va a comprare un vaso da notte per il padrone. Coviello gli dice che mettendoselo in testa potrà conoscere i fatti di chiunque. Pulcinella mette la testa nel vaso da notte. Coviello fa lazzi, poi gli fa lo sgambetto e fugge. Pulcinella cade, fa lazzi ed esce di scena.
Il breve testo, come si vede, indica : (1) i personaggi in scena, (2) il percorso degli eventi dal principio alla fine e (3) le occasioni comiche. Dialoghi e lazzi (cioè gags) sono lasciati all'invenzione dei commedianti.
Commenta Nicoletta Capozza: "Il comico crea continuamente, non ha mai niente di già totalmente dato, la sua improvvisazione, benché fondata sulla perfetta conoscenza del tipo, è comunque messa in discussione ogni volta, perchè ogni volta diverse sono le modalità entro le quali si trova ad agire."
Questo modello è ancora attuale? Ne abbiamo già accennato nella lezione sul comico.
Vincenzo Cerami autore di parecchie sceneggiature per Benigni, ha diverse volte puntualizzato che il suo lavoro consiste principalmente nel fornire situazioni sulla base delle quali il comico possa scatenare la sua verve creativa. Ha detto anche che si tratta inoltre di fissare dei "binari" , dunque dei limiti, e su questo punto torneremo in seguito. Per il momento concludiamo che il lavoro dello sceneggiatore, come quello degli autori dei mini-soggetti e dei canovacci per le rappresentazioni della Commedia dell'Arte, è nel genere comico, da un lato di offrire delle opportunità stabilendo una situazione di base di per sé divertente, dall'altro di fissare dei limiti perchè l'improvvisazione non finisca totalmente fuori tracciato, non produca a sua volta situazioni che da gag diventino narrative, cioè sconfinino in derivazioni che poi richiederebbero ulteriori sviluppi e dunque non consentirebbero una "chiusura".
Esaminiamo ora la forma di un testo compiuto. Lo Ione di Euripide. Non mi soffermo sulla vicenda, piuttosto complessa, nè sullo stile che unisce tragedia e commedia fino alla parodia più dissacrante, accompagnandola con musiche e numeri di danza. In quest'ultima sezione del corso, infatti mi limiterò a considerare la pura forma del testo.
Il testo dello Ione elenca anzitutto i personaggi (soltanto i nomi, senza ulteriori indicazioni). Poi definisce la scena con una sintetica didascalia:
La scena in Delfi. In fondo, il tempio di Apollo, davanti al tempio un altare e varie stele. Il frontone del tempio è ornato di bassorilievi. Da un lato un boschetto di lauri.
Nel testo, in alternanza ai dialoghi e ai cori (prima, durante e dopo), compaiono succinte indicazioni utili alla messa in scena e alle azioni rappresentate.
Entra Ione seguito da alcuni ministri del tempio. Indossa belle vesti, porta sulla spalla un arco, e stringe una frasca d'alloro ornata di bende, che gli serve a spazzare l'adito sacro del tempio.
Ci sono, a inframezzare la recitazione verbale, notazioni volte a chiarire a chi sta parlando Ione (ai ministri) e alle sue azioni (Dà di mano alla frasca d'alloro; depone la frasca d'alloro, prende un'anfora d'oro e versa acqua sul pavimento; come colpito da un rumore improvviso, alza gli occhi verso il cielo; dà di mano all'arco e alle frecce).
Come potete vedere, si comincia a delineare la forma della Sceneggiatura:
1. Dove è ambientata la scena e come è strutturata.
2. Chi entra in scena (e in seguito chi ne esce).
3. Come è vestito il protagonista e di quali attrezzi è dotato.
4. Quali azioni essenziali compie il protagonista (a chi si rivolge, quali gesti compie, come usa gli oggetti che porta con sé).
Si precisano queste cose non soltanto per chiarezza narrativa (nei confronti del pubblico), ma anche per prescriverle ai reparti (scenografia, costumi, attrezzeria) e all'interprete (ciò che dice acquista maggior senso attraverso i gesti che compie e il suo atteggiamento). Si scrive ciò che deve esserci, non ciò che potrebbe esserci. Non si esclude affatto che la scena, i costumi, il movimento in scena, possano essere arricchite, ma si sottolinea ciò che è obbligato, per motivi di natura narrativa.
Noterete in particolare un dettaglio prezioso: se si mette qualcosa addosso o in mano a un personaggio non è per un vezzo gratuito, ma perchè la userà nel corso della scena. Il testo precisa come e quando.
Si tratta insomma di indicazioni vincolanti, ma sommarie. Si evita di scendere in dettagli minuti. Si dice che Ione ha belle vesti, ma non le si descrivono, per tipo, colore o altro, come si farebbe in un romanzo. Si dice che sparge acqua a terra, da un'anfora d'oro (il che comporta e spiega la sacralità del gesto) ma non si dice se lo fa di getto o un po' per volta, se lo fa prima di parlare o mentre parla, e non si dice quando deve finire e posare l'anfora (questo è intuibile e ovvio e non richiede d'essere puntualizzato). Dunque in parte si precisa e in parte si lascia alla libera interpretazione.
Inoltre non si scrive, perchè sarebbe superfluo, quanto è chiaramente intuibile.
Questo è un utile insegnamento anche a riguardo del lavoro letterario. In un romanzo può essere caratterizzante precisare dei gesti o delle azioni di un personaggio nel corso di un dialogo, ma questo non vuol dire che se prende in mano un bicchiere di vino e lo sorseggia mentre parla, poi si debba per forza specificare che a un certo punto lo posa. Se in seguito il personaggio ha le mani occupate da qualche altro oggetto, è di per sè evidente che avrà posato il bicchiere. Non accumulate indicazioni ovvie, lasciate spazio all'intuitività del lettore.
La moderna sceneggiatura cinematografica si fonda ancora su questa antica misura.
Nelle didascalie (cioè nelle descrizioni) si sottolineano le cose essenziali. Si prescrive soltanto ciò che è indispensabile e funzionale al racconto.
Nella commedia e nel teatro comico sono in genere più numerose le indicazioni rivolte all'attore. Aristofane, ad esempio, nella commedia Gli Acarnesi, indica in testa o in corso di dialogo: monologa tragicamente; con piglio oratorio; gridando; con voce e piglio da spaccamontagne; si stuzzica la gola con la penna; feroce. Insomma indica toni e intenzioni, suggerisce gesti significativi che caratterizzano quel certo personaggio in quel momento.
L'alternanza dei toni è fondamentale in una commedia. L'attore va aiutato a capire (la garanzia che capisca da solo non c'è) che una certa battuta va detta ironicamente, un'altra in tono irato, un'altra ancora sbraitando. Sono, come noterete, indicazioni di mutamenti improvvisi di tono e d'umore, cioé di eccessi. In una tragedia rincorrere gli eccessi è caratteristica degli attori cani, in commedia invece è fondamento della recitazione. Un attore drammatico (che rappresenta di solito, come ho segnalato nella relativa lezione, un personaggio "elevato") deve guardarsi dal diventare enfatico, un commediante (che rappresenta in genere un "uomo comune") deve invece guardarsi dall'apparire qualsiasi.
Le segnalazioni per l'attore dunque hanno lo scopo precipuo di fornirgli i "binari" di cui abbiamo parlato, cioé dei limiti entro cui muoversi, nella sua interpretazione. Il personaggio eroico deve contenersi, per non assumere caratteristiche da trombone che lo renderebbero retorico o addirittura ridicolo. Se dunque non precisiamo niente, vuol dire che non richiediamo di accentuare. Il personaggio comune caratteristico della commedia deve invece assecondare l'emotività, per non precipitare in un realismo triste e patetico. Sta all'attore trovare un equilibrio, la nostra segnalazione deve però essere precisa e inequivocabile. Sarebbe sbagliato scrivere: incazzato, ma non troppo.
O è incazzato o non lo è. Precisato che deve esserlo, starà all'attore cercare la misura giusta e più efficace.
Non scrivete mai quelle segnalazioni contraddittorie che sono tipiche della letteratura.
In letteratura, il lettore deve forgiarsi un'immagine mentale del personaggio.
Sottolinearne le contraddizioni può aiutare chi legge a non costruirsi un'immagine troppo unilaterale e definita che poi magari l'andamento della storia smentirebbe. Il personaggio di Harry Potter sulle pagine del romanzo è accortamente mantenuto abbastanza neutro, in modo che sia più semplice per i diversi lettori identificarsi con lui. In cinema si tratta invece di darne un'interpretazione che anzitutto è incarnata nel fisico dell'attore, ma che anche nell'andamento drammaturgico deve essere sempre coerente agli avvenimenti. Ciò che in un romanzo viene lasciato alla libera interpretazione del lettore, in cinema è consegnato all'interprete e al punto di vista di chi lo mette in scena e lo fa agire. Ne consegue che il lavoro dello scrittore di romanzi, è molto diverso dal lavoro dello sceneggiatore. Il primo scrive per sollecitare il lettore a formarsi una propria immagine del personaggio, degli ambienti e delle situazioni, il secondo contribuisce a definire questa immagine, cioè deve sceglierne/suggerirne una tra le tante possibili. Il rapporto non è , come in romanzo, tra autore e pubblico. In un copione, tra l'autore del testo e il pubblico, ci sono dei tramiti: l'attore che interpreta il personaggio e chi mette in scena il testo.
Noi non dobbiamo descrivere l'attore, ma il personaggio, nei suoi tratti essenziali, e aiutare l'attore a comprenderlo passo passo, attraverso piccole ma precise indicazioni sui suoi gesti (funzionali e/o espressivi) e i suoi toni (esplicitare il tono, chiarisce il senso della battuta e il registro dell'interpretazione). Là dove la battuta è inequivocabile, come il tono con cui deve essere pronunciata, non c'è bisogno di precisare nulla. Non fate i professorini, perchè otterreste solo di irritare l'attore vincolandolo alla vostra interpretazione soggettiva, che è puramente teorica, non fisica. Non dilungatevi in spiegazioni psicologiche e motivazionali, perchè si presterebbero a interpretazioni molteplici e invece di chiarire confonderebbero. La psicologia di un personaggio in un testo drammaturgico si deve capire da ciò che dice il personaggio, da come lo dice, e da ciò che il personaggio fa. L'attore va aiutato in corso di copione, non con delle complesse premesse dove spiegate il personaggio nei suoi tratti distintivi e nelle sue contraddizioni. Mettetelo in scena, il personaggio, e precisate quel che va precisato mentre lo fate agire.
Lo stesso vale per le indicazioni ai reparti e quelle di regia. Lo sceneggiatore rimarca l'indispensabile, ma deve guardarsi attentamente dal fornire indicazioni prescrittive sotto il profilo estetico, perchè questo lavoro non gli compete.
In conclusione: per assegnare dei limiti agli altri, dovete imparare a limitare voi stessi. In una buona sceneggiatura non si deve scrivere nulla di inutile, di puramente esornativo, nè tantomeno di controproducente, supponendo a torto che la messa in scena sia semplicemente un'esecuzione di una vostra idea puntigliosamente precisata fino allo sfinimento. Esagerare con le indicazioni porta a un unico risultato: verranno ignorate.
LEZIONE LXI
NASCITA E FONDAMENTI DEL COPIONE TEATRALE
In Letteratura e in Teatro l’autore di un’opera è colui che l’ha scritta. In Cinema è invece colui che la mette in scena e la racconta per immagini, cioè l’autore/regista.
Ma non tutti i registi, per quanto possano ambire alla qualifica d’Autore, sono e/o vengono considerati tali. Cosa identifica dunque un Autore cinematografico?
Il riferimento più corretto (per rispondere a questa domanda) non è alla Letteratura o al Teatro, ma alle Arti Figurative. Leonardo da Vinci è stato il primo a rilevare che, almeno da dopo Giotto, la committenza non si limitava più ad affidare un affresco a una bottega artigiana, a volte anche suggerendo il tema dell’affresco (una crocifissione, un giudizio universale, ecc.), ma richiedeva espressamente che l’autore fosse X. Leonardo capì che il nome dell’artista era ormai diventato un elemento di valore aggiunto. Il valore economico dell’opera non andava dunque più compensato sulla misura del tempo di lavoro impiegato per produrre l’opera stessa, ma sul valore di mercato dell’artista, valore sottratto al tempo di lavoro e valutabile sulla base della notorietà e dell’apprezzamento del nome e dello stile di quel particolare artista in quel particolare momento. La riconoscibilità di un artista diventa dunque l’elemento fondante della valorizzazione di un’opera, elemento inscindibile dalla popolarità dell’artista stesso in una data fase del mercato. In Cinema si può dire che quando il nome del Regista è il più importante in cartellone, quando cioè il pubblico sceglie di andare a vedere quel film perché (soprattutto perché) l’ha fatto il tal regista, allora quel regista può essere definito Autore. E quel regista viene riconosciuto per il suo inconfondibile stile. Ai grandi Maestri del cinema sono sufficienti poche immagini, pochi secondi di proiettato, per farsi identificare, anche se abbiamo cominciato la visione a film già iniziato e non abbiamo letto il nome del regista nei titoli di testa.
Due cose identificano dunque l’opera, nel cinema d’Autore: la firma e lo stile. Ora: sia la firma che lo stile sono qualcosa di estremamente personale che sfugge alle caratteristiche di genere, anche quando un certo regista acquisisce la notorietà come specialista di un certo genere di film. La firma e lo stile possono anche costituire la base per una classificazione dell’autore in serie A o in serie B, ma questo è un elemento successivo e non fondante. E in ogni caso riproduce la doppia origine: di mercato e di stile. La Serie B si riferisce a una certa quota di mercato e target di pubblico e la Serie A ad un’altra. E altrettanto si può dire dello stile.
Sbaglia chi pensa che il Cinema d’Autore sia per definizione sottratto a una valutazione di Mercato e più vicino all’Arte Pura, dominio esclusivo dell’Estetica. Il Cinema d’Autore è intimamente, strutturalmente legato al mercato. Chi fa cinema d’Autore non si preoccupa soltanto di raccontare una storia attraverso una “messa in scena”, ma si preoccupa anche e soprattutto di occupare una fascia di mercato grazie al proprio nome e allo stile che lo identificano e lo rendono riconoscibile. L’Autore stesso si pone, al di là dell’opera, come Merce. La qualità non è un parametro riferibile soltanto a categorie estetiche, ma diventa qualità riconoscibile: la qualità di quel artista in particolare. Una qualità garantita da una firma, da un marchio, d’Autore quanto si vuole, ma pur sempre un Logo.
Come può rendersi riconoscibile un Autore? Rendendo il suo stile riconoscibile attraverso e al di là delle singole opere. Per ottenere questo risultato, i Registi Autori tendono ad avvalersi di una propria bottega, cioè di un gruppo di collaboratori (direttore della fotografia, scenografo, costumista, autore delle musiche, attori, montatore) che restano abbastanza stabili nel tempo e garantiscono continuità stilistica o anche varianti, ma sempre sulla base di un lavoro collettivo fortemente indirizzato da un “punto di vista” che è quello del Regista capo-bottega. Tra questi collaboratori, gli sceneggiatori sono i più volatili. C’è più ricambio di sceneggiatori che di qualsiasi altro reparto. E questo avviene per un motivo preciso.
L’identificazione dell’opera (come appartenente alla filmografia di quel regista) avviene per come quest’opera viene realizzata, non per come è stata scritta. Dunque tutti coloro che contribuiscono a realizzarla rivestono una funzione di fatto più importante di chi scrive il copione senza partecipare alla vera e propria realizzazione.
E’ abbastanza raro che un regista autore abbia il suo sceneggiatore di fiducia. I grandi Autori di cinema, riguardo alla scelta degli sceneggiatori, si sono comportati nella storia del cinema in modi diversi.
Ne cito i più diffusi:
1. Affidare la sceneggiatura a un pool di sceneggiatori che lavorano insieme, discutendo tra loro e con il regista la definizione dei personaggi, la struttura narrativa del film, l’insieme e le singole fasi del racconto, il tema centrale del film, per poi suddividersi il compito di scrivere le singole scene. Questo modo di lavoro era possibile quando i film si realizzavano negli Studi (a Hollywood piuttosto che a Cinecittà) e le produzioni operavano in una città definita. Era semplice poter radunare gli sceneggiatori in uno stesso posto e farli lavorare insieme e in stretto contatto con il
regista, con la produzione e con tutti i reparti che realizzavano concretamente il film.
Oggi questo genere di lavoro di equipe è ancora fondamentale nelle serie televisive (dove gli sceneggiatori possono essere a volte più importanti dei registi, in particolare lo sceneggiatore creatore della serie), ma in cinema si tende sempre più a lavorare a distanza, senza grande (a volte persino senza nessuno) scambio di informazioni e di suggerimenti tra reparti. D’altro canto, anche un tempo poteva capitare che gli sceneggiatori che avevano lavorato insieme, scoprissero dai titoli del film che tra i nomi degli sceneggiatori c’era anche quello di qualcuno che non aveva mai partecipato ad alcuna riunione di sceneggiatura. Da dove sbucava questo sceneggiatore fantasma? Evidentemente la produzione o il regista, o entrambi, avevano arruolato un “esterno” non tanto e non solo per revisionare il lavoro degli altri, ma per scrivere singole scene, passaggi di dialogo, o fornire idee o semplici spunti narrativi.
2. Certi autori registi tendono a far lavorare diversi sceneggiatori indipendentemente uno dall’altro, in modo da poter avere delle opzioni diverse a disposizione, e a volte anche per motivi di mera opportunità. Ci sono stati numerosissimi casi (nel cinema d’autore classico era quasi una consuetudine) in cui i registi davano alla produzione
un copione che corrispondeva alle richieste e alle aspettative della produzione stessa, per poi girarne un altro (scritto clandestinamente). Nella fase preparatoria di un film si sono spesso distribuiti copioni differenti: il regista aveva il suo (segreto), gli attori un altro e la produzione un altro ancora. Fare confusione era essenziale perché così l’unico dominus restava il regista: solo lui sapeva quale era la versione che avrebbe girato. Certi Maestri tenevano all’oscuro chiunque altro della vera sceneggiatura, per poterla liberamente ri-creare al momento della realizzazione e sfuggire a troppi controlli. Oggi questa libertà non è più consentita. La produzione approva una sceneggiatura e pretende che venga realizzata quella, spesso reclutando degli editor che stanno sul set a controllare come dei capi-reparto anche il lavoro dei registi.
Inoltre oggi è rarissimo che a un regista venga consentito per contratto il Final Cut, cioè la decisione ultima e definitiva su come dev’essere il film. Un certo declino del Cinema d’Autore deriva da questo. Se al Regista/Autore non è più chiaramente riconosciuto il ruolo dominante in cartellone, né la definizione dell’opera in una versione compiutamente firmata e accreditata dall’Autore stesso, ecco che il film perde la sua stessa natura d’Autore.
3. Certi autori registi collaborano in ogni istante alla sceneggiatura, restando presenti in ogni fase del lavoro di scrittura, scena per scena. Altri invece, dopo una discussione d’insieme che approfondisce il senso e il tipo di racconto, lasciano che gli sceneggiatori lavorino per conto loro, per poi apportare correzioni o farle apportare dagli stessi o da altri sceneggiatori. Anche in questo modo (più morbido se vogliamo) è diventato molto difficile sfuggire alle verifiche della produzione. Un tempo un film poteva iniziare anche se la sceneggiatura non era giudicata perfetta, confidando che il Regista/Autore grazie alle sue riconosciute capacità oltre che al suo carisma personale, avrebbe potuto fare di quel discutibile film un ottimo film. Questa fiducia artistica non c’è più. L’Autore/Regista deve trovare, prima di girare, la “quadra” della sceneggiatura. Se una sceneggiatura non convince, se ne fa scrivere un’altra, finché non si è trovata quella “giusta”. Se no il film non comincia neppure.
Oggi le grandi produzioni sono quasi tutte società per azioni e nessun dirigente o amministratore può permettersi di rischiare i soldi dei soci sulla base della fiducia in un Regista/Autore.
Se poi quel film dovesse risultare un flop, il dirigente verrebbe cacciato. Se invece, pur risultando un flop, quel progetto è stato preventivamente approvato dagli azionisti, magari sulla base di ricerche di mercato, il dirigente non viene colpevolizzato. Il produttore che investe e rischia soldi suoi è ormai una figura quasi scomparsa. Se ne trova qualcuno solo tra gli Indipendenti, ma anche questi devono fare i conti con la distribuzione che può richiedere modifiche alla sceneggiatura se ritiene ad esempio che un certo finale possa pregiudicare gli incassi. E anche nel caso che l’Autore/Regista giri un’altra cosa, rispetto a quella prevista, si controlla il girato, il montaggio, si fanno anche proiezioni test, in modo che il Final Cut sia decisione condivisa (dai produttori), a prescindere dall’assenso del Regista. Lo sceneggiatore si trova, in questo caso, in uno scomodo ruolo di cerniera, perché non può più affidarsi esclusivamente al Regista, ma deve spesso mediare tra Regista e Produzione, e può ritrovarsi anche costretto a schierarsi dalla parte di chi lo paga, cioè la Produzione stessa. La cosa non riguarda soltanto i costi del film, ma la natura stessa del film. Ci si può trovare a lavorare con Registi Autori cui non è più consentito di esserlo fino in fondo e Autori così condizionati non possono più costituire un riferimento certo.
Oltretutto uno sceneggiatore , come si è detto, non ha alcuna garanzia che assecondando le scelte di un certo Regista Autore, potrà lavorare di nuovo con lui, mentre sa per certo che se accontenterà la Produzione, questa gli affiderà altre sceneggiature. In queste condizioni il lavoro diventa molto difficile e ci vogliono robuste convinzioni etiche per resistere alle pressioni. Un Regista Autore di lunga e onorata carriera mi ha recentemente detto: “Ormai sul set non ci si può più fidare di nessuno.”
Questo, va detto, vale anche per i Registi. Ci si può rendere conto che in certi casi tutt’altro che rari, il Regista/Autore è solo un marchio di facciata (in aggiunta ad altri) per un’operazione che non nasce da lui e che lui ha accettato solo per lavorare. Cioè che state collaborando (da sceneggiatori) a una Marchetta d’Autore. Il Regista in questione, si lamenta, resiste, cerca di portarvi dalla sua parte come complice artistico, ma in realtà anche per lui, il vero riferimento è la Produzione. Il nome illustre dell’Autore, copre il fatto che l’Autore del film non è una singola persona, anzi nel gran gioco delle influenze e dei controlli reciproci, non è nessuno. In questo caso, il lavoro dello sceneggiatore non può che concentrarsi su un aspetto limitato, ma importantissimo: scrivere una sceneggiatura che stia in piedi.
E non amareggiarsi se poi verrà sconciata. Può sempre capitare, del resto, che risulti ben realizzata e persino migliorata, per abilità e lungimiranza di qualcuno, per caso o per occasione. Non fatene mai una questione di vostra espressione artistica personale, perché non è mai stato, né mai sarà così per uno sceneggiatore. Se volete esprimervi personalmente scrivete un romanzo, e il pubblico leggerà quello che avete scritto e valuterà il vostro stile. Se lavorate per il Cinema, la vostra sarà sempre una scrittura di servizio (anche quando l’idea del film dovesse nascere da un vostro soggetto o da un vostro romanzo). Si tratta di capire “di servizio a chi”. Un Regista, un Attore di richiamo, persino un Produttore possono sostenere che il loro riferimento è il pubblico. Uno sceneggiatore no. Il pubblico non va a vedere un film perché lo ha scritto lo sceneggiatore X. Alla fine gli spettatori potranno anche dire: “bella sceneggiatura”, però non l’hanno letta, l’hanno dedotta dal film che hanno visto, e comunque sia, nessuno memorizzerà il vostro nome dai titoli di testa. Il fatto positivo, di questa clandestinità dello sceneggiatore, è che nessuno vi responsabilizzerà troppo se il film risulta una porcheria. Lavoro difficile, dunque, ma a rischio contenuto. Veniamo così al punto più delicato.
Come si lavora con un Regista Autore?
A) La migliore delle ipotesi.
State lavorando con un vero Regista Autore. Passate moltissimo tempo con lui, anche prima della fase di scrittura vera e propria. Esaminate tutti i problemi narrativi del film, con grande attenzione. Il Regista vi tiene informati anche di alcuni elementi essenziali della realizzazione: il budget previsto, gli attori che ha in mente, i temi che intende sottolineare, alcune scene cui tiene particolarmente, idee che vuole siano sviluppate, in certi casi vi chiede persino di accompagnarlo nella scelta delle location . Però, il Regista non vi indica quasi mai nel dettaglio cosa vuole. Più spesso ascolta i vostri suggerimenti e magari non si pronuncia in merito, vi sollecita ad escogitare altre soluzioni. Potete restare confusi, chiedervi cosa voglia davvero raccontare il Regista perché tra tante soluzioni possibili sembra quasi non ne abbia una sua da suggerire. Potete anche restare frustrati, perché magari siete sicuri d’aver ideato una bella scena, ma non trovate l’apprezzamento che vi sareste aspettati. La realtà è che il Regista sta in questa fase esplorando, sta cercando il suo film, e le opzioni che gli presentate lo aiutano nella ricerca. Inoltre, mentre uno sceneggiatore è portato a valutare la scena in sé e nella coerenza narrativa con l’insieme, il Regista/Autore cerca la scena , le situazioni, che gli consentano di esprimere il suo linguaggio, il suo stile. Se boccia o ignora certe soluzioni, non è perché le giudichi sbagliate in assoluto, ma relativamente al suo mondo espressivo e al suo modo di girare. Non vuole trovarsi a dover girare una scena che gli crei delle difficoltà, che non sente adatta alla sua “poetica” e ai suoi mezzi. Un Regista Autore non si concepisce tale in funzione della storia, ma al contrario cerca una storia e delle scene, che corrispondano al suo modo di raccontare, al suo talento e ai suoi limiti. Dunque non dovete mai sentirvi offesi se una soluzione che prospettate viene scartata nonostante funzioni sulla carta. Il punto è che deve funzionare sul set e dunque non ha alcun senso che cerchiate di convincere colui che la realizzerà ad approvare la vostra scelta e a riprodurre la scena come l’avete scritta. Non la farebbe bene. Deve invece sentirla sua. Nemmeno dovete offendervi se scoprite che nonostante l’apparente confidenza reciproca e l’approfondito lavoro svolto insieme, al contempo il Regista ha consultato o fatto lavorare altri sceneggiatori. E’normale che vi sentiate usati, ma è caratteristica di un Regista/Autore quella di usare tutti ai propri fini espressivi: dagli sceneggiatori agli attori. Quello che vuole, questo genere di Regista, spesso lo scopre la notte prima di girare, o sul set stesso, a volte persino nelle fasi finali di editing, al montaggio o al doppiaggio. Un Regista Autore opera nel concreto, in ogni istante della lavorazione.
Lo script è solo uno degli elementi della realizzazione del film e per molti Registi Autori non è neppure il più importante. Nella sua elaborazione teorica, ha in mente un film, ma il Regista sa bene che la sceneggiatura di questo film non è ancora il film.
Lo script deve dunque svilupparsi in relazione al film concreto. La realizzazione non deve essere succube della sceneggiatura, una mera esecuzione del copione. E’ invece la sceneggiatura che progettualmente deve servire a realizzare il film che il Regista Autore ha solo nella sua testa. Tutti i reparti devono lavorare al servizio della “messa in scena”, non al servizio del racconto in quanto tale. Non esiste un racconto giusto in sé, perché il Regista Autore cerca il racconto giusto per sé.
B) La peggiore delle ipotesi.
L’Autore Regista è solo un sedicente tale. Oppure è un Autore Regista in una fase poco felice della sua carriera, distratto da tutt’altri problemi. Trovata rapidamente un’intesa su quanto si deve raccontare, vi affida completamente la sceneggiatura, verificandola solo alla fine, chiedendovi magari qualche correzione o apportandole personalmente, ma fondamentalmente approvando le vostre scelte (soprattutto se trovano rispondenza nel Produttore). Potreste sentirvi anche lusingati da questa incondizionata approvazione, e più liberi di scrivere il film che volete. Ma il film verrà male, nel 90% dei casi. La stessa sudditanza che il regista ha mostrato rispetto alle vostre scelte, la mostrerà anche rispetto agli altri reparti, al direttore della fotografia, agli attori. Ciascuno, lasciato libero di fare quello che gli pare, interpreterà il film a modo suo. E il film non avrà alcuna unità espressiva, navigherà a vista. In questo caso non avrete altra scelta che scrivere nel modo che vi sembra più efficace
in sé, ma sapendo che potrà risultare tutt’altro che efficace a lavoro finito. Il Regista avrà magari coordinato i reparti, ma non li avrà guidati. E molto difficilmente capita che un film si realizzi da solo , in spontaneo equilibrio tra tutti i complessi elementi che lo compongono e tra tutte le diverse sensibilità delle persone che contribuiscono a realizzarlo. E’ aspirazione di alcuni registi (rarissimi) di scomparire nella propria opera (Oscar Wilde diceva che la massima ambizione per un artista di nome è quella di diventare Anonimo), ma questo effetto lo si scopre soltanto alla fine. Fellini ha scritto che vedendo in proiezione i suoi film migliori, gli pareva fossero diventati diversi e autonomi da come li aveva pensati, come se si fossero realizzati da soli. Ma questo significa solo che la sua guida costante e la sua natura e statura d’Autore gli consentivano persino di sfruttare la casualità, le alchimie proprie del lavoro di bottega, e di affrancarsi anche dalla propria consapevolezza per liberare l’inconscio.
Non significa affatto che avesse abbandonato il film a se stesso. Woody Allen, riprendendo con la consueta ironia l’opinione di Fellini ha osservato che anche a lui capita di vedere un suo film e di trovarlo totalmente diverso da come l’aveva pensato, ma solo perché non è stato capace di realizzare quello che aveva in testa, a differenza (si cura lui stesso di precisare) dai suoi registi mito come Fellini e Bergman. Tuttavia anche i suoi film, per quanto insoddisfacenti per le sue riposte ambizioni, conservano un potente marchio da Autore. E’ alla fine sin troppo ovvio dirlo, ma il Cinema d’Autore non si può fare senza un vero Autore, che sappia essere tale in ogni singolo momento della realizzazione del film, accollandosene l’intera responsabilità.
A volte un Regista può rivelarsi non all’altezza di questa sfida. Allora allo sceneggiatore capiterà di diventare il riferimento per tutti: dai produttori agli attori, tutti si rivolgeranno a lui perché i rispettivi desiderata vengano esauditi. Questo apparente affidamento di responsabilità è una trappola da cui lo sceneggiatore dovrà guardarsi.
Se non gli viene più chiesto di servire il Regista Autore, ma di servire chiunque abbia il potere di intervenire sul racconto, lo sceneggiatore si ritroverà a fare uno slalom tra esigenze diverse e contrapposte, non riuscendo ad accontentare pienamente nessuno e diventando alla fine il bersaglio di tutti. Non assumetevi mai responsabilità che non vi competono, né tanto meno il ruolo scomodissimo di regista ombra. Questo non vi aiuterebbe nemmeno a sentire il film più vostro. Senza un vero Regista Autore, un film d’Autore non esiste. E’ solo un film normale e come per un normale film, limitatevi a fare il vostro normale lavoro, che è quello di scrivere una storia che stia in piedi e che tenga in equilibrio i vari elementi che la compongono, incluse le esigenze produttive e quelle degli attori, ma senza pretendere di dirimere conflitti tra esigenze contrapposte. Il braccio di ferro lo facciano tra loro, non con voi. A uno sceneggiatore spesso ( soprattutto con gli attori che tendono a vedere un riferimento fondamentale nel testo) capita di fare lo psicanalista, ascoltando con pazienza i confusi sfoghi di tutti. Ma allora, comportatevi da analista: fateli sfogare, ma le conclusioni le devono trarre loro, non voi. Mantenete distacco e non lasciatevi condizionare da rapporti di presunta intimità o amicizia. In assenza di guida certa, concentratevi sull’efficacia della storia in sé. Siate voi la guida del vostro lavoro, prendendo distanza dalle pretese dei singoli. Solo questo distacco dalle parti in causa vi permetterà di venire davvero rispettato.
LEZIONE XXIX di Gianfranco Manfredi
Come si racconta il proprio tempo? Possono esserci diverse coniugazioni del “presente”: si può ricostruirlo su un arco temporale di anni, oppure in “presa diretta” cioè concentrandosi sul “qui ed ora” fino a farlo coincidere con il momento. Ci si può applicare a un problema, a un ambiente, a uno scenario attuali raccontandoli per linee generali o per vicende esemplari (autentiche o ricostruite) in cui chiunque possa riconoscersi e rispecchiarsi, ma si può anche raccontarli approfondendo in dettaglio usi, costumi, consuetudini, linguaggi di professioni, settori e ambienti sociali particolari, documentandone con estrema precisione la vita quotidiana, dentro e al di là della problematica generale e fuori da un’immediata riconoscibilità. Ad esempio: in Silkwood (1983) e in Sindrome Cinese (1979) , vediamo documentato l’ambiente di lavoro di una centrale nucleare, cioè qualcosa di talmente particolare da sfuggire alla nostra conoscenza diretta ed esperienza. Infine, ed è la via più praticata, si può ambientare un film nell’oggi, senza che la vicenda si occupi strettamente di attualità: un oggi riconoscibile, ma generico, che fa da cornice o da sfondo a una storia che avremmo anche potuto collocare in altro contesto temporale o geografico. Piccoli segnali (ad esempio l’uso o meno del telefono cellulare) restano legati al periodo, ma la dinamica della storia di per sé, il tipo di vicenda “eccezionale”, non tipicamente quotidiana, può continuare ad essere percepita come “ambientata nel presente” anche quando il presente del film è in realtà passato da qualche anno.
Dunque c’è da chiedersi: l’Attualità può essere considerato un genere a se stante? Parrebbe ovvio rispondere di no. Qualsiasi genere di storia (commedia, dramma, avventura, horror, love story…) può essere ambientata nel Presente. E può trattarsi anche di un Presente generico, imprecisato.
D’altro canto, la Narrativa di Attualità è anche un genere per certi versi a sé stante, nuovo e assolutamente moderno, che ha sviluppato nel tempo caratteristiche sempre più definite. Il teatro di Aristofane e di Plauto trattava sicuramente di temi e personaggi all’epoca attuali, però è estremamente difficile trovare nella narrativa antica ricostruzioni dettagliate degli ambienti sociali e in particolare degli ambienti di lavoro. Si dice che il tal personaggio è un servo oppure un nobile o un commerciante, e dunque vive, si comporta e parla di conseguenza, però si ritiene inutile raccontare in dettaglio la sua vita lavorativa quotidiana. Si raccontava il “ruolo sociale”, ma non i meccanismi intriseci di questo ruolo. Si descriveva l’esito (per esempio lo scudo prodotto da un artigiano), ma non la pratica materiale (il modo di forgiarlo). Si teneva anche in conto che di certi mestieri specifici il contenuto tecnico era spesso esoterico, cioè si tramandava all’interno del mestiere, ma lo si teneva segreto al mondo, guardandosi bene dal farlo diventare patrimonio collettivo. E’ soltanto a partire dal XVIII secolo, con l’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert , che il mondo delle arti e delle professioni diventa davvero protagonista, con descrizioni minuziose e puntali di tecniche, procedure, know how di settore o specialistici, diremmo oggi, allo scopo di diffonderne la conoscenza in tutto il corpo sociale. Ed è con l’inizio del giornalismo che la narrazione della società diventa anche indagine minuta delle sue singole componenti. I romanzi di Emile Zola, sulla vita dei Mercati Generali di Parigi, piuttosto che su quella dei minatori, delle prostitute, degli agenti di Borsa, sono altrettante ricognizioni d’inchiesta. Zola va a vedere gli ambienti che si propone di raccontare. Riempie quaderni e quaderni di appunti su come sono le case delle persone, i luoghi e i modi di lavoro, le abitudini di vita. E questo non costituisce puramente e semplicemente lo sfondo della vicenda, ne diventa anzi la sostanza. Gli scrittori moderni si propongono di essere, come aveva profetizzato Jean Jacques Rousseau nel XVIII secolo, degli “occhi viventi”, che scrutano la società nei suoi angoli più oscuri, la descrivono con cognizione di causa, e la raccontano insieme con la partecipazione di chi si appassiona al vissuto altrui e con il distacco dell’osservatore esterno.
Il cinema esalta, senza ombra di dubbio, questo lato sociologico della scrittura, fin dai tempi del cinema muto. King Vidor nel suo capolavoro del 1928 The Crowd (La Folla) rappresenta con straordinaria aderenza la vita quotidiana di una coppia, in un ambiente urbano e massificato di piccoli impiegati. Già la narrazione anticipa non solo il cinema neorealista, ma persino tecniche di recitazione così immedesimata (soprattutto se confrontata con l’enfatica teatralità della recitazione dell’epoca) da sostituire (come nella scuola dell’Actor’s Studio) l’essere al simulare.
I telefilm hanno ulteriormente approfondito questa ricognizione delle professioni, tre in particolare: avvocati, poliziotti e medici. Se confrontate le vecchie serie televisive a quelle nuove, per esempio Perry Mason con The Practice (Professione avvocati), Dragnet con C.S.I., il Dottor Kildare con Dr House, vi risulterà evidente come nel tempo sia cresciuto l’interesse riguardo agli aspetti più specialistici delle professioni, la precisione nella ricostruzione dell’ambiente di lavoro, del linguaggio tecnico e delle modalità operative. Nei libri gialli di Gardner (l’autore di Perry Mason) in realtà si dava grande spazio all’approfondimento delle procedure legali. Perry Mason non aveva soltanto fiuto, ma esibiva una capacità sorprendente di sfruttare qualsiasi cavillo, anche ai limiti della legalità. Nella versione televisiva, tutti i dettagli tecnici e le conoscenze specifiche del mestiere di avvocato venivano sacrificati, in quanto si riteneva che ciò avrebbe respinto uno spettatore a digiuno della materia. La stesso si può dire per il Dottor Kildare: era il suo atteggiamento umano ad essere posto in primo piano, evitando di inoltrarsi nel territorio (ritenuto ostico per il grande pubblico) delle diagnosi e delle prognosi, della descrizione delle cause e del decorso di una certa malattia, della discussione delle possibili terapie. Nel Dr House, le caratteristiche psicologiche del personaggio e il suo atteggiamento, non sono più separabili dalla sua competenza tecnica. Le storie stesse sono costruite sulla base di una casistica medica possibile, sull’indagine delle cure, sui meccanismi di funzionamento dell’ospedale come istituzione. Certo, in queste serie, gli sceneggiatori possono avvalersi di consulenti esperti in un campo particolare, ma non possono esimersi essi stessi dall’acquisire una conoscenza specifica. E’ più semplice far intervenire il consulente in seconda battuta (per verificare e correggere eventuali errori) piuttosto che scrivere fin dal principio sulla base di un suggerimento tecnicospecialistico.
Nel cinema, uno sceneggiatore si trova poi spesso a dover descrivere, nello stesso film, ambienti molto diversi tra loro, e di ciascuno deve acquisire una certa competenza. Prendete ad esempio Fast Food Nation di Richard Linklater (2006), definito un poco impropriamente docu-fiction, ma certamente molto realistico nella ricostruzione sia della vita di alcuni giovani precari, che degli operai dei macelli, o dei dirigenti delle grosse catene commerciali.
Anche se oggi il cinema d’interesse squisitamente sociale non ha più la stessa preminenza di venti e passa anni fa, la precisione nella rappresentazione della società è in compenso di molto cresciuta trasversalmente in tutti i film, di ogni genere, ambientati nel presente, anche in quelli che non presumono affatto di raccontare le contraddizioni sociali.
Se dunque pensate che la documentazione sia indispensabile nel cinema che narra il passato, mentre sia un mero optional se si narra il presente, commettete un enorme errore. Lo sceneggiatore deve sempre conoscere molto bene ciò che narra, non al punto di diventare uno specialista, ma certo deve diventare più esperto nella materia dello spettatore medio.
Non è affatto necessario essere gay per scrivere un film ambientato nella comunità gay, ma è essenziale che lo sceneggiatore questa comunità la conosca molto bene, ne capisca le problematiche, ne visiti gli ambienti, ne approfondisca i riti.
Nelle prime lezioni ho già sottolineato quanto sia importante nella costruzione del personaggio delineare un tracciato della sua vita quotidiana, anche se poi nella storia che raccontiamo, molti aspetti di questa vita verranno tralasciati. Lo specchietto suggerito da Stuart Kaminsky, nel suo manuale di sceneggiatura per la TV, è anche più dettagliato e preciso di quanto suggerito, in riferimento al cinema, nelle lezioni di Syd Field. Stuart Kaminsky non si limita alla costruzione di una giornata tipo del personaggio (dal risveglio alla notte), ma di un anno o addirittura di una vita-tipo del personaggio, includendo informazioni sulla sua famiglia d’origine, sulla sua infanzia, sui suoi studi, e ancora: sul suo dentista, sul suo medico curante, sui diversi professionisti, d’ogni campo, con cui entra o potrebbe entrare in contatto nel corso della storia.
Altrettanta attenzione dev’essere dedicata al “tema” che volete trattare. Sforzatevi di vederlo nel concreto, non in astratto. Non pensate mai di conoscere un argomento solo perché ne avete sentito parlare e vi siete formati un’opinione, un punto di vista, in merito. Non potete sostenere alcuna opinione senza conoscenza dell’ambiente, delle circostanze, dei luoghi, dei costumi delle diverse “tribù” di cui è composto l’insieme sociale. Che stiate lavorando a un film del filone cosiddetto “alla Vanzina” o che stiate scrivendo una storia di giovani delle periferie metropolitane tipo Fame chimica, dovete assolutamente conoscere di chi e di cosa state parlando, e farne esperienza diretta, non da tavolino.
Mentre in un film storico nessuno nota la poca aderenza all’epoca di certi comportamenti o di certi termini, in un film contemporaneo un’eccessiva disinvoltura e imprecisione nella descrizione della vita reale, e nella raffigurazione dei tipi sociali, dei loro vezzi linguistici, della loro esperienza professionale, balza immediatamente agli occhi. Certo se scrivete un episodio della serie Carabinieri, potete fregarvene tranquillamente di qualsiasi approfondimento documentario, perché la serie è costruita così, a prescindere da qualsiasi aderenza a un contesto realistico, ma casi come questo ormai sono rarissimi, sopravvivono per inerzia, si potrebbe dire, e si tratta di commediole che usano la polizia solo come riferimento di comodo e di maniera. Ma oggi non si può scrivere una police story degna di questo nome senza avere la più pallida idea di come sia realmente la vita di un poliziotto, sul posto di lavoro e nella quotidianità. I migliori scrittori di Gialli conoscono i poliziotti, ci parlano, ne studiano le indagini, esplorano le tecniche che mettono in atto e gli ostacoli che si trovano di fronte, considerano l’organizzazione degli uffici, le pratiche da sbrigare, la burocrazia cui fanno riferimento, si preoccupano anche di capire cosa fanno fuori dal lavoro, fino a che punto i loro comportamenti e i loro gusti siano “categoriali” oppure possano esprimere personalità soggettive, sorprendenti e persino stravaganti. E’ importante nella costruzione della figura di un detective identificare tanto la corrispondenza alla funzione e il suo “far parte di una categoria”, quanto ciò che dalla categoria (e dagli altri detective) lo distingue e lo contraddistingue. Ma se non conoscete i requisiti professionali, il comportamento tipico, gli usi e i costumi, il gergo stesso della categoria, non riuscirete a raffigurare bene ciò che rende il vostro protagonista unico e diverso. L’individuazione della specificità, nasce per differenza.
La stessa cosa vale per qualunque mestiere o occupazione. Se raccontate la storia di una cubista, dovete parlarci con le cubiste, sentire le loro storie, vedere le discoteche dove lavorano, capire da dove vengono, quale città, quale casa, quale ambiente. Una volta compreso chi sono “le cubiste” come categoria, poi vi sarà più facile creare il vostro personaggio inventato e dotato di una personalità esemplare della categoria, oppure particolare e distinta. Ma se per voi una cubista è solo una tipa che balla su un cubo, cui credete di poter far fare qualsiasi cosa sulla base delle mere esigenze della vostra storia, allora non darete vita a un personaggio, animerete una marionetta.
Oltre all’esperienza diretta, vi sarà anche molto utile approfondire la materia che intendete trattare leggendo inchieste giornalistiche, testi di riferimento usati nelle professioni, persino manuali aziendali o tecnici. Da queste letture non solo acquisterete maggiore dimestichezza con gli ambienti professionali che dovete raccontare, ma potrete anche trarre preziosi spunti per la vostra storia o anche solo per singole scene.
I film qui suggeriti (a partire da Silkwood) studiateli, per capire come l’ambiente e le condizioni di lavoro siano determinanti nella scrittura della vostra storia. Cercate sempre di farvi un’idea di una giornata di lavoro tipo del vostro protagonista e di come le svolte narrative possano diventare più concrete, efficaci, credibili, se messe in rapporto con l’ambiente sociale che state raccontando, invece che “a prescindere” dall’ambiente. In cinema è difficile poter prescindere dall’ambiente, perché l’ambiente è , che lo si voglia o no, parte dominante della rappresentazione.
L’ambiente fa narrazione. Non è mero contesto o scenario. E questo è tanto più vero, quanto più si racconta l’ambiente, gli ambienti, che ci circondano. Quelli del passato, possiamo ricostruirli. Quelli presenti dobbiamo rappresentarli. E per rappresentarli dobbiamo conoscerli e imparare a vederli come sono, non come supponiamo che siano o vorremmo che fossero.
LEZIONE XXVII di Gianfranco Manfredi
Abbiamo visto nella precedente lezione quanto sia importante, in un film storico, chiarire il punto di vista da cui si guarda agli eventi del passato. Qui metteremo a confronto due diversi punti di vista da cui si può considerare il passato recente: la memoria e la nostalgia. Ci sono due film che possono chiarire perfettamente, nel confronto, la differenza. Il primo è The Last Picture Show (L’Ultimo Spettacolo) di Peter Bogdanovich (1971) tratto dall’omonimo romanzo di Larry McMurtry , sceneggiatura dello stesso McMurtry. Il secondo è American Graffiti (1973) di George Lucas, sceneggiatura di Lucas e di Gloria Katz. Mettetevi però da parte anche I Vitelloni (1953) di Federico Fellini per un confronto successivo.
Il film di Bodganovich è ambientato nel 1951 in un paesino del Texas. Due amici, Sonny e Duane, usciti dall’adolescenza e in pieno passaggio all’età adulta, trascorrono le loro giornate tra cinema, pallacanestro e ragazze. Il problema che li angustia è: andarsene o no dalla grigia vita della provincia?
Il film di Lucas racconta i primissimi anni 60. Ci troviamo anche qui in provincia, e i due protagonisti stanno per lasciare la città per il college. Il loro problema è lo stesso: andarsene o restare?
Come si vede, il soggetto di per sé è identico,anche i personaggi dei due film si somigliano. Lo sviluppo non potrebbe essere più diverso. Il primo è un film di memoria, il secondo un film di nostalgia.
a) Memoria
Il film di Bodganovich è una ricostruzione d’ambiente estremamente realistica, tutto pare così vero (anche grazie alla rigorosa scelta del bianco e nero) da sembrare anche lontano e distante. Non è lontana da noi la problematica dei due amici, e neppure lo sono i loro contraddittori e contrastati sentimenti, ma è lontano e perduto il contesto e l’ambiente che li circonda: un mondo di provincia che sta finendo e questa fine è simboleggiata dalla chiusura del cinema locale , vissuta come la fine dei sogni a contatto con la cruda e melanconica realtà. C’è ben poco da rimpiangere, se non la giovinezza perduta. C’è invece molto da ricordare come sono da ricordare tutte le cose che tramontano e muoiono.
b) Nostalgia
Il film di Lucas non ricostruisce affatto il clima d’epoca, ma lo trasfigura. Il passato non viene visto come qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle senza troppi rimpianti, ma al contrario come una sorta di età dell’oro o di stagione felice in cui tutto ci sembrava a portata di mano e che purtroppo non c’è più perché non siamo più giovani, ma che può farci sentire, attraverso la nostalgia, ancora giovani. Guardatevi bene la splendida sequenza della coda di auto scoperte che percorrono avanti e indietro la Main Street. Il rito è lo stesso dello struscio sulla strada principale, solo che i ragazzi non sono più a piedi, ma in auto. Non si rompono a stare in coda, anzi si esaltano perché il possesso di un’automobile è per loro una nuova opportunità di libertà. Lucas coglie perfettamente il sentimento e il sogno (anche illusorio) dell’epoca, ma nulla è più irrealistico di quella scena. Se guardate qualche documentario o qualche film povero girato negli stessi anni in cui Lucas ambienta il suo film, potrete facilmente notare che persino in una grande città come Los Angeles tra il transito di un’automobile e di un'altra passano diversi minuti. Non è vero che tutti, tanto meno i ragazzi, tanto meno in provincia, possedessero un’automobile, sognavano solo di possederla e Lucas questo mette in scena: il loro sogno, non la loro realtà. La nostalgia abbellisce il passato e così facendo celebra i sogni e le illusioni giovanili, a conforto e consolazione di chi giovane non è più e stimolando in chi è giovane il Revival che è una sorta di messa in scena festosa del passato, come in un carnevale, dove il travestimento (i costumi, le pettinature, gli oggetti) diventa il vero protagonista.
Si possono incrociare i due punti di vista? I Vitelloni di Fellini, capolavoro sicuramente visto sia da Bogdanovich che da Lucas, in qualche modo lo fa. E’ da un lato molto più vicino al film di Bodganovich per realismo e perché non risparmia amarezze. Tuttavia il film è già percorso da quella vena onirica che poi Fellini sprigionerà in Amarcord (1973). Guardate l’ambiente della bottega dell’antiquario, guardate soprattutto la scena della festa in maschera. Qui si può dire che il cinema spettacolare faccia il suo ingresso, indulgendo a un gusto del grandioso, del totalmente ricostruito, dell’abbellito. Fellini come tutti i Maestri, mescola generi e stili, unifica con sorprendente coerenza punti di vista opposti e con un solo film semina indicazioni per altri possibili e ben distinti film. Tuttavia agli sceneggiatori normalmente non capita di trovarsi di fronte a un regista come Fellini. Lo sceneggiatore è chiamato a un’indispensabile coerenza di racconto. Ci deve essere alla base un accordo molto chiaro sul punto di vista, altrimenti si scrive un film che non sta in piedi. Dunque preoccupatevi di capire molto bene quale sia il punto di vista del regista: se lui intenda fare un film di memoria o un film nostalgico e chiarite anche il vostro modo di vedere il passato. Come ricordate ciò che ricordate? Con il distacco, magari anche malinconico, di chi racconta un mondo perduto per sempre, oppure con il rimpianto per un’epoca che vi ha fatto sentire felici e che ancora vi rende felici per averla vissuta? Nel primo caso dovrete scrivere una sceneggiatura estremamente precisa ed accurata nel descrivere situazioni, ambienti, oggetti, sforzandovi il più possibile di non selezionare solo quello che vi piaceva, ma anzi sottolineando anche quello che vi disturbava. Nel secondo caso dovrete celebrare lo spirito dell’epoca, farne occasione di sfarzo rappresentativo e spunto per un racconto iperbolico, in altre parole raccontare non la vita reale, ma l’utopia (il non-luogo) dell’epoca in modo da renderla attraente anche per chi non l’ha vissuta. Negli ultimi anni in Italia si sono prodotti parecchi film sugli anni 70. Non avrete difficoltà a procurarvene qualcuno. Chiedetevi vedendoli, se e quanto è chiara in questi film la scelta iniziale del punto di vista e se questa scelta è stata poi perseguita e realizzata con coerenza. Quasi sempre i difetti di un film nascono da un’incertezza di punto di vista, da un mescolamento che non è frutto di una scelta consapevole come nei Vitelloni, ma del semplice fatto che non si è deciso bene cosa e soprattutto come raccontare quel passato recente, cioè da una mancanza di consapevolezza narrativa.
Se avete vissuto quegli anni e non riuscite a ritrovarli nel film che vedete, vuol dire che quel film è sbagliato, punto e basta. Se non avete vissuto quegli anni , non è consigliabile da sceneggiatore prestarvi a ricostruirli. E’ ovvio che se si racconta il 700 è impossibile fare ricorso all’esperienza vissuta , ma se si racconta una storia di venti o trent’anni fa bisogna tenere in conto che una larga parte del pubblico sa bene di cosa state parlando. In linea di massima, qualunque sia l’argomento che uno sceneggiatore sta trattando dovrebbe in teoria conoscerlo meglio e più approfonditamente del pubblico (di questo parlerò meglio nella prossima lezione che verterà sul Film Attuale, cioè quello che racconta la realtà contemporanea). Nel caso della storia recente, che ha a che fare con il vissuto di persone ancora in vita, non basta ricorrere alla documentazione d’epoca: la memoria personale è indispensabile.
Si tratta di decidere se narrare dei ricordi o delle nostalgie. In entrambi i casi non si tratta di scegliere tra ragione e sentimento, tra freddezza e calore, e neppure tra distacco e coinvolgimento, ma tra storia e mito, tra cronaca e leggenda. E’ evidente che mescolare le due cose è un’impresa affascinante, che può davvero dar luogo a una narrazione a tutto tondo, ma questo può essere fatto solo se sappiamo molto bene quali diversi punti di vista stiamo incrociando, e come amalgamarli, altrimenti il rischio del pasticcio è dietro l’angolo. E nel caso di film che parlino di pagine di storia recente, ciò che al pubblico pare irriconoscibile non può neppure risultare espressivo.
LEZIONE XXVI di Gianfranco Manfredi
Le due forme di Love Story che tratteremo in questa lezione sono la Commedia Sentimentale e il Dramma Amoroso. Porre al centro del racconto l’Amore comporta conseguenze simili a quelle esaminate nella precedente lezione riguardo al Sesso.
Anche se una storia amore può essere un ingrediente aggiuntivo in qualsiasi genere di film, il Film d’Amore è un genere a sé, in quanto il tema tende a fagocitare ogni altro contenuto narrativo e ad occupare in modo esclusivo il centro del racconto. Questo non significa affatto che in forza di questa esclusività il racconto si neghi ad altre tematiche. Abbiamo già visto nel caso del Cinema Erotico che quando una tematica diventa esclusiva, al punto da risolversi in una sorta di interpretazione generale della vita e del mondo, il racconto assume il senso di una metafora complessiva. In altre parole, esprime un punto di vista specifico dal quale però si guarda all’insieme dell’esperienza umana e del vissuto individuale e collettivo, fino ad assurgere al ruolo di filosofia, cioè di concezione complessiva del mondo.
a) La Commedia Sentimentale
Abbiamo già implicitamente parlato di questo filone cinematografico considerando film come Io e Annie o come Il Laureato. Abbiamo però anche visto che il tema di questo secondo film (che pure coinvolge turbamenti sessuali e sentimentali) è in realtà un altro e cioè quello del passaggio all’età adulta e all’inserimento in un ruolo sociale, momento delicatissimo in cui un giovane avverte un senso di profonda estraneità rispetto al mondo che lo circonda, ai suoi riti, alle sue convezioni, non stabilite da lui, ma antecedenti: mentre da adolescente poteva ancora usufruire di una sorta di zona franca, ora si trova a dover scegliere tra inserirsi, integrandosi e omologandosi, oppure ribellarsi nel tentativo di mantenere o di ricrearsi uno spazio a propria misura. Difficilmente dunque questo film può venire considerato una commedia sentimentale, perché esso in realtà è un esempio smagliante di commedia sociale, dove l’esperienza amorosa non viene affatto vista come esclusiva, anzi viene inclusa in un contesto (insieme emozionale e sociale) che la inghiotte. Viceversa nella commedia sentimentale classica i riferimenti sociali sono periferici rispetto al racconto. Se confrontate Io e Annie al successivo Harry ti presento Sally (di Rob Reiner,1989) vedrete facilmente che la struttura narrativa non cambia. I momenti che scandiscono i diversi passaggi della storia sono questi:
1. presentazione dei protagonisti;
2. incontro e innamoramento;
3. momenti felici vissuti insieme e insorgere delle prime difficoltà e incomprensioni;
4. declino e fine della storia d’amore che lascia però in entrambi i personaggi una grande nostalgia degli irripetibili “magic moments” vissuti insieme.
Il senso “filosofico” della narrazione è che anche se i due dovessero in futuro rimettersi insieme, nulla potrà restituire loro la magia del primo incontro e dei momenti di giocosa complicità vissuti insieme. In altre parole il concetto che si ha dell’amore è tipicamente da single: si parte soli e si torna soli (molto di rado in questo genere di storie sono coinvolti dei figli), l’amore è una parentesi di armonia e di comunione destinata a restare parentesi e per quanto ricercata di nuovo, irripetibile, se non nella memoria (“Memories are made of this”).
Abbiamo citato due canzoni sentimentali (Magic Moments e Memories are made of this) non a caso: la commedia sentimentale occupa un territorio espressivo molto vicino a quello delle canzoni. Non certo di canzoni come Delilah (ad esempio) che raccontano crudi drammi d’amore, cioè il lato più folle e passionale, violento e persino omicida di una storia di coppia, ma di quelle, e molto più diffuse, canzoni che cantano dei primi palpiti, di quando una coppia di innamorati si sente il centro del mondo, anzi unica al mondo e trova tutto meraviglioso anche e soprattutto i piccoli dettagli, i singoli momenti. Quando interviene la separazione, i veri motivi restano per entrambi inspiegabili e l’uno o l’altra continuano ossessivamente a proiettare il proprio fragile, ma intenso passato nel futuro (E lontano , lontano nel tempo l’espressione sul volto di un altro, ti farà ricordare il mio volto, l’aria triste che tu amavi tanto… di un amore ormai troppo lontano).
Quali momenti rendono indimenticabile questa esperienza sentimentale di coppia ? Non necessariamente il sesso, anzi si può dire che nel rapporto il sesso ha un ruolo infinitamente minore rispetto all’incontro tra i caratteri, le inclinazioni, i gusti delle due persone, cioè le”affinità elettive”, quel tessuto di interessi e curiosità condivise che fanno sentire le due metà complementari. La scena più esemplare, meglio riuscita e più famosa di Harry ti presento Sally è quella in cui Sally mima in una tavola calda un finto orgasmo incurante di diventare il centro dell’attenzione. Questo la dice lunga: il sesso viene irriso (cosa che in un film erotico non accadrebbe mai), preso in giro, considerato, al fondo, insincero. Qual è il fascino di Sally in questa scena? Il suo essere trasparente, anticonvenzionale non per intenzione, né per provocazione, ma per condizione. E’ candida, ma questo suo candore non è affatto ingenuo, esprime intelligenza attraverso l’ironia. Similmente i rapporti sessuali di Woody Allen sono buffi: a letto, con la sua compagna di turno, gioca, scherza, si prende in giro, la fa ridere, discute con lei di tutti gli argomenti possibili, anche serissimi, pure con l’aria di non prendere nulla sul serio. Si celebra una leggerezza che si sforza di non apparire mai superficiale, ma espressione giocosa del proprio sentire comunicato e condiviso.
In un film erotico, a letto non si scherza, si scopa e con religiosa devozione. Anche quando (come in certi film di Tinto Brass) il sesso viene visto come espressione di gioia di vivere, il modo plastico di rappresentarlo, la cornice esteticamente curata al millesimo, i costumi, l’arredo, tutto assume un che di celebrativo e di cerimoniale (persino funebre). Nella commedia sentimentale, non sono i corpi, ma i caratteri ad occupare il centro della scena. In Io e Annie la scena simbolo è quella della coda al cinema: la coppia cerca un’intesa di gusto e rivela in questo la propria unicità e il proprio anticonformismo. Tutte le persone sono in coda per vedere lo stesso film e dunque di per sé dovrebbero rappresentare una comunità sociale fondata su un gusto condiviso, ma Woody Allen , irritato per i saccenti commenti di qualcuno in attesa di fronte a lui a proposito delle teorie mass-mediatiche di Marshall McLuhan , esce dalla coda, scova magicamente lo stesso McLuhan nell’atrio e ne ottiene il consenso (rafforzando così la propria empatia con Annie ). Di nuovo: noi due non siamo uguali agli altri. E’ questo che la coppia si dice e si dimostra. Noi siamo unici e siamo sinceri. E nessuno di noi potrebbe esibire così sfrontatamente la propria sincerità, se non fossimo insieme, l’uno in presenza dell’altra ed entrambi distinti dal mondo. E’ questo a renderci, prima e più che amanti, complici. Allo stesso tempo i due individui che formano la coppia sono (devono essere) assolutamente comuni, tali da poter suscitare l’immediata identificazione di tutte le coppie che hanno vissuto la stessa esperienza emotiva. L’interprete di una canzone sentimentale, pur facendo mostra di essere autobiografico, non racconta affatto la propria storia, ma la storia di tutti gli innamorati, l’esperienza più comune e prestabilita possibile. Nel modo in cui la racconta si sforza di non scadere nella banalità, ma quello che racconta è una consuetudine, non un’eccezione. Quando scrivete un film sentimentale non dovete raccontare una strana storia di coppia, ma la solita storia di coppia. Non la storia di una coppia eccezionale, ma la storia di una coppia come tante. Il punto è che dovete però rappresentarla come unica e irripetibile perché è proprio così che ogni singola coppia la concepisce. Hanno dunque grande importanza, molto più del disegno generale e di struttura, che non può che restare prevedibile, i singoli momenti esemplari. E’ importante che facciate ricorso alla vostra esperienza biografica e a quella delle persone, degli innamorati, che avete riconosciuto. Cosa ricordate? Quali sono i momenti in cui vi siete sentiti più uniti con il vostro partner? Ricostruite quelle situazioni. Potenziatele (cosa che del resto fa già di per sé la memoria) in modo che sprigionino la massima carica espressiva. E fate della vostra biografia la biografia di tutti. Per ottenere questo fine dovete essere leggeri e divertenti, perché una coppia
unita deve essere felice e la sua felicità risultare contagiosa nei confronti del pubblico. Lo stesso vale, quando raccontate la separazione, per l’esperienza del dolore, che deve mantenersi su un registro di rimpianto e di melanconia, senza lacrime eccessive, sfoghi inconsulti, minacce. Ci si lascia da amici come da amici ci si è incontrati. E se è finita è perché doveva inevitabilmente finire, come la primavera, non per colpa di uno dei due. La coppia non ha trovato ostacoli sul suo cammino: i due si sono conosciuti per caso o perché degli amici comuni li hanno fatti incontrare a bella posta. Dunque gli ostacoli che hanno incontrato non erano esterni, sono nati all’interno del loro rapporto, e neppure erano tali da essere invalicabili: è semplicemente nella pura dinamica dei rapporti che i “magic moments” si volatilizzino in fretta, proprio come in fretta passa una canzone.
Come nella commedia classica, il coro, l’insieme sociale, ha un ruolo, ma in questo caso si tratta di un puro ruolo di commento e di contorno. La Commedia sentimentale non si conclude con una rivelazione/smascheramento di fronte a tutti, tale da favorire un mutamento degli usi e costumi sociali. Né comporta furbizie e travestimenti, perché anzi si fonda sulla trasparenza più assoluta e sulla sincerità reciproca dei protagonisti. E infine, la storia è commedia di tutti in quanto resta vicenda privata e non determina nessun cambiamento collettivo perché rappresenta una dinamica sentimentale “evergreen” ed immutabile, che si replica identica in ogni contesto e per ogni generazione. Le interpreti femminili di questi film, da Doris Day a Meg Ryan, sono state ritualmente elette “fidanzate d’America” e sono ragazze della porta accanto, non bombe sessuali, sono briose, indipendenti e determinate, spesso anche portatrici di abitudini e comportamenti non conformisti, ma mai tali da minacciare e neppure incrinare minimamente l’ordine sociale, possono avere opinioni politiche, ma non le agiteranno mai come bandiera, possono essere colte, ma non per questo disposte a modellare la propria vita su un ideale o uno scopo irrinunciabile, al punto da sacrificargli se stesse. Suscitano simpatia, non soggezione. Non ambiscono a rappresentare un Esempio, né a entrare nella Storia, sono un esempio e vivono una storia con le lettere minuscole.
Il che non significa affatto che questo genere di cinema si consideri irrilevante, anzi la sua filosofia è che le esperienze davvero importanti della nostra vita sono i sentimenti vissuti nei gioiosi quanto fuggevoli momenti di consonanza di coppia, considerati ben più significativi e memorabili sia rispetto ai Grandi Valori (come il lavoro, la famiglia, le istituzioni, le battaglie civili, i conflitti sociali e ideologici, la ricerca scientifica e artistica, la devozione religiosa, la libertà sessuale, il gusto dell’avventura e chi più ne ha più ne metta), sia rispetto ai Grandi Disvalori (come il crimine, il delitto, la guerra, il potere assoluto, l’asocialità, la follia). Deve essere reso evidente, grazie all’uso dell’ironia, che stiamo parlando del Piccolo, altrimenti ci si consegna alla banalità e alla pura scempiaggine, ma deve anche risultare chiaro che per noi Piccolo è Bello. Per scrivere un film sentimentale, ma non per questo superficiale, dovete recuperare (se non l’avete già) una buona dose di leggerezza, tornando a sfogliare le pagine rosa del vostro vissuto.
b) Il Dramma Amoroso
Il regista Lars Von Trier ha giustamente osservato che c’è un radicato pregiudizio intellettuale nei confronti del genere Melodrammatico spesso definito “drammone strappalacrime” e che di questo pregiudizio non se ne comprende davvero il motivo. Certo l’accumulo di disgrazie che segna le sceneggiature di questi film può spesso far apparire troppo prestabilite e calate dall’alto le svolte narrative, fitte di eventi che piombano come macigni sulle teste dei protagonisti, eppure le origini di questo genere stanno nel più classico dei generi classici, la Tragedia, che se non altro per il tono elevato dovrebbe compiacere il pubblico più colto. Inoltre, nella storia del cinema, questo genere è stato spesso esplorato da grandi e indiscussi maestri e ha beneficiato di un indiscutibile consenso di pubblico, facendo anche messe di premi ufficiali ben più di quanto non sia avvenuto per il genere commedia (inclusa la commedia sentimentale). Una breve rassegna di alcuni plot ci aiuterà a comprenderne le caratteristiche. Ovviamente vi invito a vederli, questi film, uno per uno, perché al di là del plot, la loro struttura narrativa è ben più ricca e varia di quella della Commedia Sentimentale e non si presta ad essere cristallizzata in uno schema fisso.
In realtà questo genere di film lascia molta più libertà allo sceneggiatore di quanto non avvenga normalmente per il cinema di genere.
1. La Regina Cristina (1933) di Rouben Mamoulian, con Greta Garbo
La Regina Cristina di Svezia non vuole piegarsi a un matrimonio politico. Travestita da uomo, durante una missione segreta, incontra l’ambasciatore spagnolo e se ne innamora, subito ricambiata quando l’ambasciatore ne scopre la vera identità sessuale. Solo in un secondo momento però e con grande sbigottimento, ne scopre l’identità sociale e cioè che la sua amata è la Regina di Svezia. L’amore tra una donna che rappresenta il Regno di Svezia e un ambasciatore straniero, non può che far scandalo. Cristina abdica per amore, ma il suo amato resta ucciso in un duello. Cristina, rimasta sola, prende la via dell’esilio.
2. Camille (Margherita Gautier, 1937) di George Cukor , con Greta Garbo
Una cortigiana cinica e sfrontata si lascia travolgere dall’amore per un giovane di buona famiglia e diventa fragile e devota, al punto da sacrificarsi per lui.
3. Via col Vento (1939) di Victor Fleming
Scarlett, una donna seducente e manipolatrice, si innamora di un avventuriero, alla vigilia della Guerra Civile. Fiera e combattiva, cerca di resistere all’amore e a non farsene dominare, ma ne affronta con coraggio tutte le difficoltà, accentuate dalla drammaticità del momento storico. La vicenda è punteggiata da una lunga serie di lutti famigliari, causati dalla guerra, dalla malattia e da incidenti occasionali. Rivalità amorosa, matrimonio, divorzio, aborto autoprocurato, perdita dolorosissima e crudele di una bambina in un incidente di equitazione, nulla le viene risparmiato. Ma ogni scacco, persino l’abbandono finale da parte dell’uomo amato, è per Scarlett occasione di orgoglioso riscatto.
4. Senso (1954) di Luchino Visconti.
La contessa Livia, ardente patriota, ma sposata con un collaborazionista, per salvare un cugino incontra Franz, un tenente austriaco. Non riesce a risparmiare l’esilio a suo cugino, ma si innamora perdutamente dell’ufficiale e diventa la sua amante, incurante dello scandalo e pronta persino a tradire la sua causa politica: infatti consegna al tenente, che vuole farsi esonerare dal servizio corrompendo un medico, i fondi destinati a sovvenzionare l’insurrezione. Lui ne approfitta e scompare. Ritrovatolo in compagnia di un’altra donna, Livia lo denuncia alle autorità. Franz viene fucilato e Livia perde la ragione.
5. Love Story (1970) di Arthur Hiller.
Oliver è ricco, Jennifer è povera. Quando decidono di sposarsi, il padre di lui minaccia di diseredarlo. Gli anni passano, la giovane coppia cerca di avere un bambino, ma lei scopre di non poterne avere. Non solo: gli esami medici rivelano che è malata di leucemia e che non le resta molto da vivere.
6. Anonimo Veneziano (1970) di Enrico Maria Salerno
A Venezia, un musicista del Teatro La Fenice è affetto da un tumore maligno. Incontra per caso la sua ex moglie che nel frattempo si è messa con un altro. Lei scopre di amarlo ancora, pur consapevole che il procedere della malattia non lascia alcun avvenire alla loro storia.
7. Le onde del destino (1996) di Lars von Trier.
Una ex suora si sposa, cedendo a una passione travolgente. Lui resta paralitico dopo un incidente sul lavoro. Come suprema prova d’amore, lei accetta suo malgrado di avere rapporti sessuali con altri uomini, consentendo così al marito di provare emozioni e rinnovata voglia di vivere. La coppia suscita scandalo nel piccolo paesino scozzese dove abita. E tanto sacrificio, per la ex suora, non trova altra ricompensa che il sacrificio stesso.
I protagonisti di questo genere di film sono, nel bene e nel male, individui eccezionali ed eccessivi, fuori da ogni norma e consuetudine sociale. La cornice di questi film, spesso in costume, in scenari sontuosi o in paesaggi evocativi, con una fotografia curatissima, ne accentua lo stile “elevato”, come nella Tragedia classica. Ostacoli di ogni genere segnano la vicenda amorosa: barriere di classe, convenzioni sociali, conflitti politici, malattie, lutti. Sovente non è soltanto uno di questi ostacoli a segnare la vicenda, ma tutti quanti. Non è un singolo e fuggevole momento che si racconta, ma una vita intera. L’amore è vissuto come un’esperienza travolgente, passionale, totalizzante e disperata, perché mai conduce a un finale lieto e rasserenante. L’Amore si oppone a tutto, ma è insieme metafora del Tutto, perché si lascia attraversare dalle stesse contraddizioni dell’ordine sociale cui si oppone: l’Amore è un duro cammino attraverso le incomprensioni, è una guerra, è appagamento di sé che si rovescia in sacrificio per l’altro o dell’altro, è ingiusto, inspiegabile , è tanto più grande, quanto più impossibile. L’Amore è la materializzazione del Fato, che travolge le scelte razionali ed emotive dei singoli.
Non si può fare altro che cedergli. L’Amore è esaltante, riempie il nostro essere e accresce la nostra vitalità, ma accettarlo fino in fondo significa accettare la morte, e questa è l’impresa più difficile che debba affrontare un essere umano.
Il personaggio femminile, in questi film, ha la stessa centralità che nel cinema erotico, però mentre nel cinema erotico la donna è vincente, qui risulta invece vittima, persino di se stessa. Sotto sotto, il cinema ci dice (falso o vero che sia questo radicato luogo comune) che se una donna si limita al letto, trova il suo vero potere, se invece si consegna all’Utopia di un Amore Assoluto, tanto carnale quanto ideale, incontra un’inevitabile sconfitta. Dagli esempi sopra proposti si vede però facilmente che se il facile happy end è sempre escluso da un Dramma Amoroso, le soluzioni narrative possono essere tuttavia molto diverse: se Camille accetta di farsi da parte e morire per il bene del suo amato, Livia distrugge sia l’altro che se stessa, mentre Scarlett comprende che il suo orgoglio e il suo ruolo di proprietaria terriera sono più importanti del suo amore sconfitto, e si rivela in ciò la prima eroina davvero moderna.
Al contrario che nella commedia sentimentale, i due protagonisti, lui e lei, non sono affatto complementari. Non sono le due metà della stessa mela, ma sono metà di frutti diversi e non compatibili. In quanto opposti inconciliabili essi rappresentano la vita, intesa come appassionante incontro/scontro di opposti, irriducibili l’uno all’altro,cioè come un cammino segnato da profonde e insanabili contraddizioni: il contrasto tra il maschile e il femminile, tra l’individuo e la comunità sociale, tra ricchi e poveri, tra razze e popoli diversi, tra ragione e passione, tra salute e malattia, e infine tra la Vita stessa e la Morte. In questo genere di film noi non raccontiamo l’armonia, ma il conflitto. Non è un caso se sovente la cornice di queste storie è la guerra. Questi film sono la messa in scena del motto popolare che recita: “In guerra e in amore tutto è lecito.” Una liceità amorale, cioè ben al di là delle consuetudini sociali e del comune senso del pudore, perché qui l’impudicizia non è limitata all’atto sessuale, ma supera qualsiasi pudore, inclusi i pudori intellettuali (sarà forse per questo che certi intellettuali non sopportano questi film) ed è pagata sempre a caro prezzo, perché il prezzo della vita è la morte.
Quando scrivete questo genere di film, dovete uscire dalla vostra biografia. Se proprio sentite il bisogno di un aggancio con la vostra esperienza, dovete immaginarvi cosa sarebbe accaduto se quella volta aveste ceduto alla divorante passione per quell’altra persona così totalmente diversa da voi. A quali sublimi esperienze emotive e a quali inevitabili disastri sareste andati incontro? Non sono le vostre vere esperienze che dovete mettere in campo, ma i fantasmi, i desideri e le paure che vi hanno suscitato le esperienze ipotetiche. Dovete immaginarvi cosa sarebbe successo se a quei fantasmi, a quei desideri e a quelle paure aveste ceduto, lasciandovi rapire dal flusso delle onde. I vostri personaggi non saranno persone comuni, ma proiezioni delle aspirazioni più nascoste e incontrollabili, dunque necessariamente grandiose nel loro manifestarsi. E se proiettate tutto ciò su uno scenario altrettanto grandioso, storico o geografico, tutto verrà ancor più dilatato e finirà per rapire lo spettatore così come vengono rapiti i protagonisti della vostra storia. Non siamo insomma nel territorio del “piccolo è bello”, ma del kolossal. Qui, ogni eccesso è non solo consentito, ma obbligatorio.
LEZIONE XXI di Gianfranco Manfredi
A) LA SERIE COLOMBO
La serie Televisiva del Tenente Colombo, creata da William Link e Richard Levinson, pare capovolgere le regole del Giallo Tradizionale. Non si tratta affatto di un whodunnit perché l’assassino lo conosciamo fin dal principio e conosciamo anche nei dettagli come ha concepito il delitto, come lo ha eseguito, come si è procurato un alibi e quali falsi indizi ha seminato. Colombo inoltre non individua l’assassino tra molti indiziati, ma con fiuto prodigioso, fin dal principio individua l’assassino e ingaggia una sfida con lui. La storia di ogni singolo episodio è appunto la storia di questa sfida. L’assassino mette in campo tutta la sua professionalità, non quella di tipo criminale, perché non è affatto un killer professionista, ma quella caratteristica del suo tipo di lavoro: può essere un esperto di effetti speciali, un direttore d’orchestra, un cantante… ma sempre uccide usando tecniche, tecnologie, sfruttando occasioni a lui famigliari perché le ha apprese dalla sua esperienza di lavoro.
Colombo ignora queste tecniche e le studia al precipuo scopo di individuarne il possibile uso criminale. La gara tra assassino e detective è sempre molto cavalleresca, solo in un’esigua minoranza di casi l’assassino tenta di uccidere il Tenente. Non ci sono, nella serie, sparatorie e inseguimenti . Gli stessi delitti sono straordinariamente puliti, ben diversi insomma da quelli cruenti e morbosi di serie TV contemporanee come CSI. All’apparenza Colombo usa un modulo più tipico del Nero che del Giallo (tutto è chiaro, viviamo i fatti in presa diretta, la nostra curiosità è :come riuscirà Colombo a smascherare l’autore di un delitto così perfetto, ma insieme ci appassioniamo anche alla figura dell’assassino che ricorre a qualsiasi astuzia pur di cercare di cavarsela ), eppure la signorilità estrema, direi persino l’eleganza dei crimini ha di certo un legame più stretto con il classico giallo anglosassone piuttosto che con l’hard boiled o con il poliziesco d’azione americani.
Il format pare anch’esso smentire le regole classiche (tanto più quelle definite da Syd Field): Colombo entra nella vicenda generalmente dopo quindici minuti, il che per episodi della durata di un’ora, dunque molto inferiore a quella di un film, costituisce una singolare eccezione. Pur essendo il protagonista indiscusso, la sua vita privata resta avvolta nel mistero ( è sposato e parla spesso di sua moglie, che però ci resta sempre invisibile e sconosciuta). Colombo ci diventa famigliare perché lo vediamo agire sempre allo stesso modo, non perché lo conosciamo in tutti i risvolti. Colombo è una tipica maschera da commedia: non vediamo mai il suo volto sotto la maschera, il suo volto coincide con la sua maschera.
L’ Eccezione Colombo conferma la regola, perché mette a nudo i meccanismi più tipici del giallo classico. Per un aspirante sceneggiatore è una perfetta dimostrazione di come si costruisce un plot giallo. Alla base del plot, come si è visto nella precedente lezione, c’è un delitto perfetto che però all’indagine dell’investigatore si rivela tutt’altro che perfetto. Dunque: come fa uno sceneggiatore a fissare le caratteristiche del delitto, come fa a rendere compatibili la Perfezione e l’ Errore?
La debolezza fondamentale del delitto perfetto è che dev’essere fatto in fretta. Questo ci insegna la serie Colombo. Non basta odiare una persona per ucciderla. Si decide di ucciderla in un determinato momento, perché è necessario, indispensabile e improcrastinabile per l’assassino uccidere subito. L’odio e/o la rivalità tra il carnefice e la vittima, probabilmente sono cresciute nel corso degli anni, ma diventano delitto solo quando l’assassino non ha altra scelta, non ha altro mezzo per fermare il suo rivale o il suo avversario, che farlo fuori. Quando scrivete un Giallo, dunque, non dimenticate mai che c’è una domanda fondamentale cui dovete rispondere e questa domanda è: perché l’assassino uccide proprio in quel momento? Non basta il movente, non basta la costruzione e l’esecuzione del delitto, bisogna anche escogitare il motivo che lo ha reso così urgente.
La programmazione di un delitto non somiglia affatto a una programmazione industriale che studia e progetta un prodotto, valuta il modo e il momento più conveniente per produrlo, distribuirlo e promuoverlo, segue insomma una strategia che può richiede mesi, anni per poter giungere a compimento. Il delitto si decide sull’istante e va commesso subito. E contemporaneamente al delitto vero e proprio, l’assassino deve anche assicurarsi un alibi e preoccuparsi di seminare falsi indizi. La sua performance ci appare prodigiosa, in queste condizioni. Nessuno che non sia un killer professionista può uccidere così, nessuno può programmare ed eseguire un delitto con queste modalità e in tempo tanto ridotto. Ciò fa parte dell’astrattezza e l’irrealismo del Giallo di cui si è parlato nella precedente lezione. Certo, mostrando le tecniche raffinate e specialistiche cui l’assassino ricorre e le circostanze ambientali che favoriscono il delitto, gli avvenimenti ci sembrano meno assurdi, tuttavia questo non basta. L’errore commesso dall’assassino diventa a questo punto il vero e insostituibile elemento equilibratore: ci pare infatti perfettamente realistico, spiegabile e umano che, soggetto a un tale stress, l’assassino trascuri qualche dettaglio e lasci dietro di sé degli indizi rivelatori. ( Di nuovo, come osservato nella precedente lezione: il racconto si fonda e si sviluppa sulla dialettica tra elementi opposti, in questo caso: Perfezione e Fallibilità).
Per il pubblico che segue la storia, la rapidità d’esecuzione del delitto contribuisce a definirne la perfezione, con questi effetti emotivi:
1) Meraviglia. Ogni gesto ci appare pensato e misurato, minuto per minuto, eseguito scrupolosamente con prodigiosa lucidità e freddezza;
2) Turbamento. Il delitto è troppo perfetto. L’assassino deve essere fermato non solo e non tanto perché ha ucciso, ma perché è troppo bravo. Un tipo così non è solo pericoloso, è antipatico.
3) Sollievo. Il simpaticissimo investitore/uomo comune riesce a fermare l’assassino mostrandoci che non è stato abbastanza bravo. L’assassino smascherato dunque non è più quel superuomo che sembrava al principio, è uno che ci ha provato facendo del suo meglio, ma si è rivelato alla fine un essere umano fallibile come noi. Ci risulta a quel punto persino simpatico.
Anche qui ritroviamo un finale contrapposto all’inizio . E’ su questo che si fonda l’effetto sorpresa. Anche se il meccanismo si ripete identico in tutti gli episodi, ogni volta il gioco degli opposti ci procura quella dose di sorpresa senza la quale un racconto Giallo non funziona.
B) VIALE DEL TRAMONTO
Abbiamo detto nella lezione precedente che uno dei meccanismi distintivi del Nero, quello in particolare che garantisce la tensione del racconto è che il protagonista può morire. Cioè la curiosità del pubblico viene stimolata dall’interrogativo: riuscirà il protagonista a cavarsela?
Viale del Tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy Wilder, sceneggiato dallo stesso Wilder con Charles Brackett e D.M.Marshman jr. smentisce clamorosamente questa regola, in quanto al principio del film ci appare il cadavere (vestito) del protagonista che galleggia su una piscina. Lo stesso protagonista ci narra la sua storia, ma la sua voce non è soltanto una voce fuori campo, è la voce di un morto. Dunque sappiamo già come andrà a finire. Wilder adotta alcune astuzie stilistiche per prepararci alla rivelazione: al principio il protagonista parla di sé in terza persona senza nominarsi ( “un giovanotto” di professione sceneggiatore) e la macchina da presa inquadra il cadavere dall’alto, mentre galleggia bocconi, ma subito in un controcampo dal basso ci viene mostrato il volto del cadavere e quando successivamente la voce fuori campo assume la prima persona e vediamo il protagonista ancora vivo ne riconosciamo l’identità. Al contempo in questa prima e sorprendente rivelazione, Wilder fa dire al protagonista che la sua intenzione è di raccontare la vera storia del suo omicidio prima che la stampa possa alterarla.
Insomma: all’interrogativo “riuscirà a cavarsela?” ne viene esplicitamente sostituito un altro: “Com’è andata veramente?” L’ironia è evidente. Tutti siamo attratti dalle notizie di cronaca criminale specie quando riguardano dei personaggi dello spettacolo (in questo caso l’omicidio coinvolge una celebre star del cinema muto) e tutti ci poniamo leggendo,le domande caratteristiche del giallo: chi ha ucciso? Perché lo ha fatto? Come sono andate le cose? Un resoconto giornalistico non svela mai fino in fondo le risposte e quand’anche lo faccia, ricostruisce una verità ufficiale o una verità polemicamente contrapposta a quella ufficiale, ma c’è una cosa che non potrà mai rivelarci: la versione dei fatti ad opera della vittima stessa. Ecco un nuovo e potente motivo di curiosità: quale diversa verità può fornirci la vittima? La stravaganza del racconto di Wilder è tanto più conturbante,in quanto non ci si riferisce a un fatto di cronaca realmente avvenuto, cioè noi non conosciamo queste altre versioni, conosceremo attraverso il film (narrato non da un protagonista qualsiasi, ma da uno sceneggiatore) esclusivamente la sua versione dei fatti. Certo non si vede per quale motivo un morto dovrebbe mentire,si suppone che i fantasmi dicano la verità: è proprio per ristabilire la verità che essi sono anime inquiete. Si tratta tuttavia pur sempre della loro verità soggettiva. Da un lato siamo portati a crederci,dall’altro permane un elemento di dubbio rafforzato dall’incontrovertibile dato di partenza: ci troviamo di fronte a un mistero, a una situazione controversa, passibile di alterazione.
Abbiamo anche osservato nella precedente lezione, che la partenza classica di un Nero ci presenta un protagonista dalla vita grigia e normale, prevedibile. Qui invece il prologo è del tutto spiazzante: un morto che racconta ci predispone infatti all’imprevedibilità più assoluta.
Sarà il racconto a rendere coerente questo paradossale inizio. La storia infatti è una storia di fantasmi, i co-protagonisti (la vecchia attrice del muto Norma Desmond, il suo inquietante maggiordomo ex regista ed ex marito Max) vi agiscono come fantasmi anche se sono fantasmi viventi. Il Nero di Viale del Tramonto è dunque un Nero molto particolare, aperto a suggestioni gotiche.
Tuttavia si tratta anche di un Nero dei più classici: il protagonista Joe Gillis, in vita, è un soggettista fallito, reso cinico dalla disillusione, preoccupato ormai solo di sbarcare il lunario, senza più preoccupazioni estetiche né etiche, uno squallido profittatore che ha smarrito ogni dignità. Insomma il più tipico degli anti-eroi del Noir, il cui unico orizzonte è la sopravvivenza , anzi per essere più precisi: è galleggiare . La prima immagine in cui ci viene presentato è dunque simbolicamente già rivelatrice : un morto che galleggia. E dove? Nell’acqua della piscina della
vetusta villa di una ex star, a sua volta simbolo di successo e di inarrestabile decadenza. In altri termini il racconto del film ci conduce alla verità già rivelata (simbolicamente e dunque oscuramente) nella prima immagine. Inoltre di questa prima immagine ci si dice esplicitamente che è il finale .Questo conferma quanto detto nella precedente lezione circa l’importanza del finale nel Nero. E’ la fine che orienta il percorso narrativo.
Si è anche detto nella precedente lezione che nel Nero l’uso della voce fuori campo e quello del Flash Back sono più diffusi e frequenti che in ogni altro genere di film. La voce fuori campo in particolare ci offre un vantaggio e uno svantaggio:
(1) il vantaggio è che la vicenda può essere facilmente sintetizzata nei suoi momenti cruciali, eliminando molte scene di passaggio;
(2) lo svantaggio è che il narratore in prima persona può raccontare solo situazioni direttamente vissute, dunque tendenzialmente egli dovrà essere presente in ogni scena, e da sceneggiatori non potremo facilmente alternare scene in cui il protagonista è in campo, a scene di altri personaggi a contrasto o a contorno.
Queste altre situazioni, se narrativamente necessarie, dovranno comunque essere a conoscenza del protagonista-narratore, perché la sua ricostruzione resti credibile e rigorosa. Non potremo in altre parole situare nel racconto eventi paralleli di cui il protagonista narratore sia inconsapevole. (Cfr. quanto già scritto nella lezione n.3 su “Il protagonista narratore”).
Il modello di struttura narrativa usato da Wilder in Viale del Tramonto, era già stato da lui stesso usato due anni prima nel film La fiamma del peccato (Double Indemnity), un capolavoro , pietra miliare anzi fondativa del genere Noir. Qui il protagonista ci appare al principio del film mentre detta la sua confessione-testimonianza a un registrazione. Non capiamo ancora che egli è ferito e quasi moribondo, lo scopriremo solo alla fine, ma ci è già evidente che egli è uno sconfitto.
Anche qui,in qualche modo,il finale è dato . Non subito trasparente, ma già dichiarato. Il protagonista ci racconta una storia che è già accaduta e che nulla più può modificare. Il senso del Destino incombe su di noi con tutta la sua ineluttabilità.
Questo solleva un interrogativo molto importante per lo sceneggiatore: se la storia è ineluttabile come riusciremo a renderla imprevedibile?
Torniamo per un momento a Viale del Tramonto. C’è un momento in cui Joe Gillis, lo sceneggiatore frustrato, ha un’alternativa. Incontra e si innamora di una sceneggiatrice che crede nel proprio lavoro e apprezzando il suo talento, collabora con lui, lo aiuta, lo incoraggia, gli consente di riscoprire ideali e persino qualche scrupolo morale. La vicenda, l’andamento tragico delle cose, spazza via questa speranza di riscatto, tuttavia questa speranza c’è. Insomma: in un racconto Nero, è di fondamentale importanza che il protagonista incontri sul proprio cammino delle biforcazioni . La vita deve offrirgli delle chance, per poi negargliele. E’ da questo contrasto che prende forza l’elemento tragico. Se state raccontando la storia di una sconfitta, non dovete mai dimenticare di raccontare anche le opportunità di vittoria, così come raccontando la storia di una vittoria non potete prescindere dal raccontare anche gli ostacoli, le difficoltà e gli scacchi momentanei.
Nel modello narrativo della Fiamma del Peccato il flash back inizia da un pre-finale.
A conclusione del film vediamo dunque cosa accade dopo i fatti inalterabili in quanto già avvenuti. Lo stesso modello è stato usato ad esempio nel film Bound (1996) scritto e diretto dai fratelli Wachowski. Qui al principio del film, la protagonista ci viene presentata legata e imbavagliata ,in una situazione senza apparente via d’uscita.
La storia viene poi narrata in FLASH BACK dal principio e quando si torna all’inizio riprende “in diretta” con nuovi sviluppi fino alla conclusione.
Il punto è: se la scena da cui cominciamo a raccontare è un pre-finale, quale punto del pre-finale dobbiamo scegliere da sceneggiatori? La risposta è la stessa fornitaci da Viale del Tramonto, perché anche qui l’appare finale del morto in piscina si rivela in realtà per un pre-finale. Quando infatti il racconto circolare si chiude e torniamo alla
scena d’inizio,vediamo cosa accade poi non attorno alla piscina, ma all’interno della villa ,quando l’anziana attrice del muto si consegna alla polizia.
Il morto in piscina, l’assicuratore ferito che si confessa al magnetofono, la donna legata e imbavagliata , sono tutti pre-finali. Ma ciascuno di loro è simbolicamente rivelatore. Gli autori non hanno scelto una scena qualsiasi , ma quella che rende più evidente la metafora del film e insieme ci presenta con maggior forza il protagonista:
il cadavere di un anonimo individuo che galleggia vestito in una piscina e che ci parla perché vuole consegnare ai posteri la sua verità; un broker assicurativo in preda al “demone della perversità”, mentre cioè cede all’impulso a confessare (non di fronte a una persona, ma affidandosi a uno strumento impersonale, meccanico); una donna combattiva, ma avvinta dai lacci. Queste tre situazioni esemplari ci presentano una situazione estrema e insieme mettono in scena un contrasto molto forte tra elementi opposti. E’ da qui che scaturisce la tensione del racconto. Dunque la nostra scena d’inizio dovrà essere quella che meglio mette in luce allo stesso tempo l’esemplarità dell’evento e la natura ambigua del protagonista.
C) Un errore frequente
Ci sono stati e ci sono, nello sviluppo del Giallo e del Nero, molte varianti, spesso messe in campo allo scopo di risolvere un problema importantissimo: evitare la prevedibilità. Un racconto di tensione, comunque condotto, se diventa prevedibile nelle sue scansioni e nella sua struttura, uccide la tensione stessa. Oppure diventa talmente uguale agli altri racconti dello stesso genere da risultare troppo poco originale.
In effetti, se ci considera l’attuale produzione letteraria di gialli, si può facilmente notare un avvenuto e consolidato cambiamento: mentre la letteratura gialla alle origini e nella sua fase di maggior sviluppo era scritta da veri professionisti del genere, oggi è diventata la forma più diffusa di letteratura d’esordio. Mentre un tempo scrivere un Giallo richiedeva una padronanza assoluta dei meccanismi narrativi, oggi anche un scrittore alle prime armi crede di poter affrontare la scrittura di un Giallo perché la considera, alla base, più facile rispetto a un altro tipo di romanzo.
La struttura pare infatti pre-determinata e la scaletta già bell’e pronta: 1. delitto, 2. indagine con escussione dei testimoni in bell’ordine, uno dopo l’altro, 3. soluzione del caso.
ATTENZIONE: una struttura narrativa, in un buon racconto, non deve mai essere esibita allo scoperto. Dobbiamo mettere in scena dei corpi, non degli scheletri. Dobbiamo mostrare gli alberi, non gli anelli del tronco. Se lo schema, la scaletta, risulta troppo rimarcato ed evidente, il racconto, nel suo concreto svolgersi, va a farsi benedire (anzi va a farsi maledire). Una scaletta è la base (meglio se invisibile al lettore o allo spettatore) su cui si struttura il racconto, non è e non deve essere oggetto di racconto, fino al punto da coincidere con il racconto stesso. La scaletta è la vostra guida, ma è anche il vostro principale avversario , soprattutto nel racconto giallo alla cui base c’è una gara, una sfida tra scrittore e lettore. Lo scrittore espone tutti gli elementi del Caso, perché il lettore sia condotto a farsi domande e a gareggiare con l’investigatore . Il lettore di gialli alle fine valuterà non solo la storia in sé ,ma anche se lui ha indovinato o meno l’assassino. E nel corso della storia, si troverà spesso a cambiare candidato, proprio perché l’esposizione degli elementi e delle tracce, da parte dello scrittore, non è stata affatto ordinata. Se tutto si svolge ordinatamente e la scaletta è sotto gli occhi di chi legge, l’effetto sorpresa/rivelazione si perde totalmente. Resta solo l’ordine e il caos scompare, mentre invece noi dobbiamo raccontare l’ordine come vittoria sul caos, non come esclusione del caos. Viceversa in molti romanzi noir contemporanei, si commette l’errore eguale e contrario. Si pensa che sia facile raccontare le vicende per esempio di un serial-killer perché l’assassino è per definizione un pazzo, dunque possiamo fregarcene di ogni logica narrativa, di ogni plausibilità psicologica, di ogni movente realistico. Rispetto a questa tendenza, molti scrittori di gialli classici hanno potuto facilmente sentenziare che chi scrive un noir incentrato su un serial-killer è semplicemente un autore incapace di dare il minimo senso e percorso al proprio racconto. Il giudizio può apparire sbrigativo e persino convenzionale, ma alla base ha qualcosa di vero: come il Giallo non può permettersi di dormire sull’ordine, così il Nero non può smarrirsi in una sequenza di azioni insensate. In un Nero che si rispetti noi dobbiamo raccontare l’ambiguità di un personaggio dalla psicologia molto ben definita e il suo confrontarsi con eventi estremi, ma esemplari di un Fato. Nelle apparenti eccezioni che abbiamo qui esaminato, il format ferreo e sempre eguale a se stesso di Colombo viene occultato sotto il cambiamento continuo, di puntata in puntata, degli ambienti (non si vede mai l’ufficio della polizia, ma solo gli ambienti sempre diversi in cui avvengono i delitti), degli assassini (vere e proprie guest star con ruolo da co-protagonista), delle dinamiche dei delitti, delle tecniche stesse di indagine di Colombo (che usa il suo fiuto e diffida delle indagini tradizionali, che il più delle volte non portano a niente. Il metodo di Colombo sta nella complicità apparente con l’omicida e nella propria capacità di improvvisare).
Quanto ai noir qui esaminati , l’andamento apparentemente circolare del racconto, ma con finale aggiuntivo, crea un’alterazione temporale che sconfigge la sequenza “naturale” degli eventi , scambiando inizio e fine, alternando passato e presente, situazione data e situazione in evoluzione.
L’architettura narrativa, in questi generi non può permettersi di essere statica, deve anzi poter consentire la massima dinamica attraverso un sapiente gioco degli opposti.
Lezione di Gianfranco Manfredi
A) Definizione dei generi considerati
Al posto di "giallo" potremmo usare termini diversi, come: mistery, poliziesco, detective-story, ma si tratta di sfumature, il genere di riferimento è sempre quello e il nome che gli è stato dato in Italia , sulla base delle copertine di colore giallo della storica collana della Mondadori, ha una sua sintetica efficacia. Il Giallo è un tipo di racconto che si fonda su un’indagine. Può essere un poliziotto a svolgerla, oppure un detective privato, un investigatore dilettante, comunque il tirante narrativo è lo stesso: la ricerca del whodunnit, cioè della risposta alla domanda: “Chi è l’assassino?”
Al posto di "nero" potremmo usare termini diversi, come noir o thriller. Il termine italiano è di per sé efficace, il colore allude alla notte, al buio dell’anima, al lutto, al brancolare nelle tenebre, però in questo caso ha una storia meno lineare. Infatti il termine Nero veniva usato nella critica letteraria del dopoguerra per indicare il racconto gotico o l’horror, solo più tardi, mutuandolo dai francesi (la Serie Noire di Gallimard) e dagli americani di Black Mask, finì per indicare un genere di racconto giallo a forti tinte e particolarmente crudo nella rappresentazione, il che però può ingenerare qualche confusione: molte detective story del genere letterario più propriamente detto hard boiled vengono considerate nei testi di storia e di critica del cinema come esempi di noir. Troverete dunque spesso citato Il Falcone Maltese film di John Houston del 1941 con Humphrey Bogart tratto dal romanzo omonimo di Dashiell Hammett come tipico noir, mentre a rigore non lo è affatto, è anzi una tipica detective-story. Dunque puntualizziamo, per differenza da quello che abbiamo definito Giallo: il Noir non si basa su un’indagine esterna e distaccata. Il protagonista può anche essere un detective o un poliziotto, ma le circostanze lo coinvolgono a tal punto che egli finisce per essere implicato nei fatti in quanto persona, non in quanto professionista. Viene insomma, tragicamente, ingoiato dalla vicenda fino a che essa non è più qualcosa che riguarda altri, ma lui stesso e il proprio fato. ( Un esempio, il film Seven di David Fincher, 1995). Ma nel Noir classico, la polizia o l’investigatore non ci sono neppure. Il protagonista è un uomo comune che si trova, senza strumenti professionali, coinvolto in una catena di delitti. Il suo scopo non è tanto quello di scoprire la verità, ma di uscire vivo da un’esperienza da incubo, che ha regole del tutto sconosciute per lui. Il protagonista può essere un innocente, ingiustamente accusato di un delitto, oppure l’assassino stesso che cerca di farla franca. Una prima differenza fondamentale dal giallo classico, giustamente sottolineata da un grande autore di Noir, James Hadley Chase, è che mentre il giallo classico tende alla serialità (il protagonista investigatore, si suppone abbia svolto e svolgerà altre inchieste, e dunque non può morire), il Noir tende alla vicenda esemplare che nasce eccezionalmente e lì si conclude ( dunque il protagonista può morire ed è da questo elemento di tensione che la narrazione acquista pathos). L’interrogativo non è “ Chi è l’assassino?” (con il correlato “ E perché?”) , anzi il più delle volte l’assassino lo
conosciamo subito, ma è “ riuscirà il protagonista a cavarsela?” (con il correlato “E come?”)
Entrambi questi generi, dunque, si fondano su una domanda. In altre parole, lo stato emotivo cui fanno riferimento ( e che intendono esaltare) è la curiosità. Nel Giallo si tratta di una curiosità intellettuale e/o morale, nel Noir si tratta di una curiosità viscerale.
Altra importante differenza. Nel Giallo l’indagine, e dunque il racconto, prendono le mosse dopo che i fatti (il delitto originale) si sono verificati: si tratta dunque di ricostruire quanto è avvenuto prima. Nel Nero, invece, i fatti vengono presentati mentre accadono, nell’istante in cui accadono, e spesso il delitto non costituisce affatto l’inizio della vicenda. Ad esempio nel Noir classico, è spesso l’incontro con una donna (la Dark Lady, la Femme Fatale) a segnare l’inizio del movimento dalla stasi esistenziale del protagonista, al suo precipitare nel gorgo degli eventi , via via sempre più delittuosi. Mentre nel Giallo il movente del delitto ci appare sconosciuto (e si tratta di ricostruirlo a posteriori) nel Noir il racconto del movente precede il racconto del delitto.
Da quanto detto sopra emerge anche una differenza importante nell’impostazione stessa del racconto.
Nel Giallo si parte da un evento, oltre che già avvenuto, di per sé misterioso e indecifrabile e si tratta di ricostruirne razionalmente la causa e i motivi, restaurando cioè l’ordine logico in cui si sono svolti i fatti.
Nel Noir invece i fatti sono evidenti e di per sé chiari. Il protagonista non giunge al delitto per scelta razionale, ma trascinato dall’occasione e cioè dal caso. Il primo evento casuale comporta una serie di conseguenze a catena che avviluppano sempre più strettamente il protagonista.
In altri termini il Giallo e il Nero si trovano a dover equilibrare, nel corso del racconto, due elementi opposti.
Nel Giallo si passa da un fatto apparentemente gratuito, misterioso e inspiegabile, fino ai limiti dell’assurdo, alla minuziosa spiegazione logico-razionale del fatto stesso.
Nel Noir si passa dalla casualità dell’evento, alla ferrea , persino tragica, necessità degli sviluppi.
Nel Giallo il protagonista agisce orientato dalla Ragione e domina gli eventi ricostruendone la dinamica. Il suo approccio ai fatti, cioè, è intellettuale e distaccato.
Nel Nero il protagonista è dominato dal Fato, la dinamica dei fatti lo travolge. Il suo approccio ai fatti è emotivo e partecipe.
Nelle indagini di Sherlock Holmes, il delitto iniziale appare assurdo, spesso venato addirittura di sfumature sovrannaturali (Il mastino di Baskerville). La scena del crimine è caotica e stipata di tracce (Uno studio in rosso) che non sembrano portare in alcuna direzione definita. L’indagine discrimina, divide, analizza e lentamente ci porta alla geniale spiegazione che si manifesta sempre come estremamente logica, unica e incontrovertibile. Al principio c’è l’enigma, alla fine la soluzione. Inizio e fine sono termini opposti e contrari: tanto più inspiegabile e oscuro è il principio, tanto più argomentata e chiara dev’essere la conclusione.
Nei racconti neri di James Hadley Chase l’inizio ci appare invece chiaro, conosciuto, persino prevedibile. Non c’è praticamente nulla di insolito in quanto ci viene raccontato. Ma il primo guaio che giunge ad inceppare il normale scorrere degli eventi, ne trascina altri a valanga che generano conseguenze imprevedibili. Il realismo dell’inizio lascia il passo a un irrealistico accumulo di eventi nefasti, in omaggio al noto adagio “le sfighe non vengono mai sole” o “ al peggio non c’è mai fine” , o se vogliamo essere più filosofici, “le cose non vanno mai come vorremmo che andassero.” Anche qui si deve raccontare insomma tenendo presente che inizio e fine sono, devono essere, due contrari. La prevedibilità dell’inizio si rovescia nell’imprevedibilità della fine. L’energia si comunica tra poli opposti. Senza opposti non c’è scintilla.
B) Struttura e senso della narrazione
La struttura base del Giallo è sempre la stessa:
1. C’è una vittima, un cadavere, al principio della storia.
2. Il protagonista/investigatore indaga . Si raccolgono indizi, si ascoltano testimoni, ci si perde in qualche pista secondaria e/o falsa.
3. Altri delitti complicano la vicenda e insieme circoscrivono la pista giusta.
4. Il caso viene risolto e l’assassino punito.
Da un punto di vista filosofico elementare potremmo dire che :
1. L’ordine sociale viene turbato da un delitto.
2. La razionalità si misura con il caos e cerca di riordinare gli elementi.
3. La ricostruzione razionale (ipotetica) viene confermata dai fatti, dalle prove, e l’ordine sociale viene ricostituito tramite la punizione del colpevole.
La struttura base del Nero è la seguente:
1.C’è un vivente al principio della storia, che si trascina nella sua routine quotidiana.
2.Un incontro, un evento apparentemente casuale cambia direzione alla vita del protagonista.
3. Le conseguenze di quel primo evento ne trascinano altre a catena, che avviluppano sempre più strettamente il protagonista e ne minacciano la sopravvivenza.
4. L’accumulo straordinario di reazioni a catena, acquista la forma di una necessità esterna, di un vero e proprio Destino.
5. Il protagonista, cercando di sopravvivere, da un lato cerca di liberarsi dal Destino che lo intrappola, salvo scoprire che le sue stesse reazioni sono parte di quel Destino.
Che lui si salvi o che lui soccomba, in ogni caso il finale era già scritto.
Dal punto di vista filosofico si potrebbe dire:
1. Irrompe il caos.
2. Non è la razionalità a condurci fuori dal caos, è anzi la totale immersione emotiva nel caos che ci stimola a reagire, per istinto di sopravvivenza.
3. C’è un solo ordine che si impone sull’apparente casualità degli eventi: è l’ordine governato dal Destino e dal Fato. Questo ordine non ha bisogno di essere restaurato perché domina e prevale sempre sulla storia collettiva e in particolare sulla vita del singolo.
C) Il Giallo e il Nero sono generi classici
Il Giallo e il Nero, come si evince da quanto detto sopra, sono due forme di racconto compiuto, che come tale comporta delle tappe (un inizio, uno sviluppo e una fine) e un equilibrio interno di struttura. E la loro stessa leva emotiva (suscitare e soddisfare la curiosità) è molto diversa da quella dell’horror (suscitare paura e/o ripugnanza), del comico (suscitare riso) dell’erotico (solleticare la libidine). La curiosità umana è un tipo di stato emotivo che ha a che fare con l’intelletto, più che con gli istinti cosiddetti ancestrali, ed è inoltre necessaria a qualsiasi racconto compiuto, anche quando il tema centrale non è un crimine: un racconto lo si segue perché si vuol capire”come va a finire”. Insomma: il Giallo e il Nero non sono generi riconducibili allo stadio pre-narrativo e non si basano sulla frammentarietà. Sono varianti particolari dei tre generi classici: Commedia, Tragedia ed Epica.
Che il Giallo sia strettamente legato alla Commedia, lo si può vedere chiaramente da queste caratteristiche:
1. E’ fondamentale la creazione del personaggio/maschera dell’investigatore.
L’investigatore precede i fatti. Apparentemente sembra il contrario (deve esserci un delitto perché l’investigatore entri in scena) ma in realtà lo scrittore costruisce i fatti in modo tale da consentire al protagonista di mostrare le proprie virtù e i propri difetti. Poirot si troverebbe molto a mal partito nella Parigi di Maigret o nella New York del 87° Distretto. Poirot opera in un ambiente che gli corrisponde. E i delitti che deve risolvere sono costruiti in modo tale da collimare perfettamente con la sua tecnica investigativa.
2. Nello sviluppo dell’indagine, la vicenda si complica per accumulo di indizi e di nodi irrisolti, che rappresentano altrettanti ostacoli che il protagonista deve superare, ricorrendo al suo acume, ma anche a una buona dose di mascheramento delle proprie intenzioni e dei propri ragionamenti. Sherlock Holmes, Nick Carter e molti altri investigatori giungono persino a travestirsi (proprio come personaggi da commedia) per potersi per esempio infiltrare in certi ambienti. E molti investigatori hanno accanto una spalla, che di solito non capisce gran che di quel che essi fanno: classico ruolo servile da commedia.
3. Il giallo classico alla Agatha Christie (ma non solo quelli scritti da lei) si conclude quasi sempre con una seduta collettiva nella quale l’investigatore svela compiutamente e pubblicamente (cioè di fronte alla società) quale sia stata la sua strategia occulta e insieme smaschera definitivamente il colpevole, che viene inchiodato “di fronte a tutti”. Anche questo è un tipico finale da Commedia come abbiamo visto nelle precedenti lezioni. Inoltre l’investigatore, non si limita in queste sedute collettive a indicare l’unico colpevole, ma si prende un po’ sadicamente la briga di smascherare anche tutti gli altri presenti, denunciandone le ipocrisie e le debolezze morali. Dunque egli non si limita a restaurare l’ordine originale, suggerisce in qualche modo un’istanza di cambiamento dei comportamenti sociali, mostrando che il delitto del singolo è comunque parte integrante di un ambiente e che l’inevitabile punizione, se si vuole evitare che casi del genere si ripetano, deve accompagnarsi a una presa di coscienza generale, sociale: tutte le persone coinvolte debbano trarne un ammaestramento morale e cambiare attitudini.
Che il Nero sia intimamente legato alla Tragedia lo si vede da questi elementi:
1. Il protagonista è totalmente suddito dei fatti che l’autore gli fa piovere addosso.
Nel suo dibattersi per trovare una via d’uscita, non è agente, ma agito.
2. I fatti si presentano in successione come manifestazione di un Fato, di un Destino in genere affliggente. Tutto pare nascere dal caso, ma le conseguenze sono talmente coincidenti, che assumono la forma di una necessità. (Ricordate la Statua di Miti? Cfr. la lezione XIII).
3. C’è un indubbio effetto catartico nel patire con il protagonista ( che sia esso una vittima innocente o un criminale braccato) confidando fino all’ultimo in una salvezza che temiamo impossibile, ma che speriamo possibile.
D’altro canto, per altri aspetti, Giallo e Nero sembrano scambiarsi le parti:
1. Il protagonista di un Giallo (l’investigatore) tende ad essere un personaggio sopra la media, dotato di intelligenza e sensibilità superiori e spesso anche di un linguaggio (vedi appunto Poirot o Holmes) particolarmente forbito. In altre parole: un personaggio che parrebbe più caratteristico della Tragedia che della Commedia.
2. Viceversa il protagonista del Nero è spesso un individuo comune o di modesta estrazione, legato a passioni e a reazioni istintive e costretto a mobilitare risorse nascoste che spesso non presume neppure di possedere. E in questo sembra più caratteristico della Commedia che dalla Tragedia.
Abbiamo già considerato questa sorta di scambio trattando del film d’azione. In effetti sia il Giallo che il Nero riservano un ruolo di preminenza alla successione dei fatti e delle azioni e hanno l’andamento del racconto “eroico” perché il protagonista deve sormontare una serie di ostacoli in direzione della Verità (nel Giallo) o della Salvezza (nel Nero). A partire da una radice diversa, giallo e nero finiscono entrambi per strutturarsi secondo moduli tipici del racconto Epico, che come abbiamo visto nella Lezione XIV, sta a fondamento di ogni contaminazione di genere.
Epos in greco, significa né più, né meno che Racconto. L’espressione “racconto epico” parrebbe dunque una tautologia. In realtà ci indica che si tratta di storia narrata, cioè che il nostro racconto fonde in sé fatti storici (eventi reali) e leggende (eventi tramandati, ma non si sa se realmente avvenuti, e punti di vista/testimonianze contraddittori).
Il Giallo, in quanto ricostruzione logica dei fatti attraverso indizi e testimonianze, intreccia costantemente eventi reali e narrazioni più o meno verosimili di quegli stessi eventi.
Il Nero ci presenta gli eventi come significativi ed esemplari, cioè come manifestazioni e tappe di un Destino coerente. Questo Destino costituisce la narrazione. In altre parole, i fatti non sono a se stanti, significano anche altro da sé: raccontano una storia. Il Noir, tra l’altro, usa più frequentemente di altri generi la voce fuori campo: è spesso il protagonista stesso a raccontarsi e a trarre un bilancio della propria esperienza. Anche il Nero dunque intreccia strettamente fatti e narrazione/ricostruzione del senso profondo dei fatti stessi.
Se invece della parola “epico”, usiamo la parola “avventura” troviamo un’ulteriore specificazione. Deriva dal verbo latino advenire che significa arrivare. In altre parole, il finale ha una grandissima importanza. Tutto ciò che accade acquista senso perché perviene a un finale, anzi proprio a quel finale, non un finale qualsiasi. Senza un finale, la nostra storia resta incompiuta. E il finale deve risultare tanto sorprendente quanto coerente. E’ questo finale ad ordinare gli elementi del racconto. Insomma: sia nel Giallo che nel Nero la narrazione va condotta dal punto di vista del finale.
Vediamo ora come.
D) LA FUNZIONE ORDINATRICE DEL FINALE
L’ordine reale dei fatti in un delitto perfetto è questo:
1. Qualcuno ha motivo di uccidere un’altra persona.
2. Programma il delitto nei dettagli.
3. Si assicura un alibi.
4. Esegue il delitto.
Come corollario: può seminare sulla scena del delitto falsi indizi, tali da portare la polizia sulla pista sbagliata.
Questo è l’ordine in cui vediamo accadere le cose, prima dell’inchiesta, nei telefilm del Tenente Colombo. Li esamineremo nella seconda parte di questa lezione, ma come eccezione che conferma la regola. Nel giallo classico infatti il pubblico non conosce l’assassino fino alla fine.
L’ordine narrativo di un Giallo classico non è affatto quello reale in cui si sono svolti i fatti, ma è capovolto. Si parte dal delitto. Si valutano gli alibi. Si cerca di ricostruire la dinamica del delitto e si indaga sul possibile movente. Insomma, quando scrivete un Giallo dovrete forzatamente procedere all’inverso rispetto alla cronologia reale dei
fatti, cioè dalla fine all’inizio. Voi state cominciando a raccontare la storia dalla fine.
Il vostro racconto è una ricostruzione a posteriori. Si parte dagli effetti, per individuare le cause.
Ma in pratica come si scrive un Giallo? Molti scrittori amano condividere le difficoltà del detective e quindi cominciano a raccontare accumulando dei misteri e, pur avendo una traccia di soluzione in testa, preferiscono individuare lungo il percorso una spiegazione razionale e a volte persino l’identità dell’assassino, tra i tanti indiziati e possibili colpevoli. Per uno sceneggiatore cinematografico, questo procedimento è quanto mai sconsigliabile. Anzitutto c’è una maggiore esigenza di chiarezza nell’esposizione: il racconto cinematografico vive in un tempo molto concentrato e il pubblico deve poter cogliere con estrema precisione ogni singolo passaggio, perché non può tornare indietro a controllare e rileggere, e nemmeno può fermarsi a pensare perché se si distrae rischia di perdersi i nuovi sviluppi. In particolare, più indizi contrastanti accumulate all’inizio e più spiegazioni sarete costretti a dare nel corso e soprattutto alla fine della narrazione. Troppe spiegazioni (soprattutto verbali) sono terribilmente noiose in un film. In alcuni film tratti dai romanzi di Agatha Christie, (per esempio Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet, 1974) per rendere più vivaci queste spiegazioni, si è scelto di mostrare gli eventi in flash back: di ogni indiziato vediamo cosa aveva fatto e come si era mosso sul luogo del delitto. In questo modo l’azione annulla l’effetto noia, ma ne procura un altro, di tipo strutturale: il finale-spiegazione finisce per durare un terzo del film. Se consideriamo che un altro terzo se ne va per la presentazione dei personaggi, sempre molto numerosi in questo genere di gialli, e per il verificarsi del delitto, ecco che allora la parte centrale del film ne risulta molto contratta: in pratica lo sviluppo vero e proprio della vicenda, con tutte le complicazioni del caso, l’indagine del detective, la sua raccolta di prove e di testimonianze, eventuali nuovi delitti e colpi di scena … tutto questo dovrebbe venire compresso in mezz’ora. I film tratti dai gialli di Agatha Christie in effetti sono sempre più lunghi del normale (Assassinio sull’Orient Express dura 128 minuti). E la spiegazione finale, per quanto animata dalla rappresentazione,
risulta spesso estenuante.
E’ evidente comunque che se siete chiamati a sceneggiare un romanzo giallo, avete già la storia a disposizione in tutti i dettagli e potrete limitarvi a scegliere quali approfondire e quali trascurare per non complicare troppo il racconto e per trovare il giusto equilibrio tra le parti. Ma se invece quello che dovete sceneggiare è un giallo originale, pensato da subito per il cinema , allora il modo migliore per farlo è avere perfettamente in testa come si è svolto il delitto e chi è l’assassino (cioè l’ordine reale dei fatti) prima di mettere mano alla scrittura del film (dove dovrete raccontare in ordine inverso). La scoperta dell’assassino, che è il finale del vostro film, deve essere una scoperta per l’investigatore e soprattutto per il pubblico, non per voi che scrivete il film. Non potete raccontare bene il film senza conoscere in anticipo questo finale.
Uno scrittore di gialli può cominciare il suo libro, tornare indietro, correggere delle parti, chiarirsi man mano le idee, fino a trovare un finale persuasivo e poi magari controllare e rivedere il tutto sulla base di quel finale. Se per questo lavoro ci mette un anno, nessun editore si scandalizza . Ma se uno sceneggiatore cinematografico impiega più di un mese a completare una sceneggiatura, difficilmente un produttore lo chiamerà un’altra volta. Ogni giorno che passa, per un film rappresenta un costo.
Non potete certo pretendere di bloccare una produzione perché non avete ancora trovato la soluzione alla vostra complicata storia, per quanto attraente essa sia.
Dovete assolutamente aver chiaro come va a finire per poter sistemare in ordine, e in un tempo di scrittura ragionevole, i singoli elementi e snodi del racconto. D’altro canto, non potreste proprio fare altrimenti, perché prima di scrivere la sceneggiatura dovrete in ogni caso presentare un soggetto in cui raccontate in breve la storia svelando molto chiaramente come va a finire e una volta che quel progetto viene approvato a quello dovrete attenervi. Poi vi toccherà lavorare sulla base di una scaletta davvero di ferro che conducendo all’unica soluzione giusta, logica e coerente, la sappia efficacemente occultare e insieme rivelare con dei segnali ben distribuiti nel corso del racconto.
Scrivere un Giallo non è facile. Scrivere un whodunnit per il cinema è difficilissimo.
Non provateci neppure se non avete una mente matematica, se vi da fastidio l’idea di lavorare entro una gabbia predeterminata, se non vi piacciono i giochi enigmistici.
Anche un enigmista quando per esempio lavora a uno schema di parole crociate, parte dalla costruzione del finale, cioè dalle parole, trova gli incastri tra di esse e sistema gli intervalli (le caselle nere). Poi scrive le definizioni. Il pubblico si troverà invece di fronte all’esatto opposto: le definizioni e le caselle nere, gli incastri orizzontali e verticali, lo guideranno alla scoperta delle parole, cioè alla tavola compiuta e finale che corrisponde in realtà all’originale costruito in anticipo dall’enigmista.
In teoria questo non dovrebbe valere per il Nero, dove raccontiamo la sequenza reale degli avvenimenti in ordine cronologico. Anche qui ci sono robuste eccezioni, cioè film tipicamente noir, veri classici del genere, che sono in realtà raccontati in flash back. Esamineremo la prossima volta queste eccezioni, valutando se anch’esse confermano la regola. Qui rimarchiamo un punto. Abbiamo detto che un Nero racconta/rivela attraverso una sequenza di eventi, un Destino. Questo Destino chi scrive deve conoscerlo prima, non può trovarlo per strada. Prendete come esempio l'ottimo film noir Layer Cake di Matthew Vaughn , 2004 (uscito in Italia con il titolo The Pusher che purtroppo crea confusione con una serie di film omonima).
Studiatevelo bene. Il film ci presenta un protagonista che fa un turpe mestiere, ma che è capace comunque di suscitare la nostra simpatia, tanto più se lo confrontiamo ai figuri da cui è circondato. Attraversa una serie sempre più intricata e pericolosa di peripezie e riesce in qualche modo non solo a cavarsela, ma a fare carriera, rivelandosi un vincente. Il finale lo coglie nel momento del suo trionfo, ma proprio quando pensiamo che la vicenda si sia conclusa, sbuca fuori un criminale da quattro soldi che lo fulmina a pistolettate. Dunque il finale è tragico. L’happy end era solo la falsa pista che ha assecondato la nostra speranza di salvezza mentre ci stavamo sempre più identificando con il protagonista, ma questa speranza (ora lo capiamo) contraddiceva l’evidenza (tragica) di un vicenda senza speranza alcuna. E qual è il Destino beffardo? Il protagonista ha eliminato pezzi più grossi di lui, mentre ha trascurato una figura che riteneva (ed era) minore. Usando una metafora, si potrebbe dire che il suo rivelarsi vincente contro i giganti, lo ha reso vulnerabile a un nano. Questo non è uno di due finali possibili, è l’unico finale rigoroso e coerente con quanto l’autore ci ha voluto raccontare. Anche qui, l’autore, nello svolgimento della narrazione, ha da un lato mascherato il finale tragico, dall’altro ce lo ha fatto presentire per tutto il film. Da dove deriva la nostra sorpresa? Che mentre per tutto il film abbiamo assistito a delle situazioni terribilmente rischiose da cui il protagonista è riuscito ad uscire indenne, sul finale abbiamo subito il meccanismo esattamente contrario: appena il protagonista ha assunto lo status di vincente, è stato ucciso.
Insomma anche qui è il finale che ci permette di dare ordine agli elementi della narrazione, alla successione dei fatti e al modo stesso di raccontarli: i fatti acquistano senso perché corrono verso quel finale, la scelta narrativa di rivelare e/o di occultare, la dinamica in crescendo delle singole situazioni, tutto ciò nasce e si sviluppa a partire dalla nostra idea di finale.
E) Il Realismo nel Giallo e nel Nero e l’esigenza di equilibrio narrativo
Apparentemente il Giallo è più realistico del Nero: i gialli si basano spesso su episodi di cronaca, ci presentano ambienti reali (il commissariato, la società criminale, il contesto sociale in cui maturano i delitti), ci fanno conoscere metodi d’indagine realmente in uso. Il Nero invece tende a presentarci situazioni limite, marginali, tanto esemplari quanto rare ed estreme, sulle quali si può liberamente intervenire di fantasia, finendo nel puro racconto d’avventura. Ma le cose stanno davvero così?
Nella vita, non ci capiterà mai di trovarci nei panni di Poirot o di Maigret, ma potrebbe capitarci benissimo di ritrovarci incastrati in una situazione senza apparenti vie d’uscita, di venire accusati di un delitto che non abbiamo commesso, o di venire scoperti per qualche colpa di cui siamo davvero responsabili, o di sentirci come burattini in mano al Destino. La cosa risulta ancor più evidente se consideriamo questi due generi non per singole storie, ma nell’insieme.
Il Giallo. La narrativa gialla è dilagata negli ultimi anni. L’esigenza di ciascun narratore di dare una qualche originalità e riconoscibilità al proprio investigatore, ha prodotto innumerevoli personaggi di cui non è stato ancora neppure tentata una catalogazione sistematica: investigatori di tutte le epoche storiche, di tutte le razze e nazionalità, di ogni classe, ceto e categoria sociale, di tutte le età, di ogni genere di appartenenza/preferenza sessuale, di ogni tipologia fisica (dai giganti ai nani, dagli obesi agli anoressici) e psicologica (razionali, istintivi, grigiamente normali o psicotici), persino investigatori del regno animale (cani poliziotto, gatti e topi detective, eccetera). Se si considera che ciascuno di questi investigatori indaga su parecchi delitti, la rappresentazione del mondo che ci viene offerta dal Giallo è di un universo in cui il delitto è una pratica più che comune, ma non per questo normalizzata, e in cui l’investigazione non è più un ambito professionale definito, ma un’attitudine diffusa. Inoltre in questo mondo la quasi totalità dei delitti risulta risolta e i colpevoli puniti secondo giustizia.
Nel cinema in particolare, l’esigenza di condensare la narrazione e di stringere i tempi della vicenda spinge da un lato ad isolare la vicenda crimine da ogni altra vicenda parallela o concomitante, dall’altro nell’attribuire al lavoro della polizia e degli investigatori una rapidità e una precisione da fantascienza: perizie, indagini delle scientifica, costosissime attrezzature, tutto viene messo all’opera e fornisce risultati praticamente istantanei.
Non c’è nulla di più fittizio di questa rappresentazione dello stato delle cose: qualsiasi banale statistica, e minima conoscenza delle procedure può smentirla.
L’universo del Giallo è all’origine una pura e astratta convenzione. Il realismo nel Giallo è fondamentale proprio per equilibrare questo assoluto non-realismo di base. Il giallo investigativo, fondandosi sulla ricostruzione di una logica, è racconto eminentemente astratto. Ma siccome nessun racconto può risultare appassionante se ridotto alla sua pura struttura, ecco che il realismo diventa indispensabile nella costruzione dei personaggi, degli ambienti, dei moventi delittuosi e delle tecniche d’indagine. Il Giallo va alla ricerca della verità come un matematico va alla ricerca della soluzione di un’equazione, ma per il lettore comune verità e realtà sensibile sono due termini coincidenti. Dunque raccontando un Giallo, l’elemento astratto deve sempre venire equilibrato da un elemento contrario di concretezza.
Il Nero. Anche questo genere si è sviluppato quantitativamente negli ultimi anni al di là dei normali standard di produzione. Il Nero ci presenta un mondo perennemente sconvolto e sull’orlo del collasso in cui non ci si può più fidare di nessuno: la maestra elementare, la baby sitter, la vecchina, il timido vicino di casa, il giovane di buona famiglia, le persone apparentemente più innocue e normali tra quelle che ci circondano, possono rivelarsi insospettabili portatrici di allucinanti sventure e di patologie caratteriali devastanti. Non è ovviamente questa la realtà prevalente del mondo, ma è tuttavia la realtà delle nostre ansie interiori, quel substrato di paranoia che sottende le nostre vite e che può venire risvegliato da eventi esterni, magari solo letti sul giornale, e che improvvisamente avvertiamo come possibili minacce anche per noi. Nella percezione del pubblico e prima ancora nella sua esperienza di vita, due sono gli elementi dominanti: la grigia ripetitività del vissuto quotidiano e la parallela sensazione della totale precarietà su cui si fonda questa apparente normalità.
Essendo questi i temi prediletti del Nero, appare evidente che il suo fondamento narrativo non sta nella messa in scena concreta di una struttura astratta, ma nel suo esatto contrario e cioè nella messa in scena simbolica (e dunque astratta) della realtà concreta delle cose (o meglio quella da noi percepita e temuta). In altri termini, il Nero ha l’esperienza della realtà, il vissuto e le paure di ciascuno, per fondamento, e la strutturazione formale ne è il necessario contrappeso. E’ fondamentale che il caos che raccontiamo diventi un caos organizzato e regolato da una dinamica conseguente.
Se tutto ciò che accade è insensato, come potremo mai identificarci con quanto accade al protagonista? Come potremo sentire la vicenda come possibile anche per noi?
In conclusione: entrambi i generi debbono per loro natura trovare al loro interno un equilibrio. Questa ricerca di equilibrio li porta a controbilanciare il loro fondamento con l’elemento contrario: quanto più un Giallo è astratto tanto più necessita di realismo nella messa in scena, quanto più il Nero è realistico tanto più deve trovare una sua struttura e una sua rappresentazione simbolica. Entrambi i generi si reggono su un gioco ben bilanciato degli opposti.
D) Un paio di modelli operativi per esercitarsi.
Per il Giallo.
Scrivete una scaletta particolareggiata di un delitto perfetto. Chi è la vittima , chi è
l’assassino e quali sono le sue motivazioni. Come l’assassino attua il delitto. Come si
garantisce un alibi. Come, eventualmente, semina falsi indizi in modo che il delitto
venga giudicato dalla polizia un mero incidente oppure attribuito ad altri.
Costruite poi lo schema contrario. Il vostro investigatore (che dovrete caratterizzare
molto bene negli aspetti salienti della sua personalità) comincia l’indagine.
Conducetelo gradatamente alla verità nell’ordine contrario,cioè a partire dagli indizi,
fino alla ricostruzione del movente. Attorno al nocciolo principale ( la sfida tra
assassino e investigatore) sistemate gli altri personaggi. Se volete scrivere un giallo
classico, questi altri personaggi devono avere avuto tutti un possibile movente per
quel delitto e la possibilità teorica di averlo commesso. Se buttate giù questo primo
schema pensando non a scrivere un romanzo, ma un film, badate (è un consiglio, non
un vincolo) che i personaggi non siano troppo numerosi. Ricordatevi sempre che alla
fine o nel corso del racconto vi toccherà spiegare tutto di tutti.
Per il Nero.
Prendete come base un fatto di cronaca. Per esempio: una coppia è scomparsa, i loro
corpi vengono trovati fatti a pezzi, infilati in sacchi di plastica e gettati in fondo a un
burrone. Gravi indizi conducono la polizia a identificare il possibile responsabile in
un loro parente, tra l’altro convivente. Appuntatevi tutte le prove, le evidenze, i
dubbi, i testimoni coinvolti, riprendendoli dal giornale. Avrete così come base un
autentico giallo, perché i giornali fanno la cronaca dei fatti solo dopo che essi sono
avvenuti e seguono scrupolosamente il procedere delle indagini.
Adesso mettetevi a scalettare il vostro nero, capovolgendo quest’ordine. Provate a
considerare colpevole il principale accusato e raccontate la sua storia. Per far questo
dovrete necessariamente conferire al personaggio una psicologia credibile e
rappresentarlo in un ambiente realistico, dunque ben documentato. Poi delineate per
punti come ha concepito il delitto, come lo ha eseguito, come ha cercato di occultare i
corpi. Sforzatevi di identificarvi in lui. Immaginate la sequenza dei fatti minuto per
minuto. I fatti importanti e i personaggi coinvolti li conoscete già, sono lì sul
giornale. Ma ora dovete approfondire anche i momenti morti, le più minute
operazioni possono essere un’occasione di tensione, per esempio la necessità di
procurarsi gli attrezzi per sezionare i corpi, le operazioni necessarie a rimuovere le
tracce, un viaggio con due cadaveri nel bagagliaio,un rifornimento di benzina
imprevisto, la sosta in un albergo. Cercate insomma di immaginarvi,dal punto di vista
dell’assassino, ogni singolo momento. Quali difficoltà, quali imprevisti potrebbe aver
attraversato? Oltre agli indizi che ha seminato sul campo, è riuscito ad occultarne
altri? Quali azioni lo hanno incastrato? A quali altre potrebbe aggrapparsi per
difendersi? Non abbiate paura di inventare fatti non documentati, se servono ad
aumentare la tensione. Usate liberamente l’immaginazione, badando però a non
debordare troppo dagli eventi essenziali della vostra scaletta.
Ma tutto questo non basta. Dovrete chiedervi: cosa voglio raccontare? La mera
cronaca di un delitto oppure un caso esemplare di una condizione tragica? Se è questa
seconda la vostra scelta, quella cioè più tipicamente nera, la cronaca potrà non
bastarvi. E’ il Destino del protagonista che dovete mettere in scena . I fatti vi devono
servire a rimarcare questo Destino. E questo Destino lo dovrete scegliere voi in
anticipo: è il punto di vista dell’autore sulla vicenda narrata. La vicenda reale , nella
cronaca, può anche non essersi conclusa affatto, ma voi una conclusione dovete
prevederla e conoscerla in anticipo. Il protagonista muore o sopravvive? Scampa alla
condanna o viene incastrato? Confessa o si intestardisce nella menzogna? Insomma le
caratteristiche psicologiche del vostro protagonista devono corrispondere al finale.
Un Destino infatti è insieme un percorso oggettivo verso un finale necessario e la
natura soggettiva, intima di un essere umano.
di Gianfranco Manfredi
LA CONTAMINAZIONE TRA CINEMA COMICO E COMMEDIA
1. I film dei fratelli Marx
Nel cinema dei fratelli Marx troviamo i due differenti elementi sopra citati : cioè da un lato i Numeri (comici e musicali) dall’altro la storia, in genere una commedia sentimentale. I Marx erano ben consapevoli del dissidio tre le due diverse forme.
Quando vennero chiamati per il film Room Service (1938 ) si trovarono di fronte a una commedia non concepita espressamente per loro ed ebbero molte difficoltà nell’interpretare i ruoli. Chico dichiarò in un’intervista: “Era la prima volta che recitavamo una commedia non scritta da noi e non potevamo proprio riuscirci: dovevamo essere noi a creare i personaggi e le situazioni e solo allora potevamo recitarli, perché erano diventati parti di noi stessi.” ( La citazione è tratta dal libro I fratelli Marx, di William Wolf, Milano Libri 1978). Il loro rapporto con il cinema è sempre stato assai contrastato: era evidente che quello che contava, per loro e per il pubblico, erano i numeri, ma spesso i numeri dovevano venire dimensionati e sacrificati agli equilibri narrativi generali. Tanto che a più riprese i Marx pensarono addirittura di abbandonare il cinema. A volte il bilanciamento tra narrazione di una storia e numeri a se stanti, fu cercato nella Parodia: se si usava una storia già narrata da altri (come Casablanca) per stravolgerla totalmente, in qualche modo i numeri si potevano appoggiare su un soggetto e situazioni già note al pubblico per ribaltare tutto in non-sense e in comicità pura. Ma nei casi migliori, si scelse un’altra soluzione: c’è una vicenda principale che è la più consueta possibile. Prendiamo ad esempio The Cocoanuts (1929). Il soggetto è questo: in una Florida in pieno boom edilizio,un giovane architetto (Bob Adams) ha un progetto per sviluppare la zona di Cocoanut Grove. Bob è anche innamorato di Polly Potter e nella loro storia d’amore si intromette un losco individuo ( Harvey Yates) che intende rubare una collana alla ricca madre di Polly. I fratelli Marx (protagonisti del film) non fanno affatto parte del soggetto! Non interpretano i ruoli (sulla carta) principali: Groucho è infatti l’improbabile direttore di un altrettanto improbabile albergo, Chico e Harpo sono due ciarlatani che gli gravitano intorno. Eppure sono loro, con i loro numeri scatenati, ad essere gli inconfondibili protagonisti del film. Lo schema, in poche parole, è questo: il racconto, il filo conduttore del film, è una commedia sentimentale e prevedibilissima, nella quale i Marx irrompono come dei veri e propri guastatori.
Insomma, la soluzione Marx non risolve il problema cercando armonia tra Comico e Commedia, ma evidenziando invece il loro contrasto, usandolo come una miscela esplosiva.
E’ lo stesso tipo di struttura di Totò, Peppino e la Malafemmina (1956). La storia del film è l’amore contrastato tra Teddy Reno e Dorian Gray. In questa commedia dei sentimenti, di una scontatezza totale, irrompono Totò e Peppino, zii cafoni di Teddy Reno, creando complicazioni nella vicenda e anche profittando di quell’esigua traccia per inanellare una serie di numeri a se stanti di grande efficacia comica. La regia del film era di Camillo Mastroncinque, ma Steno (Stefano Vanzina) vi partecipò (probabilmente come aiuto regista ) perché mi raccontò come venne sistemata all’interno del film la famosa scena della dettatura della lettera. La scena, totalmente affidata alla libera interpretazione dei due, era durata in realtà il doppio. Per poterla sistemare con un giusto equilibrio all’interno della storia del film e dei suoi tempi stabiliti, si dovette girare uno stacco su Titina nella stanza adiacente, in modo da poter operare un taglio. Un altro esempio si può fare con Non ci resta che piangere di Troisi e Benigni (1984). La storia di questo film era in realtà piuttosto complessa, ma i numeri dei due comici erano così esilaranti e duravano così a lungo ( senza che li si potesse tagliare) che al montaggio si dovette tagliare la storia, con il risultato di renderla assolutamente incomprensibile. D’altro canto il taglio era inevitabile visto che il film al primo montaggio (rispettoso tanto dei numeri che della narrazione) durava più di quattro ore!
Riassumendo la “soluzione Marx”:
1. la trama di un film comico è bene sia più semplice e consueta possibile, e nemmeno condotta da comici, ma da normalissimi attori;
2. I numeri comici, di per sé in contrasto con la storia, vengono rappresentati proprio per tali , cioè il film fa la parodia di se stesso e, sulla base di un racconto standardizzato, rappresenta l’allegro andare in pezzi di questo racconto;
3. D’altro canto, la presenza di un racconto prevedibile funziona da sostegno narrativo, da collante tra un numero e l’altro, e garantisce al film un finale, cioè una conclusione. (Su questo ultimo aspetto, cioè la funzione del finale, torneremo nella prossima lezione).
2. I film di Danny Kaye
Anche Danny Kaye, come i Marx , si era imposto nel Varietà e in teatro. Dotato di grande versatilità, univa comicità fisica e verbale a una spiccata propensione per i numeri comici musicali. Il suo personaggio base era quello dell’ingenuo sempliciotto combina-disastri , tanto entusiasta quanto preda di improvvisi sbalzi d’umore e di paure esagerate, insomma un carattere doppio e “schizoide”. Il suo problema, nel passaggio al cinema, fu lo stesso che avevano vissuto i Fratelli Marx e cioè come recuperare sullo schermo il suo vasto repertorio interpretando una storia che potesse ospitare parecchi Numeri, e gli permettesse di esprimere appieno tutte le sfaccettature della sua comicità.
Nel film Sogni proibiti (The Secret Life of Walter Mitty, 1947 ) Kaye interpreta il ruolo di un disegnatore di fumetti che vive in sogno le appassionanti avventure che poi trasporta in disegno.
Questo gli consente di dare vita, rappresentando i sogni del personaggio, ambientati in diversi contesti avventurosi, ad una serie di esilaranti Sketch/Parodie di generi.
Parecchi cavalli di battaglia del suo repertorio teatrale precedente vengono inseriti nel film ( tra questi il più celebre è Anatole of Paris). Allo stesso tempo la storia non resta un mero pretesto per legare i Numeri, perché poi accade che il protagonista, coinvolto suo malgrado in un complotto spionistico/gangsteristico, si trovi a vivere un’avventura reale che non può certo risolvere così facilmente come in sogno.
Uscendo dai guai, vincendo il suo impaccio e prevalendo sui cattivi anche grazie a una buona dose di fortuna, dimostra che i sogni (e in particolare il sogno di essere “eroe per un giorno”) possono realizzarsi. In questo modo, cioè con un meccanismo tipicamente da Commedia, si va oltre alla frammentarietà dei numeri e si racconta una storia.
Una diversa soluzione viene sperimentata l’anno successivo con il film Venere e il professore (A Song is born, 1948). Questo film è il remake di una fortunatissima commedia cinematografica scritta da Billy Wilder e Charles Brackett per la regia di Howard Hawks: Colpo di fulmine (Ball of Fire, 1941). Kaye si avvale dello stesso regista dell’originale, ma adatta la trama a se stesso. Nell’originale il protagonista era Gary Cooper, a fianco di Barbara Stanwyck, cioè due attori a tutto tondo, in grado di interpretare ogni genere di film e di personaggi. Cooper interpretava un linguista impegnato da anni a compilare con altri studiosi un dizionario enciclopedico. Piomba tra loro una ballerina di varietà braccata da una banda di gangsters (la Stanwyck). Il suo slang brutale sollecita l’interesse del linguista, tanto impacciato e a disagio di fronte all’esuberanza e al fascino della ballerina, quanto intellettualmente aperto a qualsiasi forma espressiva, anche bassa e gergale. Howard Hawks dichiarò ai produttori, rimasti piuttosto sconcertati dal soggetto, che la storia era nient’altro che
una trasposizione farsesca di Biancaneve e i sette Nani. Billy Wilder, che aveva scritto la prima versione della sceneggiatura in Germania, definì Hawks “un colossale bugiardo” e restò piuttosto deluso da alcuni cambiamenti apportati al suo script. A guardare il film è piuttosto chiaro che Biancaneve non c’entra molto (non esiste la Regina Cattiva, né lo Specchio Magico, né la Mela Avvelenata, senza contare che Biancaneve non si innamora di Dotto). La Commedia ha una struttura molto forte e originale, che rivela la mano di uno sceneggiatore/autore ferratissimo.
Come abbiamo detto, Kaye non si limita a fare un remake del film, lo riscrive in modo che possa consentirgli di liberare le sue gag . Il suo personaggio non è più un professore di lingue, ma uno studioso di musica e la ballerina che lo seduce (Virginia Mayo) è una cantante di jazz. Questo, oltre a consentire a Kaye di sbizzarrirsi in una serie di gag musicali, permette anche di inserire nel film (con una scelta molto tipica del Varietà) una serie di illustri guest star: Benny Goodman, Louis Armstrong, Lionel Hampton, Tommy Dorsey.
Procuratevi questi due film e confrontateli molto attentamente. Sono un esempio perfetto della differenza tra Commedia e Comico, in questo caso anche della differenza tra Commedia e Varietà.
La recitazione di Kaye è certo molto più divertente di quella di Gary Cooper, ma il personaggio perde qualsiasi credibilità drammaturgica e le sfumature psicologiche del suo carattere vengono azzerate. La storia, attraversata e trasgredita di continuo da numeri comici e musicali, perde totalmente i suoi equilibri narrativi e diventa spesso pretestuosa. Ciò non significa che il film di Kaye sia più brutto di quello di Cooper (questa è una questione di gusti), significa che sono due film completamente diversi pur raccontando la stessa storia. Dal punto di vista del Cinema Comico poi, è evidente (nel confronto con Sogni Proibiti) che essendo qui molto più robusto l’impianto narrativo tipicamente da Commedia, Kaye si trova costantemente frenato dal fatto di dover comunque aderire a un ruolo, e d’altro canto quando si libera ai
Numeri rivela una tale bravura da musical performer comico da rendere ben poco credibile la sua parte di serio studioso. Non è la credibilità del resto che gli interessa, visto che il suo personaggio (non il personaggio del film, ma quello che lo precede, cioè la sua maschera) è quello dello schizoide. Il film è un film godibilissimo, ma resta una testimonianza di come sia problematico affidare una Commedia all’interpretazione di un Comico. Si ha spesso la sensazione di assistere, più che a una contaminazione/fusione di elementi, a un ibrido in cui i diversi elementi restano distinti e separati.
La straordinarietà di Kaye come attore comico non riuscirà mai ad esprimersi compiutamente nei suoi film, infatti ne farà relativamente pochi (se confrontati all’estrema prolificità dei grandi comici cinematografici). I momenti più notevoli dei suoi film restano i singoli Numeri. Usando una metafora letteraria potremmo dire che la maggior parte dei film di Kaye nonostante lo sforzo di renderli storie, sono più simili ad un’antologia di brani che a dei romanzi.
3. I film di Jerry Lewis
Vediamo in sintesi i soggetti di quattro tra i più famosi film di Jerry Lewis, due in coppia con Dean Martin e altri due interpretati come protagonista solitario.
The Caddy (1953). Harvey (Jerry Lewis) è un buon golfista, ma è timidissimo e di fronte al pubblico si confonde, dunque sceglie di fare da caddy al suo amico Joe (Dean Martin).Come caddy Harvey è un vero disastro, lui e Joe litigando combinano tali sconquassi sul campo da venire banditi dalle gare. Grazie alle loro buffonate però si procurano una nuova carriera nel varietà. Trovano anche delle ragazze: Dean Martin canta appassionate canzoni d’amore alla sua (Donna Reed), mentre Jerry Lewis si mostra tenero e impacciato con la propria (Barbara Bates).
The Caddy, come potete facilmente intuire anche senza aver visto il film, è un pretesto per inanellare una serie di Numeri. Lo Sketch del golfista e del suo caddy era uno dei numeri classici della coppia Lewis & Martin, che lo interpretarono in un’infinità di varianti, in teatro e nei loro show televisivi, un po’ come lo Sketch del vagone letto di Totò. Il fatto che dall’ambiente del golf la vicenda si sposti a quello dello spettacolo, è puramente di comodo, non viene raccontato come uno sviluppo da Commedia Classica , cioè come una maturazione dei protagonisti attraverso una serie
di passaggi, ma proprio come un mero espediente per passare ad altri Numeri (canzoni e sketch altrettanto di repertorio) dopo aver “consumato” quelli golfistici. Il racconto cinematografico di per sé non ha alcuna autonomia. Il film fa molto ridere, ma è la mera trasposizione sullo schermo di un repertorio comico nato altrove, dal varietà teatrale e televisivo.
Artists and Models (1955). Dean Martin è un disegnatore di fumetti horror a corto di idee. Le ruba al suo candido compagno di stanza Jerry Lewis che fa sogni molto avventurosi e parla nel sonno. Il problema è che i sogni di Jerry finiscono per diventare così rivelatori e “telepatici” da attirare l’attenzione delle spie russe! Battute a raffica, canzoni e gag a ripetizione. Aggiungono pepe uno stuolo di modelle, tra le quali Shirley MacLaine, Dorothy Malone, Eva Gabor e Anita Ekberg.
Artisti e Modelle è in evidente debito nei confronti di Sogni proibiti di Danny Kaye. Il soggetto è quasi identico. Il film di Lewis e Martin, al confronto con quello di Kaye, resta persino più vincolato al modello Varietà e l’uso dei personaggi femminili come sfilata di belle ragazze ne è la testimonianza più evidente. Lewis e Martin hanno però un vantaggio, rispetto a Kaye: sono in due.
Il tipo di coppia comica che Lewis e Martin incarnano non è una novità assoluta (ha quanto meno un precedente nella coppia Bob Hope / Bing Crosby), ma va molto al di là della comicità di coppia. Dean Martin non è una semplice spalla, è un coprotagonista a pieno titolo. Il suo personaggio non è affatto comico, è il ruolo dell’attore brillante da Commedia: sicuro di sé, di bell’aspetto, rubacuori, smaliziato interprete di canzoni d’amore. In questo ruolo classico, Martin introduce però una piega tutt’altro che edificante: cinismo, opportunismo, una certa vigliaccheria e persino una cafonaggine che fa da contraltare alla sua esibita raffinatezza di cantante.
Martin non è dunque una spalla, è l’Alter Ego di Lewis. La sua presenza consente di esaltare le qualità contrarie (anzi da Contrario) di Lewis. Lewis ha il coraggio di rappresentare un personaggio ai limiti della rappresentabilità: il subnormale. Siamo insomma su uno dei confini che abbiamo, nella scorsa lezione, segnalato come pericolosissimi per un comico: si può ridere di un subnormale? Non si rischia così di suscitare disagio o risate crudeli? Lewis grazie alla sua incredibile duttilità fisica fa sembrare prodigioso l’handicap. In lui la non-normalità raggiunge tali vertici espressivi, da sembrarci uno stato di grazia. Sottolineando la bontà e il candore del suo personaggio, al di là delle catastrofi che procura e di certe sue bizze e piccole cattiverie infantili, Lewis ci dice che l’incapacità/impossibilità di rispettare le regole sociali e di assumere comportamenti normali è un valore positivo. Martin deve apparire anche antipatico, perché risalti che invece il comportamento “brillante” e “vincente” nasconde un’ipocrisia di fondo e persino una certa pusillanimità. Al suo personaggio da Commedia Martin aggiunge insomma una punta di disturbo, che riesce a regolare con grande capacità d’attore. Nei film della coppia Lewis-Martin il bilanciamento tra Comico e Commedia viene insomma messo in scena attraverso la loro stessa presenza. Se i Marx intervenivano come guastatori nell’ordinato svolgersi di una commedia sentimentale, qui Lewis interviene come guastatore rispetto a Martin. E’ Martin ad assumersi il peso narrativo del film, anche quello delle scene di raccordo tra i numeri, e ad arricchire di sfumature psicologiche il ruolo da attore brillante. Martin interpreta la Commedia e Lewis la devasta. Dal suo canto, Lewis fa della sua stessa comicità un ingrediente di Commedia perché il suo personaggio ha una pronunciata inclinazione morale.
Un bilanciamento così perfetto poteva reggere fuori da questa struttura di coppia?
Molti pensavano di no e accolsero come un pessimo segnale la separazione dei due.
C’erano dubbi sul fatto che Martin potesse fare fino in fondo l’attore, come sul fatto che Lewis riuscisse ad esprimere la stessa forza comica da solo. I fatti hanno sciolto ogni dubbio. Esaminiamo ora due dei film “in solitario” di Lewis.
Cinderfella (1960). Fella (Jerry Lewis), un buon ragazzo (goodfellow) inetto e pasticcione, vive in una residenza sontuosa con la matrigna e due fratellastri che lo maltrattano. Finché appare una sorta di mago protettore (Ed Wynn) che sceglie Fella come marito ideale per un’incantevole Principessa: vuole così dimostrare che le donne possono trovare la felicità anche sposando un uomo apparentemente poco dotato e non particolarmente attraente. Grazie alla magia, Fella riesce a partecipare al ballo e ad incontrare la Principessa. I due coronano naturalmente il loro amore e… vissero felici e contenti. Molti numeri comici e musicali animano la vicenda.
Il Cenerentolo richiama chiaramente il genere parodia. La storia è quella di Cenerentola, usata come traccia da Jerry Lewis per le sue invenzioni su tema. D’altro canto il fatto che Jerry nel film subisca per magia una trasformazione, gli dà anche modo di sdoppiarsi (come in un altro suo film: Le folli notti del Dottor Jerryll, cioè The Nutty Professor). L’uno diventa due, non perché si traveste, né perché il personaggio evolve fino a mutare radicalmente, ma proprio perché si sdoppia. A differenza della parodia classica, qui non si ride perché si prende in giro l’originale.
Non si fa affatto la parodia di Cenerentola: la favola non viene mutata di segno, resta tale e quale. La differenza è che Cenerentola è Jerry Lewis. Il suo cambiamento non si limita al vestito. Nemmeno è un cambiamento solo interiore, di carattere. E’ il comico che indossa una maschera doppia, esprimendo così una duttilità che va al di là della riproposizione del suo personaggio più conosciuto: il buon ragazzo timido e imbranato ai limiti del caso umano. Assumendo la maschera del suo contrario, Lewis continua però a vedere il suo Alter Ego disinvolto e brillante dal punto di vista del Comico: in altre parole assume il ruolo di Martin e ne fa la parodia. Non è affatto Cenerentola l’oggetto della Parodia, ma il personaggio brillante tipico della Commedia! Lewis raggiunge uno degli obiettivi più difficili per un comico: quello di irridere non la fatalistica serietà della Tragedia, ma la credibilità del ruolo vincente tipico della Commedia.
Three on the couch (1966). Christopher Pride (Jerry) vorrebbe sposare la sua eterna fidanzata, una psicoanalista (Janet Leigh). Ma lei non vuole farlo prima d’aver risolto i problemi di tre delle sue giovani pazienti, ragazze attraenti, ma che hanno paura degli uomini. Jerry decide di fare la corte, sotto mentite spoglie, a ciascuna di loro, allo scopo di guarirle dai complessi. Ci riesce, ma purtroppo le ragazze si mettono in testa di presentare il loro nuovo innamorato alla loro analista…
Tre sul divano è per Jerry Lewis un’occasione per andare ben oltre lo sdoppiamento e moltiplicarsi in una galleria trasformistica di personaggi diversi. Si è parlato a proposito di questo film di una vera svolta di Jerry Lewis in direzione della Commedia Sofisticata. Il tema della psicoanalisi non è qui un puro pretesto. Il film infatti autorizza una doppia lettura: si ride di fronte al camaleontismo parodistico del comico, ma si ha anche la sensazione che ci sia un tema serio, al fondo, cioè l’indagine delle paure femminili e dei diversi modelli maschili cui si confrontano. C’è anche un tema piuttosto pirandelliano. Il personaggio interpretato da Jerry è come se dicesse non solo alla sua amata, ma a tutte le sue donne: sarò come tu mi vuoi, e se sarò così mi amerai, ma sarò falso. Quando dei Numeri comici diventano Metafore, essi stessi raccontano da soli, cioè anche indipendentemente dal gioco della commedia degli equivoci, qualcosa di simbolico, di astratto se vogliamo, che va ben al di là dell’effetto risata e che comunica direttamente con l’intelligenza e/o con l’inconscio del pubblico.
La varietà e la ricchezza delle soluzioni di Jerry Lewis, alcune ereditate, altre tutte sue, al problema di equilibrare in racconto gli opposti del Comico e della Commedia, rappresenta un momento davvero fondamentale nella Storia del cinema e del cinema comico in particolare.
4. I film di Woody Allen
Se considerate i film di Woody Allen noterete facilmente una notevole differenza tra i primi (Prendi i soldi e scappa, Il dittatore dello stato libero di Bananas) e quelli della maturità (Annie Hall, Manhattan). I primi sono film puramente comici: inanellano una serie di sketch e di gag su una traccia di storia esilissima, impalpabile. Gli altri sono Commedie: raccontano una storia sentimentale, dal principio alla fine.
Take the money and run (1969) viene così definito dal critico Leonard Maltin: “Una sfilata non-stop di situazioni buffe, qualcuna funziona, qualcuna no, ma quelle che funzionano fanno davvero morire dal ridere.” Cioè, con questo film avete una perfetta illustrazione di quanto detto a proposito del carattere frammentario del cinema comico. Di questo carattere frammentario, Woody Allen fa un punto di forza. E’ proprio grazie a questo stile che si possono eliminare dal film situazioni inutili dal punto di vista dell’efficacia comica. Un esempio: il protagonista fugge dal bagno penale incatenato ad altri suoi compagni di detenzione. Il fatto che i fuggiaschi siano incatenati tra loro è lo spunto per una serie di sketch esilaranti .Quando questi finiscono, non c’è più alcun bisogno di mostrare come fanno a liberarsi dalle catene i detenuti, né di raccontare che fine fanno i diversi personaggi. Gli esercizi comici sul tema sono finiti e lì finisce anche il racconto. Si passa ad altro.
Come legame tra frammento e frammento Allen sceglie, genialmente, la struttura dell’inchiesta giornalistica televisiva: nel caso, la ricostruzione della biografia del personaggio, per stacchi, con inserti di testimonianze di chi lo ha conosciuto.
Insomma la stessa struttura che poi, in modo ancor più rimarcato, Allen userà per Zelig (1983). Parlando di quest’ultimo film, Maltin usa quasi le stesse parole con cui ha definito il primo, limitandosi a sottolineare questa differenza: “più intelligente che divertente” . Cioè in Zelig subentra un secondo intento: raccontare attraverso il protagonista e le sue vicende, un apologo. Il personaggio diventa esemplare di un atteggiamento morale (il camaleontismo). Al comico Allen si sovrappone il commediante, che rimarca il proprio essere non solo interprete comico, ma autore raffinato. La Sophisticated Comedy esce dall’implicito e vuole manifestarsi compiutamente per tale. Il pubblico non deve soltanto ridere, ma approvare e compiacersi dell’intelligenza del “discorso” ( e della propria che lo ha capito ed apprezzato). Affronteremo di nuovo questo aspetto più avanti.
Vediamo ora il soggetto di Bananas (1971): Fielding Mellish (che di mestiere testa prodotti di largo consumo) si innamora di Nancy (un’attivista politica). Partecipa a delle manifestazioni e cerca in tutti i modi di fare colpo su di lei, ma Nancy aspira a qualcuno che abbia più carisma politico: un vero leader. Fielding parte per San Marcos dove si unisce ai ribelli, finché diventa Presidente del paese. Durante un viaggio negli Stati Uniti, ritrova Nancy che finalmente, vedendolo diventato un leader, si innamora di lui.
Vediamo il soggetto di Annie Hall (1977): Alvy Singer, un commediografo di successo, viene presentato dal suo manager a Annie Hall, un’aspirante cantante, carina, di buona famiglia, ma un po’ svitata. I due vanno a vivere insieme, ma il loro è un rapporto piuttosto nevrotico: si affidano ai rispettivi analisti, si ingelosiscono, litigano, si separano, tornano insieme, si lasciano e decidono alla fine di restare buoni amici.
Apparentemente si tratta di due soggetti molto simili, con al centro una storia d’amore, ma nel primo la vicenda sentimentale è lievissima ed è un puro pretesto per una serie di scorribande comiche di Allen e di numeri assolutamente surreali, nel secondo caso la storia d’amore resta sempre al centro della narrazione e viene approfondita con realismo e rigore, nei suoi coerenti passaggi.
(NOTA- In entrambi, Allen pur interpretando in teoria un personaggio, in realtà rappresenta se stesso: nel primo caso come maschera comica, nel secondo come “uomo/personaggio Allen”. Non sappiamo quanto il personaggio dei film di Allen corrisponda in realtà all’Allen privato - non lo sappiamo neppure del personaggio Moretti - ma si suppone, il pubblico suppone, che in questi film Allen sia stato autobiografico, o quanto meno si sia confessato. Il film non ci presenta insomma un personaggio racchiuso nel film, ma un personaggio - Allen stesso - che è indipendente e autonomo dal film. La sua maschera privata, si può dire, diventa maschera pubblica. Questo è un atteggiamento ben diverso da quello del comico che tende invece a separare nettamente il suo privato dalla Maschera. Per il Principe De Curtis, Totò è un altro, come Charlot per Charlie Chaplin. Un comico indossa la maschera e quando lo fa aderisce perfettamente ad essa. Ma non fa della propria vita una mascherata. Ci tiene molto a distinguere i due ambiti. Il Protagonista mediatico invece costruisce, in questo caso attraverso i propri film, un’immagine di sé che va al di là dei film stessi. Questo genere di ruolo, ovviamente, esorbita dal mestiere e dai compiti dello sceneggiatore. Woody Allen nelle sue interviste considera la stampa scandalistica e il gossip come immondizia, e costantemente rimarca la differenza tra la propria autobiografia e la sua autobiografia fittizia dei film, tuttavia si può anche dire che ponendo la biografia sempre al centro dei suoi film, è lui stesso a costruire la trappola in cui rimane impigliato. Questo fatto lo differenzia profondamente dai comici che lo hanno preceduto e lo rende particolarmente moderno anzi postmoderno: la citazione falsa, ma simulante il vero, non è una mera parodia del documentarismo e dell’inchiesta-verità, è anche un’evidente manifestazione di narcisismo assoluto. La fama del personaggio si dilata, crea un corto circuito mediatico, i singoli film escono da se stessi, vengono vissuti come una sorta di confessione, testimonianza, pronunciamento a puntate, sullo “stato dell’artista” nel suo vissuto personale e nella sua visione delle cose. Nelle interviste nessuno si limita più a interrogare Allen sul singolo film, gli si chiedono invece giudizi politici, morali, estetici, metafisici, quasi fosse un “maitre à penser” che nell’espressione di sé matura una “visione del mondo”).
In conclusione, dal punto di vista del racconto si può dire che il racconto di Bananas è una semplice traccia, che lega insieme una serie di numeri comici. Un pretesto, in genere sentimentale, sempre molto semplice e lineare. Ma sono i numeri che ci interessano, non la storia sentimentale in sé. Il racconto di Annie Hall sistema invece gli episodi all’interno della storia di una coppia e si può dire dunque che inserisca dei frammenti, anche stilisticamente differenti e in qualche modo a se stanti (l’autopresentazione iniziale di Allen di fronte alla macchina da presa; la narrazione per piccoli sketch della propria infanzia ) dentro una struttura forte di Commedia. I singoli frammenti si giustificano narrativamente perché vivono all’interno di questa struttura. E certo riguardo al racconto si può a buon diritto parlare di Commedia Sofisticata, in termini ancora più accentuati di quanto abbiamo visto considerando Tre sul divano di Jerry Lewis. “Accentuati” in questo caso non vuol dire affatto più presenti o più importanti o meglio espressi, ma più sottolineati. L’amore più volte dichiarato da Allen nei confronti del cinema progettualmente “profondo” di Ingmar Bergman è rivelatore. Mentre Jerry Lewis lascia la doppia lettura al pubblico (se qualcuno la fa consapevolmente bene, altrimenti il senso profondo arriva lo stesso inconsciamente e ciascuno lo elaborerà a suo modo, secondo il proprio grado di sensibilità), Woody Allen cerca di fare in modo che l’Elemento Sofisticato venga notato a tutti i costi, che l’implicito diventi esplicito, che la sottotraccia affiori al punto da diventare traccia dominante, e se questo va a spese della comicità non importa: è un sacrificio necessario. Tutti i comici di razza fanno ridere, ma non tutti si dimostrano o vogliono dimostrarsi a tutti i costi intelligenti. Anche qui, ciascuno giudichi a seconda delle sue preferenze, ma a volte ostentando il bisogno di apparire profondi, si può finire per mettere in mostra il contrario e cioè una certa superficialità.
5. I film di Jim Carrey
Il curriculum cinematografico di Jim Carrey è quanto di più vasto si possa augurare a un Comico. Nell’arco della sua carriera, ha spaziato lungo tutte le sfumature del genere, dalla slipstick comedy demenziale di Ace Ventura (1994), alla totale identificazione con la “Maschera” di The Mask (1994), dalla contaminazione Comico/Commedia di Bugiardo, Bugiardo (1997) , allo sdoppiamento lewisiano di Io,me e Irene (2000), per non parlare di commedie a sfondo drammatico come The Truman Show (1998) e Man On The Moon (1999) . Carrey ha elaborato e riproposto in modo del tutto singolare e originale tutti gli insegnamenti del cinema comico precedente. In generale nei suoi film la contrapposizione tra numeri e storia scivola via quasi inavvertita anzitutto in virtù di una capacità di modulazione dei toni da misuratissimo attore oltre che da comico esasperato, e in secondo luogo perché il tono del racconto è quasi sempre fantastico. Anche storie di tipo quotidiano hanno come chiaro riferimento la favola. Anche storie che usano un plot “giallo” (espediente giù usato dalla coppia Martin e Lewis in diversi film) hanno un’inclinazione favolistica: non si tratta di un vero giallo, ma di un giallo giocoso e surreale. E’ il più delle volte per magia, per qualche incantesimo, che il suo personaggio, in partenza realistico, sprigiona il più assurdo dei comportamenti. Ma i singoli numeri sono sempre strettamente incardinati alla storia narrata. La storia non è costruita sui numeri, ma i numeri sulla storia. Nell’equilibro tra interpretazione di un ruolo e performance comica, Carrey è senza rivali. Lo si può paragonare a un musicista di jazz che alterna l’esecuzione del tema alle libere improvvisazioni (sul tema stesso).
Per comprendere bene il suo stile di lavoro, vi consiglio di acquistare il DVD di Lemony Sticket’s (Una serie di sfortunati eventi, DreamWorks Entertainment , 2005) e di studiarvi i suoi provini nei Contenuti Speciali. In questo film, Carrey dà fondo alle sue capacità trasformistiche e interpreta più personaggi, altrettante metamorfosi del già trasfigurato Conte Olaf . Nei provini preliminari, Carrey prova i travestimenti, il modo di atteggiarsi e di esprimersi dei vari personaggi, e viene intervistato dal regista (fuori campo) a proposito della vita e delle esperienze del personaggio stesso, considerato come un’autentica persona. Su questa base, Carrey si lancia in una serie di libere improvvisazioni su tema, con le quali disegna oltre che il carattere del personaggio, la sua (assurda) biografia. Molte di queste invenzioni sono poi finite nel film e hanno costituito il testo dei dialoghi del personaggio stesso. La tecnica consiste insomma in questo: si lascia libero campo (nei provini) alle grandi capacità di improvvisazione del comico, poi da questo repertorio di suggerimenti, di prove, di gag a ruota libera, si sceglie il meglio e questo meglio viene recitato come un testo scritto, durante le riprese. Il che significa che Carrey non si mette a inventare in scena (da attore), ma riproduce quanto ha inventato e creato prima (da comico).
Questo esempio può farvi capire meglio come (da sceneggiatori) si dovrebbe lavorare con un comico. E cioè, riassumendo quanto detto nella scorsa e in questa lezione:
1. L’autore di un film comico non è chi lo scrive, né chi lo dirige, ma in larga misura il comico stesso.
2. Scrivendo la storia non si può prescindere dalle caratteristiche del comico. Anche quando la storia è venuta prima, va completamente riadattata al comico che la interpreta, alle sue attitudini e al suo tipo di repertorio.
3. La collaborazione attiva del comico è fin dalla fase di preparazione, assolutamente fondamentale. Si deve scrivere per lui, senza mai forzarlo a interpretare situazioni in cui non si trova a proprio agio.
4. Nel raccontare la storia del film più modelli di narrazione si avranno a disposizione, più sarà semplice trovare la soluzione di equilibrio tra numeri e percorso generale della storia.
Approfondiamo quest’ultimo punto. Se ho dedicato due lezioni al cinema comico non è stato per una mia particolare preferenza verso questo genere, ma perché da un lato in Italia, se volete fare o sceneggiatore, vi capiterà inevitabilmente di lavorare con dei comici, visto che è questo il filone principale della produzione nazionale, d’altro lato potrete elaborare e suggerire idee narrative soltanto se siete in grado di poter scrivere secondo modelli differenti. Chiedetevi: quale tipo di struttura narrativa può essere adatta per questo comico? Più soluzioni avete a disposizione, più semplice sarà scrivere un soggetto ben bilanciato.
Però state attenti. Mettiamo per esempio che vogliate sottoporre un’idea di film a un comico televisivo che sfrutta, in televisione, un certo tipo di repertorio. Accade abitualmente che un aspirante sceneggiatore proponga al comico X una storia basata sul suo personaggio/maschera e sui suoi numeri abituali. E’ un errore. Quasi sempre questa proposta viene rifiutata dal comico stesso. Perché? Be', se non la rifiutasse, sarebbe piuttosto stupido. Il comico autore di una certa maschera televisiva o cabarettistica, è consapevole del fatto che quel tipo di maschera l’ha creata per la televisione e per il cabaret, cioè per un mezzo diverso dal cinema. In televisione e in cabaret la comicità è espressa da un certo costume (da un look) , dalle battute e dal modo di dirle del comico. A volte queste battute raccontano una storia, ma è una storia detta, non mostrata. Ed è una storia frammentata, episodica, non una storia compiuta. Sarebbe molto ingenuo supporre che questa storia possa diventare la storia del film, cioè venire non detta, ma mostrata. Quello che dovete cercare di fare non è affatto scrivere per la maschera televisiva o cabarettistica del comico, ma per il comico stesso. In cinema, il comico dovrà comunque indossare una maschera adatta al cinema, e se il film racconta una storia compiuta, dovrà anche interpretare un personaggio, un ruolo ben inserito in quella storia. Ciò su cui dovrete interrogarvi insomma, sono le caratteristiche del comico con cui lavorate: se non è abituato a muoversi, se la comicità fisica non rientra nel suo repertorio, è perfettamente inutile cercare di forzarlo in questa direzione. E sarebbe viceversa pericoloso assecondarlo a interpretare un ruolo da Commedia, se non ha la necessaria duttilità di un attore e se il suo punto di forza sono i Numeri. Quali sono i punti di forza di questo comico, quali sono i suoi punti deboli? Questo dovete cercare di capire, prima di scrivere e mentre scrivete per lui. Il comico stesso, quando mostrerà delle esitazioni di fronte a certe vostre proposte, saprà orientarvi. Se resta perplesso di fronte a una certa proposta, non è perché di per sé non gli piaccia, ma perché istintivamente non la sente giusta per lui, cioè non sa come potrebbe riuscire a far ridere sulla base di quello spunto. Se lo spunto è giusto, invece, non scrivete delle battute così rigide da frenare la sua improvvisazione verbale, non costringetelo a esprimere significati e nemmeno battute che spieghino la storia stessa. Non è questo il genere di dialogo giusto per un comico.
Il dialogo il comico deve inventarselo o comunque farlo proprio. Potete certo suggerire delle battute, ma sarà lui a sceglierle e a elaborarle. Il vero punto su cui dovete concentravi e che cade tutto sulle vostre spalle, sono proprio i binari di cui abbiamo parlato: i binari indicano da un lato un limite fisso, dall’altro un percorso. In larghezza il binario ha una misura definita e obbligata. Questo limite sono le capacità del comico e le caratteristiche della sua maschera (quello che può fare e quello che non può fare). In lunghezza il binario tende all’infinito, dovete essere voi a fissare il percorso, la stazione di partenza, quella di arrivo e le tappe intermedie, cioè il racconto. Su questo il comico, che non è solitamente un narratore, non vi sarà di nessuna utilità, questo è lavoro vostro.
Lezione di Gianfranco Manfredi
Riassumo quanto fin qui detto riguardo ai tempi del racconto cinematografico in un’unica frase: un film è un racconto per immagini, all’interno di un tempo predeterminato. Ciò significa, dal punto di vista del lavoro di sceneggiatura, che non abbiamo a disposizione quanto tempo vogliamo noi per raccontare la storia, ma dobbiamo raccontarla dentro il format industriale che (al contrario di quanto avviene in letteratura) prescinde dalle nostre esigenze, è stabilito a priori dalla consuetudine, dalle esigenze della distribuzione, da quella che è la durata media industriale del prodotto film, che come abbiamo visto è di circa due ore. Abbiamo anche osservato che ciò non è inerente alla forma espressiva film in quanto tale, perché all’epoca del cinema muto i film avevano una durata molto più variabile e tale libertà narrativa sta conoscendo un certo risveglio grazie alla diffusione del Film-making , ai Festival dei cortometraggi, alla produzione indipendente e a Internet. Ma resta il fatto che il format prevalente di un lungometraggio, (ripeto: sulla base dello stato del mercato), è quello di due ore. Per lo sceneggiatore si tratta quindi di equilibrare i tempi del racconto all’interno di questo tempo complessivo. Un errore abbastanza comune è cominciare con tempi rilassati, che ci permettono di presentare più diffusamente i personaggi e gli ambienti, per poi ritrovarsi troppo contratti nello sviluppo della vicenda e nel finale. In generale , quando si scrive, bisognerebbe avere una sorta di timing mentale e tener conto di una durata di circa 40 secondi per pagina. Scene che durino più di un minuto possono rendersi necessarie nel corso del film, ma dovremmo sempre regolarle molto bene ad evitare che squilibrino i tempi complessivi del racconto.
Detto questo, vanno considerate altre forme cinematografiche che hanno invece un format molto diverso. Un serial TV può da un lato durare quasi all’infinito (la durata di una serie dipende dall’interesse del pubblico), dall’altro nei suoi singoli episodi dura la metà di un film (cioè da quaranta minuti a un’ora). In questo caso dunque i tempi della narrazione ci impongono di strutturarla in modo differente da quella di un film. Va aggiunto che anche nella pratica di scrittura un serial TV è diverso da un film: in un film il referente centrale è (in teoria) il regista che in quanto “metteur en scene” ( autore della “messa in scena”) è colui che sorveglia e/o collabora alla sceneggiatura e ne è anche il realizzatore. Nel serial è lo sceneggiatore /ideatore della serie (cioè il creator) ad essere il referente centrale. Produrre una serie vuol dire, nell’arco di un anno, un anno e mezzo, realizzare almeno una dozzina di episodi.
Nessun regista potrebbe girarli tutti. E’ necessaria un’equipe di registi, che sulla base di scelte estetiche fatte all’inizio, girino non per differenziarsi l’uno dagli altri, ma per “scomparire” in quanto singoli autori: il serial deve avere sempre le stesse caratteristiche stilistiche anche se viene diretto da registi differenti. Anche un singolo sceneggiatore , per quanto prolifico, avrebbe difficoltà a narrare l’intera serie.
Dunque lo sceneggiatore/ideatore, che è il principale autore della serie, dovrà anche coordinare e nel caso revisionare il lavoro di una redazione di sceneggiatori incaricati di scrivere i diversi segmenti. Avrete forse notato che nei titoli di testa di una serie TV, il nome che figura nella posizione di maggior rilievo è quello dell’autore/ideatore della serie che in qualche raro caso (Twin Peaks) può anche essere il regista dei primi episodi, sulla base dei quali vengono realizzati gli altri, ma in altri casi (nella maggior parte) non è affatto un regista, ma uno scrittore, cui può anche venire affidata la direzione artistica della serie: per esempio Stephen Bocho ( autore e producer di NYPD) oppure Chris Carter ( autore e producer di X-Files). Questo tipo di organizzazione del lavoro viene da lontano, da telefilm degli anni 50 come la serie Twilight Zone (Ai Confini della Realtà ) che aveva per referente principale l’autore/sceneggiatore Rod Serling. Ma gli episodi della serie di Serling erano autonomi gli uni dagli altri, mentre la caratteristica precipua delle nuove serie è che gli episodi sono singoli capitoli di un unico racconto-fiume.
Ora, di fronte a questo genere di format i problemi per uno sceneggiatore sono molti.
Per esempio: 1. Come portare avanti un racconto di cui non è previsto il finale? ; 2. Come raccontare i singoli capitoli in modo che chi ne segue solo uno (e non necessariamente il primo) possa capire lo stesso la storia e restarci affezionato? ; 3. Come mantenere aperto il racconto in modo che alcuni personaggi possano sparire e altri comparire nella serie, senza creare scompensi narrativi?
Sono, come si vede, problemi complessi e nuovi rispetto alla normale scrittura cinematografica. Si avvicinano molto invece ai problemi che incontra l’autore di un fumetto seriale, o a quelli che incontravano gli scrittori di feuilleton (romanzi a puntate).
Molto difficilmente, in un seriale dalla continuity piuttosto marcata, potremo usare in un singolo episodio la scansione classica in Tre Atti (Presentazione dei personaggi / Sviluppo-complicazione della vicenda/ Scioglimento finale). La Presentazione dei personaggi deve avere un’altra gradualità; lo Sviluppo riguarda non solo il singolo episodio, ma deve avere come riferimento l’intero arco narrativo di almeno una stagione della serie e tenere aperta la possibilità di nuovi sviluppi nella seconda stagione e nelle successive; il Finale non c’è, bisogna dare l’impressione che possa arrivare da un momento all’altro, ma in realtà, finché dura la serie, non esiste, d’altra parte ogni singolo episodio una certa unità e un suo finale (sospeso o conclusivo) deve averlo altrimenti il pubblico ne ricaverebbe una sensazione di incompiutezza narrativa.
Infine mentre per alcune serie (Una signora in giallo, Colombo, Magnum P.I.) si mantiene un unico protagonista con comprimari più o meno fissi e poi attori che cambiano di puntata in puntata, nei seriali che si fondano sulla continuity ( cioè quasi nessuna delle puntate è indipendente e autonoma dalle altre) prevale la Coralità che non significa affatto che nessun personaggio è protagonista, ma che i protagonisti sono molti e a ciascuno dunque va dato analogo rilievo e spazio.
Ora esaminerò qui in breve due casi recenti di serial Tv: Lost e Desperate Housewives.
a) Lost (serie creata da J.J.Abrams, Damon Lindelof, Jeffrey Leiber ) La serie racconta di un gruppo di una quarantina di persone che dopo un incidente aereo si ritrova su un’isola sperduta, fuori dalle rotte navigabili e senza speranza di soccorso. L’isola costituisce un mistero, non solo perché è sconosciuta ai naufraghi, ma perché vi si aggira un inafferrabile mostro, perché è un luogo di visioni e allucinazioni, perché vi si nasconde un misterioso laboratorio scientifico, perché è abitata da The Others cioè un gruppo di criminali dagli scopi occulti, eccetera ( i misteri sono molti e incatenati tra loro). La comunità dei naufraghi trova un leader naturale in un giovane dottore che presta i primi soccorsi agli scampati, ma questi non è l’unico protagonista. Tra i quaranta sopravvissuti almeno la metà ha un ruolo di assoluto rilievo. Tutti nascondono nella propria biografia un mistero privato che non ha solo a che fare con il passato, ma con i motivi per cui si sono imbarcati su quell’aereo e con le esperienze più o meno allucinatorie che incontreranno sull’isola.
L’isola pone in qualche modo ciascuno di fronte al proprio Destino. E il rapporto di ciascun personaggio con se stesso è altrettanto importante delle relazioni che intrecciano tra di loro.
In tutta la prima stagione il serial si regge puntata per puntata su un Format molto rigido. Uno alla volta, i venti personaggi principali, assumono nel racconto un ruolo da protagonista e il racconto delle singole puntate viene strutturato così: seguiamo da un lato le esperienze che un certo personaggio fa sull’isola insieme agli altri, dall’altro vediamo in flash back la vita e le avventure del personaggio prima di imbarcarsi sull’aereo. Questi due diversi piani narrativi, trovano la loro sintesi ( e chiusura) perché c’è un rapporto di incrocio tra il passato dei protagonisti e le avventure che si trovano a vivere sull’isola.
Ora riferiamoci ai problemi sopra delineati e vediamo come sono stati risolti nella serie.
1.Come portare avanti un racconto di cui non è previsto il finale?
La serie Lost ha un tipico intreccio da “Mystery”. A condurre il racconto generale ( e a tener desta la curiosità del pubblico) sono i diversi misteri che si susseguono, che trovano progressivamente soluzione, ma che ne aprono di nuovi. In serie come Twin Peaks si era notato che se si struttura la serie su un unico mistero forte (Chi ha ucciso Laura Palmer?) a cui ne vengono poi correlati altri, la soluzione non può venire differita troppo a lungo: prima o poi l’assassino va scoperto. Quando l’assassino viene scoperto, se però la narrazione (in conseguenza dell’enorme successo di pubblico ottenuto) deve continuare, bisogna escogitare un altro mistero con cui proseguire. Ma nel caso, la soluzione fondamentale era già stata data: il pubblico dimostrò di considerare la serie conclusa e la abbandonò. Ricominciare da capo e con un altro “tirante” non funziona. L’espediente di correlare tra loro molti misteri fin dal principio, permette di evitare questo scoglio. La spiegazione , nel corso della serie, di un singolo mistero non chiude la storia, perché molti altri ne restano aperti. Per di più, il fatto che questi misteri siano collegati tra loro, conduce il pubblico non tanto interrogarsi sul singolo mistero, ma sull’intreccio tra i misteri. La narrazione non esamina i misteri uno alla volta, fa sempre capire che sono tutti collegati. L’attesa della rivelazione è così spostata su: qual è la relazione tra i diversi misteri? Questa relazione è il mistero guida. E dato che possiamo sviluppare e complicare la narrazione con misteri successivi correlati, in teoria possiamo anche permetterci una
narrazione all’infinito. Questo non vuole affatto dire che non sappiamo , da sceneggiatori, dove andare a parare. Anzi è il contrario. Dovendo esplorare ed arricchire l’intreccio tra i misteri , la sceneggiatura dev’essere condotta con una scaletta di ferro nella quale ogni singolo evento ha un senso preciso nel disegno generale/progetto della serie.
2. Come raccontare i singoli capitoli in modo che chi ne segue solo uno (e non necessariamente il primo) possa capire lo stesso la storia e restarci affezionato?
La serie è sempre preceduta da un breve riassunto nel quale non si riepiloga l’intera vicenda, ma solo i dettagli indispensabili a capire il nuovo episodio in programmazione. Ma la cosa fondamentale è che incentrando su un personaggio principale la vicenda di una singola puntata, ogni episodio può venire gustato di per sé. Il passato del personaggio, come abbiamo detto, è in relazione con quanto gli accade sull’isola e ha conseguenze sul tipo di rapporti che il personaggio instaura con gli altri, e infine l’esperienza vissuta sull’isola può risolvere o aggravare un problema psicologico e/o fattuale che il personaggio ha avuto in passato. In questo modo si può usare la struttura in Tre atti , perché il racconto ha una premessa, uno sviluppo e una soluzione (per quanto provvisoria). L’affezione del pubblico sarà doppiamente stimolata: dall’interesse per il personaggio e dalle attese su come questi potrà muoversi in futuro, in rapporto con gli altri e con le nuove avventure che si troverà ad affrontare.
3. Come mantenere aperto il racconto in modo che alcuni personaggi possano sparire e altri comparire nella serie, senza creare scompensi narrativi?
Nella serie, alcuni personaggi muoiono, ma possono ricomparire nei ricordi degli altri e non venire dunque eliminati per sempre dalla serie. Al contempo il fatto che muoiano permette in corso d'opera di aggiungere nuovi personaggi senza aumentare il numero totale in tale misura da rendere ingovernabile la serie. Inoltre la coralità consente di alternare i personaggi nel ruolo guida : il protagonista di una singola puntata può diventare, senza perdere le sue caratteristiche, comprimario in un'altra o addirittura risultare assente per un paio di puntate senza recare danno alla continuità del racconto. Se la struttura è rigida, il movimento dei personaggi vivacizza e rende particolare ogni singola puntata con digressioni/flash back ( e anche flash forward nelle ultime stagioni) che ci conducono in altri luoghi (in diversi luoghi del mondo) togliendo fissità all’ambientazione unica di base (l’isola).
Le soluzioni che abbiamo qui in breve delineato, tuttavia non risolvono pienamente il problema che abbiamo accennato riferendoci a Twin Peaks e che è inerente al Serial basato sulla continuità narrativa. Come evitare che ad un certo punto il pubblico si stanchi? Come affrontare senza ripetersi la seconda stagione del serial, e le seguenti, a personaggi ormai ampiamente presentati? Fino a che punto si può prolungare la storia senza andare a un vero finale?
La seconda stagione di Lost si segnala per alcune modifiche di rilievo: essendo già stati presentati tutti i protagonisti della serie, le singole puntate mettono in maggior rilievo l’intreccio, i flash back si fanno più rapidi, non riguardano il singolo personaggio, ma si alternano frammenti di vita di più personaggi . L’azione diventa in generale più concitata, si attenua l’accumulo di misteri che finirebbero per complicare eccessivamente la storia, e li si sostituisce con una maggiore dose di avventura. (Ad esempio: il tale viene rapito, riusciranno gli altri a salvarlo?) Inoltre, sempre per l’esigenza di poter continuare per molte altre puntate, si presentano in sostituzione di alcuni dei personaggi della prima serie, dei nuovi personaggi (un secondo gruppo di sopravvissuti e gli Others cattivi ). Si ha però l’impressione generale che le singole puntate perdano una struttura salda di riferimento, i flash back sul passato dei protagonisti illuminano frammenti secondari, di complemento, ma di minor forza espressiva (le cose fondamentali su di loro e sulle loro biografie sono già state raccontate). Inoltre le assenze (anche se momentanee) di alcuni personaggi pesano di più di quelle di altri e troppi di loro restano come in sospeso. Infine l’apparizione del secondo gruppo di sopravvissuti anche se mette in gioco almeno un paio di personaggi notevoli e fondamentali per capire l’insieme della storia e svelare alcuni dei misteri, sa un poco di espediente per allungare il brodo. In altre parole, da pubblico, si comincia a percepire con qualche disagio che raccontando così, veramente la storia potrebbe non avere mai fine. E questo, per una storia comunque fondata su un Mistero e che viene condotta su un registro drammatico, è un problema. (Lo stesso difetto si può riscontrare del resto nella seconda stagione di Carnivàle).
Mentre una serie come I Soprano, seguendo tempi narrativi da biografia/vita quotidiana di gruppo e con una chiarissima gerarchia tra i personaggi, può davvero durare all’infinito senza pesare sul pubblico, una storia Mistery non può sfuggire all’inevitabile: la storia va chiusa, non può non avere un finale. Se si conclude, non la si può riaprire. Se non la si conclude, l’attesa della soluzione non può venire dilatata all’infinito: c’è un punto di non ritorno, oltre il quale la storia non la si regge più.
Dal punto di vista dei tempi, le singole puntate di Lost sono esemplari. Si tratta, nella prima stagione, di raccontare di volta in volta, in un tempo estremamente ridotto, un episodio cruciale della vita passata di uno dei protagonisti. Questo costituisce una sorta di “racconto nel racconto” o di “film nel film”. Può essere molto utile per voi studiare bene questa serie per capire come si racconta una vicenda in breve, in poche ficcanti scene, senza lasciare mai l’impressione di assistere a un racconto sbrigativo e frettoloso. Ciascuna di queste storie sarebbe potuta essere da sola un film. Esempio: uno dei personaggi vince alla lotteria e da quel momento incappa in una serie di sfortune, che però non capitano direttamente a lui, ma ai suoi amici e parenti. E’ insomma un fortunato che comincia a sentirsi uno jettatore. Su questa traccia si potrebbe raccontare un film di due ore, eppure la storia viene raccontata (e con completezza) al massimo in venti minuti. Questa concentrazione non impedisce affatto che ci siano momenti calmi, indugi, pause. Ma la pausa non è sospensione della narrazione, la pausa è un elemento del ritmo.
Infinite discussioni hanno destato le stagioni successive di Lost e in particolare l'ultima, quella che doveva per forza condurre alla soluzione del mistero, soluzione che non poteva non essere che circolare o elittica, riportando in qualche modo alla situazione di partenza e lasciando dunque intatto il mistero o meglio risolvendolo in una metafora simbolica. Questo genere di soluzioni deludono sempre il pubblico che si sente non a torto preso in giro se alla fine di un film il protagonista si sveglia e scopre di essersi sognato tutto e poi magari, ossessivamente, il cerchio ricomincia a disegnarsi.
b) Desperate Housewives ( serie creata da Marc Cherry)
La serie ha un andamento da commedia con un leggero (e ironico) tocco di noir. E’ infatti raccontata (con voce fuori campo) da una morta, cioè una casalinga che si è suicidata per misteriosi motivi e che dall’al di là continua a seguire in spirito le vite delle sue amiche e le vicende del quartiere i, o meglio della strada, in cui è vissuta.
Anche qui la prima stagione è condotta seguendo il filo rosso di un mistero: perché la casalinga si è suicidata? Quali misteri si nascondono a Wisteria Lane, dove vivono le amiche della defunta? Seguiamo in modo intrecciato le vite di cinque donne ( e dei personaggi loro collegati, mariti, figli, amanti, parenti) . Non seguiamo queste vite una alla volta, puntata per puntata, ma tutte insieme, in continua alternanza tra personaggio e personaggio, in ogni singola puntata. Insomma tutte le donne sono egualmente protagoniste, non solo della serie, ma di ciascuna puntata. Gli sceneggiatori non hanno (se non di rado) necessità di mostrarci il passato delle protagoniste per farci capire chi sono, perché basta vedere le loro vite in atto, basta vedere quello che fanno e come si comportano per familiarizzare con loro.
Torniamo ora alle tre domande.
1.Come portare avanti un racconto di cui non è previsto il finale?
La scelta del genere commedia, molto diverso dal Mistery, è decisiva. E’ vero che c’è un mistero che ci fa da guida ( perché il suicidio iniziale?) , ma non è così in primo piano da fare della serie un giallo. Il mistero si svela non alla fine della prima stagione, ma nella prima puntata della seconda. Anche in questo caso, viene sostituito da un secondo mistero: è arrivata nel quartiere una nuova vicina che ha qualcosa da nascondere. Però le singole puntate seguendo le vite intrecciate delle protagoniste mirano soprattutto a presentarci delle situazioni divertenti. I personaggi delle protagoniste sono degli stereotipi, ben bilanciati tra loro: Susan (la pasticciona), Lynette (la donna pratica), Gabrielle (la sensuale), Bree (la frigida). A queste quattro fa da contraltare Edie : le altre hanno famiglia, lei è single; le altre sono simpatiche, lei è antipatica; le altre non sono competitive tra loro, lei è competitiva con tutte.
Ciascun carattere ha le sue contraddizioni: Susan è un animo candido, ma procura guai a sé e agli altri; Lynette ha un grande talento nel risolvere le situazioni, ma a prezzo di uno stress continuo; Gabrielle usa la sensualità come potere e privilegio senza trascurare la cosa per lei più importante: i soldi; Bree è terribilmente rispettosa delle regole, ma coltiva oscure pulsioni omicide; Edie è sessualmente aggressiva, ma fa anche un po’ pena perché condannata a restar sempre sola. Le loro storie quotidiane ( intessute con grande leggerezza di elementi noir) non sono altro che un modo per mettere dei caratteri da commedia (delle “maschere”) in situazioni “disperate” risolte narrativamente con felice umorismo. I caratteri da commedia ( a cominciare da quelli della Commedia Dell’Arte) non hanno necessità di concludere, non nascono e non muoiono, possono durare all’infinito. Cambiano le situazioni, gli spunti, ma ogni volta i personaggi ci fanno ridere perché si ripresentano identici. Se c’è un mistero principale che ci permette di unire in un racconto continuo le puntate, ci sono però ( come ne I Soprano) le “vite che continuano” che già di per sé sono un robusto tirante, rispetto al quale il Mistero non appare dominante. Non seguiamo la storia per capire la verità (anche se questo è un elemento di attrattiva) ma perché quei personaggi ci sono simpatici e più le loro vite si incasinano più ci diverte scoprire come se la caveranno e come replicheranno se stessi in situazioni mutate.
2. Come raccontare i singoli capitoli in modo che chi ne segue solo uno (e non necessariamente il primo) possa capire lo stesso la storia e restarci affezionato?
Con la commedia, questo è molto più semplice. Di fronte a una scena divertente, chi già conosce il personaggio e le premesse narrative, ride di più, ma chi vede il programma per la prima volta si diverte lo stesso, a prescindere dal prima e dal dopo, perché i singoli segmenti sono comunque degli sketch. Il fatto poi che le protagoniste si alternino nella stessa puntata e dunque che seguiamo più vicende in parallelo, ci permette di differenziare toni e situazioni e di condurre il racconto in modo molto animato. Una volta agganciato ai personaggi, il pubblico non se li perde più. Non ci si chiede soltanto “come andrà a finire?” , ma anche “vediamo cosa fa il tal personaggio adesso”. E chissà cosa farà nella prossima con lo sviluppo della storia…
3. Come mantenere aperto il racconto in modo che alcuni personaggi possano sparire e altri comparire nella serie, senza creare scompensi narrativi?
Anche questo è molto più semplice con il genere commedia. I personaggi/caratteri fondamentali restano gli stessi. Le new entry sono personaggi di contorno. Questi personaggi non vengono però in sottordine: sono gli invasori, quelli che creano scompiglio e nuovi problemi nel gruppo delle protagoniste. I loro ruoli anche se limitati ad alcune puntate, sono di rilievo.
Dal punto di vista dei tempi, DH è un esempio anche più smagliante di Lost. Qui seguiamo contemporaneamente quattro/cinque personaggi. In una puntata di quaranta minuti, ciò significa che abbiamo meno di dieci minuti per personaggio. In questi dieci minuti scarsi dobbiamo raccontare tutto l’arco della sua avventura. Abbiamo pochissime scene a disposizione per ciascun segmento di racconto, e ciascuna di queste scene deve essere significativa e divertente perché nella continua alternanza sarebbe pericolosissimo e squilibrante se la scena di una delle casalinghe risultasse fiacca rispetto a quella di un’altra.
Dal confronto tra Lost e DH abbiamo così cominciato ad affrontare il prossimo tema su cui si incentrerà il corso e cioè l’influenza dei generi sulla narrazione, sui suoi tempi e sulla sua struttura. Un punto è bene sottolineare: se costruite il vostro personaggio sul fascino del mistero, tenete conto che man mano che il mistero si svela, il personaggio perde fascino; se all’opposto il vostro personaggio è di una chiarezza lampante ( un carattere “tipico”) la sua attrattiva sta nel replicarsi in situazioni sempre diverse.
Esercizio
Sarebbe difficilissimo, anzi impossibile al momento esercitarsi su una struttura così complessa com’è quella del Serial TV. Ho preferito darvi una traccia utile a farvi capire come cambiando i format, cambiano i problemi. Le tecniche narrative, in cinema, non sono date una volta per tutte, sono costrette a riformularsi ogni volta a seconda degli sviluppi del mezzo, ai suoi modi di confezione e diffusione. E molti dei problemi che ne nascono non si possono prevedere al principio, bisogna sperimentare le soluzioni a confronto con la macchina produttiva da un lato e con le risposte del pubblico dall’altro. Ciò detto, vi raccomando non solo di vederle, queste serie, ma di registrarne qualche puntata e di “smontarla” per capire bene quello che più ci interessa in questa fase e cioè come si può raccontare una storia in sintesi, senza che appaia al pubblico come un riassunto approssimativo e sciatto. Se dunque qualcuno di voi vorrà estrarre da una puntata il flash back sul passato di un personaggio di Lost, o la sequenza di scene di una delle protagoniste di DH, giusto per ricavare una scaletta di cosa succede, cioè come viene raccontato nella sua completezza e nei diversi passaggi quel segmento di storia, sarà un esercizio assai utile.
Le scene mute
In questa lezione approfondiremo i punti indicati nella lezione scorsa. Anzitutto abbiamo visto che nella scansione narrativa di un film il “tempo reale” deve venire usato con molta parsimonia e se il rallentamento che ne consegue ha una sua funzione espressiva. Per esempio nella serie I Soprano, a volte il tempo reale viene usato per distaccarsi un momento dalla sequenza degli avvenimenti e offrire al pubblico, non solo e non tanto una pausa nella concitazione del racconto, ma un approfondimento psicologico sul personaggio che, ad esempio, quella pausa non sa godersela: i suoi gesti sono meccanici, la sua testa è altrove, c’è un disagio indefinibile nella sua solitudine (e si può essere soli anche in compagnia). Anche qui si tratta in realtà di un tempo reale alterato, perché questo genere di scene durano pochi secondi, ma sembrano durare a lungo, perché il montaggio non stacca, la macchina da presa segue il movimento “naturale” del personaggio in piano sequenza, oppure resta fissa. Se stacca è per enfatizzare, con un primo piano, uno sguardo nel vuoto, una sorta di apnea emotiva. Per esempio, Tony Soprano in vestaglia sta guardando fuori dalla finestra. Non ci viene mostrato cosa sta guardando. Sarebbe inutile e anche sbagliato mostrare l’esterno perché Tony non sta guardando proprio niente. E’ questo che vogliamo sottolineare. Di queste scene, come di contrappunto all’azione, ma fondamentali, ce ne sono diverse nel già più volte citato Il Laureato. Più che di vero e proprio tempo reale, si può parlare di “tempo sospeso”. E’ un errore (in linea di massima) usare queste scene in senso descrittivo: per esempio per mostrare la vita quotidiana di un personaggio attraverso le sue minute operazioni. Vogliamo raccontare la noiosa ripetitività della vita di una casalinga? Be', sarebbe sbagliato vedere la casalinga che rientra in casa, tira fuori la spesa, dispone nei vari scomparti quello che ha comprato, sceglie di cucinare qualcosa, comincia a preparare… tutto in tempo reale. Così annoieremmo anche il pubblico. Raccontare la noia non vuol dire raccontare in modo noioso. Se quello che ci interessa, narrativamente, è mostrare che la casalinga in questione soffre di questa sua condizione, come di un vuoto nel quale è sprofondata, allora è più efficace mostrare per stacchi il suo ripetitivo affaccendarsi e poi indugiare per qualche secondo, mentre l’acqua bolle sul fuoco, sulla protagonista seduta su una sedia con lo sguardo assente. Quando si scrivono queste scene in sceneggiatura, bisogna descrivere la situazione con grande sobrietà, concentrandosi sul senso emotivo della situazione. Stiamo parlando di scene quasi sempre mute, senza dialoghi. A volte, da sceneggiatori, può prenderci il dubbio che siano troppo statiche, troppo poco esplicite. Ci fidiamo poco degli attori. E se non riuscissero a renderne il senso? Così aggiungiamo qualcosa. La casalinga di prima accende la radio o la TV mentre continua le sue ripetitive operazioni in cucina.
Oppure squilla il telefono. La cosa la scuote. Era solo qualcuno che aveva sbagliato numero. Delusione. Crediamo così di aver chiarito meglio la situazione, di aver offerto qualche maniglia di sicurezza all’attore facendo accadere delle cose. In realtà rischiamo di appesantire la scena e di perdere il suo nucleo espressivo. D’altro canto, molte scelte estetiche e di racconto, nel cinema si fanno per necessità. Il cinema non si fa sulla carta, è una cosa molto concreta. Chi scrive deve sapere in anticipo cosa si può permettere e cosa no. Quanti giorni di ripresa sono previsti? Quali sono le dimensioni della troupe? Gli attori, il regista, il direttore della fotografia saranno adeguati o dovremo fare di necessità virtù? Tutte queste cose bisogna saperle prima di mettersi a scrivere. Altrimenti sarà difficile scrivere anche una singola scena.
Prendo un altro esempio da un vecchio libretto che ho ritrovato, pubblicato nel 1959, quando ormai era già diffuso, con l’otto millimetri, il cinema amatoriale. All’epoca i ragazzi che si procuravano una piccola macchina da presa non si accontentavano più di usarla per immortalare matrimoni, nuove nascite, gite famigliari e scene varie di vita tra amici e parenti . Nasceva il film maker dilettante che già provava a girare dei piccoli film di pochi minuti, film in genere muti, perché pochi possedevano una camera con registratore e un proiettore sonoro. Questi piccoli film erano il più delle volte improvvisati, senza alcuna sceneggiatura. Manualetti come questo di Leopold Eugeen Vermeiren ,intitolato Brevi spunti e sceneggiature per i vostri film (Biblioteca del Cineamatore, Edizioni del Castello, Milano) si proponevano non solo di suggerire delle brevi sceneggiature, ma di mostrare praticamente come scriverle.
Nel breve sketch filmato che ho scelto tra gli altri (alterandolo un pochino per stringere e per maggiore efficacia “didattica”) , si racconta l’attesa che precede un appuntamento galante.
- (PP) Interno di un salotto. Un orologio segna le cinque meno cinque. Accanto all’orologio sta una fotografia di Rosetta. Una mano la prende.
- (PP) Enrico , un tipo piuttosto corpulento, vestito molto bene come per un appuntamento galante, guarda teneramente la fotografia. Poi guarda l’orologio.
- (CL) Enrico va alla tavola apparecchiata a festa per due, sulla quale stanno bicchieri, vino e liquori. Nel mezzo c’è una grande torta.
- (CM) Con meticolosa cura, il tenore ritocca la decorazione della tavola e guarda di nuovo l’orologio.
- (PP) L’orologio segna le cinque meno due minuti.
- (CM) Enrico diventa po’ impaziente. Va alla finestra e guarda la strada.
- (PP) Un orologio alla parete segna le cinque precise.
- (CM) Enrico cammina nervosamente su e giù per la stanza. Guarda il suo orologio da polso, poi l’orologio da parete, poi di nuovo la fotografia di Rosetta.
- (PP) L’orologio segna alcuni minuti dopo le cinque.
- (PPP) La mano di Enrico tamburella nervosamente sul tavolo.
- (PP) Fuori dalla porta. Un dito preme il campanello.
- (PP) Nell’appartamento. Il volto di Enrico si rischiara felice.
- (CM) Enrico corre veloce alla porta.
- (PP) Appare oltre la soglia un ragazzo dell’Ufficio Telegrafico.
- (CM) Enrico , sconcertato, ritira un telegramma.
- (CM e PP) Di nuovo nel salotto. Enrico ha aperto il telegramma e lo sta leggendo. Lo abbassa, deluso e afflitto. Guarda verso la tavola imbandita.
- ( CM) La tavola imbandita.
- (CL) Enrico attraversa lentamente la stanza. Legge ancora una volta il telegramma. Si ferma di fronte alla fotografia.
- (PP) La mano di Enrico prende la fotografia di Rosetta e la gira verso la parete.
- (CM e PP) Enrico va alla tavola imbandita e si siede lentamente. Il suo sguardo vaga sulla tavola. Si versa un liquore. Poi prende un pezzo di torta.
- (PP) Enrico mangia la torta. Il suo sguardo è assente. Poi si concentra sulla torta. E’ buona.
- (PP) L’orologio segna le cinque e dieci minuti.
- (CL,CM, PP alternati) Enrico sta mangiando avidamente. Metà della torta se n’è già andata. L’espressione di Enrico è di intensa soddisfazione. Si è tolto la giacca e la cravatta, libero da ogni formalità. E continua ad abboffarsi.
In questa e altre scenette molto semplici, il primo scopo dell’autore del manualetto è insegnare come si scaletta una situazione, come si può scandire il tempo, e come alternare inquadrature molto semplici (Primo Piano, Campo Medio, Campo Lungo) per dare un ritmo a una scena che in tempo reale risulterebbe noiosa. Come potete vedere, il tempo cinematografico non è tempo reale. Gli stacchi ci permettono la sintesi. L’insistenza sugli orologi segnala il passare dei minuti. Ma dieci minuti sono per il pubblico passati in pochi secondi. Ogni stacco ci ripresenta il protagonista in una situazione emotiva cambiata: da attesa fiduciosa ad attesa nervosa, da attesa delusa a delusione compensata. Abbiamo raccontato, senza bisogno di dialoghi, l’evoluzione degli stati d’animo del protagonista e anche il suo carattere: in fondo la sua vera passione è mangiare, della fidanzata poteva anche fare a meno.
Tuttavia questo è anche un tipico esempio di cosa fare quando non ci si può fidare degli attori, che nel caso di un film amatoriale non sono dei professionisti. In questo caso, staccare spesso e usare molti dettagli consente di evitare quei passaggi intermedi, da uno stato emotivo all’altro, che solo un attore esperto sarebbe in grado di esprimere. Se riprendiamo l’esempio fatto sopra a proposito della nostra scena della casalinga, difficilmente un attore dilettante saprebbe sintetizzare in un’unica posizione, in uno sguardo nel vuoto, lo stato d’animo del personaggio. In questo caso dunque, usare la telefonata permette una maggiore resa. Sarebbe velleitario cercare intensità espressiva in chi non può darla. Infine, riguardo all’uso abbastanza esasperato, nell’esempio di Enrico, dei primi piani, va osservato che al contrario di quanto si potrebbe pensare, il primo piano non è per un attore professionista il climax della sua performance. Un bravissimo regista di film western all’italiana (Giulio Petroni) si trovò in Tepepa a girare con Orson Welles che interpretava nel film il ruolo del cattivo. Ora, nel cinema classico americano, i primi piani sono rari: vengono usati per particolari sottolineature, e in genere sono riservati ai protagonisti.
Un bel primo piano, all’epoca, richiedeva anche una preparazione molto accurata delle luci . Il primo piano di una diva, destinato a fare di lei un’icona, poteva comportare anche una giornata intera di preparazione. Non era cosa da sbrigare al volo. Era un ritratto. Welles restò dunque stupito dalla quantità di primi piani girati alla svelta da Petroni , primi e primissimi piani per di più riservati spesso a semplici comparse e a figuranti. Ne chiese il motivo: “Perché tutti questi primi piani?” E Petroni osservò giustamente: “Il primo piano drammatizza. Anche un attore cane sembra un bravo attore.” L’abuso dei primi piani che si fa nelle novelas televisive non è soltanto dovuto ad ovvi motivi di dimensione dello schermo, ma anche al fatto che stringendo sulle facce, anche un attore poco espressivo risulta efficace.
Ora analizzeremo invece un altro caso. Un caso dove ci si può fidare degli attori (e del regista). Una scena che non può certo venire definita come di pausa o d’attesa e nemmeno come semplice approfondimento della psicologia del personaggio. Una scena molto complessa, tratta dalla Dolce Vita di Fellini. E’ la famosa scena finale.
Sulla spiaggia c’è un mostruoso pesce morto che desta la curiosità di tutti. Ciascuno ha la sua reazione: stupore, indifferenza, divertimento, persino tenerezza.
E il protagonista? Gli sceneggiatori scrivono:
- Marcello non sa staccare il suo sguardo da quello del pesce. Si direbbe che lo guardi come un messaggio da decifrare, giunto a conclusione di una nottata vuota e persa, o forse a conclusione di tutto.
Saggiamente, gli sceneggiatori ( Fellini, Flaiano, Pinelli, Rondi) non fanno esprimere verbalmente questo sentimento dal protagonista. Gli altri personaggi lo hanno fatto.
Lui no. Non perché Marcello sia dipinto come un antisociale o un introverso. Ma perché Marcello stesso non ha parole per definire la sua emozione di fronte all’indecifrabile sguardo/messaggio del pesce. Sarebbe stata una pacchianata se Marcello avesse mormorato: è la fine di una nottata vuota, la fine di tutto… ( e quante pacchianate del genere si fanno nei film, soprattutto quando si vogliono sottolineare a tutti i costi i significati presunti “alti”!) Proseguiamo.
- Marcello si allontana di qualche passo. E’ sempre più nauseato, stanco, forse oppresso da oscuri presentimenti, da un’angoscia accumulata e che ora sembra stia toccando il fondo. Qualcosa però lo distrae…
- Sono piccole, dolci figure femminili apparse sulla spiaggia, dalla pineta. Si direbbero bambine. Esse si avvicinano al mare, tranquille, sicure, allegre,come sono le ragazze quando stanno in compagnia.
- Come sollevato da quella vista, Marcello le osserva attento, attratto, quasi già con un lieve sorriso sulle labbra. Si sentono le loro voci gaie e un po’ sciocche.
- Marcello, che aguzza lo sguardo come se ne riconoscesse una, getta via la sigaretta e va loro incontro con le mani in tasca.
-Sono di fronte.
- Marcello le sta a guardare con un mezzo sorriso. Tutte lo sorpassano occhieggiando e sorridendo, tranne una. Resta ferma davanti a Marcello: è timidissima, eppure lo guarda diritta negli occhi, educata e sicura.
Com’è stata narrata fin qui la scena in sceneggiatura? I tempi sono scanditi sui passaggi emotivi del protagonista rispetto a ciò che vede. Le definizioni di questi stati d’animo sono chiare eppure , se ci fate caso, sono molti i “forse” , i “sembra” , i “quasi” . Ciò definisce anche lo stile della rappresentazione: si vuole esprimere qualcosa di sottile, di indeterminato, qualcosa che non si è ancora fissato nella mente del protagonista e che tanto meno deve venire impresso nella mente del pubblico.
Tanto sono inequivocabili nei loro giochi le ragazzine, tanto è, per contrasto, smarrito il protagonista. E di questo smarrimento noi spettatori dobbiamo essere partecipi.
Tutto ciò può essere espresso perfettamente in un tempo “sospeso” e con una scena muta. Non bisogna avere paura delle scene mute. Sono cinema, come e spesso più delle scene fittamente dialogate. I problemi per la sceneggiatura iniziano infatti da qui. Da quando i due (Marcello e la ragazza) si parlano.
MARCELLO: Tu… come ti chiami?
PAOLA( stupita, ma lievissimamente, come se egli già lo dovesse sapere) : Paola !
MARCELLO: Ma noi… mi pare…ci conosciamo…
Paola accenna di sì, più volte, molto decisa, con la testa, con un sorriso tra trionfante e impacciato.
MARCELLO: Sai … che non mi viene in mente…
PAOLA: Lavoravo a Tor Vaianica… portavo da mangiare alla signora…
MARCELLO ( con allegra sorpresa) : Ah, sì… adesso mi ricordo: Paola…
Tutti e due sono stranamente lieti dell’incontro: c’è qualcosa di profondamente gioioso nella loro espressione.
MARCELLO: E cosa fai qui?
PAOLA (con naturalezza): Lavoro.
( ma si sente obbligata a precisare)
Qui alla Pensione Amalfi…
( e furbescamente nella sua assoluta ingenuità)
Si guadagna di più!
Paola ha un sorriso.
(Con un guizzo)
Adesso io e le mie compagne siamo venute a farci un bagno…
Guarda impaziente, infantile, allegra,verso le sue compagne, che tirandosi su le sottane, alcune, altre in costume, stanno bagnandosi le gambe poco più in là.
Si vede che ha molta voglia di raggiungerle, di stare con loro, di divertirsi con loro.
Marcello però ha ancora qualcosa, non sa nemmeno lui cosa, da dirle. Vorrebbe trattenerla.
MARCELLO: Aspetta…hai visto cosa hanno pescato? Vieni a vedere…
Priva di vero interesse per la cosa, ma incapace di dire no all’uomo, Paola lo segue verso il gruppo dei pescatori.
Il gruppo si è frattanto diradato. Gli amici di Marcello si stanno allontanando dall’altra parte, lungo la spiaggia. E alcuni pescatori sono già chini ad arrotolare le reti, al loro lavoro quotidiano.
Il pesce è ancora lì, sotto il sole. Ma ormai è superato: è un povero pescione morto.
Anche il suo occhio è come spento, forse perché camminandogli accanto, qualcuno gli ha fatto cadere sopra un po’ di sabbia.
MARCELLO: Vedi?
Paola guarda un momento il pesce : poi – benché sempre gentile e sorridente – alza lievemente le spalle come a mostrare che di quella bestia le importa poco.
PAOLA: E’ un pesce.
E, con un guizzo improvviso, corre verso le sue compagne. La sua corsa è un po’ esagerata ed è piena di una dolce goffaggine infantile. Correndo si volta un attimo verso Marcello , come per scusarsi, con inconscia crudeltà.
PAOLA: Addio!
Rimasto lì accanto al pesce, Marcello è incerto: non sa se seguirla, chiamarla…
MARCELLO (a voce quasi bassa): Paola!
Ma Paola corre, corre verso le sue compagne. A un certo punto si ferma, si toglie le scarpe, e continua a correre scalza.
Marcello si muove lentamente, andandole dietro. Essa è già laggiù, nella luce freschissima della mattina, che entra in acqua, raggiungendo le sue amichette. Si sentono le loro voci,le loro lunghe risate un po’ scioccherelle che non finiscono mai.
Marcello è preso da una profonda , inesplicabile commozione: ma non sa nemmeno lui se è per dolore o per gioia, per disperazione o speranza.
Così raggiunge il punto dove Paola ha lasciato le sue scarpe. Egli si china e le tocca; poi le prende in mano.
Sono delle povere, graziose scarpine da poche lire, un po’ scalcagnate.
La commozione di Marcello è struggente.
Guarda laggiù, nel mare fermo e luminoso, le ragazzette che impazzano felici misteriose messaggere di una nuova vita.
Così termina il film. Che la scena sia ben scritta non c’è dubbio. Eppure… guardatevi il film. La scena è stata radicalmente cambiata. Così descrive il cambiamento l’aiuto regista di Fellini Giancarlo Romani: Il finale è il cambiamento più importante. Marcello, stanco e svuotato, si stacca dal gruppetto intorno al pesce e va a sedere sulla sabbia poco lontano. A questo punto Paola, che sta giocando con altre bambine oltre la foce di un piccolo fiume, lo vede e lo chiama. Marcello non la riconosce e il rumore del mare gli impedisce di sentire quello che lei gli grida. Così i due sulle due rive del fiume, si guardano a lungo sorridendo e cercando di capirsi con la mimica. (…) Finché la pittrice tedesca si stacca dal gruppo degli amici e prende Marcello per mano riconducendolo tra loro.
(Questo testo, come il testo della sceneggiatura, sono stati tratti dal libro La Dolce Vita, a cura di Tullio Kezich, Cappelli Editore 1959).
Insomma: da una scena molto parlata, con un lungo dialogo, a una scena muta e simbolicamente molto più efficace: i due sono separati da un fiumiciattolo, non possono raggiungersi, non riescono a sentirsi, vorrebbero comunicare, ma è impossibile. Non solo per il rumore del mare: sono troppo diversi. Quella allegra ingenuità, per Marcello è seducente, ma inattingibile. Una sua amica lo riporta nel gruppo.
Non si torna più sul pesce, ormai è veramente passato, non è più importante. La ripetizione sarebbe stata troppo voluta, forzata. Non c’è più la commozione, un po’ troppo patetica e retorica, di Marcello. Tutta la scena viene concentrata su un unico momento simbolico: Marcello non potrà mai ritrovare l’innocenza. Non ha neppure il tempo per rifletterci, per dolersene. E’ un fatto. Viene portato via e lui si lascia trascinare. Non può andare altrove.
Cosa se ne può dedurre? I dialoghi possono a volte spiegare troppo e così presumendo, aggiungere, divagare, allontanarsi dal centro espressivo, dire cose che non servono a niente (lavoro alla pensione Amalfi), e venire sottolineati/contrappuntati troppo didascalicamente da immagini simboliche inequivocabili: il pesce non stupisce più nessuno, è un povero pescione morto; le scarpine di Paola raccolte da Marcello, trascinano metafore (ingenuità=povertà=semplicità); la commozione di Marcello comporta una presa di coscienza un tantino tardiva e ipocrita, una piangina da paradiso perduto che certo si attaglia poco al personaggio finora descritto e pare quasi una concessione a quel moralismo che il film di per sé rigetta. Se l’innocenza dev’essere “nuova innocenza”, qualcosa di indefinibile che sorge , allora non deve essere spiegata ricorrendo al passato, non può essere rimpianta. La speranza non sta in un ritorno agli antichi valori smarriti.
Di nuovo, il segreto è la sintesi. Bisogna stare molto attenti a non voler dire troppe cose, perché si rischia di sommergere l’unica che conta veramente. E’ la situazione di per sé che dev’essere esemplare. Se la si spiega troppo, la sua magia sfugge. Basta lasciar parlare le immagini. C’è un detto popolare che recita: “ A furia di togliere foglie da un carciofo alla fine non resta niente.”Carmelo Bene giustamente rovesciò il detto: “ A furia di togliere qualcosa resta.” Il lavoro del cinema è questo: giungere all’essenziale, fosse pure questo essenziale l’inafferrabilità di una visione. Certo non si può chiedere a uno sceneggiatore esordiente di pervenire subito a questo risultato.
Ma fin dal principio è bene tenere in mente che per scrivere un buona sceneggiatura, bisogna imparare a togliere, a sottrarre. Non dovete dimostrare di saper scrivere tanto, ma di saper scrivere quello che conta, di centrare sempre il focus espressivo. Date un ritmo, un divenire alla scena. Non cercate di simulare il tempo reale, trovate il tempo giusto di quella scena. Non è indispensabile raccontarla inquadratura per inquadratura. Lo stile americano (cui si ispirava il manualetto di Vermeiren sopra citato) è molto utile per conferire un ritmo al racconto e per farvi familiarizzare con la dinamica della “narrazione per immagini”. Lo stile classico italiano (come si può vedere dalla sceneggiatura di Fellini) è ricco di indicazioni per gli attori e di sfumature letterarie, molto attento nel precisare il senso di una scena, più libero nel non-suggerire inquadrature, ma d’altra parte ha anch’esso bisogno di tempi e scansioni precise, non può diventare (come purtroppo sta diventando da anni) un puro canovaccio. Il senso che volete dare alla scena e ai suoi singoli momenti dev’essere molto chiaro sulla carta. Può anche essere sbagliato, si potrà revisionare con una riflessione successiva. Ma è bene che sia preciso. Se il tracciato è chiaro, sarà chiaro anche nei suoi inciampi. Si presterà ad essere discusso e migliorato, anzi stimolerà gli attori e il regista in questa direzione. Se è indeterminato e vago produrrà sbagli molto più gravi, frutto dell’improvvisazione del momento, sbagli o passi falsi che poi non si potranno più correggere.
ESERCIZIO- In molti dei contributi e delle prove di sceneggiatura che mi giungono da voi, risulta evidente una scarsa attenzione all’immagine, tanto che basta leggere i dialoghi per capire la storia. Ma un film non è una sequenza di dialoghi . Il cinema nasce in assenza di dialoghi. Provate a riprendere in mano quello che avete scritto e pensate per un momento d’essere tornati all’epoca del muto. Fate in modo che siamo le immagini e quello che accade (o non accade) a raccontare la storia. Provate a narrare la stessa scena senza il dialogo.
da Lezioni di Gianfranco Manfredi
1. Tempo cinematografico e tempo reale
Uno dei più strenui detrattori del Metodo Syd Field che abbiamo analizzato nella scorsa lezione è il regista/autore brasiliano Ruy Guerra, che insegna cinema all’Università di Rio de Janeiro e lamenta, come molti autori europei del resto, l’influenza dominante di certi modelli industriali americani di narrazione cinematografica. Alla base dell’insegnamento di Ruy Guerra ci sono acute riflessioni sullo spazio e sul tempo nel racconto cinematografico. Qui lasciamo perdere lo Spazio che attiene a scelte di tipo registico più che di sceneggiatura e ci concentreremo sul Tempo. Traggo le informazioni dal documentario/intervista A linguagem do Cinema purtroppo non disponibile in italiano, ma se qualcuno di voi conosce il portoghese (o legge le didascalie in inglese) può trovarlo tra i contenuti speciali del Dvd Opera do Malandro (Coinceito Audiovisual), un musical del 1985 con musiche di Chico Buarque. Ruy Guerra osserva anzitutto che in un film, qualsiasi film, anche il più realistico, di realistico non c’è nulla. Di fronte alla proiezione di un film noi assistiamo ai fatti con una percezione assolutamente diversa da quella che abbiamo nella vita normale. Le diverse immagini sono inquadrate da più punti di vista (nella realtà noi ne abbiamo uno solo): la continuità e l’ordine tra questi differenti punti di vista è frutto del lavoro di montaggio. E’ inesatto sostenere che noi vediamo il film attraverso la macchina da presa. Noi vediamo un unico spettacolo che è il risultato della mescolanza di punti di vista differenti (inquadrature diverse), esperienza che non ci è dato vivere nella realtà e nemmeno sul set. Nel montaggio si attua una sintesi tra molti punti di vista, anche opposti (campo/controcampo) e tra tutti i punti di vista “girati” alcuni vengono scartati. Sullo stesso tema, ma da un’angolatura differente, anche Sergio Citti ebbe a dire: “appena si dice azione, la verità è finita.” Il regista romano, proprio lui per il quale le etichette di realismo, neorealismo, realismo grottesco, si sono sprecate, voleva con ciò intendere che un film, qualsiasi film, non è una riproduzione della realtà, ma la raffigurazione di una realtà
fittizia che ha regole diverse da quelle della vita quotidiana. Di questa realtà fittizia fa parte il Tempo del cinema, che non è lo stesso della vita reale. Nella vita reale, in cinque minuti non riusciamo a farci nemmeno un caffè, in un film in cinque minuti possono accadere moltissimi avvenimenti. Gli eventi in una sceneggiatura non potete raccontarli con i tempi della vita reale, bisogna stringere, concentrarsi sul momento focale della scena, sintetizzare il dialogo cercando la massima efficacia in poche righe. In altri casi, una sequenza che in sceneggiatura descrivete in due righe, può venire dilatata per esigenze espressive.
Voi scrivete per esempio: “Lo Sceriffo attraversa la Main Street deserta”, ma ciò può dar luogo nel film a un’alternanza di inquadrature che ci fanno vivere la tensione del momento, la solitudine dello sceriffo, la desolazione di una città già fantasma, anche se il peggio deve ancora venire. E il ticchettio inesorabile di un orologio scandisce l’attesa rendendola più angosciosa. (Il film è High Noon, cioè Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann, 1952).
Esercizio- Infilate il VHS o il DVD di un film qualsiasi nel vostro lettore e fatelo andare ad avanzamento veloce. Vedrete che mentre certe scene riuscite a coglierle, altre diventano illeggibili perché l’alternanza delle inquadrature nel montaggio è troppo rapida. Quasi sempre, sono le scene d’azione ad esigere un numero maggiore di punti di vista (e di inquadrature) montati in modo serrato.
Questo significa che il tempo di un film non è affatto uniforme: una scena ferma di dialogo tra due personaggi seduti al tavolo di un bar può durare di più di una scena d’azione nella quale all’improvviso delle bande criminali fanno irruzione nel bar e scatenano una sparatoria (un maestro di questa alterazione dei tempi è Michael Cimino, il film è Year of the Dragon del 1985). La durata del dialogo rispetto all’azione, non significa affatto, narrativamente, che il dialogo è più importante di quanto accade dopo. Il dialogo è dilatato perché ciò conferisce più potenza all’inferno che si scatena successivamente. Il contrasto tra questi due tempi rende trascinante l’intera scena. Essere presenti sui set dove si girano i film è un’esperienza che tutte le scuole di sceneggiatura giustamente raccomandano agli sceneggiatori debuttanti perché si abituino a capire cos’è un film in concreto, nel suo farsi giorno dopo giorno, frammento dopo frammento. Ma altrettanto utile, forse anche di più, è per un aspirante sceneggiatore frequentare una sala di montaggio per capire quale lavoro si fa sul ritmo delle immagini, sui tempi della narrazione ( e quante sequenze si scorciano per ottenere una resa più efficace). Il lavoro dello sceneggiatore è più vicino a quello del montatore (il quale monta le immagini con la sceneggiatura sotto mano) che a quello del regista. A sua volta il regista spesso si trova a ripensare una scena scritta e a girarla in un altro modo perché ha in mente un certo montaggio, un certo tempo della narrazione. Se lo sceneggiatore è consapevole di queste esigenze, potrà scrivere una sceneggiatura più adeguata.
2. Tempi del dialogo
Umberto Eco, nelle postille al Nome della Rosa e in diverse interviste, ha sostenuto che il suo romanzo si prestava particolarmente al cinema, perché scrivendolo aveva immaginato i dialoghi in tempo reale. Ad esempio si era raffigurato il cortile di un convento con una certa lunghezza e nel suo romanzo aveva condotto il dialogo tra due monaci nel tempo (reale) del loro percorso lungo il cortile. Secondo Eco, questo è cinema. No, questo è il contrario del cinema. Il cinema non basa i suoi tempi sui tempi reali, ma sul tempo scandito dal montaggio (e preparato in sceneggiatura).
Questo Tempo non ha nulla, ma proprio nulla di realistico. Riguardo specificamente al dialogo, ciò non vuol dire che il dialogo debba diventare un puro codice, un linguaggio neutro e/o di maniera, telegrafico e rivolto soprattutto a fornire informazioni essenziali alla comprensione della storia. Anche se la realtà del cinema è altra cosa rispetto alla vita, un film racconta comunque i rapporti tra persone, non tra burattini. Quando uno sceneggiatore scrive un dialogo “neutro” senza caratterizzazioni oppure troppo letterario, si sentirà quasi sempre dire dall’attore che deve interpretarlo: “adesso devo mettermelo in bocca”, il che significa che l’attore cercherà di fare propria la battuta, di darle un’espressività consona al proprio personaggio, un contento emotivo più evidente, di cambiarla rendendola meno scritta e più parlata. Nei “parlati” della vita reale ci sono una quantità di pause, ripetizioni, interruzioni, parentesi. Di rado il discorso è univoco, centrato su un obiettivo definito, spesso circoscrive un problema, ma non va dritto al suo centro. Questo nei dialoghi di un film risulterebbe noiosissimo: presumere che si possa tranquillamente trasferire un dialogo quotidiano in una scena cinematografica è in linea di massima sbagliato. Ma sarebbe sbagliato anche spogliare il linguaggio da ogni senso di veridicità, facendo adoperare ai personaggi una lingua di pura convenzione che non esiste in nessuna conversazione reale. Inflessioni, caratterizzazioni, pause, vanno sfruttate perché sono preziose sotto il profilo della veridicità e dell’espressività. Sui problemi del dialogo torneremo più avanti, ma suggerisco fin d’ora un esercizio utile ai fini di individuare i giusti tempi di un dialogo.
Esercizio – Infilatevi un registratore in tasca e registrate una conversazione di nascosto. E’ meglio se non siete coinvolti nella conversazione, anzi l’ideale sarebbe che le due o più persone che stanno conversando e che state registrando fossero per voi dei perfetti sconosciuti. In questo modo vi mettete dal punto di vista di un estraneo (lo spettatore) che cerca di capire non solo i contenuti della conversazione, ma la personalità di chi sta parlando, i retroscena, cioè quel non detto che tra le persone che dialogano è dato per assodato, ma che noi non conosciamo affatto.
Trascrivete la conversazione. Vi renderete conto anzitutto che una banalissima conversazione può nella realtà durare quanto un film intero, e poi che in molti passaggi il contenuto non è affatto chiaro, che la comunicazione spesso divaga, si avvita, che si impiegano troppe parole, qualche volta anche sbagliate, per esprimere concetti semplici. Noterete però che qua e là nel dialogo affiorano delle vere perle espressive: linguaggio non scritto e neppure abituale perché legato alla personalità di chi parla, ma capace di rendere una situazione, uno stato emotivo, in poche, efficaci parole. E i punti in cui l’altro interrompe, per sollecitare chiarimenti, per obiettare, non sono casuali. Nella conversazione tra due persone non c’è solo la comunicazione di un contenuto “oggettivo”, ma vi si esprime la relazione tra due caratteri, il loro interagire. Adesso prendete la trascrizione della conversazione e cominciate a ridurla, in modo da concentrarla progressivamente sul suo contenuto espressivo essenziale.
Se una conversazione a tavola nella vita può durare per tutta la durata del pasto, in cinema sarà una scena di un minuto. Non è un semplice riassunto/sintesi che dovete fare, ma una specie di “dado”: il brodo c’è lo stesso, ma concentrato. Dicendo che il brodo c’è lo stesso, voglio intendere che le pause, le caratterizzazioni, le incertezze,
le asperità di una normale conversazione devono restare, ma in un tempo ristretto. Il brodo va in qualche modo “solidificato”. Ma state anche bene attenti a non perdervi quelle “perle” che di per sé sono delle “epigrafi”, sono “scolpite”, cioè sanno rendere efficacemente il contenuto essenziale (della conversazione come del rapporto in atto tra le persone che conversano) attraverso una metafora, un motto, una definizione colorita che può assumere un valore esemplare (es: “i furbetti del quartierino”). E’ importante imparare dalle conversazioni reali, essere ladri di linguaggio. Proprio perché la lingua di un film è parte di una narrazione, cioè di una realtà fittizia, è essenziale che risulti credibile e che conservi quella stessa capacità di inventare linguaggio che è propria delle conversazioni quotidiane . Il doppiaggio ci ha abituati a un linguaggio di codice estremamente lontano dalla vita reale, una lingua che nessuno parla. Ma se ascoltate lo stesso dialogo in originale scoprirete facilmente quanto sia più ricco di sfumature, di inflessioni e di “veridicità” (insisto su questo termine perché “veridico” è in cinema l’unico possibile equivalente di “vero”). Se scrivete i dialoghi di un film scansate con cura la tentazione di scrivere nella lingua generica del doppiaggio: scrivendo nella nostra lingua, dobbiamo usare la lingua delle persone che ci circondano. La lingua è nostra in quanto collettiva, riconoscibile.
3. I tempi emotivi
Che la narrazione cinematografica debba essere rapida (abbiamo a disposizione un’ora e mezza o due per raccontare la nostra storia, non possiamo farla durare quanto pare a noi) non significa affatto che debba essere frettolosa e superficiale.
Prendiamo ad esempio due film, molto diversi e lontani tra loro. Il primo è The Penalty di Wallace Worsley, con Lon Chaney (1920). E’ stato pubblicato in Dvd dalla Kino Video e se anche lo ordinate in edizione originale senza conoscere l’inglese… è un film muto, dunque potete godervelo lo stesso. Se sapete l’inglese, però, è meglio perché nel Dvd , tra i contenuti speciali, c’è una Scene Comparison cioè un confronto tra le pagine del romanzo (da cui il film è tratto), quelle corrispondenti della sceneggiatura e le scene/inquadrature realizzate nel film. Questo confronto vi farà capire perfettamente i passaggi tra le differenti versioni della stessa storia (romanzo, sceneggiatura, film). (I film muti, sia detto per inciso, non vanno trascurati, perché la scansione dei tempi della narrazione cinematografica inizia da lì.
E lì si sono affrontate e vinte le battaglie in teoria più impossibili: ad esempio trarre un bellissimo film da un complesso capolavoro letterario come L’Uomo che ride, senza neppure potersi avvalere dei dialoghi. Altro che chiacchierate in tempo reale!).
Il secondo film è invece molto più recente e apparentemente non ha nulla a che vedere con il primo. E’ L’Uomo Ragno di Sam Raimi. Ma come cercherò di mostrarvi confrontando due scene di questi due film, ci sono regole della narrazione per immagini che a ottanta e passa anni di distanza non sono cambiate e che hanno a che fare con l’argomento di questa lezione: il Tempo del Cinema. E in particolare con un aspetto: come rendere i passaggi emotivi che caratterizzano lo sviluppo di un’azione.
a) The Penalty
Lon Chaney interpreta nel film uno spietato gangster incattivito con il mondo intero perché quand’era ragazzo, dopo un incidente che gli era occorso, un giovane medico inesperto, lo aveva curato con frettolosa imperizia, amputandogli le gambe. A distanza di anni, Chaney scopre che la figlia del medico (ormai diventato un rispettato professionista), appassionata scultrice, cerca un modello per un scultura molto particolare: un busto di Satana. Chaney riesce a farsi prendere come modello, in fondo chi meglio di lui: non solo è una figura davvero diabolica, ma è per tragica ironia un busto umano vivente. Chaney vuole attuare una sua strategia vendicativa: affascinare la figlia del dottore, magari suscitando la sua pietà, per legarla a lui e vendicarsi così dell’operazione subita da parte del padre della ragazza (il piano in realtà è più intricato, ma qui è inutile addentrarsi nella storia). La scena che analizziamo è assai complicata. Ormai il lavoro è quasi finito. La ragazza dice al suo modello: “Come posso ringraziarvi per l’aiuto che mi avete dato?” Lui ha un fremito, quasi di tenerezza ( dunque si è innamorato!) e ne resta confuso. Risponde: “A lavoro finito, restiamo in contatto.” Lei ha uno sguardo perplesso e diffidente. Lui si lancia in un’appassionata dichiarazione d’amore. Lei ne resta sorpresa e raggelata. Prova sentimenti contrapposti : incredulità, spavento, pietà… finché scoppia in una risata isterica. Lui incupisce. I suoi lineamenti si distorcono in un’espressione di odio.
Cerca di afferrare la ragazza e cade a terra. Si risolleva inferocito e si trascina verso di lei che fugge atterrita per poi bloccarsi sulla soglia, in ansia. “Quasi istantaneamente “ (precisa la didascalia) lui realizza d’aver perso il controllo, rivelando la sua natura malvagia e i suoi scopi vendicativi. Finge di sentirsi male, simula un’intensa sofferenza interiore, prende tempo cercando di rimediare all’errore commesso. Si batte il petto e si proclama disperatamente infelice, chiede perdono per aver pensato a lei come oggetto dei suoi impossibili desideri. Lei si calma. Lui spiega che la risata di lei per lui è stata come acido versato sulle ferite interiori. Scruta l’effetto delle sue parole. Lei si torce le mani, a disagio. Gli spiega d’aver riso nervosamente: lui l’aveva spaventata. Rientra nella stanza. Lui capisce d’avercela fatta. Di nuovo le chiede perdono.
Siamo dunque di fronte a un’azione molto barocca e difficile da rappresentare (nel Dvd potete confrontarla con la corrispondente descrizione del romanzo e con la prima traccia di sceneggiatura) dove si passa per stati d’animo contrapposti e per contrapposte azioni: è tutto un esprimere e un dissimulare. Quanto tutto ciò sia ben lontano dalla vita reale dovrebbe esservi evidente: nella realtà un simulatore contiene le sue emozioni, sempre, qui invece non si contiene affatto: è sincero quando si infuria, è esageratamente teatrale quando finge, è esplicito nei passaggi perché le sue passioni intime si rivelano nelle espressioni del suo volto e nel suo atteggiamento.
Questa non è solo la grammatica del cinema muto, è la grammatica del cinema: didascalie o meno, l’interiorità va esteriorizzata perché il pubblico possa capire.
L’atto rivela l’animo, il discorso interiore , i pensieri intimi, si fanno esteriori, manifestandosi in comportamenti ed espressioni. La scena è condotta su una dinamica emotiva. Nella sua brevità, non trascura nessun singolo passaggio. C’è in questa scansione sequenziale minuta qualcosa del fumetto: un congelare i singoli istanti in frammenti inequivocabili, ciascuno di quali descrive figurativamente un meccanismo psicologico in atto. Se l’azione è rapida, non è tuttavia sbrigativa. Ogni singolo passaggio viene espresso in un tempo concentrato. Non si cancella la dinamica psicologica, la si esplora per rapidi frammenti.
b) L’Uomo Ragno
Il giovane Peter Parker manifesta all’improvviso i suoi superpoteri. Non essendo ancora consapevole d’essere diventato un Uomo-Ragno, è talmente sconvolto dalla scoperta che fugge e si nasconde in un vicolo. L’espressione del suo volto rivela che non ha capito cosa gli è accaduto e che se lo sa chiedendo. Si guarda il polso, dove ha una strana cicatrice a forma di ragnatela. Là dove è stato punto da un ragno, è rimasto uno strano arrossamento della pelle. Cambia l’inquadratura, ora è più all’alto, con in PP una grossa ragnatela. Peter alza il capo e la guarda. Ha un sospetto. Torna a guardarsi la mano. L’inquadratura adesso è un macro-ingrandimento quasi da microscopio.Notiamo delle bizzarre inflorescenze che spuntano dai pori della mano di Peter: non sono esattamente peli, somigliano a zampe di ragno, con appendici prensili. Peter appoggia il palmo della mano contro il muro. Avverte che i suoi polpastrelli hanno acquisito un tocco “da ventosa”. Comincia a risalire il muro. Ci riesce. Esulta.
Come vedete, anche se siamo in un film sonoro, abbiamo anche qui una sequenza muta, persino più muta di quella di The Penalty, perché senza didascalie e perché c’è un solo personaggio in scena, in preda a turbamenti interiori. Uno sceneggiatore distratto probabilmente lo avrebbe fatto parlare da solo, perché esprimesse ad alta voce il suo sconcerto “cosa mi sta succedendo?” , “cos’è questa cicatrice?” “Sì, qui è dove mi ha punto il ragno” eccetera. Ma la sequenza avrebbe perso efficacia. Noi pubblico dobbiamo vedere quello che vede Peter Parker e fare lo stesso ragionamento che sta facendo lui. Così la rappresentazione è veramente efficace. Anche qui, come in fumetto, ogni singolo passaggio viene mostrato, ogni azione corrisponde a un tempo psicologico, a un ragionamento. Le singole fasi, dallo sconcerto iniziale alla riflessione, dalla rivelazione all’esultanza finale, ci sono tutte. Nulla di tutto ciò è realistico: nel tempo reale è un processo molto lungo e complesso passare dal trauma inziale alla scoperta che ciò che ci è capitato (e che ci ha spaventato) è invece una nuova opportunità, un potere acquisito di cui essere fieri e felici. Qui viene sbrigato in un minuto. Eppure è verosimile, ci appare tale, perché nessun passaggio viene trascurato. Questo è il tempo concentrato del cinema.
Esercizio – Riprendete il vostro protagonista. Qualunque sia il percorso narrativo che avete previsto per raccontare la sua storia, ci sarà senz’altro (deve esserci) un momento in cui il protagonista entra in conflitto non solo con le difficoltà esterne, ma anche con se stesso. E’ un momento cruciale, in cui egli affronta le proprie contraddizioni e le supera dopo un conflitto interiore. Provate a scandire i singoli momenti, le fasi di questo conflitto. In altre parole , scalettate una singola scena, frammentandola in istanti, e cercate di esprimere in ciascuno di questi istanti la soluzione che si fa largo nella mente del protagonista. Potrebbe essere una scena a due (le esitazioni, gli avanti e indietro, i passi falsi in una dichiarazione d’amore), oppure un “a solo” (cosa devo fare? Come posso uscire dalla situazione problematica in cui mi trovo?). Ma ricordate che questo conflitto dev’essere “esternato”, espresso in atteggiamenti esteriori che rendano chiaramente decifrabile al pubblico il percorso psicologico attraversato dal protagonista. In sceneggiatura, precisate i singoli passaggi.
di Gianfranco Manfredi
1. La prima impressione è quella che conta.
Analizzeremo più avanti i problemi di struttura narrativa , ma accenno subito a una questione importante che ci permetterà di approfondire il tema del protagonista. Gli studi fatti sull’attenzione da parte del pubblico, anche indipendentemente dal cinema, hanno avuto una notevole evoluzione nel corso degli anni, ma almeno su un punto restano concordi, ed è questo: l’attenzione del pubblico è più alta all’inizio di una rappresentazione ed è dunque all’inizio che gli sceneggiatori devono affidarsi per sottolineare gli elementi portanti della storia, quelli insomma che fondano il racconto e che devono rimanere fissati nella mente dello spettatore. Per quanto riguarda il protagonista questo significa che esso deve essere presentato in un modo che lo caratterizzi inequivocabilmente da subito. Questo non significa affatto che poi nel corso del film il protagonista non possa subire delle evoluzioni o dei cambiamenti anche traumatici, ma va sempre tenuto presente che la prima impressione è quella che conta. Se la prima volta che vediamo apparire il nostro protagonista questi, per esempio, è arrabbiato e sta litigando con qualcuno, dobbiamo tener conto che questa sua apparizione lo marchierà e cioè il pubblico lo interpreterà come un incazzato sempre pronto ad esplodere. La situazione di partenza definisce il protagonista, non può essere un momento occasionale e secondario. Quando dunque ci troviamo da sceneggiatori a fare apparire il nostro protagonista dobbiamo studiare una situazione, un atteggiamento, un modo di essere che già lo presenti compiutamente nel suo “essere”. Abbiamo, nelle precedenti lezioni, citato molti esempi in proposito, per esempio il personaggio di Dustin Hoffman ne Il Laureato, presentato subito con l’aria persa e confusa di un ragazzo sbalestrato che si trova a dover affrontare qualcosa di nuovo per lui, un rientro a casa che è anche un ingresso nel mondo degli adulti, e che lo fa sentire un estraneo. Queste sono le caratteristiche fondamentali del personaggio che vogliamo raccontare, quelle che ci guideranno durante tutto l’arco della storia. La storia di questo personaggio è anche una storia di scoperta della sessualità (con la signora Robinson prima, con sua figlia poi) ma questa storia il film la racconta all’interno di un tema più grande , cioè l’uscita dall’adolescenza e il senso di estraneità generazionale proprio di molti ragazzi del 68. Se il film fosse iniziato con Dustin Hoffman in aereo che lancia qualche occhiata furtiva al sedere della hostess, avremmo finito per raccontare un film completamente diverso, cioè la storia di un giovane arrapato alle prese con le proprie timidezze. L’inizio insomma condiziona non solo il personaggio, ma tutto il senso del racconto e un inizio sbagliato può portarci fuori strada, ma soprattutto confondere il pubblico. Riepilogando in modo più semplice quanto spiegato la volta scorsa sulla base dei consigli di sceneggiatura di Stuart Kaminski, la prima cosa che dobbiamo fare è chiarirci il ruolo del nostro protagonista, ruolo da cui dipende l’atteggiamento che dovrà assumere.
2. Ruolo del protagonista.
Per chiarirci subito le idee ci sarà utile distinguere tra alcuni ruoli fondamentali :
a) Ruolo Attivo (o Eroe)
b) Ruolo Passivo (o Seguace )
c) Ruolo Reattivo (o Anti-Eroe )
a) Un personaggio da Ruolo Attivo è un leader, cioè un uomo o una donna che a qualsiasi età scegliamo di rappresentarlo, ha una sua natura di leader naturale rispetto al gruppo. E’ un personaggio che coltiva dei progetti ed escogita soluzioni per realizzarli. Questo genere di personaggio, che ha il suo scenario favorito (anche se non esclusivo) nei film d’azione, appena entra occupa il centro della scena ( e dell’inquadratura). L’attore che nella storia del cinema americano ha in qualche modo codificato questo ruolo e questo modo di apparire è James Cagney. Se recuperate qualcuno dei suoi film, vedrete che questo “essere al centro” anzi “occupare il centro della scena” è applicato alla lettera. Cagney entra in un ambiente e subito va a disporsi al centro, sicuro di sé e dominatore, spesso inquadrato a mezzo busto e leggermente da sotto, per sottolinearne la natura , appunto, dominante. Il primo piano è più spesso dedicato a personaggi costruiti su una psicologia sottile o misteriosi, il mezzo busto è il modo di apparire dell’eroe, da Cagney allo Stallone di Rocky e Rambo . Come si può facilmente dedurre, il protagonista non si limita a presentarsi, non solo chiarisce la propria centralità, ma si colloca anche in un preciso quadro di “genere”. Il protagonista di un film comico, soprattutto se è un comico che usa molto il suo fisico , cioè non puramente verbale, compare di preferenza a figura intera ( confrontate per esempio le entrate in scena di Jerry Lewis o di Jim Carrey) cosa che gli consente di esprimersi compiutamente attraverso il suo modo di muoversi. Simili scelte di inquadratura, certo, competono più al regista che allo sceneggiatore, ma è bene che lo sceneggiatore ne sia consapevole nel costruire la scena. La situazione che mettiamo in scena deve essere tale da fare cogliere immediatamente al pubblico che è entrato in scena il personaggio “centrale”, un personaggio che crea gerarchia, rispetto al quale tutti gli altri hanno ruoli ben diversi: di contorno, di supporto, di ostacolo, di antagonismo, ma comunque tutti definiti rispetto a lui. Considerate la presentazione del personaggio di Charles Bronson nel film di Sergio Leone C’era una volta il west.
Leone non usa affatto una presentazione tradizionale alla Cagney e trasgredisce in molti modi, eppure il modello narrativo è molto preciso. Vediamo dei brutti ceffi in attesa in una stazioncina sperduta del west. Tra loro anche volti di caratteristi molto noti agli appassionati del cinema western. E’ subito chiaro che si tratta di “cattivi”, ma il pubblico viene condotto a pensare che siano dei cattivi fondamentali nella storia che inizia: Leone ce li mostra uno per uno, ne riconosciamo bene i volti, in PP, ce li presenta mentre fanno azioni minutamente descritte ( uno ad esempio gioca con una mosca che lo infastidisce fino a imprigionarla nella canna della pistola) .Tutto farebbe pensare che si tratti insomma di personaggi fondamentali, tanto vengono caratterizzati. Insieme avvertiamo che dato che si trovano tutti in attesa, non sono dei protagonisti perché il loro ruolo dipende da colui che essi aspettano, da quell’eroe ancora invisibile che sarà il vero protagonista. Anche se stanno zitti, con la loro stessa attesa, ci “parlano di lui”, ce lo fanno attendere da pubblico esattamente come lo attendono loro da personaggi. Arriva un treno. I personaggi si alzano, pronti a vedere spuntare l’eroe-nemico tanto atteso, che però non scende dal treno. Attesa delusa. Il treno riparte e scivola come un sipario teatrale per mostrarci dal lato opposto del binario, Charles Bronson. Dopodiché i personaggi che lo hanno introdotto, restano tutti uccisi sotto i suoi colpi. Leone ci sorprende perché da un lato porta all’esasperazione la nostra attesa, dall’altro smentisce le attese più prevedibili perché quelli che avevamo considerato come cattivi fondamentali, vengono invece spazzati subito via dall’eroe , al principio del film. Questo ci dice anche molto sul protagonista-eroe. Se ha eliminato così alla svelta dei professionisti, chissà a cos’altro ci farà assistere nel seguito della storia. Inoltre: se è sceso dall’altro lato del treno, è un uomo che ragiona, che ha un suo piano e che sa contrastare quelli altrui. Infine, non è uomo facilmente prevedibile: sembra che tenga in mano una valigia, ma nella stessa mano ha già pronta la pistola e la solleva in modo da sorprendere i banditi e noi stessi che non l’avevamo notata. Più attivo di così il protagonista non potrebbe essere, anche se le sue azioni sono tutt’altro che frenetiche e la sua posizione quasi statica. E’ attivo perché la situazione non esiste senza di lui, nessun altro personaggio potrebbe essere attivo senza di lui ( si limitano ad aspettarlo) e perché è un calcolatore, ha un progetto ed è pronto ad eseguirlo freddamente e con successo.
b) Il protagonista della nostra storia può anche non avere caratteristiche da eroe, essere un uomo della strada che nella scala gerarchica non occupa la prima posizione. Tuttavia dobbiamo subito chiarire che è lui che ci interessa raccontare, non il suo capo. Qui bisogna fare molta attenzione: se il nostro protagonista è un subordinato, non deve però apparire come una “spalla”. Watson non potrà mai essere il protagonista. Watson esiste perché racconta Sherlock Holmes . La spalla è altra cosa dal Protagonista Passivo, la spalla non può esistere indipendentemente dall’Eroe . Il Protagonista Passivo invece è un uomo o una donna che, al contrario dell’Eroe, subisce gli eventi , a volte impara a fatica a reagire, altre volte preferisce ignorarli richiudendosi in se stesso o sfuggendoli. Non è un uomo che fa progetti, ma che subisce e segue i progetti degli altri e cerca di adattarvisi o di scansarli. Un esempio di questo genere di personaggio possiamo trovarlo nel ruolo di Marlon Brando nel film Fronte del Porto di Elia Kazan. E’ il membro di una banda di gangster, un ex pugile un po’ rincoglionito, che non conta nulla e viene spesso preso in giro dagli altri, se e quando viene considerato. Cioè tutto il contrario di un eroe. Gli autori ce lo presentano ai margini (letteralmente) del suo gruppo d’appartenenza, schivo, con il volto che sembra voler evitare la macchina da presa. Rispetto a un Cagney che va ad occupare il centro della scena, Brando ( e James Dean) ci presentano un protagonista che se ne sta ai margini e che si lascia scoprire (anche dalla macchina da presa) solo un poco per volta. Nel corso della storia, saranno più gli eventi che la sua volontà a imporgli un ruolo “eroico”, lui non ha fatto nulla per volerlo e subisce persino questo, come una sorta di Calvario non accettato, ma fatale, imposto dal destino. Confrontate l’entrata in scena di Brando in Fronte del Porto e quella dello stesso Brando ne Il Selvaggio e vi sarà subito facile capire che non si tratta puramente di scelte attoriali, ma di racconto. La rappresentazione de Il Selvaggio non potrebbe essere più classica: a mezzo busto, alla guida della sua moto e al comando della sua banda di motociclisti. Tutt’altra cosa cioè dal suo comparire marginale, quasi inosservato, semi di spalle, all’inizio di Fronte del Porto.
c) L’Anti-eroe porta alle estreme conseguenze il ruolo di Brando in Fronte del Porto. Non si tratta solo di un marginale, si tratta di un totale estraneo al suo contesto e persino a un ruolo codificato dalla tradizione. Tutte le caratteristiche dell’eroe in lui sono capovolte. Se un eroe è forte, lui è un debole. Se l’eroe è un modello di virtù, lui ha mille vizi. Se l’eroe sa sempre cosa fare, lui è sempre in balia del momento e delle occasioni. Ciò non significa che non riesca a reagire, ma che le sue soluzioni dovranno essere anch’esse estranee a quelle dell’uomo comune. Saranno le reazioni di Dustin Hoffman in Rain Man, di Peter Sellers in Oltre il Giardino, del già citato in una precedente lezione detective Monk, o di un Forrest Gump. L’immagine-simbolo di Forrest Gump ce lo presenta seduto su una panchina. Fate attenzione, non su una sedia, ma su una panchina, cioè un tipo di sedile pubblico, destinato ad ospitare più persone, sul quale un uomo in solitudine già di per sé ci appare incongruo. Sembra fin da questa immagine che non siano gli altri, il coro, ad aspettare lui, ma lui ad aspettare gli altri, altri che non arrivano. Ma Forrest Gump non ha neppure l’atteggiamento e l’espressione di chi soffre la propria emarginazione. La sua panchina è anche un punto d’osservazione, il punto (pubblico) da cui guarda il mondo e su cui si espone agli sguardi del mondo. Guarda noi e viene guardato da noi. Isolato, eppure centrale, come un eroe. Seduto eppure attivo. Estraneo, ma disponibile a tutto ciò che può accadere. Non è ovviamente indispensabile che un simile personaggio sia border-line, matto, autistico… abbiamo già visto ne Il Laureato che può anche trattarsi di un ragazzo qualunque, sperduto come qualunque altro ragazzo della propria generazione, che se e quando reagisce lo fa non nel modo previsto dal codice e dalle regole sociali, ma in modo creativo nel senso più letterale del termine, cioè inventandoselo sul momento, senza riflessione, né preparazione, senza cioè il calcolo caratteristico dell’Eroe. Un esempio italiano di Anti-Eroe è il protagonista del film di Paolo Sorrentino Le conseguenze dell’amore, magistralmente interpretato da Toni Servillo. Un uomo isolato e silenzioso, nell’ovattato ambiente di un albergo svizzero, che attende non si sa cosa, che è lì non si sa a fare cosa, che osserva e si lascia osservare quasi avesse rinunciato a vivere. Eppure è un eroe, nel senso che all’occorrenza, sa studiare progetti e strategie e portarli al successo, ancorché un successo non certo da happy end, e che segue il suo destino senza supporre di poterlo governare. Uno straordinario personaggio che era difficilissimo non solo raccontare, ma presentare. Studiate come le scelte di rappresentazione e i movimenti della macchina da presa ci facciano da subito entrare in sintonia emotiva con il personaggio. La macchina da presa gli gira intorno. E il nostro sguardo circolare è come il suo, come lo sguardo del protagonista che si guarda lentamente intorno, non vago, ma sempre centrato su un focus preciso: scruta le cose e le persone, cerca i dettagli e insieme se ne tiene fuori.
Lezione di Gianfranco Manfredi
Lettura dal manuale di Stuart Kaminski
Stuart Kaminski è un noto scrittore, autore di molti gialli, spesso ambientati a Hollywood nel mondo del cinema e pubblicati anche in Italia nel Giallo Mondatori.
Ha inoltre curato i dialoghi americani di C’era una volta in America di Sergio Leone e collaborato a molti serial televisivi e film per la TV. Nel 1988 ha pubblicato, insieme a Mark Walker, un ottimo manuale per aspiranti sceneggiatori televisivi: Writing for television (Dell Publishing) ricco di indicazioni e di preziosi consigli . Da questo suo lavoro , traggo alcuni spunti che ci permetteranno da un lato di riepilogare certe cose dette a proposito della creazione della figura del protagonista, dall’altra di esplorare la differenza tra cinema e televisione da questo punto di vista.
La prima indicazione prende a pugni un luogo comune e cioè che il cinema tende a rappresentare degli EROI mentre la televisione preferisce come protagonisti le PERSONE COMUNI. In realtà, sottolinea giustamente Kaminski, in televisione l’attore come “MODELLO DI RIFERIMENTO” ha più importanza della persona comune. Cosa si intende con questo? Due cose: 1. In televisione molto più che in cinema il racconto si costruisce intorno all’attore, scelto prima ancora di mettersi a scrivere. Un Medico in Famiglia è , per fare un esempio, la serie di Banfi prima che la serie di Nonno Libero. Questo comporta che il personaggio va tagliato sulla misura
dell’interprete e non viceversa. 2. Il personaggio appare come un uomo comune, ma in realtà è un uomo comune molto particolare, da un lato esemplare (un nonno modello, sempre per usare il riferimento a Banfi/Nonno Libero) dall’altro con caratteristiche del tutto proprie, personalizzate al dettaglio, che lo rendono estremamente diverso rispetto alla media.
Per esercitarsi a forgiare un simile tipo di personaggio, Kaminski propone questo esercizio:
- Immaginare movimenti, scene e ruoli prima di scriverli. Pensare situazioni qualsiasi: una donna si infila in una coda passando avanti. Cosa fa il protagonista, come reagisce? Pensa alle tue possibili reazioni e per differenza a quelle del protagonista.
In altre parole, l’autore deve mettersi nella situazione, pensare alle proprie reazioni abituali e istintive. L’autore da questo punto di vista non è affatto diverso dalla generalità delle persone. Cosa facciamo quando siamo in coda e qualcuno ci passa davanti? Il comportamento più diffuso e normale (in Italia) è questo: si fa finta di niente contenendo l’irritazione, ma basta che uno protesti e subito ci associamo alla protesta e si cerca di respingere il prepotente. Il nostro protagonista invece deve avere un comportamento diverso a seconda del carattere che vogliamo attribuirgli: per esempio potrebbe essere un furbo di tre cotte che cavalca la protesta e approfitta del momento di caos per passare lui primo in fila, oppure potrebbe cercare di mediare e perdere tempo facendosi passare avanti tutti gli altri, o ancora convincere l’intruso che si è infilato nella coda sbagliata, eccetera… insomma il protagonista non deve avere reazioni comuni, ma distinguersi dalla massa con un comportamento esemplare, in senso positivo o negativo, e in modo da suscitare simpatia in entrambi i casi. Nonno Libero, per tornare al nostro esempio, non reagisce come la maggior parte dei nonni, è un interventista dal buon cuore e tutte le sue azioni devono essere molto significative da questo punto di vista. Non è il solito nonno, è il nonno che tutti sogneremmo di avere.
Per definire l’azione/reazione del protagonista è anche molto importante rispettare il genere del nostro racconto. Cioè, in generale:
- La tragedia assume che i personaggi sono superiori all’uomo comune ( e a voi ). Commedie umane , storie sentimentali e thriller presuppongono personaggi comuni. Commedie decisamente comiche suppongono che il personaggio sia inferiore a voi.
Il protagonista di un racconto drammatico e a forti tinte deve distaccarsi dall’uomo comune, fare cose che nessun uomo comune farebbe, anche perché non ne sarebbe capace. Il protagonista di un racconto quotidiano che ad esempio abbia a che fare con il mondo delle professioni, deve condividere maggiormente il destino della persona comune ( e dei suoi colleghi), perché se se ne distaccasse troppo, il racconto diventerebbe irrealistico: non può essere, ad esempio, una persona che non ha mai delusioni d’amore, che non mostra alcuna debolezza, che non sbaglia in nessun caso e i cui comportamenti siano totalmente estranei a quelli della categoria cui appartiene: la sua vittoria finale , se c’è, dev’essere anche una vittoria contro queste umane debolezze o contro lo standard previsto all’interno della propria professione. In una serie decisamente comica, invece, normalmente il protagonista deve apparire più fesso, più ingenuo, più pieno di difetti di noi. Questo non gli impedisce di essere un vincente, vedi il caso di Forrest Gump o per restare in campo televisivo, di Mr Bean, di Colombo o di Monk (il detective dell'omonima serie TV). Naturalmente il fatto che il protagonista ci appaia come un ritardato, va usato per sottolineare un’assoluta genialità in questo ritardo: il suo essere diverso, addirittura alieno, gli conferisce qualità del tutto eccezionali, la capacità di risolvere le emergenze in modo paradossale, impraticabile sia per un eroe che per una persona comune.
Per definire a tutto tondo il protagonista, Kamisnki suggerisce di stilare uno…
- Schema biografico del personaggio. Nel cinema, la conoscenza della vita del personaggio serve come premessa, in TV costituisce la base costante e lo svolgimento.
Scheda da riempire:
PERSONAGGIO :
DATA E LUOGO DI NASCITA :
FRATELLI E/O SORELLE( DATE E LUOGHI DI NASCITA) :
GENITORI ( DATE E LUOGHI DI NASCITA ) :
MADRE (provenienza sociale, genitori, fratelli e/o sorelle, livello di istruzione,
esperienze):
PADRE (idem):
LIVELLO DI ISTRUZIONE DEL PERSONAGGIO:
ESPERIENZE DI LAVORO DEL PERSONAGGIO:
INDIRIZZO E OCCUPAZIONE ATTUALI DEL PERSONAGGIO:
PRINCIPALI AMICI E CONOSCENTI DEL PERSONAGGIO:
CASA O APPARTEMENTO DEL PERSONAGGIO (Com’è e come sembra):
AMBIENTE DI LAVORO DEL PERSONAGGIO (Com’è e come sembra ):
DESCRIZIONE FISICA DEL PERSONAGGIO (Inclusi altezza e peso):
CHE TIPO DI MACCHINA HA IL PERSONAGGIO (se ce l’ha)?
QUAL E’ IL SUO GUARDAROBA?
NOME E INDIRIZZO DEL MEDICO, DENTISTA, AVVOCATO DEL
PERSONAGGIO:
IL PERSONAGGIO HA PROBLEMI DI SALUTE?
QUANDO E’ STATO DAL MEDICO L’’ULTIMA VOLTA E PERCHE’?
DOVE FA LO SHOPPING IL PERSONAGGIO? ( Qualche negozio in particolare?
Pasticceria per esempio?)
Esempi di domande da porsi.
1. Qual è il cibo preferito del vostro personaggio? Quale cibo invece odia?
1. Qual è il suo amico o parente del cuore, il colore preferito, il posto da visitare, lo sport, il gioco, l’abbigliamento, l’autore, il film , lo show televisivo, l’attore?
2. Cosa gli piace ( o gli piaceva ) e cosa odia ( o odiava ) a scuola?
3. Livello di reddito del personaggio. Dove tiene i soldi? Che se ne fa?
4. Che voce ha il personaggio?
5. Che attore o attori potrebbero interpretarlo?
6. Il vostro personaggio dorme bene? Se sogna, che sogni fa?
7. Rapporto del personaggio con la pulizia di casa. Come si pulisce gli abiti il personaggio? Da solo o li manda in lavanderia?
8. Il personaggio ha un animale? L’ha mai avuto? Che tipo di animale e cosa gli è successo?
9. Il personaggio come si giudica? Quali aspetti del suo carattere apprezza e quali no?
Come mai tanti dettagli? Parlando delle caratteristiche di un protagonista cinematografico, abbiamo sottolineato che una delle prime, se non la prima, è il mistero: cioè non conosciamo (il pubblico non deve conoscere) una quantità di dettagli biografici del personaggio, perché sarà il racconto, la vicenda, a farceli scoprire, illuminandoci solo riguardo a quelli che ci interessano ai fini della vicenda.
Nelle sit com e nei telefilm televisivi invece abbiamo ore e ore a disposizione per raccontare il carattere del personaggio, seguiamo passo passo la sua vita quotidiana, spesso il racconto non è altro che il diario della vita del personaggio. La casa del personaggio è un ambiente fondamentale, spesso l’ambiente principale, come il suo ambiente di lavoro. Le persone che incontra abitualmente, parenti, amici, colleghi sono i suoi costanti co-protagonisti. Le circostanze che chiunque di noi attraversa nella vita, diventano altrettanti spunti per intere puntate. Ad esempio: si può incentrare un’intera puntata sul fatto che Bill Cosby abbia il mal di denti, oppure sull’improvvisa visita di un parente importuno, o su un problema scolastico di un figlio, o sulla ricorrenza di un compleanno eccetera. In altre parole dobbiamo sapere tutto della vita del personaggio. E dobbiamo saperlo in anticipo, non aspettare di deciderlo volta per volta, altrimenti rischieremmo di raccontare un personaggio incoerente e dipendente dalle situazioni, mentre deve accadere il contrario: le situazioni servono a mettere in luce le caratteristiche del personaggio. In telefilm tipo Ally McBeal oppure I Soprano, le singole puntate sono da un lato costruite intorno a un evento dominante, ma dall’altro fanno parte di una continuity molto serrata nella quale tornano personaggi e ambienti delle puntate precedenti, in continua evoluzione verso sviluppi successivi. Il racconto della vicenda della singola puntata deve intrecciarsi con un racconto che non appartiene solo alla singola puntata, ma all’intera serie e che è in teoria infinito, sembra cioè arrivare a una stretta, a una conclusione, ma ogni conclusione è solo apparente perché ingenera nuovi sviluppi e complicazioni. Anche nel dialogo, non possiamo permetterci di essere semplicemente funzionali agli avvenimenti della puntata, ma dobbiamo obbligatoriamente inserire quelle che in cinema o in letteratura sarebbero delle digressioni, ma che in un serial sono invece delle continue messe a punto delle caratteristiche del personaggio: per esempio possiamo vedere Tony Soprano davanti alla televisione che commenta ( a parole o con una semplice espressione) un film e in ciò rimarca i suoi gusti. Quello che in cinema potrebbe essere soltanto una perdita di tempo, in un serial televisivo è invece una sottolineatura importantissima, è l’elemento che mantiene unito il racconto.
Insomma la televisione estremizza quello che abbiamo già fatto notare nel cinema: senza personaggio non c’è racconto.
Lezione di Gianfranco Manfredi
In questa lezione si prendono in esame altri due modelli di presentazione del protagonista, modelli molto diversi tra loro, ma che hanno una caratteristica in comune: il protagonista è anche il narratore del film. Questa soluzione corrisponde, in romanzo, al racconto in prima persona.
I due diversi modelli sono:
1. La voce fuori campo ( o Voce Off) del protagonista si sovrappone alla scena, anche quando lo stesso protagonista già compare nella scena. E’ un modello che proviene dalla narrativa e in particolare dal “noir”, dai gialli in cui il protagonista (spesso un detective, ma non necessariamente) ricostruisce e racconta i fatti dopo che essi sono avvenuti. Il racconto è dunque racconto del passato, la voce narrante è la voce della memoria: la memoria del protagonista e la “futura memoria” di chi ascolterà il suo racconto. Billy Wilder ha usato questo modello in modo esemplare in due suoi capolavori:La Fiamma del Peccato , in cui il protagonista-narratore si confessa al registratore, già moribondo, e Viale del Tramonto in cui il protagonistanarratore è addirittura un morto, il suo racconto è dunque il racconto di un fantasma.
C’è sempre un tono di confessione drammatica, anche quando il racconto non indulge affatto al sentimentalismo, in questo procedimento narrativo. Usarlo fuori da questo contesto non è in linea di massima consigliabile.
2. Il protagonista parla direttamente al pubblico, in voce e in persona, guardando nella macchina da presa e presentandosi, spesso su sfondo neutro. Questo modello proviene dal teatro, dove si chiama à part. Nella commedia dell’arte e nel teatro settecentesco derivato dalla commedia dell’arte (vedi Marivaux o Goldoni) la rappresentazione, al principio o in corso, viene come congelata e sospesa. Il protagonista fa un passo avanti e si rivolge direttamente alla platea, a volte per rivelare propri pensieri nascosti ( che devono restare nascosti agli altri personaggi) a volte per instaurare un rapporto diretto con il pubblico, uscendo così dalla storia narrata e rivelandosi come narratore, commentatore, persino come autore della messa in scena. Questo modello è tipico della commedia brillante. C’è infatti un’evidente ironia nel fatto che il protagonista prenda, come narratore, “distacco” dalla vicenda e persino da se stesso come personaggio.
Cos’hanno in comune dunque questi modelli? Il coro, che nel modello “parlano di lui” della Prima Lezione esercitava di fatto il ruolo di chi introduce al pubblico il protagonista e riferisce le premesse indispensabili a comprendere la storia che seguirà, perde la sua coralità, non è un insieme di voci, ma una galleria di figure distinte: “gli altri personaggi” . Non è il coro (la società) a narrare i fatti, ma lo stesso protagonista (l’individuo). La vicenda è tutta raccontata dal punto di vista del protagonista. L’oggettività di quanto accade è dunque una ricostruzione soggettiva.
Questo comporta una scelta che dominerà tutta la narrazione successiva. Il protagonista può raccontare solo fatti cui ha assistito personalmente o di cui è venuto direttamente a conoscenza. Dunque lo sceneggiatore non potrà facilmente staccare su un’altra situazione, su eventi paralleli che il protagonista non ha vissuto e non conosce. Il protagonista sarà sempre in scena. E quando non ci sarà dovrà comunque essere al corrente di quanto è accaduto indipendentemente da lui.
Il genere drammatico e quello comico si prestano particolarmente ai due diversi modelli proprio perché in entrambi il protagonista, le sue riflessioni, la sua esperienza di vita, sono il vero centro della narrazione. E la narrazione è anche racconto della sua “presa di coscienza”.
Questo non significa però che ogni altro personaggio debba diventare per forza di cose secondario, anzi è vero l’opposto. Nei due film di cui esamineremo in breve l’inizio, ma che vi raccomando di vedere nella loro interezza, l’esperienza del protagonista è segnata dall’incontro con una donna (con un altro da lui, anzi una sua opposizione). Fin dal titolo è chiaro che quest’altra persona è presentata dal protagonista come la vera protagonista della vicenda che lo ha visto coinvolto. Infatti il primo film si intitola Gilda e il secondo, nell’originale, Annie Hall (solo nella versione italiana è diventato Io e Annie). Il protagonista narratore ( Glenn Ford nel primo film, e Woody Allen nel secondo) mentre si presentano, in realtà cedono o “simulano” di cedere la scena alla donna che drammaticamente nel primo caso, simpaticamente nel secondo, ha travolto la loro vita.
Insomma l’ego trip abbastanza inevitabile in questo genere di racconto viene opportunamente corretto da una sorta di cessione della scena “all’altra”, e l’autobiografia del protagonista è anche la storia di una contraddizione svelata, di un cambiamento nella propria vita, di un’irruzione “fatale” che ha spezzato il narcisismo del protagonista e compromesso/svelato la sua finta quanto esibita sicurezza di autosufficienza.
Tutte queste implicazioni vanno tenute ben presenti, quando si sceglie di usare questi modelli.
Usare la voce fuori campo come puro espediente di comodo per sintetizzare certi passaggi della vicenda è una soluzione poco efficace e piuttosto misera, che può risultare fastidiosa. Si può invece benissimo usare la voce fuori campo di un terzo personaggio che non è né il protagonista né la protagonista, ma un testimone della vicenda, una sorta di “coro” individuale . E’ la soluzione brillantemente usata da Clint Eastwood, nel suo Million Dollar Baby.
Usare l’autopresentazione al pubblico è anche più rischioso, anzitutto se il protagonista non è un uomo di spettacolo o un movie maker che per esprimersi d’abitudine usa la cinepresa (o la web cam) e il proprio corpo d’attore, invece della carta scritta e del semplice racconto orale. Nell’auto presentazione visiva inoltre è implicita una buona dose di spudorata “sincerità” e di esibizionismo, dunque il modello applicato a un personaggio che non abbia queste caratteristiche non risulterebbe coerente, né credibile.
In conclusione, questi modelli sono da usare con estrema consapevolezza e legano la narrazione molto di più di quelli presentati nelle due precedenti lezioni. E va anche osservato che mentre i modelli delle prime due lezioni si possono sposare (guardate per esempio l’inizio di Lawrence d’Arabia che ci presenta il protagonista in corsa folle sulla sua motocicletta per morire subito, e poi alla sua celebrazione solenne dopo i funerali, mette in scena il coro che “parla di lui”) i due diversi modelli presentati in questa lezione molto difficilmente possono venire mescolati ad altri.
1. GILDA (1946) Soggetto di E.A.Ellington; Adattamento di Jo Elsinger; sceneggiatura di Marion Personnett ( revisionata dalla produttrice/sceneggiatrice Virginia Van Upp); regia di Charles Vidor.
- Il protagonista maschile.
Johnny Farrell ci appare, scarmigliato, in un vicolo mentre gioca a dadi. La sua voce fuori campo recita: Per me un dollaro era un dollaro in ogni lingua. Era la mia prima sera in Argentina e non sapevo molto degli abitanti del posto, ma conoscevo i marinai americani e sapevo che era meglio starne alla larga.” Johnny vince un bel gruzzolo di dollari e prudentemente si allontana. Verrà fatto subito oggetto di un’aggressione e la affronterà con calma imperturbabile, fin quando uno sconosciuto, un nuovo e misterioso personaggio destinato ad essergli amico e socio, giungerà a scacciare il ladro.
Il protagonista, un giocatore d’azzardo, ci viene subito presentato in azione. E’ un uomo che si gioca la vita a dadi. Esperto e abituato a fronteggiare i rischi. In un minuto di rappresentazione, il suo ritratto è già compiuto.
A rapidi stacchi vedremo Johnny passare dalle stalle alle stelle. L’uomo che lo ha salvato nel vicolo è proprietario di una lussuosa sala da gioco, nella quale Johnny fa rapidamente carriera fino a diventare braccio destro del capo. Il suo amico si fida a tal punto di lui, da lasciargli la gestione della sala, quando è in viaggio.
- La protagonista femminile.
Gilda appare dopo un quarto d’ora dall’inizio del film. La sua presentazione non è improvvisa come quella di Johnny, ma ritardata in modo esasperato. Il biscazziere amico di Johnny è tornato da uno dei suoi viaggi e Johnny lo va a trovare. C’è un’altra presenza in casa, si sente risuonare una musica dal primo piano e una voce femminile che canta. I due salgono le scale, attraversano una porta, sostano, in ascolto: Johnny è a disagio come se presagisse il peggio, l’altro è fiero ma anche stranamente mellifluo. Attraversano un’altra porta. Per primo, il padrone di casa: Gilda, sei presentabile? Finalmente lei entra in campo, in primo piano, sollevando la testa di scatto e gettando i lunghi capelli all’indietro. Sì. Nota la presenza di Johnny, si fa più controllata, si tira su una spallina, ma fa la dura e aggiunge una frasetta che suona allusiva: Lo sono più del necessario. Che significa? Ha già conosciuto Johnny? E’ stata una conoscenza intima?
Il film è un noir. Gilda ha tutte le caratteristiche della femme fatale. Non è importante sapere da dove viene, come e quando il biscazziere l’ha conosciuta, perché l’ha sposata. E’ importante vederla e coglierne il carattere: le piace il lusso, le piace cantare e curare il suo corpo, sa usare fino in fondo il suo fascino, non è una sentimentale o se lo è, lo nasconde sotto un atteggiamento sprezzante.
Commento
La prima cosa da segnalare è che la sceneggiatura di questo film è stata rielaborata fino all’ultimo, passando da diverse mani. Intere scene sono state aggiunte a lavorazione quasi ultimata e tra queste, due davvero fondamentali: i numeri musicali di Rita Hayworth (Put the blame on me, Amado mio). Le due canzoni illuminano un contrasto interiore del personaggio, da un lato la sua fiera consapevolezza di essere “una peccatrice” (Put the blame on me), dall’altro la sua capacità di essere un’amante appassionata e devota, quando ciò è inevitabile (Amado mio, love me forever) . Molti dialoghi vennero corretti a film già terminato. Questo per farvi capire che il lavoro dello sceneggiatore non è da considerarsi affatto concluso a copione terminato. Il lavoro dello/degli sceneggiatori è sempre suscettibile di miglioramento e accompagna il film fino all’ultimo momento utile prima dell’edizione definitiva. Questa continua
revisione può certo seminare qualche incertezza e anche qualche lungaggine nel racconto (intorno alla metà del film, il racconto di Gilda si fa piuttosto confuso e certo smarrisce la brillantezza dell’inizio), ma può anche irrobustire il film con dei momenti che risollevano l’attenzione del pubblico, narrativamente fondamentali ed espressivamente molto intensi.
Studiatevi bene le scene che intercorrono tra la presentazione di Johnny e quella di Gilda, in particolare l’incontro di Johnny con il biscazziere (Ballin Mundson) dove il dialogo pare la fiera dell’irrealtà e dell’improbabilità, scelta di grandissimo coraggio che da un lato asseconda la rapidità, dall’altra ci introduce a un mondo e a una vicenda in cui “tutto può accadere”, anche se come presto capiremo, la vicenda è predestinata, i suoi sviluppi “inevitabili”. E’ una storia che nasce e finisce sotto l’insegna del Fato. E questo dà anche ragione della scelta iniziale, cioè del farla raccontare dalla voce off del protagonista.
Seppure entrambe fulminanti, le apparizioni del protagonista (subito in campo) e della protagonista (ingresso ritardato) sono opposte e ci mettono dunque di fronte a due personaggi contrapposti. Il protagonismo maschile è un protagonismo della presenza costante, quello femminile è protagonista anche nella sua assenza, perché sa farsi aspettare e desiderare , e poi non delude certo l’attesa, anzi la supera. E’ immagine pura, assoluta protagonista dell’inquadratura, oltre che del film.
Le prime parole dei due sono scolpite. Per me un dollaro era un dollaro in ogni lingua. Johnny si presenta attraverso la sua filosofia di vita. Sono più presentabile del necessario. Gilda non parla della sua filosofia, ma del suo corpo. La sua consapevolezza è consapevolezza fisica. La sua ironia è una lama a doppio taglio: parla di sé, ma è anche un messaggio rivolto a qualcuno.
2. ANNIE HALL (Io e Annie) (1977) Scritto da Woody Allen e Marshall Brickman. Regia di Woody Allen.
- Il protagonista maschile.
Alvy Singer ( il personaggio interpretato da Woody Allen) parla, su fondo neutro, direttamente al pubblico, di fronte alla MDP che rimane fissa su di lui.
C’è una vecchia storiella. Due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice: Ragazza mia, il mangiare qui fa veramente pena. E l’altra: Sì, è uno schifo, ma poi che porzioni piccole! … Be', essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miserie, di sofferenze, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco. E c’è un’altra battuta che è importante per me. E’ generalmente attribuita a Groucho Marx, ma credo dovuta all’origine al genio di Freud e che è in relazione con l’inconscio e che recita così, parafrasandola: Non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me… Questa è la fottuta chiave della mia vita di adulto nei confronti delle donne. Sapete, ultimamente i pensieri più strani attraversano la mia mente perché sono sui quaranta e penso di attraversare una crisi o che so, chi lo sa… oh, io non mi preoccupo di invecchiare, non sono di quei tipi… lo so, quassù mi si apre una piazzetta, ma peggio di questo per ora non mi è successo, anzi credo che migliorerò invecchiando… il tipo virilmente calvo, cioè l’esatto contrario del tipo argentato distinto, ecco… e se no, nessuno dei due, divento uno di quelli che perdono i filini di bava dalla bocca, vagano per i mercatini con la borsa della spesa sbraitando contro il socialismo… Annie e io abbiamo rotto e io ancora non riesco a farmene una ragione.
Il protagonista, un commediografo di successo, ma in particolare un creatore di battute, si presenta senza bisogno di chiarire il suo mestiere, semplicemente dicendo una serie di battute.
Attraverso le battute ci chiarisce la sua filosofia di vita. Ci chiarisce anche il suo carattere autoironico, ma anche autoindulgente. La sua attitudine a divagare, la sua inclinazione alla logorrea. Ci mette parecchio ad arrivare al punto, ma quando lo fa è deciso, chiaro e inequivocabile. Io e Annie abbiamo rotto.
Il protagonista continua la sua auto-presentazione risalendo all’infanzia ( che vediamo in alcune divertenti scene esemplari), alla sua famiglia, al suo quartiere, al suo successo da adulto, al suo migliore amico, finché lo ritroviamo importunato all’ingresso di un cinema da qualcuno che lo riconosce vagamente per averlo visto in TV. Dall’inizio del film sono passati circa 9 minuti.
Il racconto è stato svolto a rapidi stacchi. Più di trent’anni sono passati in questi nove minuti.
- La protagonista femminile.
Alvy, fuori dal cinema, era in attesa di Annie. Sopraggiunge un taxi. Lei scende, con un abito molto anni 70, casual, curato, ma senza sfoggio di eleganza né di seduzione. Non guarda neppure in faccia Alvy. Le sue prime parole sono: Sono proprio di pessimo umore.
Il film è una commedia. L’attesa per l’apparizione della protagonista c’è, ma è un’attesa senza mitizzazioni, quotidiana. Lei scende da un taxi. La MDP non ce la mostra in PP, né da sola, ma a contrasto con l’ansia e l’atteggiamento normalmente risentito di lui, subito spezzato da una presa di distanza: niente discussioni, sono di pessimo umore. Come dire: un fatto mio, tu non c’entri niente. Lui non è un avventuriero, lei non è una dark lady. Sono due di noi.
Commento.
Nell’assoluta diversità dei due film, divisi da trent’anni, da generi opposti, da bianco e nero e colore, avrete notato le analogie narrative. Un minuto per la presentazione di Johnny, tre per l’enfatica auto-presentazione di Alvy. Un passaggio narrativo in “riassunto” per sintetizzare il vissuto del protagonista e portarci al vero punto focale della storia: l’apparizione di Lei. Di una Lei attesa. Di una Lei che si fa attendere.
Le scene “riassuntive” sono comunque, in entrambi i casi, ben lontane dalla frettolosità di una narrazione sbrigativa e puramente informativa. Sono anzi costruite, in ogni singolo stacco, come scene con un principio e una fine. Il passato è presentato per tappe e per momenti esemplari.
Il dialogo riveste una funzione essenziale. I protagonisti maschili si presentano attraverso la loro filosofia di vita. Le protagoniste femminili attraverso la loro condizione, il loro essere nell’istante.
I protagonisti maschili narrano la storia (e narcisisticamente si inscrivono nella Storia), le protagoniste femminili sono la vita, prima e al di là della biografia. I primi “si proiettano”, le seconde “sono” (proiettate quanto si vuole, ma in fondo inattingibili). I primi rievocano, le seconde vengono evocate.
Si può legittimamente obiettare a questa differenza di “ruolo”, del tutto culturale, ma quasi sempre presentata come “naturale”, come “regola”. Non è sufficiente considerare che il primo film (Gilda) è stato scritto da due sceneggiatrici e prodotto da una donna. I ruoli definiti sono comunque quelli.
Si può raccontare una situazione capovolta? Dove cioè sia Lei a narrare, e Lui ad essere narrato? Naturalmente sì, ma senza smarrire la consapevolezza di quanta attenzione anche psicologica sia necessaria per distinguere i ruoli e presentarli (nel primo quarto d’ora del film) nel modo più coerente. L’impresa è tale da far tremare i polsi se si considera che nessuno ha finora osato fare un remake di Gilda “dal punto di vista di Gilda” , però Diane Keaton in Looking for Mr. Goodbar (In cerca di Mr.Goodbar) qualcosa del genere lo ha fatto, e con notevole efficacia.
Esercizio
L’esercizio che vi propongo questo mese ha lo scopo di verificare se qualcuno di voi si è preso la briga di studiare i film fin qui proposti. Dunque questa volta consiglio di scegliere uno dei film fin qui esaminati e vederlo con attenzione, scena per scena.
Rispondendo in particolare a questa domanda: a parte l’inizio del film, quale scena del film vi ha colpito di più? Descrivetela. E valutate: Cosa accade al protagonista in questa scena? Dove è collocata questa scena, a che punto del film? Perché secondo voi è esemplare e cruciale?
LEZIONE di Gianfranco Manfredi
LEZIONE VIII - IL TEMPO DEL CINEMA
LEZIONE IX - I TEMPI NELLA SCENEGGIATURA (I)
LEZIONE X - FUNZIONI DEL DIALOGO
LEZIONE XI - I TEMPI NELLA SCENEGGIATURA (II) – IL SERIAL TV
TERZO CICLO DI LEZIONI - I GENERI
LEZIONE XII - I GENERI: LA COMMEDIA
LEZIONE XIII - I GENERI: LA TRAGEDIA
LEZIONE XIV - I GENERI: L’EPICA
LEZIONE XV - I GENERI MODERNI: HORROR
LEZIONE XVI - I GENERI MODERNI (II): IL CINEMA COMICO (Parte Prima)
LEZIONE XVII - I GENERI MODERNI (II): IL CINEMA COMICO (Parte Seconda)
LEZIONE XVIII - I GENERI MODERNI (III): IL GIALLO E IL NERO (PARTE PRIMA)
LEZIONE XIX - I GENERI MODERNI (III): IL GIALLO E IL NERO (SECONDA PARTE)
LEZIONE XX - I GENERI MODERNI (IV) : L’EROTICO E IL PORNO
LEZIONE XXI - I GENERI MODERNI (V): LA LOVE STORY
LEZIONE XXII - L’ADATTAMENTO (I)
LEZIONE XXIII - L’ADATTAMENTO (II)
LEZIONE XXIV - I GENERI MODERNI (VI): IL FANTASY
LEZIONE XXV - I GENERI MODERNI (VII): IL FILM STORICO
LEZIONE XXVI - I GENERI MODERNI (VIII): IL PASSATO RECENTE
LEZIONE XXVII - I GENERI MODERNI (IX): L’ATTUALITA’
LEZIONE XXVIII - I GENERI MODERNI (X) : FUTURO
LEZIONE XXIX - I GENERI MODERNI (XI): CINEMA D’AUTORE
LEZIONE XXX - I GENERI MODERNI (XII): IL MUSICAL (E IL FILM CON MUSICHE)
QUARTO CICLO DI LEZIONI - SITUAZIONI
LEZIONE XXXIII - MEZZI DI TRASPORTO
LEZIONE XXXIV - MEZZI DI COMUNICAZIONE (I): IL TELEFONO
LEZIONE XXXV - MEZZI DI COMUNICAZIONE (II): LA TELEVISIONE
LEZIONE XXXVI - MEZZI DI COMUNICAZIONE (III): INTERNET E IL PC
LEZIONE XXXVII - SCENE A TAVOLA
LEZIONE XXXIX - IN CAMERA DA LETTO
LEZIONE XL - IL PRIVATO SOCIALE
QUINTO CICLO DI LEZIONI - LA FORMA DELLA SCENEGGIATURA
LEZIONE LXI - NASCITA E FONDAMENTI DEL COPIONE TEATRALE
LEZIONE XLII - LA FORMA DELLA SCENEGGIATURA (I)
LEZIONE XLIII - LA FORMA DELLA SCENEGGIATURA (II)
CONCLUSIONE: CHI E' LO SCENEGGIATORE CINEMATOGRAFICO?
Torniamo alle situazioni di vita quotidiana. Riprendiamo e approfondiamo un rito quotidiano cui abbiamo accennato di sfuggita nella prima lezione di questo ciclo: il pranzo (o la cena). Lo si ritrova in ogni genere di film, e può sembrare ovvio: le persone devono pur mangiare. Tuttavia non è per un'esigenza di verismo che si sceglie di mostrarle a tavola. In moltissimi film, infatti, primi fra tutti quelli d'azione, i personaggi non mangiano affatto. Si dà per scontato che si alimentino, ma la scena viene bypassata proprio in quanto ovvia. Del resto si dà anche per scontato che i personaggi abbiano esigenze e urgenze fisiologiche, ma non per questo li si mostrano mentre le sbrigano, a meno che ciò non serva alla narrazione. Il racconto cinematografico, come ho ripetuto più volte, sintetizza e dunque è per sua natura portato a trascurare i momenti "qualunque". Da pubblico, noi non ci domanderemo mai come faccia un eroe a superare stress indicibili senza alimentarsi mai, e in certi casi senza neppure dormire. Questa implausibilità fa parte della convenzione iniziale stabilita tra chi narra una vicenda e chi assiste e partecipa emotivamente a questa narrazione: non si spezza il ritmo raccontando momenti insignificanti.
Dunque se mostriamo i protagonisti a tavola non è per narrare l'ovvio e cioè che i personaggi essendo esseri umani devono mangiare, ma per un'esigenza espressiva. Non è il mangiare in sè, ma il Rito del mangiare che può essere una preziosa occasione per farceli scoprire e approfondire. Ho rilevato nelle prime lezioni quanto sia essenziale informare lo spettatore sulla "carta d'identità" del protagonista: da quale ceto sociale proviene, come si rapporta con il suo ambiente, dove e come vive, quali siano le sue abitudini. E questo dobbiamo rappresentarlo in pochissime scene, senza diffonderci in troppe spiegazioni verbali: dobbiamo cioè raccontare la personalità del protagonista attraverso ciò che fa. Da questo punto di vista le scene a tavola sono preziose. Ci consentono, da sceneggiatori, di collocare il personaggio nel suo ambiente, di esplorare le sue relazioni famigliari e amicali, e di capire come egli si atteggi di fronte a un rito collettivo (quello del mangiare riuniti attorno a una tavola) che tutti conosciamo a perfezione, ma di cui di rado, proprio perchè è un'esperienza abituale, avvertiamo il senso simbolico.
Traggo un esempio dal primo film che ho sceneggiato insieme a Giorgio Basile e al regista Salvatore Samperi, Liquirizia (1979). Dovevamo evidenziare la differenza tra i due protagonisti: uno studente liceale e uno studente di ragioneria alla fine degli anni cinquanta. Li vediamo uno dopo l'altro in due brevi scene a tavola: il liceale mangia con padre e madre in sala da pranzo, a un tavolo ben apparecchiato e in abito formale. Il rito borghese dell'epoca prevede che si mangi nel più assoluto silenzio. E si mangia poco, perchè i ricchi mangiano meno dei poveri. A sottolineare la sconfortante e algida cerimonia, il piatto è la solita minestra, da sorbire senza produrre risucchi sgradevoli. Poi si stacca sul giovane ragioniere che invece mangia in cucina insieme a suo padre (in pigiama) che parla anche troppo, si diffonde in memorie personali, in rivendicazioni di appartenenza politica, in rimbrotti al figlio che dal canto suo non è neanche interessato a mangiare perchè ha tutt'altri grilli per la testa e non vede l'ora di uscire. Ho già accennato a una scena simile in Saturday Night Fever (1977) di John Badham dove il protagonista Tony Manero disdegna il rito della cena in famiglia cui si presenta regolarmente in ritardo o non si presenta affatto perchè preoccupato solo di correre in discoteca. In pochissimi minuti si raccontano dunque una quantità di cose, semplicemente mostrandole: origine di classe dei personaggi, rapporti con la loro famiglia (diversità generazionali e caratteriali), loro diverse reazioni (il giovane borghese che subisce in silenzio e il giovane proletario che reagisce con sfrontata bulleria).
Una situazione diversa è quella resa celebre dal film Indovina chi viene a cena? (1967) di Stanley Kramer. Alla cena in famiglia è presente un estraneo, nel caso un uomo di colore (Sidney Poitier) legato sentimentalmente alla figlia (bianca) del capofamiglia. Stessa cosa avviene nel recente Ti presento i miei (2000) di Jay Roach, dove il giovanotto "liberal" di origine ebraica Ben Stiller viene invitato a pranzo dalla famiglia della sua fidanzata e si trova subito a doversi confrontare con l'arcigno padre italo-americano e per di più agente segreto. Le scene a tavola in questi casi consentono non solo di presentare i membri della famiglia nel loro ambiente, ma di vederli dal punto di vista di un estraneo, evidenziando il suo imbarazzo e il conflitto interiore della sua fidanzata, divisa tra due diverse appartenenze affettive. Questa situazione è diventata ormai uno standard, replicato in un'infinità di film e telefilm e particolarmente adatto a situazioni da commedia.
Il rito del pranzo in comune può andare al di là dello stretto ambiente famigliare. E' il caso de Il Grande Freddo (1983) di Lawrence Kasdan, dove un gruppo di amici si ritrova dopo anni. La riunione avviene in occasione di un funerale. E il mangiare insieme, inclusa la lunga preparazione, da un lato rinsalda i rapporti, dall'altro rivela i fallimenti e le crisi individuali. La festa è un'altalena continua tra elaborazione del lutto e percezione del senso simbolico della Fine, come fine di un'esperienza generazionale. Qualcosa di molto simile avviene nei film di Denys Arcand, a partire dal primo (Il declino dell'impero americano, 1986). Il riunirsi a tavola degli amici, da rito dell'unità di gruppo si ribalta nel suo opposto di svelamento delle solitudini e della drammaticità dei percorsi individuali. E' la festa degli opposti. La commedia si squarcia. La tragedia incalza, ma si frammenta, e di nuovo chiede ricomposizione e scioglimento "positivo" nel gruppo.
Ci sono poi casi esemplari in cui la cena collettiva diventa una vera e propria resa dei conti. Uno dei momenti topici di questa situazione è nel brindisi. Il rito del brindisi comporta che uno dei partecipanti alla tavolata esprima un omaggio alla ricorrenza che viene celebrata e/o all'ospite festeggiato. Un brindisi in teoria dovrebbe essere celebrativo e gratificante per tutti, dovrebbe sancire e consacrare l'unità solidale del gruppo. Ma è anche un'espressione individuale, dove il singolo emerge letteralmente sugli altri (si alza in piedi e pronuncia il suo discorso nel silenzio generale) e dunque l'occasione si presta ad essere usata polemicamente per svelare l'ipocrisia del rito di gruppo. La cena/festa allora diventa crudele. E' il caso de La cena delle beffe (1941) di Alessandro Blasetti ( "E chi non beve con me peste lo colga!"). E' il caso di Freaks (1932) di Tod Browning dove un banchetto di matrimonio tra un nano e una bella trapezista diventa occasione per una spietata presa in giro del povero sposo da parte della sposa (interessata unicamente ai suoi quattrini) e insieme elemento di scandalo per gli "scherzi di natura" che rinsaldano la loro solidarietà contro i "normali" che di loro si approfittano. Il brindisi qui nasce come scherno, ma l'ubriacatura collettiva lo trascina ad esiti horror. E' infine il caso di Festen (1998) di Thomas Vinterberg dove il brindisi del protagonista che dovrebbe celebrare i sessant'anni del capofamiglia, diventa astioso quanto puntuale svelamento di retroscena violenti e incestuosi.
Il Rito della tavola ha offerto anche occasione per rappresentazioni al limite del delirante, dove l'elemento simbolico assurge a protagonista al di là dei protagonisti stessi.
E' il caso del capolavoro surreale L'Angelo Sterminatore (1962) di Luis Bunuel che rappresenta un gruppo di borghesi letteralmente prigionieri di una sala da pranzo.
E' il caso di Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola dove il grottesco abboffarsi di un gruppo di sottoproletari nasconde (e insieme rivela) un avvelenamento da orda primitiva.
E' il caso della cena dei mostri di The Texas Chainsaw Massacre (1974) di Tobe Hooper in cui gli "invitati" sono vittime impotenti e sacrificali.
Se ne può concludere che la scene a tavola esprimono tutto il loro potenziale narrativo quanto meno sono puramente di passaggio, e quanto più sono scene che assumono nel contesto di un film un rilievo assoluto ed esemplare. E veniamo così al punto: come si sceneggiano queste scene? Quali difficoltà presentano e come sormontarle?
Problemi e soluzioni
Si può pensare che una scena a tavola, dato che mantiene un'impostazione teatrale di base (ambiente unico, dialoghi alternati dei protagonisti, stretta unità di tempo, luogo e azione) sia di per sè poco costosa e impegnativa. Non è affatto così. Il tempo necessario a girare una scena a tavola è in genere molto più lungo di quello necessario per una normale scena d'ambiente. Sono in scena molti personaggi, ciascuno nella sua posizione obbligata. La fissità stessa della situazione comporta, se non si vuole sprofondare nella monotonia, un frequente cambio di inquadrature e dunque di luci. A seconda della posizione della macchina da presa, la tavola dev'essere di continuo sgomberata e riarredata tra un ciak e l'altro. La pause di lavorazione sono di conseguenza continue e sfiancanti. Il contenuto dei piatti che gli attori fingono di mangiare, ma più spesso mangiano davvero per elementari esigenze di resa realistica, dev'essere costantemente rinnovato in modo che si mantenga sempre in continuità nel montaggio finale. Gli attori sopportano parecchi disagi, restando seduti per ore, sbocconcellando all'infinito lo stesso piatto (e vi assicuro che può essere una tortura... a me è capitato, da attore, di dover sforchettare per un giorno intero un piatto di riso) e pronunciando battute tra un boccone e l'altro. Se la scena prevede la presa diretta, la difficoltà aumenta, anche a evitare che il tintinnio di posate e bicchieri o il chiacchiericcio degli altri commensali risaltino troppo.
Insomma, girare una scena a tavola è lungo, complicato e affliggente per il regista, per le maestranze e per gli attori. E questo uno sceneggiatore consapevole deve tenerlo in debito conto.
Anzitutto, fatevi uno schema della disposizione dei posti. Nel caso di una cena formale, è obbligata (capofamiglia a capo tavola e ospiti sistemati in un certo ordine prescritto dall'etichetta), ma il tempo e l'evoluzione dei costumi hanno reso le cene formali piuttosto antiquate e l'ordine dei posti più casuale. Voi sceneggiando dovete comunque averlo ben chiaro e sistemarlo sulla base delle vostre esigenze narrative.
Prendiamo ad esempio una delle situazioni più replicate dalla commedia all'italiana o meglio dalle sue propaggini degli anni 70 e 80: gli intrallazzi sotto il tavolo dei commensali (quello che fa piedino, quello che tocca le cosce della vicina eccetera). E' di per sè evidente che la disposizione dei posti dovete averla prevista e precisata in partenza. Ma se vi sono casi in cui la vicinanza tra due personaggi è obbligata, vi sono casi opposti in cui è obbligata la distanza e anzi va enfatizzata proprio per sottolineare la difficoltà dei due a relazionarsi anche solo verbalmente. Vi sono casi in cui i vicini di posto bisbigliano tra loro (ad esempio due ragazzini che si scambiano battute sugli altri commensali) oppure in cui si ignorano totalmente perchè preoccupati solo di intratterenere (a parole o a sguardi) chi gli sta di fronte, altri casi in cui i due seduti di fronte sono davvero due "opposti": il solo fatto di fronteggiarsi è una sfida e guasta il pranzo di entrambi. Ciascuna di queste situazioni comporta scelte narrative diverse e l'ordine dei posti deve poterle favorire. Il vostro schema iniziale dei posti dovrà dunque avere le caratteristiche di un progetto narrativo, che consenta di raccontare in modo fluido, espressivo e coerente.
Sarà anche bene prevedere dei momenti che "muovano" la fissità della scena e dei personaggi. Il servizio dei diversi piatti, l'alzarsi e sedersi dei personaggi, tutti gli elementi dinamici devono trovare il modo e il tempo giusto per poter intervenire a rendere più vivace la scena. Questo genere di accortezza vale anche per film che simulano un'impostazione "documentaristica" e dunque non artefatta. Guardatevi la scena di Borat (2006) di Larry Charles, in cui il protagonista è ospite a cena da una famiglia americana "per bene"). Naturalmente questi elementi dinamici possono essere a loro volta occasione di narrazione. In Hollywood Party, film del 1968 di Blake Edwards, diventano i veri protagonisti della scena a tavola. Controllate come nel susseguirsi delle gag soltanto alcuni dei personaggi intorno al tavolo ne siano protagonisti. Non è affatto detto che in una tavolata di venti persone noi si debba dare un ruolo definito a ciascuna di queste persone. Le posizioni rispettive sono piùimportanti del numero globale.
In certi casi la scena può essere anche spezzata da intermezzi in cucina o in altri ambienti, ma anche questo non dovete usarlo come mero espediente dinamico. Anche questi intermezzi vanno considerati per le possibilità narrative che offrono. Se sono mere pause di stacco, non servono a molto. Rischiano anzi di evidenziare per contrasto la stasi della scena a tavola.
Considerate infine l'elemento tempo, inteso come tempo necessario alla ripresa della scena, che non deve confliggere con il budget previsto per il film. L'inserimento di gag (come ad esempio l'oliva che schizza via da un piatto e colpisce il commensale di fronte) allunga di molto i tempi di ripresa. Le inquadrature sotto il tavolo sono molto più complicate da realizzare di quanto sembri in proiezione: il posizionamento corretto delle luci e della macchina richiede tempo e presenta parecchie scomodità.
Non voglio dire con ciò che lo sceneggiatore debba escludere a priori queste situazioni o inquadrature, ma valutarne la necessità rispetto ai tempi previsti di lavorazione. Le scene a tavola, come detto, già solo per il fatto di richiedere la compresenza di molti attori, hanno un costo di base più elevato. Uno sceneggiatore non può considerare le esigenze narrative come riferimento unico ed esclusivo, deve valutarne anche la praticabilità e il costo, di cui è elemento essenziale il tempo necessario alla realizzazione della scena. Se non si è attenti a questo elemento, la scena verrà girata sciattamente, perchè sarà il regista a doversi fare carico di equilibrare quanto richiesto dallo script con i tempi di realizzazione del film e il budget previsto e lo farà sotto necessità, dunque improvvisando sul momento soluzioni di compromesso. Insomma, tra le tante situazioni quotidiane rappresentate in un film, non c'è scena che richieda una programmazione nei dettagli più di una scena di gruppo a tavola.
Dal punto di vista strettamente drammaturgico, se siete tra quegli sceneggiatori che pensano di risolvere una scena sulla base del dialogo, più o meno come a teatro, allora una scena a tavola potrebbe rivelarsi per voi una vera trappola. Pensate sempre, quando scrivete, a come apparirà la scena montata: una collezione di primi piani di commensali che si scambiano battute? La monotonia visiva sarebbe devastante. Le scene a pranzo sono scene eminentemente corali e come tali vanno pensate. Dovete fornire occasioni di movimento tra i personaggi, e di varietà di inquadrature. Dovete immaginarvi la scena e la sua dinamica complessiva, non limitarvi allo scambio delle battute. E queste battute devono essere pensate in quella situazione. Un dialogo tra due persone nel chiuso di un'automobile, è strutturalmente diverso da un dialogo pubblico come quello che avviene a una tavolata. Dal contesto collettivo non si può assolutamente prescindere. Questo contesto è dominato da un rituale. Un pranzo o una cena non devono essere usati come semplice pretesto per far parlare due o più persone tra loro, ma come una rappresentazione d'insieme, nella quale ogni cosa detta viene condizionata dall'occasione e dalla ritualità che gli è propria.
Entrate e uscite, presentazioni e congedi, anticipazioni e/o stacchi
Nella prima parte di questo corso ci siamo soffermati sulla creazione dei personaggi.
Nella seconda parte abbiamo compiuto un excursus tra i generi e relative strutture narrative.
In questa terza parte esamineremo una serie di situazioni obbligate che uno sceneggiatore si trova usualmente ad affrontare, per qualsivoglia personaggio e in qualsiasi genere di film.
Questa terza parte sarà meno teorica e più pratica della precedente, e spero risulti utile a farvi comprendere quali problemi nascono e quali tecniche narrative possono essere messe in gioco nello sceneggiare delle situazioni “obbligate” nel senso di ricorrenti, perché non solo sono quasi inevitabili in ogni tipo di film, ma possono replicarsi anche all’interno dello stesso film.
Comincerò da una situazione sommariamente già affrontata nella prima parte (nella lezione sui modi di presentare un personaggio) e che qui cercherò di approfondire. Cioè quella delle Entrate e Uscite di scena.
L’ingresso del nostro personaggio in un nuovo ambiente spesso prelude alla sua presentazione ad altri personaggi (anche se a noi pubblico il personaggio si è già presentato) e alla sua conoscenza di nuovi personaggi (finora ignoti al pubblico). Come evitare, soprattutto in un film che prevede molti ambienti di passaggio e molti incontri con personaggi occasionali, che queste continue presentazioni diventino noiose e tutte uguali?
L’uscita del nostro personaggio da un ambiente prelude a uno spostamento del personaggio, rappresentato attraverso uno stacco narrativo oppure seguendo un percorso lineare dal luogo A al luogo B. Questa uscita va legata al seguito? Dipende se vogliamo sottolineare una stretta continuità oppure se vogliamo operare uno stacco deciso che frammenti la narrazione spostandola di netto altrove e/o in un momento successivo, operando cioè un salto di tempo. Ma anche qui, come possiamo evitare che i meccanismi di passaggio da un ambiente all’altro, da una fase temporale alla successiva, a furia di ripetersi diventino scontati?
Se si trascura di considerare questi problemi già in sede di sceneggiatura, come per molti anni si è fatto in Italia da parte dei molti che consideravano la sceneggiatura non come una “Bibbia” (come si suol dire oggi), ma come un mero “canovaccio” (secondo la tradizione antica della Commedia dell’Arte), si finisce per girare delle scene con degli inizi e dei finali magari quotidiani e realistici (perché la vita è piena di situazioni ripetitive e di cerimoniali standardizzati) ma narrativamente troppo monotone (presentazioni reciproche al principio, saluti e congedi alla fine). In genere scene scritte e girate così vengono tagliate al montaggio, sforbiciando tanto i preliminari, quanto le code. In questo modo però rischiano di saltare le presentazioni dei personaggi che a quel punto diventano presenze troppo generiche, e nell’alternanza delle scene si rischia un racconto poco fluido e a sbalzi. Gli attacchi e i finali è sempre bene studiarli prima, in sede di sceneggiatura, non delegarli al regista al momento della messa in scena o al montatore in fase di editing. Una buona sceneggiatura non è una Bibbia e neanche un canovaccio: è un programma di lavoro basato su uno stile adeguato e coerente di racconto. Bisogna riservarsi la libertà di poterlo adattare alle circostanze, ai luoghi, alla recitazione, però non al prezzo di renderlo solo una traccia da interpretare scena per scena, altrimenti si sacrificano gli equilibri narrativi.
Ricaviamo il nostro esempio di riferimento dalla sceneggiatura del film Little Caesar (1930) di Mervyn LeRoy, film scritto dal grande sceneggiatore W.R. Barnett e ispirato a una vicenda reale di cronaca nera (la storia della banda criminale di un certo Sam Cardinelli). Il protagonista, Caesar Bandello, alias Rico, e Joe Massara, suo amico e complice, vengono presentati nella prima scena del film, freschi reduci da una rapina. Quella rapina per Rico è solo l’inizio di una carriera criminale da affrontare in modo più consapevole e organizzato per acquisire il Potere di un autentico boss; per Joe invece, più incline al “mordi-e-fuggi” dovrebbe essere festeggiata in allegria, in attesa della prossima, altrettanto improvvisata e casuale. Rico è tra i due, la personalità dominante. Nel corso della scena, Joe, con una certa timidezza, chiede al suo compagno, deciso ad andarsene al più presto, dove intenda spostarsi e Rico risponde in un misto di precisione e di vaghezza, “Oh… a est… sì, ad est. Laggiù si fanno le cose in grande.” (Questa battuta è già un esempio importante: si annuncia uno sviluppo, unitamente a un’intenzione del personaggio, ma non si anticipa troppo quale sarà la scena successiva, infatti si ha cura di non precisare esattamente quale città, quale posto Rico abbia in mente per dare inizio alla sua scalata. Dal punto di vista realistico e psicologico la battuta non fa una piega: Rico ha deciso cosa fare “da grande”, ma non ha ancora scelto il luogo esatto da dove cominciare. Il personaggio non deve apparirci troppo esperto dell’ambiente criminale, altrimenti non saremmo coerenti con le sue attuali caratteristiche, quelle cioè di un banditello da strada che rapina i distributori di benzina).
La seconda scena è a stacco, presume cioè un salto di tempo. Lo sceneggiatore non ci racconta né il viaggio di Rico verso est, né le sue prime esplorazioni alla ricerca della città e del luogo giusto. Va subito al punto. La scena si ambienta in un locale di cui vediamo l’insegna: si chiama Club Palermo. Più chiari di così… il nome inequivocabile rende superflua ogni altra spiegazione. E’ un locale da gioco d’azzardo e anche questo lo comprendiamo subito da un DETTAGLIO delle mani di un personaggio che dispongono su un tavolo le carte di un solitario. Su questa immagine udiamo da fuori campo la voce di Rico:
RICO - … e questo è tutto. Me la sono filata a est, come ho detto. Vorrei entrare nel vostro giro se vi va. Che ne dite?
Lo sceneggiatore taglia la presentazione tra Rico e l’ancora misterioso proprietario del locale. E’ perfettamente inutile narrativamente che al pubblico vengano ripetute informazioni che conosce già.
Ma per dare realisticamente l’idea che la presentazione e il racconto dei precedenti sono stati svolti, si fa iniziare il discorso di Rico dalla fine e con una sorta di riepilogo, limitato ad un accenno. E nella stessa battuta si passa subito alla fase immediatamente successiva: la richiesta di Rico di entrare a far parte della banda.
Ora vediamo Sam Vettori, cioè il boss, che sta giocando al solitario. Anche la scelta del solitario è significativa. Il boss, in quanto tale, è solo, se ne sta nel suo ufficio, non gioca a carte con gli altri, è superiore a chiunque, lo sceneggiatore indica precisamente che “sembra non prestare alcuna attenzione a Rico.” Infatti non gli risponde neanche. Rico insiste (ma sempre da f.c., è anche questo è espressivamente un dettaglio importante. Non dobbiamo sminuire il protagonista mostrandolo in un atteggiamento di eccessiva sudditanza. E stiamo ancora sul boss perché è lui, qui, il centro esclusivo della narrazione). Nella successiva battuta, Rico lo chiama per nome ( Signor Vettori) veicolando così un’altra informazione al pubblico. Il boss si esprime solo quando Rico dice che è disposto ad obbedirgli in tutto e per tutto, per poi aggiungere subito con ritrovata fierezza: “Non ho paura di niente!” Allora il boss solleva gli occhi, su un Rico ancora invisibile al pubblico, e chiede:
SAM – Così credi di essere un duro, eh?
Solo adesso la camera mostra entrambi gli interlocutori e notiamo che Rico è in piedi di fronte al tavolo del boss, lo guarda fisso e ha un atteggiamento determinato:
RICO- Datemi la possibilità di dimostrarvelo.
SAM- Che ne sai di me?
RICO- Ne ho saputo abbastanza. Di come controllate questa parte della città. Di questo Palermo Club che usate da base. Ne ho sentite un sacco, in proposito.
E’ dunque Rico, il nostro protagonista, a presentare al pubblico il boss. Ma in pratica questa informazione si riduce a qualificarlo per quel che è, precisando che il locale è soltanto la facciata di un’attività criminale presumibilmente vasta e diffusa. Notiamo anche che Joe, il compare di Rico, è scomparso. Rico è andato da solo all’incontro con il boss. E’ come se lasciando Joe, avesse anche lasciato alle spalle il suo passato da delinquentello. Un uomo ambizioso non si presenta in compagnia, è deciso ad affrontare il destino per proprio conto. L’obiettivo da conseguire è più importante dell’amicizia. Non c’è bisogno di spiegarlo, la situazione parla da sola.
Segue un breve scambio di battute sul grado di “durezza” che Rico può garantire. Il boss chiede anche un suo impegno solenne all’obbedienza incondizionata. Rico conferma tornando a chiamarlo, con rispetto, Mister Vettori.
Il capo si alza e va verso la stanzetta adiacente, per presentare a Rico gli altri membri della banda, che come vedremo di lì a poco, stanno giocando a carte.
SAM- Su, fai conoscenza coi ragazzi… tutti elementi di prim’ordine… Quello è Tony Passa… il migliore guidatore in circolazione… e quello è Otero, altrettanto in gamba. E Scubby… tipo sveglio! E quello è Killer Pepi… ragazzi, voglio farvi conoscere uno nuovo. E’…
Sam sembra essersi scordato il nome.
RICO- Caesar Fredrico Bandello.
SAM ( pizzicandogli le guance)- Piccolo Cesare, eh?
La prima battuta ci presenta i personaggi con rapide caratterizzazioni, di ruolo e di valore. Di Killer Pepi non c’è bisogno di aggiungere altro, il nome indica la funzione. Sintesi e rapidità estreme, come potete vedere. Nessun inutile indugio. Resta la precisione psicologica nel rappresentare la superiorità del Boss : nessuno si presenta per conto suo, è lui a farlo per tutti, con sbrigativi giudizi espressi ad alta voce. Rico è ancora tutto da provare. Non solo il boss non può dare giudizi su di lui, ma al momento lo considera un aggiunto qualsiasi di cui s’è persino scordato il nome. Di nuovo Rico reagisce con una fierezza un po’ tronfia. Subito il capo lo ribattezza con superiore sarcasmo. Ma questa è la definitiva, esemplare presentazione del protagonista: un piccolo Cesare, appunto.
Non vediamo la reazione di Rico a questa battuta che dovrebbe in teoria fargli abbassare le penne. La scena dissolve.
La scena successiva stacca sull’antagonista, presenza ancora invisibile, ma annunciata e rimarcata dal titolo a caratteri cubitali di un giornale che parla del Nuovo Capo della Commissione Anticrimime, Alvin McClure, che all’atto dell’insediamento ha promesso misure drastiche contro le gang. Dopo due scene successive dedicate a Rico, era necessario uno stacco netto. Il personaggio di McClure non sarà però presentato nella scena successiva, ambientata in una sala da gioco. Se lo sceneggiatore avesse fatto questa scelta avrebbe replicato lo stesso meccanismo usato in precedenza. Prima lo stacco ci aveva portato all’insegna del Palermo Club e subito dopo al suo proprietario. Qui se dal giornale fossimo passati direttamente alla presentazione di McClure, avremmo raccontato nello stesso modo. D’altro canto, questo stacco digressivo, in cui leggiamo semplicemente il titolo di un giornale, non deve apparire come un inserto completamente slegato dal flusso narrativo. Così lo sceneggiatore usa un altro espediente tecnico di passaggio, né teatrale né letterario, ma specifico del linguaggio cinematografico. Si passa in dissolvenza incrociata dal giornale all’immagine in movimento di una roulette. E’ un modo per evidenziare un collegamento tra la criminalità e il gioco, a un livello di sviluppo superiore e successivo a quello presentato prima: al Club Palermo si giocava a carte e non abbiamo neanche visto la clientela, qui ci sono tavoli da gioco e un salone affollato.
Tornando alle scene precedenti, c’è da sottolineare un altro momento. La prima scena del film, in cui abbiamo visto Rico e Joe in uno squallido bar, si concludeva con l’uscita dal bar dei due compari. La scena successiva, in cui abbiamo visto Rico da solo, al Club Palermo, si concludeva di netto, senza mostrarci se Rico restava o se usciva. Al di là della pura efficacia narrativa, non è mai consigliabile che due scene vicine si concludano allo stesso modo.
Le scene che abbiamo esaminato, inoltre, sono disposte sulla base di un criterio narrativo unitario. Noi stiamo raccontando una carriera criminale in ascesa. Nel passaggio degli ambienti: dal bar di quarta categoria, al Club Palermo, alla sala da gioco, mostriamo di fatto questa ascesa per immagini. Si procede dalla miseria al lusso, per gradini successivi. Le scene per quanto alternate a stacco e senza connessioni spaziali e temporali tra loro, sono tuttavia in continuità narrativa, e dunque intimamente legate.
L’errore più normale che fa uno sceneggiatore alle prime armi è quello di raccontare la vicenda avendo come riferimento la vita quotidiana più che la sua rappresentazione. Si scrive dunque ogni scena dal principio alla fine, come è abituale figurarsela: il personaggio X entra e si presenta (o viene presentato). Poi esce. Si sposta altrove e ne mostriamo lo spostamento (magari seguendo la sua auto in movimento). Il personaggio arriva nel posto successivo. Di nuovo entra, si presenta, conosce nuovi personaggi, esce e così via. Raccontare così risulta di una monotonia sconfortante, rallenta il racconto, e impedisce drammaturgicamente di raccontare quello che più ci interessa: cioè, nel caso, gli inizi (rapidi) della carriera (altrettanto rapida) di un piccolo criminale che ambisce a grandi imprese. Il vero fulcro narrativo è questo, non dobbiamo disperderlo in scene a se stanti, troppo lunghe e troppo ripetitive nello stile narrativo. Raccontiamo una dinamica in progress, non raccontiamo diverse “stazioni” immobili perché configurate e strutturate narrativamente allo stesso modo. Nelle vita le circostanze possono ripetersi, sia pure in un quadro mutato. Nella rappresentazione, la ripetizione va bene solo se per esigenze espressive e di contenuto dobbiamo sottolineare appunto la ripetitività. Ma anche in questo caso, cinematograficamente possono esserci modi più incisivi di mostrare la ripetitività senza dover replicare la stessa situazione.
Un esempio: dobbiamo mostrare i riti ripetitivi di una giornata in fabbrica. Ogni giornata inizia allo stesso modo. Il lavoro comporta la ripetizione degli stessi gesti. Persino le pause pranzo sono un rito identico a se stesso giorno dopo giorno. Come racconta Chaplin questa situazione in Tempi Moderni (1936)? L’immagine della schiera degli operai anonimi che entrano in fabbrica a spalle curve, già esprime la ripetitività affliggente della situazione. Chaplin vi sovrappone simbolicamente un gregge di pecore, rendendo esplicito ed espressivamente forte ciò che nell’immagine della folla è già implicito. Al di là di questa geniale (e non replicabile) cifra d’autore, l’insegnamento vale in generale: non c’è bisogno di raccontare una serie di entrate tutte uguali, per raccontare la ripetitività. Ne basta una, raccontata nel modo giusto e con la dovuta intensità espressiva.
Dedicheremo un’apposita lezione alle scene a tavola, ma in riferimento al tema qui trattato, se vogliamo sottolineare la ripetitività rituale di un pranzo in famiglia, basta che gli attori si muovano come se i loro gesti siano automatici, irriflessi, prigionieri di un’abitudine quotidiana. Se in una famiglia riunita per pranzo si litiga e noi non vogliamo raccontare quel litigio in particolare, ma solo il fatto che in quella famiglia i rapporti sono tesi ed esplodono sempre a tavola, allora i gesti, le reazioni di fastidio dei personaggi, devono sembrarci eterni: l’argomento del contendere è pretestuoso, non deve essere il fulcro narrativo. E’nei dettagli minuti che si vive la ripetitività: il modo di mangiare, il modo di servire in tavola, i litigi che nascono da stupidaggini insignificanti.
Basta che uno reagisca con insofferenza rassegnata di fronte, che so, alla “solita zuppa” per farci capire che stiamo assistendo a un rito infinitamente replicato di cui i personaggi si sentono e sono prigionieri. Se vogliamo sottolineare che in una famiglia non si parla neppure perché si sa che altrimenti si litigherebbe, possiamo carrellare lungo una tavolata muta, dove tutti mangiano senza piacere e senza neppure guardarsi in faccia. In cinema si racconta per sintesi esemplari: una scena deve valere per tutte. Replicare ogni volta la stessa situazione è solo affliggente per il pubblico. Dà la sensazione di un racconto fermo, non di una storia che procede e si sviluppa.
Le scene è spesso utile mostrarle in corso, da un certo punto e fino a un certo punto, decisi da noi sulla base delle esigenze narrative, e non dal “reale” principio alla “reale” fine. Il tempo che dobbiamo seguire è il tempo cinematografico, il tempo della narrazione, non il tempo della vita quotidiana.
Pericolosissimo è anche annunciare in una scena quale sarà la successiva. Luis Bunuel disse che se alla conclusione di una scena due personaggi si danno appuntamento al posto X, la scena seguente può essere ambientata ovunque tranne che nel posto X. Certo a volte può rivelarsi utile anticipare informazioni circa la situazione seguente, però è bene che la scena successiva non le confermi pedissequamente, altrimenti il pubblico, magari inconsciamente, si chiede: ma se vedo il posto X, che bisogno c’era di annunciarmelo prima? Se i due personaggi che ho visto in una scena, in quella seguente li vedo in un altro posto, è ovvio che hanno deciso di andarci, non c’era bisogno di perdere tempo a raccontarlo. Un racconto resta intenso se è in continua evoluzione, il pubblico resta attento se partecipa alla narrazione colmandone i vuoti. Se invece consideriamo il pubblico come una massa di idioti a cui devono essere spiegati anche i passaggi più ovvi e impliciti, il risultato è che uno si addormenta perché dopo un po’ sa benissimo che se si perde un passaggio, essendo i passaggi spesso superflui, non si perde niente.
Questo risulta evidente dalla nostra stessa esperienza di spettatori davanti alla televisione: cogliamo istintivamente quando è il momento giusto per andare a prenderci una birra in frigo. Non perché il film o telefilm sia del tutto sprovvisto di interesse, ma perché abbiamo capito che è raccontato in modo talmente scontato che un certo passaggio possiamo tranquillamente risparmiarcelo, senza che al ritorno non si capisca più niente della storia. Queste zone morte, uno sceneggiatore deve evitarle con cura. Un eccesso di zone morte fa venir voglia di cambiare canale esattamente come un eccesso di spot pubblicitari. Nel secondo caso danno fastidio le pause forzate, estranee alla dinamica del racconto, nel primo risultano seccanti le troppe pause del racconto, il ritmo lento e ripetitivo, le troppe anticipazioni, anche più intollerabili in un racconto che già di per sé allinea luoghi comuni e situazioni prevedibili.
In un film in cui il protagonista passa per una serie di ambienti, conoscendo situazioni e personaggi sempre diversi, risulta micidiale raccontare sempre allo stesso modo l’arrivo del protagonista nell’ambiente, le relative presentazioni eccetera. Studiatevi Ladri di biciclette (1948) di Vittorio de Sica. Lì il protagonista, alla ricerca della sua bicicletta rubata, per tutto il film incontra situazioni, personaggi e ambienti diversi. In partenza, si trova, dunque, ogni volta nella stessa condizione. Ma noi, da sceneggiatori, dobbiamo strutturare le scene in modi sempre diversi.
Qual è la sequenza degli ambienti? Anzitutto il protagonista, Antonio, accompagnato dal figlio, va a Piazza Vittorio dove sa che di solito si trova la merce rubata. Poi a Porta Portese, dove la si vende. Poi finisce in una chiesa vicina dove è riunito un comitato di beneficenza e si è rifugiato un vecchio che potrebbe avere informazioni utili. Dopo una pausa meditativa in trattoria, Antonio, disperando di poter trovare la bici, va da una santona e ne resta di nuovo deluso. Poi ha un incontro casuale con il ladro, che lo conduce, dopo un inseguimento, in una casa di tolleranza. Ma il ladro ha una crisi epilettica e il nostro protagonista realizza che il recupero è ormai impossibile. Infine, Antonio (sempre accompagnato da suo figlio) si ritrova davanti allo stadio dove sta finendo una partita di calcio, e tenta di rubare una bicicletta.
Gli ambienti sono disposti in un ordine non casuale: si comincia esplorando il circuito della merce rubata, cioè secondo logica. Con la scena della chiesa, comincia l’esplorazione delle vie “miracolose”: se la chiesa delude, ecco la santona. Il bordello è una strada ancora diversa, è un luogo di spasso, come lo stadio del finale, ma nel contesto di questi “luoghi del divertimento” si raggiungono le punte più drammatiche.
Come per la carriera criminale del Piccolo Cesare, anche qui seguiamo un percorso evolutivo, dove ogni tappa è successiva non solo temporalmente, ma in termini simbolici. Passiamo dalla piazza agli interni e di nuovo concludiamo in piazza. Ma non è un cerchio, è una spirale. La prima piazza è il posto dove le persone si frequentano e si conoscono, l’ultima piazza è il luogo dell’anonimato di massa. I vari passaggi sono altrettante “curve a salire” di una ricerca che procede dal conosciuto all’incognito. La ricerca della bicicletta diventa esplorazione sociale ed è insieme una quest spirituale. Gli ambienti non sono scelti a caso. Sono luoghi reali, ma anche luoghi simbolici.
La ripetizione della situazione non è dunque statica, non conduce semplicemente ogni volta dalla speranza alla delusione, comporta un’evoluzione e un cambiamento anche interiore del protagonista. Se noi raccontassimo sempre allo stesso modo ogni singola tappa, non basterebbe la varietà degli ambienti a muovere il racconto. Ogni ingresso, ogni uscita devono essere strutturalmente diversi, perché devono corrispondere a un successivo livello di narrazione. Molte tecniche narrative vengono messe in campo da De Sica e dagli sceneggiatori (Oreste Biancoli, Suso Cecchi d’Amico, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Gerardo Guerrieri, Cesare Zavattini) perché il racconto, nei modi e nello stile, non solo nel contenuto, sia in costante crescendo. L’esplorazione nasce lenta e diventa via via più rapida. Questo comporta che le scene diventano più contratte, e per non risultare sciatte, devono avvalersi della maggiore sintesi e del ritmo più serrato, per sprigionare maggior forza espressiva e simbolica.
A Ladri di biciclette potete affiancare lo studio de Il Sorpasso (1962) di Dino Risi, prototipo non solo italiano ma internazionale, dei road movie. Anche qui la scrittura della sceneggiatura si trova alle prese con il problema di una continua, ripetuta presentazione di personaggi e di ambienti, e anche qui le tappe non sono disposte su un piano orizzontale, ma a salire. Ogni ingresso, ogni uscita da un ambiente, ogni passaggio/trasferta al successivo, vengono narrati in modo diverso, per annullare l’effetto di ripetitività in cui il racconto potrebbe annegare. Le anticipazioni ci sono (fin dal principio i due protagonisti, sotto traccia, sono condotti in un viaggio verso la morte: non a caso, una delle prime tappe è un cimitero) ma si ha cura di non renderle così trasparenti da annullare la sorpresa finale. Solo una volta visto il finale possiamo, ripensando alla storia, cogliere il senso di anticipazione di certe sequenze, il valore simbolico di certi ambienti. Se tutto fosse reso subito esplicito, ci fregheremmo da soli. In Easy Rider (1969), chiaramente ispirato al Sorpasso, è egualmente presente, anche se spostata più avanti, una scena al cimitero. In Thelma e Louise (1991) anch’esso ispirato al Sorpasso, una delle due donne, mentre fa i bagagli per la partenza, prende con sé una pistola. Questo ci annuncia subito, e molto più esplicitamente, che il viaggio avrà una svolta drammatica. Ma di nuovo: si tratta di un richiamo visivo, che al principio pare addirittura incongruo. Le due donne vanno a rilassarsi in un viaggio/fuga/vacanza da cui si attendono una piacevole evasione. Nei dialoghi tra di loro, nulla annuncia il peggio. Né si informa il pubblico circa il programma di viaggio, cioè non ci si anticipano a parole le tappe che vedremo. E le anticipazioni da scena a scena vengono scrupolosamente evitate. Ogni viaggio ha un sapore d’avventura, e l’avventura è tale perché i protagonisti, come gli spettatori, si attendono sorprese. Possiamo anche , se lo riteniamo fondamentale per chiarezza narrativa, scrivere una scena in cui dei viaggiatori studiano un percorso. Ma se poi il viaggio è l’esecuzione pura e semplice di quel percorso, la scena è inutile. E se i viaggiatori sono costretti per varie evenienze a mutare percorso, allora è altrettanto inutile che le indicazioni che diamo all’inizio siano circostanziate. E’ sufficiente indicare una meta generica.
Noi, da sceneggiatori, possiamo utilmente usare una cartina per fissare delle tappe realistiche al nostro racconto, ma mostrarla al pubblico può risultare controproducente. Non solo non si deve svelare la storia nel suo insieme, ma neppure i suoi immediati sviluppi. Questo genere di anticipazioni che sembrano di comodo, sono in realtà scomodissime da gestire. Essere chiari non significa essere didascalici. Collocare dei segnali rivelatori al punto giusto è un gioco con il pubblico, una sfida alla loro capacità di anticipazione, non deve essere una rivelazione anticipata dei passaggi del racconto.
In retorica si consigliava un tempo agli oratori, di esordire tracciando in anticipo di fronte all’uditorio i punti che si sarebbero toccati nel discorso, per esigenze appunto didascaliche e di chiarezza espositiva.
Ma un film, un romanzo, una storia a fumetti, non sono una conferenza, una predica, una lezione, sono un racconto. In un racconto non si svela mai prima dove si vuole andare a parare. Da questo punto di vista il richiamo di Bunuel, sopra citato, è da considerare vincolante. Se il pubblico, di scena in scena, viene condotto per mano come un bimbo disorientato, o come un allievo un po’ tardo da istruire passo passo, il suo coinvolgimento diventa impossibile.
Studiate bene le singole scene dei film sopra citati, per scoprire in quanti modi diversi si può presentare una situazione che tende a ripetersi e che implica molteplici presentazioni, ingressi ed uscite da ambienti successivi. I consigli di visione che vi ho suggerito e vi suggerisco durante il corso, non hanno lo scopo di farvi interessare alla storia narrata dal film, ma di farvi smontare i film per studiarne i meccanismi. I difetti più evidenti delle tracce e delle sceneggiature che mi avete inviato, non riguardano tanto la storia in sé, ma il modo di raccontarla. Una certa impreparazione tecnica è giustificabile e non deve impensierirvi. Ma certi errori, nelle successive revisioni, tendono a restare. E i più frequenti sono questi: 1. Scrittura della scena a partire dal dialogo e non dalla scena stessa; 2. Eccessiva lunghezza delle battute, senza riuscire a focalizzare la cosa essenziale che va detta, spesso perduta in mezzo ad altre notazioni casuali, più preoccupate dal realismo della quotidianità che dall’efficacia del racconto; 3. Troppi ingressi con presentazione e poche scene rappresentate in corso; 4. Troppa ansia di chiarire a parole le motivazioni del racconto e il suo senso, con un esubero di anticipazioni che rivela più una vostra volontà di mettere ordine nei vostri pensieri, più che un’attenzione all’esigenza del pubblico di formarsi una propria idea e di seguire a proprio modo e con i suoi tempi lo sviluppo del racconto.
Specie nei corti, prevale in voi la voglia di costruire degli apologhi in cui la conclusione risulta o scontata (perché troppo anticipata nelle premesse) oppure incongrua e gratuita perché preoccupata soltanto di essere sorprendente e inattesa. Gli sviluppi non devono essere troppo prevedibili, ma neppure devono essere incoerenti alle premesse. Non si tratta soltanto di coerenza psicologica dei personaggi, ma di coerenza narrativa da perseguire in ogni singolo momento di sviluppo del racconto. Da questo punto di vista, smontare i film e studiarli scena per scena, vederli anche a confronto per analogia di argomento e/o di situazione narrata, valutando nel confronto, quali funzionano e quali no, è un esercizio assolutamente fondamentale. Non troverete mai nessun manuale di sceneggiatura in cui si analizzano trasversalmente i film per situazione: scene a tavola, scene a letto, scene in bagno, scene sul posto di lavoro, eccetera. E’ un lavoro che dovete imparare a fare da soli. E vi risulterà utilissimo perché più modi riuscirete a conoscere per raccontare la stessa situazione, più facilmente potrete trovare quello giusto per voi, in quel dato momento e nel contesto del film che state scrivendo.
(Sarebbe da questo punto di vista assai importante poter avere a disposizione delle compilation visive, simili a quelle che si trovano a disposizione per la sonorizzazione. Chi sonorizza può scegliere ad esempio, grazie alle compilation, tra molti e diversi rumori di traffico. Può trovare un rumore di riferimento e poi lavorarci sopra per adattarlo alle proprie esigenze. Chi invece ha il problema di scrivere ad esempio una scena di famiglia intorno a un tavolo, non trova e non troverà mai, finché non cambieranno le leggi sul diritto d’autore, una compilation con un paio d’ore di scene a tavola tratte da film diversi e messe a confronto. Sarebbe uno strumento prezioso invece, non per rubare la scena di un film e per schiaffarla nel proprio, ma per studiare le varianti, le diverse possibili soluzioni, rispetto a situazioni che presentano per tutti coloro che le affrontano gli stessi problemi di base. Le scuole di sceneggiatura più attrezzate e importanti, dovrebbero produrli, questi sussidi. Limitandosi alla carta scritta, si rischia sempre , per quanti sforzi si facciano, di restare “al di qua” del cinema).
31° Lezione di Gianfranco Manfredi
I GENERI MODERNI (XII)
IL MUSICAL (E IL FILM CON MUSICHE)
Il Musical , come l’horror e il porno, è un genere “pre-narrativo”. In quanto tale è messa in scena di un “Numero”. Il Numero sviluppa in sé un’azione ed esprime un senso, ma diventa narrazione compiuta di una vicenda, solo se collegato ad altri Numeri. Il collegamento può a volte risultare convenzionale, o irrealistico, o pretestuoso, resta il fatto che la narrazione procede per frammenti, e dunque con una scansione diversa da quella unitaria e conseguente dei generi classici.
Come gli altri generi “estremi”, il Musical desta entusiasmo o ripulsa in sé, indipendentemente dal fatto che un certo film ci appaia brutto o bello. I generi estremi risultano a molti insopportabili come genere, non come singola opera. Generano rifiuti aprioristici.
Al Musical si rimproverano l’ingenuità e la semplicità delle trame, la loro insensatezza, i dialoghi di maniera, i personaggi stereotipati, un inclinare alla leggerezza e al divertimento che per molti è sinonimo di superficialità e di frivolezza, invece che di poesia e di grazia. C’è chi non riesce proprio a digerirne le convenzioni, prima fra tutte la disinvoltura con cui un personaggio si mette a cantare all’improvviso, come se fosse sempre seguito da un’orchestra in ogni istante della propria vita.
Noi qui non faremo ovviamente la Storia del Musical (molto più varia e ricca di quanto i suoi detrattori non vogliano ammettere) ma neppure possiamo limitarci al problema Come si sceneggia un Musical? senza esplorare almeno per accenni le caratteristiche di struttura dei principali e differenti tipi di Musical.
Radice comune a tutti è che nel Musical, la musica (accoppiata al canto e alla danza) è il centro della rappresentazione. Non ha più una funzione complementare alle immagini, in senso insieme espressivo e utilitaristico (cioè per aumentare la tensione, per sottolineare un’azione o un sentimento, per irrobustire un’emozione, o per appoggiare ritmicamente un dialogo). La musica non è più un linguaggio subordinato o vincolato al linguaggio delle immagini, anzi spesso sono le immagini che diventano subordinate alla musica, che la esprimono e commentano visivamente.
Il punto è che una canzone, un brano musicale che assume al ruolo di protagonista, o un’azione coreografica, hanno un tempo loro proprio che non è necessariamente tempo cinematografico, deve diventarlo. Da un lato ciò comporta narrativamente, nell’insieme, un tempo più lungo. Un Musical dura in genere di più di un film normale, proprio perché si trova a dover ospitare nella storia, frammenti che hanno una loro autonomia e una propria e non comprimibile durata. La canzone in particolare, tende anche per struttura a ripetersi (A-B-A-B) replicando passaggi musicali e parole, mentre nel racconto di un’azione, cosa fatta capo ha, e in un dialogo non si ripete mai quanto già detto, se non eccezionalmente, per cercare un effetto particolare. D’altro canto, il Numero stesso, nel contesto di una storia, tende a diventare narrativo e dunque a concentrare in sé, in un tempo più breve ciò che in un racconto normale possiamo raccontare in modo più disteso e per fasi successive. Questo risulterà più chiaro dall’esempio che segue, in riferimento al primo tipo di Musical che andremo ad esaminare, cioè quello integrale, in cui l’intero racconto del film è musicale, senza intermezzi parlati, né scene semplicemente recitate.
a) Il Musical integrale
Questo tipo di Musical è in genere la trasposizione sullo schermo di un’opera teatrale. Il racconto procede per Quadri (musicali, cantati e coreografici), che raccontano una storia per momenti esemplari. Non mancano certo i casi in cui è accaduto il contrario e cioè che un Musical integrale sia nato cinematografico e abbia avuto solo in seguito versioni teatrali. Ma la struttura non cambia. Ci sono, in generale, meno scene che in un film normale, ma queste scene sono più lunghe e più dense di accadimenti. Prendiamo per riferimento il musical Sette Spose per Sette Fratelli di Stanley Donen (1954) che ambienta nel west il mito del Ratto delle Sabine (vi consiglio di procurarvi l’edizione speciale in due Dvd della Warner e di studiarvela bene, inclusi i contributi speciali che documentano la realizzazione). Consideriamo la scena più celebrata, che già da sola racconta tutto il film. Vi si assiste alla costruzione di una casa di tronchi, rigidamente programmata in tempi brevi e con una ripartizione oculata dei ruoli e dei carichi di lavoro. Ma due gruppi rivali (i sette fratelli “campagnoli” contrapposti ai damerini di città) che si contendono le ragazze, passano rapidamente dalla competizione alla rissa. La scena dà vita a una serie di esibizioni acrobatiche, dove anche gli attrezzi di lavoro diventano attrezzi da spettacolo, cioè mutano radicalmente d’uso e non vengono più impiegati a fini pratici, ma estetici, potenziando le evoluzioni e i virtuosismi di una danza estremamente atletica. Sono dunque molti gli elementi narrativi inclusi nella scena, e non disposti lungo un arco temporale ordinato e realistico, ma sovrapposti e fusi insieme in una coreografia, cioè secondo una successione di “figure di ballo”. Un Numero che si compone di Numeri. Eppure tutto è straordinariamente unito e coerente. Più che da elementi disposti uno dopo l’altro, la narrazione si dispone a strati. La singola scena, nel suo insieme, è più lunga di un’abituale scena cinematografica, ma al contempo al suo interno racconta più cose perché le presenta in sintesi e in contemporanea e consente di dare evidenza a una pluralità di personaggi nella loro distinzione pur nella coralità e simultaneità di presenza scenica. E’ evidente che non si può scrivere questa scena senza una strettissima collaborazione con il coreografo. E’ lui, non lo sceneggiatore, ad “orchestrare” insieme narrazione e messa in scena. E’ sbagliato pensare che l’argomento della scena sia soltanto un pretesto per un balletto che di per sé ha poco a che fare con il contenuto del racconto, ed è altrettanto sbagliato pretendere che una coreografia debba inscenare una serie di situazioni decise a tavolino dallo scrittore. Al contrario, dev’essere il balletto stesso a sviluppare narrazione, proprio come accade per i grandi balletti teatrali. E’ da lì che si deve partire. Lo sceneggiatore non può ragionare come a volte accade nello scrivere una scena d’azione, e cioè: io mi limito a indicare cosa succede, il come succede verrà deciso nei dettagli da chi realizza il film. Non ci si può disinteressare della messa in scena operativa, perché è da quella che nasce racconto, non viceversa. Va aggiunto che questo genere di Musical, costoso, impegnativo, e cui sono indispensabili apporti professionali molto particolari (dal coreografo agli attori, ai costumisti, agli scenografi, al musicista che devono essere tutti a perfetta conoscenza delle esigenze proprie ad una scena in cui ci si esprime ballando) oggi non si fa quasi più. D’altro canto, buona parte della tradizione di questo genere di Musical si è trasferita nei video musicali, che sempre più marcatamente negli ultimi tempi hanno assunto le caratteristiche di Numeri coreografici e narrativi. Thriller di John Landis e Michael Jackson ha aperto una strada molto feconda in questo senso. E oggi persino nei piccoli filmati di YouTube la narrazione in Musical, anche con mezzi produttivi poverissimi, sia sta rivelando uno dei percorsi più seguiti. Abituarsi a raccontare un frammento autonomo, che fa racconto a sé, può essere sviante per un aspirante cineasta: la misura di un corto, come quella di uno spot pubblicitario, allontana dal format cinematografico, non sempre può essere (come invece viene spacciata) “un saggio” che prepara al film. E’ strutturalmente tutta un’altra cosa. La realizzazione di un Numero, ad esempio sceneggiando una canzone, invece è già esperienza cinematografica in senso pieno, se si aspira non al cinema in generale, ma al Musical che, come genere, si struttura appunto per frammenti che hanno una loro interna compiutezza.
b) Commedia Musicale
Questo viene da molti considerato come il Musical Classico, nato e pensato per il cinema. Il teatro c’è lo stesso, ma come oggetto, non solo come modo della narrazione. Si racconta una storia che di solito ha per protagonista un ballerino o un attore di varietà che sta preparando uno spettacolo. Raccontiamo la storia (in genere una commedia brillante a sfondo sentimentale) e sistemiamo nella storia alcuni Numeri che in parte sono Numeri dello spettacolo che viene messo in scena, in parte sono incorporati alla narrazione, cioè un dialogo può diventare duetto, un’azione può diventare danza, non sulla scena teatrale, ma nella “realtà”. Questo tipo di Musical si è imposto con Fred Astaire e Gene Kelly e oggi pare definitivamente tramontato anche per la carenza di questo genere di star: non attori che si mettono a ballare, ma ballerini in grado di recitare da attori protagonisti. Anche in questo tipo di film musicale, ciò che resta memorabile sono i singoli numeri, non certo la storia (semplicissima, quasi elementare) che si preoccupa soltanto di connettere e di lasciare spazio ai Numeri. I Numeri possono anche permettersi di non essere narrativi, nel senso che vengono presentati come frammenti di un’altra opera (non il film, ma la rappresentazione teatrale di cui il film racconta la messa in scena). La storia, dal canto suo, può garantirsi una maggiore autonomia e distendersi in una sequenza di eventi temporali più realistica. A patto di restare, stavolta sì, mero (ma gradevole) pretesto per inanellare una serie di Numeri.
c) Film d’ambiente musicale
Appartengono a questa categoria sia i film che raccontano la vita di famosi musicisti o ballerini (ad esempio L’altra faccia dell’amore di Ken Russell, 1971, su Tchaikovsy, o La grande Isadora, 1966, dello stesso regista/autore, su Isadora Duncan), sia i film che gravitano intorno all’ambiente dello spettacolo e del divertimento (come La Febbre del Sabato Sera del 1977, o Cabaret del 1972).
Qui si esce dai confini della Commedia Musicale, si può anche raccontare una storia dai forti connotati sociali e/o psicologici o un dramma (difficilmente una storia epica, in occidente, ma in Cina e in India è già più consueto, ricollegandosi a una tradizione antica, precedente al cinema).
Si tratta di film in cui il Numero musicale e/o di ballo hanno uno spazio e un ruolo assolutamente decisivi, però la storia raccontata dal film ha pari rilievo. Lo sceneggiatore dovrà essere molto attento nella distribuzione dei tempi narrativi: il racconto non può permettersi di apparire semplicemente pretestuoso e d’altra parte i Numeri non devono essere puramente esornativi e d’occasione, ma profondamente in sintonia con il senso complessivo del film. L’equilibrio delle due componenti è essenziale e comporta dunque una scrittura drammaturgica di assoluta coerenza.
d) Film con canzoni e/o con partitura
In film come il più volte citato Il Laureato, piuttosto che Easy Rider, costellati dall’inizio alla fine di brani musicali, non sono certo classificabili come Musical, però in essi la musica è molto di più di un commento, viene usata narrativamente, è parte inscindibile della messa in scena. Ciò vale anche per i film di Sergio Leone, dove la musica di Morricone non è mai mera colonna sonora di commento, ma assurge a co-protagonista. Le scene e il montaggio sembrano qui governate da una partitura musicale. Le immagini sembrano disporsi sulla musica, non viceversa, con un effetto di ribaltamento e di svolta nel racconto straordinariamente efficace, al punto che apparenti pause o digressioni narrative diventano invece potentemente espressive ed esemplari.
A questo proposito va ricordato che il cinema nasce muto (come ho già abbondantemente sottolineato) ma allo scorrere delle immagini silenziose, fin dalle origini veniva aggiunta, dal vivo, in sala, la musica. Il commento nasce così. Immagine e musica sono inseparabili fin dall’inizio del cinema e in linea teorica ciò che suonava il pianista in sala, era prescritto: c’era cioè una partitura assegnata, studiata proprio per quel film. (Nella realtà i pianisti di sala improvvisavano spesso, oppure suonavano brani di repertorio persino suggeriti dal pubblico, che non c’entravano nulla con il film).
Ricordo questo perché uno sceneggiatore, anche se non sta a lui occuparsi delle musiche, deve sempre preoccuparsi di lasciare delle scene alla musica evitando di inzeppare ogni singola scena di azioni e di dialoghi. Se lo fa, infatti, finisce per relegare la musica a mero commento e così toglie al film un possibile punto di forza espressiva. Spesso un certo genere di canzoni possono esprimere con tale intensità lo spirito di un’epoca, il momento psicologico attraversato dal protagonista, il senso stesso del racconto, che rinunciare a priori a questa possibilità espressiva è un autogol. Lo sceneggiatore non è chiamato ad indicare in sceneggiatura una certa canzone (se lo fa, è solo per fornire un riferimento), ma deve comunque sforzarsi di immaginare una musica, non di puro sottofondo, ma una musica che sappia esprimere racconto. Naturalmente va verificato che il regista sia d’accordo nell’assegnare alla musica un ruolo di rilievo. Ma una volta che siete certi di questo, esattamente come vi sforzate di immaginare quello che si dovrà vedere sulla schermo, dovrete, scrivendo, cercare di immaginare quello che si ascolterà. Senza questo genere di apertura mentale, si rischia di considerare soltanto il proprio ruolo di scrittore, si riempiono le singole scene di azioni e di dialoghi , prescindendo completamente dalla musica. In questo modo, la colonna musicale non sarà più una partitura, ma un riempitivo, cioè finirà per somigliare alle libere e casuali interpretazioni di un pianista di sala dei tempi del muto.
Lasciare spazio alla musica è cosa delicata e da non affrontare con faciloneria. E’ sbagliato (in linea di massima) usare la musica per coprire una pausa o un passaggio narrativo. E’ un ben misero espediente (anche se molto diffuso) usare una canzone come una parentesi infilata dentro una lunga chiacchierata radiofonica, o come un momento di rilassamento in attesa di passare a un'altra fase del racconto. Questo uso banale della musica lo si può osservare ad esempio nei film da regista di Alberto Sordi e in molti film di Gabriele Salvatores. Di solito c’è una trasferta in automobile da un posto all’altro: allora si mostra un totale panoramico, una cartolina paesaggistica, e gli si schiaffa sopra una bella canzone. Poi si ricomincia a raccontare. Ma la musica è linguaggio, non è un intervallo. Questo impiego del tutto strumentale della musica avvilisce sia il racconto (che di scene di puro passaggio può fare tranquillamente a meno) sia la musica stessa considerata colpevolmente come una colf. Del commento musicale uno sceneggiatore può tranquillamente fregarsene: sta al regista valutare se, ad esempio, una certa scena di tensione risulta più inquietante con una musica composta all’uopo, oppure nel più totale e assoluto silenzio. Lo sceneggiatore invece dovrebbe preoccuparsi di offrire occasioni al protagonismo della musica, cogliendone le potenzialità espressive. Perché sforzarsi di rendere uno stato emotivo dell’attore scrivendogli un testo fatto di pensieri e parole esplicite, quando si ha a disposizione, in cinema, l’espressività del suo volto e del suo atteggiamento, quella delle immagini, e quella della musica che di questi inesprimibili momenti sono il vero codice linguistico? Di questo codice si può anzi dire che la musica sia regina. Non c’è nulla di più astratto della musica eppure essa supera le barriere nazionali, di classe e di cultura, perché comunica direttamente con le nostre più intime emozioni e sa dunque farsi molto più concreta della parola o del gesto. Quando scrivete non dimenticatevi mai che oltre alle parti per gli attori, dovete pensare alla parte di quel attore invisibile che è la musica.
Come s’è visto, dunque, i diversi tipi di film musicale si definiscono a seconda del ruolo attribuito alla musica. Nel modello a) il primato è assoluto, negli altri si attenua progressivamente, guadagnando in compenso una crescente fusione agli altri elementi costitutivi del racconto. In questo percorso si finisce per sottrarre autonomia al Numero rendendolo sempre più coeso all’insieme. Il rapporto con il teatro, egualmente tende a sfiorire. I film del modello d) non hanno più nulla di teatrale. Sono ormai una forma del tutto originale nella quale il racconto per immagini e il racconto musicale sono un unico racconto, anche se le componenti conservano una loro autonomia, soprattutto sul versante della musica. Delle canzoni di Simon e Garfunkel come delle musiche di Morricone si può infatti godere indipendentemente dal film, mentre quelle stesse sequenze filmate, con altre musiche o senza musiche, assumerebbero un senso molto diverso. Nella fusione, quindi, la musica conserva protagonismo e autonomia. Viceversa in un film che usa la musica come commento, c’è anche molta “musica che non si sente” cioè una sorta di suono ambientale diffuso e di sfondo, che a giudizio del regista non deve distrarre dai contenuti espressivi della scena focalizzati su altri elementi della messa in scena. Dunque nello scrivere una sceneggiatura cercate sempre di capire bene quale ruolo attribuisca il regista alla musica e scrivete di conseguenza.
Purtroppo oggi di registi sensibili alla musica e capaci di usarla espressivamente ce ne sono pochissimi. Se dunque nel tipo di racconto che siete chiamati a sceneggiare pensate che la musica possa e debba avere un ruolo eminente, cercate di stimolare il regista a non considerarla come “l’ultima ruota dell’automobile” (cioè quella di scorta, che si tira fuori all’ultimo momento, quando purtroppo si è forato). Discutetene apertamente, quando vi trovate a valutare insieme lo script. E sappiate che quando un regista non ha opinioni definite in materia, e magari dice al musicista chiamato a comporre la colonna: “Metti la musica dappertutto, poi scelgo io dove tenerla e dove toglierla” in genere significa che il film è piuttosto approssimativo e il regista poco consapevole. Allo stesso tempo uno sceneggiatore che non si informa neppure di quale ruolo venga assegnato alla musica nel racconto, è altrettanto limitato. Che dunque siate uno sceneggiatore o un regista, la musica è anche un prezioso test che vi consente di capire: 1) a che tipo di film state lavorando; 2) con chi state collaborando.
30° Lezione di Gianfranco Manfredi
I GENERI MODERNI (X)
FUTURO
Nel racconto del Futuro, il genere più diffuso è la Fantascienza, genere per eccellenza moderno, che nasce letterariamente nell’età illuministica come costola del romanzo filosofico e che pone al centro della sua attenzione i progressi della scienza, ma in particolare della tecnica. Queste restano le caratteristiche dominanti del genere: 1. La centralità della tecnologia e i suoi sviluppi futuri; 2. Una rappresentazione del futuro che in quanto prefigurazione ha un risvolto filosofico, illuminando il senso (la direzione) della Storia e dell’esistenza umana. Esaminiamo uno per uno questi due aspetti, nella versione che ne ha dato il cinema:
1. La tecnologia è al centro del racconto. Anche quando si rappresenta un futuro decaduto, di solito post-atomico, nel quale la tecnologia ha fallito la sua missione e l’umanità è regredita alla barbarie, la tecnologia resta comunque al centro del racconto: è la sua mancanza, la sua fine, a dare senso al film. Trattandosi di racconto per immagini, il primo problema è come rappresentare la tecnologia nei suoi futuri sviluppi. Il cinema ha in realtà mostrato una scarsa capacità di anticipazione. Se si guardano i film e telefilm degli anni 30/40/50/60 è facile notare come gli sceneggiatori si siano basati su tecnologie già esistenti nella loro epoca, ma attribuendo loro prestazioni superiori. In Star Trek, per la verità, la grande invenzione narrativa della macchina del Teletrasporto appare ancor oggi avveniristica, sogno irrealizzato di tutti gli appassionati del telefilm, ma se si considera la sala controllo dell’Enterprise , è facile vedere come sia strutturata sul modello di una normale sala di controllo del traffico aereo. Per di più il grande schermo “cinemascope” attraverso il quale i navigatori osservano lo spazio, assume un risvolto metaforico neppure troppo velato: gli esploratori spaziali guardano l’universo come noi normali spettatori guardiamo la televisione (in avveniristica, ma stavolta profetica versione maxi-schermo). Il Capitano Kirk, comandante dell’equipaggio, non siede al tavolo comandi, ma su una poltrona posta al centro della sala, da dove impartisce gli ordini. E’ una sorta di capofamiglia, signore indiscusso del posto più comodo e del telecomando. In altre parole, in modo geniale, gli sceneggiatori hanno creato una sorta di cortocircuito simbolico nel quale l’identificazione del pubblico è fortissima: ci troviamo, da spettatori, di fronte a uno schermo da cui attendiamo sorprese, esattamente come i navigatori spaziali, non più afflitti da tute ingombranti, caschi, ambienti ristretti e assenze di gravità, sono a casa loro, ospiti di un comodo e vasto salotto nel quale tutti stanno rivolti verso uno schermo. Il vero prodigio è che loro, con il teletrasporto, possono trasferirsi fisicamente nel luogo che appare sullo schermo, mentre ciò a noi non è dato. D’altro canto lo sviluppo della tecnologia interattiva , pur in mancanza di una macchina teletrasportatrice, si è mosso nella stessa direzione, consentendoci se non altro un trasferimento virtuale. Resta il fatto che tranne questa ed altre rare anticipazioni tecnologiche, i film di fantascienza, visti solo pochi anni dopo, risultano, proprio sul piano tecnologico, irrimediabilmente datati. Dagli anni 70 in avanti, subentra lentamente, nel cinema, un altro criterio, capace di ovviare a questo inconveniente consentendo a un film avveniristico di non apparire patetico e invecchiato dopo solo pochi anni. Le astronavi e le loro dotazioni tecnologiche vengono totalmente ripensate e ricreate sotto un profilo più estetico che funzionale. Noi fatichiamo a comprendere con quale criterio funzionale sia stata assemblata la colossale, infinita astronave di 2001 Odissea nello Spazio e ancor più misterioso ci appare l’interno dell’astronave di Alien, bizzarro assemblaggio di ambienti asettici e di infernali cantine neo-gotiche, piene di tubi, catene, arredi che fanno pensare più all’archeologia industriale che a una fabbrica del futuro. La tecnologia fantasticata rischia meno l’effetto invecchiamento di quella probabile. Per lo sceneggiatore la difficoltà risiede nel fatto che mentre un’azione rappresentata in un ambiente reale si appoggia su elementi quotidiani ben riconoscibili (una stanza ha porte e finestre, poltrone, divani, sedie, tavoli eccetera) , un’azione rappresentata in un ambiente totalmente inventato presume che quell’ambiente sia o reso funzionale all’azione che si vuole rappresentare, oppure che l’azione venga raccontata in funzione del tipo di ambiente che è stato inventato e che dobbiamo aver ben presente al momento di sceneggiare. Gli ambienti non vengono trovati sulla base di quanto abbiamo scritto in sceneggiatura, ma vengono ideati congiuntamente alla sceneggiatura e ne condizionano contenuti e sviluppi. Per di più, trattandosi di ambienti estetici per eccellenza, e dunque corrispondenti allo stile del film, molto difficilmente possiamo riferirci o copiare l’ambiente di un precedente film di fantascienza. Dobbiamo per forza di cose creare il nostro ambiente, de-scriverlo. Non è un lavoro che possa essere affidato esclusivamente allo scenografo, dobbiamo quanto meno essere a conoscenza del suo lavoro e relazionarci con lui, per poter raccontare. La progettazione d’insieme è indispensabile. Senza progettazione generale non è possibile sceneggiare.
2. Il senso dell’esistenza. La caratteristica che accomuna film molto diversi tra loro come 2001 Odissea nello Spazio, Solaris, Blade Runner e Matrix (per citarne solo alcuni) è che l’avventura che vi si racconta “corteggia” significati metafisici. L’apparato filosofico non è qui un mero accessorio, né un modo per farci capire le opinioni dei personaggi, è invece connaturato al racconto. Creando un mondo futuro, noi esprimiamo anche una concezione del mondo attuale e delle sue tendenze. Ciò che oggi ci appare mescolato e confuso, nel futuro (depurato dall’obsoleto e dall’occasionale) si manifesta come tendenza compiuta e disvelata. Il futuro ci rivela la verità. Questa propensione filosofica non è generalizzabile a tutti i film di fantascienza, tuttavia ha segnato le punte espressive più alte di questo genere di cinema. Ed è anche un elemento perfettamente in linea con le origini stesse del racconto fantascientifico che, come sopra ricordato, è parte del romanzo filosofico del secolo XVIII. Anche in film di anticipazione in cui la tecnologia non è posta al centro, non possiamo perdere l’occasione per rappresentare situazioni di forte impatto simbolico e filosofico.
Guardatevi ad esempio lo splendido Rollerball (1975) di Norman Jewison che inventa un violentissimo sport in una società del XXI secolo dalla quale la violenza sociale è bandita. Tuttavia quando assistiamo alla distruzione di una fila di alberi per puro spasso a una festa di ricchi, è evidente che questa scena, da cui si potrebbe dal punto di vista del plot prescindere, è invece fondamentale dal punto di vista del racconto, per esemplificare in modo spettacolare il modo in cui e contro cosa in quel futuro la violenza viene praticata, senza neppure venire riconosciuta per tale. Similmente quando nel film ci viene detto che “nessun giocatore può essere più grande del gioco” (altrimenti il gioco viene distrutto), si pronuncia una massima filosofica di cui il racconto cinematografico è illustrazione. Insomma: se pensate che un racconto fantascientifico vi consenta di mettere in scena qualunque avvenimento in barba al senso narrativo, e senza necessità di “apologo”, vi sbagliate alla grande. Soprattutto con la fantascienza è fondamentale avere qualcosa da dire, con coerenza e con un orientamento ben definito, per esprimere attraverso il racconto un punto di vista forte sullo stato delle cose nel mondo e sui suoi possibili sviluppi futuri. Il futuro lo si racconta bene se impariamo a leggere il presente, ad identificarne le tendenze e ad interrogarci sui possibili sviluppi.
Consideriamo ora in breve i due principali filoni narrativi della fantascienza letteraria e cinematografica.
a) La Space Opera
2001 Odissea nello spazio di Kubrick, chiarisce già nel titolo la contiguità tra il viaggio di Ulisse per il Mediterraneo e quello di un equipaggio nello spazio. Da questo punto di vista, la Fantascienza non può essere considerato un genere a se stante, ma la trasposizione in altro scenario, dell’avventura come racconto d’esplorazione e come narrazione mitologica. Valgono dunque le stesse cose dette per il racconto epico: dev’esserci sempre uno stretto rapporto tra il carattere del protagonista (le sue qualità e le sue debolezze), e gli eventi e le situazioni affrontate, che da un lato rappresentano il Destino di cui l’eroe è ostaggio, ma dall’altra sono le occasioni attraverso le quali le doti del protagonista e la sua ricerca anche spirituale, trovano espressione.
b) L’anticipazione sociale
Qui l’ambientazione non è lo spazio, ma la Terra. E’ il futuro dei rapporti sociali che ci interessa. Una società dominata dai tecnocrati o al contrario una società post-tecnologica e neo-primitiva, com’è strutturata? Quali differenze presenterà rispetto alla nostra? La robotica,nella letteratura e nel cinema di fantascienza, è uno degli snodi essenziali di questa trasformazione. I robot sognano? Possono imparare ad amare? Possono sviluppare un’autonomia e una capacità di contro-programmazione? Gli interrogativi aperti su questo tema specifico dalla narrativa fantascientifica hanno dato luogo a una serie ricchissima di soluzioni diverse e alternative. Ma una delle difficoltà che si trovano in sede di sceneggiatura, nel prefigurare la società futura, sta nello scegliere non tanto gli elementi di cambiamento, quanto quelli di permanenza. Ad esempio nel film La Decima Vittima (1965) di Elio Petri, tratto dal racconto The Sixth Victim di Robert Sheckley si rappresenta una società futura in cui il delitto è legalizzato e organizzato come un’infinita partita di caccia reciproca. Nel tentativo di trasferire il racconto in uno scenario italiano, Petri suppone con evidente intento sarcastico, che in quel lontano futuro italiano il delitto sarà autorizzato, ma il divorzio no. Come dire: l’Italia non si emanciperà mai dalla tutela della Chiesa. Visto ai tempi, il film, nel suo esplicito paradosso, poteva anche apparire stimolante, seppure sul piano di una commedia grottesca. Visto oggi la previsione, così clamorosamente smentita dai fatti, più che grottesca pare insostenibile e più che provocatoria, pare arretrata. Il film è invecchiato esattamente come la tecnologia esibita dai film di fantascienza degli anni 50. Non si pensa, vedendolo “gli italiani non cambieranno mai” , casomai si pensa “gli italiani sono così legati al loro presente da non riuscire a immaginarsi il futuro” e in particolare “gli italiani non sanno fare la fantascienza.” (Il che sarà anche un luogo comune, ma attende ancora d’essere smentito). E’ bene che uno sceneggiatore consideri con estrema attenzione gli elementi rappresentati come permanenti, che sono certamente fondamentali per la narrazione, perché non tutto nel futuro che mostriamo può essere nuovo, strano e sorprendente: anche sull’astronave di Alien si fa colazione e si beve caffè in normalissime tazze. Ma quando si narra di organizzazione sociale cosa possiamo dare per immutabile? Che anche nell’epoca di Robocop la polizia abbia un’organizzazione gerarchica è sostenibile senza troppi rischi, ma che ad esempio la famiglia monogamica e mono-etnica sia ancora imperante è già questione realisticamente più esposta al dubbio. Lo scenario di cambiamento deve accentrarsi su un punto di particolare forza, non può dilagare in ogni zona del racconto, ma le permanenze è bene che passino quasi inavvertite, perché se incentriamo il racconto su di esse, si scivola nel campo rischiosissimo dell’anticipazione sociologica e politica nel quale la rappresentazione del futuro può venire, molto più rapidamente di quanto non possiamo pensare, smentita e travolta dalla realtà attuale e dai suoi sviluppi immediati. Il cambiamento centrale che abbiamo individuato e attorno al quale gravita il nostro racconto, quali cambiamenti a catena comporta? Questa è la prima questione da considerare. Gli elementi di permanenza fino a che punto possiamo sottolinearli? Se sono quotidianità pura e semplice passeranno inosservati, se sono organizzazione sociale, non tutti gli assetti sociali, non tutte le classi e le categorie professionali, non tutte le istituzioni hanno lo stesso grado di persistenza. E infine vanno considerati gli elementi scomparsi, non più esistenti. Ad esempio, i libri in una società che non produce più libri. Potrebbero essere un elemento di nostalgia e di rimpianto oppure oggetti talmente desueti da essere divenuti ormai indecifrabili. Lo stesso può valere per il cibo, e per mille altri aspetti consustanziali al nostro modo di vivere, alla nostra scala di valori e al nostro gusto, anche estetico. Tra novità, permanenze e mancanze va stabilito un equilibrio: ogni esasperazione in una direzione o nell’altra, ogni mix poco accorto, può portarci alla confusione narrativa. Di nuovo: non è vero che possiamo raccontare tutto quello che ci pare, dobbiamo dare vita a una visione del futuro che abbia una sua interna coerenza. E’ fondamentale saper costruire il futuro per differenza dal presente, ma anche in continuità con le linee di tendenza che individuiamo nel presente. Senza conoscenza del presente, ripeto, non riusciremo mai a raccontare bene il futuro che di questo presenze è proiezione ipotetica e insieme svelamento.
28° Lezione di Gianfranco Manfredi
La televisione compare in cinema molto prima della sua diffusione di massa. Nel film Futurista L'Uomo Meccanico di André Deed (1921) è presentata come una sorta di cinema in diretta. Nella fabbrica dei robot si possono seguire a distanza i movimenti degli "uomini meccanici" su un grande schermo a parete (simile agli ultrapiatti da 70 e passa pollici di oggi). La televisione è presentata come dotazione della Fabbrica, tra leve, manometri, valvole, quadri comandi. E' uno strumento di controllo della produzione pienamente inserito nello sviluppo della civiltà meccanica. In Maciste all'Inferno di Guido Brignone (1926) è invece una sorta di "specchio magico" attraverso il quale, dall'Inferno, i diavoli possono seguire gli avvenimenti del mondo. Queste due opposte versioni del mezzo, tecnologica e favolistica, si fondono nei primi film e telefilm televisivi americani non solo di fantascienza, ma persino western, come nella serie The Phantom Empire (1935) definita dalla critica come "uno dei più pazzi serial della Storia della TV" , nel quale il singing cowboy Gene Autry, titolare e animatore di una piccola stazione radio country, si trova a dover combattere contro una civilità superiore e cattivissima che abita la città sotterranea di Murania. In questa cittadella nascosta nel sottosuolo convivono abbigliamenti fantastici che richiamano i costumi di antichi popoli scomparsi e tecnologie avveniristiche tra le quali schermi che possono mostrare immagini dall'intero pianeta come in un cinegiornale dal vivo. La televisione si presenta dunque in cinema sotto questo duplice aspetto: l'antico sogno delle favole dello specchio fatato che consente al mago o stregone di turno di spiare/controllare gli altri (come un Grande Fratello) o come/anche un mezzo di osservazione/documentazione degli eventi reali esterni fonte di un'informazione visiva dai tempi molto più accorciati della stampa, perché in simultanea con il verificarsi degli eventi stessi,e insieme molto più "oggettiva" della radio o del telefono perché ci mostra gli eventi senza costringerci a interpretarli. Gli eventi appaiono in queste proto-televisioni come "già montati", cioè in forma di notiziari, per quanto silenziosi, espliciti, come se il medium televisione di per sè, mostrando i fatti, mostrasse una verità autosufficiente, di per sè evidente, che non richiede esercizio critico. E' come se ci si volesse convincere che mentre le parole (udite o lette) richiedono una decifrazione, le immagini si possono tranquillamente subire senza doverle analizzare perchè in quanto "apparenti" sono vere. Difatti l'inganno/ambiguità dell'ideologia televisiva sta proprio in questo: alimentarci di immagini deprivandoci della capacità di decifrarne il linguaggio. E' la simultaneità stessa ad impedirci una lettura critica. Mentre siamo consapevoli che il punto di vista della cinepresa è orientato dal regista, che si tratta cioè di uno spettacolo, ci sembra (anche se a torto) che il punto di vista della telecamera sia neutro, oggettivo, una mera finestra sul mondo e sulle cose, dunque non "racconto", ma "documentazione".
Tutto ciò che nel cinema è "costruito", in televisione appare "spontaneo". Questo riguarda anche il taglio e la natura delle immagini. In cinema possiamo vedere ciò che il nostro occhio normale non potrebbe vedere, la percezione ottica viene insieme segmentata e ricostruita, vediamo una situazione in un'alternanza continua di punti di vista, angolazioni e campi. In televisione l'inquadratura tendenzialmente fissa, gli stacchi ripetitivi tra due/tre camere piazzate in studio con piani obbligati, uniti all'effetto "diretta" che pare escludere predeterminazione e promette un "tutto può accadere" (proprio mentre non accade quasi nulla che non sia previsto e prevedibile, e in ogni caso infinitamente meno di quanto non acca da in un film) simulano un mero "mostrare", non costruito, nè "narrato", e neppure ricreato esteticamente, semplicemente "riprodotto".
Ora, qui non parleremo dei film che hanno per argomento la televisione, nè di quelli che usano moduli espressivi televisivi, ma del semplice uso del televisore (l'apparecchio televisivo) in un film e di quali problemi ne nascano per il regista e per lo sceneggiatore. Inserendo nel nostro film un televisore (e ciò che trasmette) noi inseriamo un'immagine in un'immagine, e in particolare un'immagine che ha un suo e "altro" codice, nel racconto per immagini che è il nostro film.
Il primo rischio che si corre e che bisogna tener ben presente, è che ciò che si vede nella televisione attira inevitabilmente lo sguardo, tende cioè a diventare che lo vogliamo o no, il focus della scena. In una scena ambientata, per esempio in cucina, non ci capita da spettatori di distrarci dagli attori e dall'azione per soffermare lo sguardo su un frullatore. Ma se c'è nella stessa cucina un televisore acceso, il pubblico si distrarrà inevitabilmente dagli attori e si concentrerà sulla televisione, anche se quelle immagini non hanno alcuna importanza nella vicenda. Insomma: la televisione non è un comune elettrodomestico, reclama (e ottiene) attenzione. L'uso del televisore in cinema deve essere di conseguenza accortamente limitato. Nella nostra vita quotidiana il televisore ha assunto col tempo un'importanza dominante, ci passiamo davanti ore della nostra giornata, abbiamo televisori in quasi tutte le stanze, spesso accesi anche se non li guardiamo. Questa ossessiva presenza e lo spazio che si è preso la televisione nelle nostre vite, ben di rado viene mostrato in cinema. Nei film vediamo un'infinità di salotti senza televisione o con televisioni spente o disposte in angoli defilati e "zone morte". I protagonisti dedicano pochissimo tempo alla televisione. Magari lo fanno, o si suppone che lo facciano, ma da quelle scene si tende a prescindere per "scelta".
Vediamo ora due esempi recenti, che possono chiarire questi problemi e ne offrono delle brillanti soluzioni.
a) La ragazza del lago di Andrea Molaioli (2006). Il film racconta dell'uccisione di una giovane ragazza (tra l'altro un'apprezzata atleta) in un piccolo centro di montagna. Ora, sappiamo tutti che quando nella cronaca si verificano eventi di questo genere, sul posto accorrono troupe televisive a frotte, i locali vengono intervistati, si guardano essi stessi in televisione, spesso ritrovano distorte le loro parole o come viene rappresentata la realtà del loro paese, inoltre la presenza ossessiva e continua della televisione ha non poche conseguenze sull'indagine stessa e sulla serenità degli inquirenti. Ma non è questo l'argomento del film, dunque il film ne prescinde nel modo più assoluto e noi da spettatori non ne sentiamo affatto la mancanza. Se, da sceneggiatori, per scrupolo realistico, trattandosi oltretutto di un film realistico, avessimo fatto arrivare la televisione (o anche semplicemente mostrato la televisione nelle case) avremmo commesso un grosso sbaglio, spostando e alterando il centro narrativo del film, distruggendone la "poetica". La televisione viene usata solo per mostrare delle cassette che ci illustrano in minima parte il passato sportivo della vittima, e in massima parte l'atteggiamento morboso del padre autore delle riprese della figlia. In altri termini, nel video famigliare, si mostra che esso esprime un "punto di vista" molto ben definito e avvertibile. Scoprendo e sottolineando il "punto di vista" la televisione scompare in quanto tale, grazie a lei vediamo in realtà un film, e la verità non coincide affatto con la pretesa oggettività del mezzo, ma con la soggettività dell'autore delle riprese. L'autore in questione (cioè il personaggio che ha creato i filmati) è così ingenuo espressivamente (come tutti gli autori dilettanti e amatoriali) da non rendersi conto che non sta affatto riprendendo sua figlia, ma rappresentando senza mascherature di sorta se stesso, il proprio intimo sentire, attraverso la figlia. Il film dunque in questa scena non si limita a usare un mezzo, ci aiuta da spettatori a decifrarlo.
b) Funny Games di Michael Haneke (2007). Due giovani squilibrati sequestrano, seviziano e uccidono una famiglia nella sua isolata residenza di campagna. L'ambiente predominante è il salotto. C'è ovviamente una televisione nella zona divani. E a un certo punto, uno dei giovani criminali la accende. Passano immagini diverse (vorticosi cambi di canale) e ci si ferma infine sulle immagini e sul suono chiassoso di una corsa automobilistica, immagini decolorate, di una pasta diversa dalla fotografia del film, e ripetitive. Notate come viene inqudrato il televisore: sul fondo, mentre in PP vediamo Naomi Watts seminuda, ammaccata, in tensione, legata e imbavagliata sul divano. Difficilmente possiamo distrarci da lei. E' più il rumore della corsa automobilistica che non le immagini televisive a dominare, fino a diventare colonna sonora di una situazione angosciante, violenta e ossessionante.
Tant'è che quando Naomi Watts, lasciata temporaneamente senza sorveglianza, si solleva dal divano, la prima cosa che fa è contorcersi per spegnere la televisione. E lo fa nonostante suo figlio giaccia cadavere di fianco alla televisione stessa. Liberarsi da quel rumore ossessivo, è più importante per lei che compatire la sorte del figlio. Il televisore stesso, mostrato in precedenza in dettaglio, acquista altra valenza quando sul suo schermo schizza il sangue del ragazzino ucciso. Non è più un contenitore di immagini, è un mobile particolare, tipicamente da famiglia, ma un mobile. Lo schermo non è più un visore di immagini, ma una lastra di vetro. Il sangue che macchia quella lastra è più forte delle immagini trasmesse. E' la vera, terribile realtà che non vogliamo vedere. Questo è un esempio perfetto (per quanto estremo) di come un televisore possa venire usato nel nostro racconto. Dobbiamo fare in modo che non sia un punto di fuga dall'immagine del film verso "altre" immagini, ma che sia pienamente inserito nel nostro scenario e racconto visivo. Dobbiamo fare in modo che non distragga affatto lo spettatore, ma sia anzi un elemento aggiuntivo della drammatizzazione. Dobbiamo insomma rendere questa presenza espressiva. E per farlo bene, dobbiamo avere qualcosa da esprimere, cioè non limitarci a rappresentare un mezzo, ma offrirne un' interpretazione simbolica. E' così che quella immagine diventa compiutamente immagine del film, non semplicemente ospitata dal film.
Gli esempi sopra citati sono piuttosto rari ed "elevati". L'uso prevalente della televisione, in cinema, è di tipo informativo. Cioè come una radio che mostra, oltre a descrivere, dei fatti di cronaca. L'informazione, per esempio un frammento di telegiornale, può rivelarsi semplicemente utile al nostro racconto, ma non è quasi mai puramente strumentale perchè ingenera delle conseguenze (che pesano di più dell'informazione stessa) . Ad esempio può creare un clima di suspense. Un ricercato entra in un bar e all'improvviso la sua faccia, una sua fotografia, compare sul televisore. Il volume è spento, i clienti distratti, ma potrebbero accorgersene... Quante volte l'avete vista questa scena? Anche qui, il realismo va a farsi benedire. Quando mai in un vero bar la televisione è sintonizzata su un notiziario? Di solito è su un canale sportivo o musicale o di intrattenimento. Quando poi il volume è azzerato, quello che conta è il colore e il movimento delle immagini che possono consentire ai clienti di bere in tranquillità, posando lo sguardo su qualcosa di animato. Che senso avrebbe stare sintonizzati sulle news a volume azzerato? Ma il racconto cinematografico da questo genere di realismo prescinde. Il realismo in cinema è realismo utile al racconto. Il realismo inutile non lo si mostra affatto, distrarrebbe e basta. La televisione in questo caso assume il ruolo che aveva la carta stampata nei vecchi film di gangster. Allora accadeva che il ricercato entrava nel locale e trovava sul banco un giornale con sopra la sua fotografia. La televisione, come quel giornale, è un puntello per la narrazione, non viene usata espressivamente, anzi si ha cura di mostrarla solo a "colpo d'occhio". Come non ci si ferma troppo a lungo su un titolo in prima pagina, così sarebbe sbagliato soffermarsi sul poco attraente stand up o mezzobusto di un giornalista televisivo, meglio vedere per un istante l'immobile foto del ricercato che appare sullo schermo e staccare sul nostro personaggio e le sue emozioni. Egualmente in molte scene di famiglie o di amici riuniti sul divano a guardare la TV, godendosi un film o uno spettacolo sportivo, quello che conta è il nostro gruppo di personaggi. La televisione in genere viene mostrata da dietro. Le immagini le intuiamo solo fugacemente, tanto per far capire cosa stanno guardando i nostri personaggi, ma bisogna evitare che attraggano la nostra attenzione sostituendosi al film.
Accenno infine a un altro uso della televisione che nei film contemporanei si riavvicina allo "specchio magico" cui abbiamo accennato all'inizio, ma non a caso capovolgendone il senso e l'esito. Non vediamo più un mago-stregone che usa la televisione per controllare il mondo. Vediamo invece la televisione stessa che controlla, domina e aggredisce lo spettatore. Arriva ad inghiottirlo, cannibalizzarlo, in Videodrome (1983) di Cronenberg. A rapirlo in un altro mondo, come in Poltergeist (1982) di Hooper. A sprigionare fantasmi, che escono dallo schermo per minacciare lo spettatore, come in The Ring (2002) di Verbinski. Non si tratta soltanto di effetti speciali, ma di metafore. Non si tratta soltanto di uso narrativo del televisore, ma di un discorso sulla televisione e sulla sua natura invasiva della quotidianità. Da sceneggiatori è importantissimo considerare questi elementi "filosofici" e simbolici.
Come ho detto riguardo al telefono nella precedente lezione, quando noi mettiamo in scena uno strumento di comunicazione, offriamo (o dovremmo offrire) anche un punto di vista su quel mezzo.
Il telefono viene presentato all’Esposizione Universale del 1889. Non è ancora concepito come un mezzo di comunicazione privata, ma come uno strumento di puro intrattenimento che consente di ascoltare rappresentazioni teatrali, opere e concerti, senza muoversi da casa, cioè come un antenato della radio. Nel 1901 viene messo in scena al Théâtre-Antoine di Parigi, l’atto unico Au Téléphone di André de Lorde, che verrà poi ripreso nel 1922 dal Grand-Guignol. Già Marcel Proust aveva intuito che da semplice strumento di ricreazione, il telefono sarebbe diventato terribilmente intrusivo (“un vrai casse-tête”) nella vita privata. La pièce di de Lorde ne mostra il lato angosciante: un uomo telefona a casa sua, ascolta rumori misteriosi, frasi smozzicate e impaurite, urla di terrore. Sta ascoltando in diretta un’aggressione a sua moglie e ai suoi cari, ma non può intervenire. Nulla di ciò che avviene in casa degli aggrediti viene mostrato in scena. Si sentono soltanto i rumori e si assiste all’angoscia del protagonista impotente. Il debutto del telefono in una rappresentazione è dunque drammatico, un racconto di forte tensione emotiva al confine con l’orrore.
Nel film Il terrore corre sul filo (Sorry, Wrong Number, 1948) di Anatole Litvak con Barbara Stanwyck, la protagonista, costretta a letto, sola in casa, ascolta al telefono una conversazione apparentemente frutto di un’intercettazione casuale, nella quale si programma un delitto. Scopre in seguito d’essere la vittima predestinata e cerca di usare il telefono per salvarsi. Il film è l’adattamento di unradio-dramma di Lucille Fletcher. La sceneggiatura è scandita su questi passaggi che sono altrettanti effetti del telefono: intrusione nel privato altrui ( si ascolta una conversazione tra due sconosciuti), scoperta che quel privato ci riguarda molto da vicino (noi siamo oggetto “sacrificale” di conversazioni altrui) e tentativo di convertire un mezzo di comunicazione ansiogeno in strumento di salvezza personale. Come si vede, la storia è in qualche modo anche un’analisi del mezzo. Il telefono non è un semplice strumento che interviene nella storia per comodità o per opportunità, è un protagonista del racconto. Il primo problema che uno sceneggiatore cinematografico si trova ad affrontare è la staticità. Il telefono fisso costringe il protagonista a restar fermo nella stessa posizione. In teatro una scena fissa con un attore monologante attaccato al telefono, e in radio, cioè in una rappresentazione semplicemente auditiva, non ci sono gli stessi problemi che si incontrano in un racconto, come quello cinematografico, per immagini in movimento e alternarsi di scene. Gli sceneggiatori di Sorry, Wrong Numer, scelgono di sfruttare emotivamente questo limite, lo dilatano addirittura: la protagonista è invalida e non può muoversi dal letto. Non è il telefono a tenerla lì, è la sua condizione. D’altro canto questa condizione ha molto a che fare con il telefono che è per eccellenza lo strumento delle persone sole. Lo strumento che può farle sentire meno sole, ma che allo stesso tempo ne rivela l’angoscia e le avvince alla loro disperata solitudine, ostacolandole addirittura in quel che resta loro di possibilità di movimento. Il telefono è paralisi.
Questa situazione di costrizione esasperata è sfruttata in molti film thriller e horror che hanno il telefono per protagonista. Vi consiglio di vedere il classico When a Stranger Calls (1979) di Fred Walton, recentemente oggetto di un brutto remake e fonte principale di ispirazione per la prima parte di Scream (1996) di Craven. La protagonista è una baby sitter (costretta in casa per badare ai bambini, dunque anche lei in qualche modo impossibilitata a muoversi) che viene perseguitata dalle telefonate di un maniaco. Scopre poi che il maniaco conosce a perfezione i suoi movimenti per casa tra una telefonata e l’altra (come fa a vederla?). E infine che la telefonata arriva da una derivazione. L’assassino usa il telefono in modo paradossale: non telefona da fuori, ma dalla casa stessa, e l’effetto ansiogeno e intrusivo caratteristico del mezzo si dilata a incubo. La casa che prima è protezione rispetto all’esterno, si capovolge nel centro del pericolo: la salvezza è fuori. Il film è costruito, dal punto di vista della sceneggiatura, in modo schizofrenico. Alla claustrofobia della prima parte tutta rinchiusa in un unico ambiente, segue una seconda parte tutta en plein air, con una spietata caccia all’uomo, in ambienti estremamente realistici e del tutto “non teatrali”: vicoli di periferia, dormitori pubblici per vagabondi, eccetera. Allo scambio verbale della prima parte, si sostituisce un “tutto azione”. E’ un insegnamento importante dal punto di vista della scrittura. Quasi tutti i corsi di sceneggiatura insegnano a scrivere in modo equilibrato, alternando sapientemente interni ed esterni, scene statiche e scene dinamiche. Scelta saggia nella maggior parte dei film, ma non l’unica percorribile. L’equilibrio può essere raggiunto in altro modo, cioè per violenta contrapposizione. Invece di smussare rendendo più dinamica la prima parte, e meno vorticosa la seconda, si può sprigionare forza espressiva, sottolineando il contrasto. La narrazione viene equilibrata, nel film citato, da una chiusura circolare (più esattamente a spirale): il maniaco, sfuggito alla caccia, torna a minacciare la baby sitter dell’inizio, ma stavolta lei è preparata ad affrontare l’emergenza. La chiusura alterna interni ed esterni con notevole dinamismo.
Ma il telefono può essere usato anche come meccanismo anti-ansiogeno, anzi come simbolo del comfort, delle nuove comodità borghesi. Alla fine degli anni 30, in Italia, nasce il cinema dei “telefoni bianchi”. Il cinema epico e guerrafondaio della stagione precedente, viene sostituito da un cinema leggero e svagato che celebra insieme il telefono e la radio come nuovi lussi che rendono più piacevole la vita e coincidono più che con l’intrattenimento popolare, con qualcosa di esclusivo, un privilegio per ricchi gaudenti. Le attuali campagne pubblicitarie sulla telefonia mobile hanno esattamente questa origine: si propagandano per il consumo di massa strumenti presentati come esclusivi, come status symbol. In questi film, oltre al telefono e alla radio, si celebrano altri simboli di eleganza che diventa “a portata di tutti”: per esempio in Grandi Magazzini (1939) film di Camerini, sceneggiato, tra gli altri, da Cesare Zavattini. Ma anche i dopo-teatro, i ricevimenti privati dove si sorbiscono cocteilli (sic), dove c’è sempre musica in sottofondo senza bisogno di orchestrali perché viene dalla radio che muta ogni abitazione di classe in una sala da ballo, e in più si fa gran mostra di auto ultimo modello e sfoggio di vestiti alla moda, tutto ciò disegna il quadro di un’Italia che vuole uscire dai modelli guerreschi, rustici e dai grandi drammoni popolari. Essendo questo cinema apparentemente evasivo meno soggetto alle attenzioni della censura, consente a una nuova generazione di sceneggiatori di debuttare, letterati, umoristi, giornalisti poco inclini alla retorica di Regime, dando vita sullo schermo a una società fiabesca che ha qualcosa dell’operetta, cioè un ambiente sociale che non esiste nella realtà, ma ne rappresenta l’allegra utopia. Nel 1940 Mussolini invade la Francia, ma il cinema dei telefoni bianchi continua imperterrito, come se raccontasse una realtà puramente virtuale in cui il telefono è protagonista. Ed è un telefono bianco, cioè liberato da quella nera intimidatoria cupezza che conserva soltanto nelle piccole pensioni , dove l’apparecchio è in corridoio, e il suo uso è sorvegliato e regolato dalla pensionante. Il telefono bianco è la privacy esclusiva che i ricchi condividono tra loro, mentre è per il popolo un apparecchio pubblico, che pone l’umile utente in una costante situazione di disagio costringendolo a parlare dei fatti propri davanti a tutti. Ci sono poi le ragazze centralino dei Grand Hotel, massa di operaie nevrotizzate dai vorticosi ritmi di lavoro. Per loro il telefono non è né bianco, né nero, è una consolle in cui si infilano e si staccano dei cavi. La loro voce è impersonale e macchinale, a volte mentre parlano si danno lo smalto sulle unghie, non gliene importa nulla delle conversazioni altrui, sono delle regolatrici dell’anonimato universale. Le voci che si accalcano sono un’unica conversazione confusa e dilagante che non comunica alcunche, se non l’atto stesso del comunicare. Sotto l’apparente evasività, gli autori rappresentano attorno al telefono, non un aperto conflitto di classe, ma delle condizioni di evidente disparità sociale e la ricaduta di una tecnologia moderna sui comportamenti dei singoli. Ci dicono dunque che la tecnologia non è mai neutra. Uno sceneggiatore deve sempre tenere presente che l’inserimento in un film di un mezzo di comunicazione è da un lato un’espressione del mezzo di comunicazione stesso, della sua natura, e dall’altro un modo per raccontare, attraverso i suoi diversi impieghi, i soggetti sociali.
Il cellulare ha rivoluzionato le abitudini cinematografiche oltre che quelle quotidiane.
Molti meccanismi tipici dei film d’azione come ad esempio la ricerca spasmodica di un telefono, sono crollati o quanto meno hanno dovuto essere ridefiniti. Accade spesso oggi nei film che il cellulare sia presente, per realismo, anche se non viene usato. Dato che l’uso del cellulare (da cui si può chiamare soccorso) pregiudicherebbe lo sviluppo della vicenda, ma l’assenza totale di cellulari la renderebbe implausibile, si ficca per solito un breve momento in cui uno dei protagonisti fornito di cellulare, dice “non c’è campo”. E così ci si sbarazza del problema. Oppure lo si usa quando non serve e poi si scaricano le batterie, proprio quando servirebbe (ai protagonisti) per accentuare un momento di panico. Raramente nei film si vede usato il cellulare in tutte le sue funzioni. Questo non è dovuto al fatto che gli sceneggiatori non siano ferratissimi negli aggiornamenti tecnologici, ma a questi motivi: 1 - la scrittura drammaturgica soprattutto in cinema ha sempre a che fare con meccanismi narrativi rodati che hanno una permanenza più lunga delle tecnologie attuali; come vedremo parlando dei computer, i primi film in cui apparivano le schermate dei computer sembrano oggi terribilmente invecchiati, invece che metterci di fronte a una tecnologia avveniristica quelle scene ci mostrano una tecnologia (e una grafica) arretrate e dunque il risultato espressivo appare totalmente mutato di segno; 2 - i tempi di realizzazione di un film e quelli del suo sfruttamento commerciale si sono molto allungati, mentre l’obsolescenza dei modelli di cellulare è rapidissima. Ciò significa che il cellulare usato nel film data il film irrimediabilmente e può apparire superato al momento in cui il pubblico vede il film.
Ciò spiega la scelta operata dai film di usare il cellulare prevalentemente per normali conversazioni telefoniche e tenendolo il più possibile occultato in mano in modo che non sia troppo identificabile.
Consideriamo ora i problemi specificamente di sceneggiatura posti dalle conversazioni telefoniche.
1) A telefona a B per comunicargli informazioni o istruzioni. In questo caso si può fare a meno di mostrare B, e condurre sinteticamente la conversazione, che è unidirezionale.
2) A riceve una telefonata da B. In questo caso le scelte possono essere diverse. Possiamo ascoltare la voce fuori campo di B, anche senza mostrare B. Oppure possiamo restare sempre su A e intuire dai suoi commenti o richieste di conferma e chiarimento quanto gli viene detto, oppure ancora sfruttare narrativamente il mistero (sappiamo che A ha ricevuto una telefonata importante, ma non sappiamo cosa gli viene detto e magari neppure da chi).
3) A e B scambiano informazioni tra di loro. In questi casi difficilmente si può prescindere dal mostrare entrambi i personaggi nei rispettivi ambienti. Si può anche mostrarli contemporaneamente in split screen, ma questo genere di scelta è da usare con estrema cautela, perché può servire ad aumentare ritmo e dinamica, ma è una tipica scelta estetica che riguarda più la regia che la sceneggiatura.
In un film con molte conversazioni telefoniche è importante variare modelli di riferimento perché la scena non sia raccontata sempre allo stesso modo. Da questo punto di vista vi sarà utilissimo studiare i film in cui il telefono ha un ruolo primario, per vedere quante varianti possono essere messe in campo.
Nelle conversazioni telefoniche, scordatevi il realismo. Una telefonata tra due amici nella realtà può durare un’ora e passa e divagare su più argomenti. In cinema tutto dev’essere ovviamente condensato. I testi delle intercettazioni telefoniche rivelano inoltre quanto sia difficile per un estraneo afferrare il contenuto integrale di una conversazione: se ne deduce il senso, ma il testo è oscuro, pieno di allusioni, di frasi lasciate a metà, di vezzi verbali eccetera. Se il senso che vogliamo dare alla scena è proprio questo, allora questa indecifrabilità andrà rimarcata, ma il più delle volte dovremo tenere in debito conto che ciò che A e B si stanno raccontando tra loro, noi lo stiamo raccontando a C, cioè al pubblico, che dev’essere messo in condizioni di comprenderlo. Lo stesso vale per le pause, che un buon attore regola seguendo esigenze di espressività di battuta e di atteggiamento, non seguendo pedissequamente un’imitazione naturalistica.
Resta il fatto che un dialogo tra due personaggi presenti uno di fronte all’altro sarà sempre più espressivo di un colloquio a distanza, dunque non abusate del telefono se non è strettamente necessario. E soprattutto non dimenticate che il telefono è per sua natura, INVASIVO, non solo perché turba la serenità di Marcel Proust, ma perché tende al protagonismo e altera la struttura narrativa. Il telefono rompe l’unità aristotelica di tempo-luogo-azione, frammenta la narrazione, sposta l’attenzione sugli elementi verbali e richiede dunque che il visivo non ne risenta, incrocia vicende parallele e distinte, insomma rimescola per sua natura un ordine drammaturgico che si è codificato in secoli di narrazione. Il telefono modifica il modo di raccontare.
Usarlo come mero attrezzo utilitaristico senza tener conto di queste implicazioni, significa, da sceneggiatori, usarlo male. Tenete conto che una scena al telefono non è affatto la più semplice e la più ovvia, perché invece presenta quasi sempre problemi complessi, di struttura narrativa, di efficacia espressiva e stilistica. E’ ben vero che negli anni il telefono da mezzo tipico dell’emergenza, si è convertito nel suo contrario, come mezzo di relazioni sociali virtuali quanto abitudinarie, ma mostrare questa nuova realtà in un film comporta una grande consapevolezza tecnica e una notevole gamma di soluzioni visive e narrative, altrimenti diventa anticinematografico. Se in un film medio si fuma ancora oggi una quantità di sigarette nettamente superiore alla media (cosa provata dalle statistiche), si telefona invece in misura nettamente inferiore alla media, per il semplice fatto che la stragrande maggioranza delle telefonate che facciamo sono (narrativamente) inutili. Il tempo del telefono è sempre più un tempo morto, dal punto di vista degli eventi, e il cinema per sua natura e per suo format tende ad eliminare i tempi morti.
LEZIONE XXXIV di Gianfranco Manfredi
E' stato rimarcato come nessuno scrittore di Fantascienza abbia previsto Internet e il Personal Computer. Andrebbe però aggiunto che la Fantascienza ha previsto molto di più, ad esempio l'impianto di microchip nel cervello, con cui scambiare e condividere informazioni, ricordi personali e persino l'inconscio. Il PC e Internet da questo punto di vista potrebbero essere soltanto dei media di passaggio e transeunti, anche se per noi contemporanei ormai è difficile farne a meno e tendiamo dunque a considerarli stabili e definitivi. Tuttavia fatichiamo ancora a valutarne la natura, le potenzialità e le ricadute. Il PC e la Rete non sono inclusi nella disamina dei Mezzi di Comunicazione di Massa di Marshall McLuhan, anche se in Understanding Media (saggio del 1964) il principale teorico degli strumenti del comunicare qualche spunto di riflessione in proposito già lo offre e in modo piuttosto esplicito e anticipatorio: "Uno dei fenomeni più significativi dell'era elettrica consiste nel creare una rete globale che ha molte caratteristiche del nostro sistema nervoso centrale, il quale non è soltanto una rete elettrica, ma un campo unificato di esperienza." Se si rileggono queste parole, non c'è più da stupirsi che la Fantascienza abbia bypassato il PC , giungendo subito agli esiti finali: raccontare cioè l'interconnessione esperienziale tra gli esseri umani e/o tra esseri umani e macchine o persino tra esseri umani viventi ed esseri umani deceduti.
Se la nostra sia una stagione di passaggio oppure quella della stabilizzazione del medium PC/Internet, lo si vedrà. Resta il fatto che gli autori cinematografici si trovano parecchio in difficoltà a interpretare gli attuali nuovi media, a farne un uso metaforico e simbolico, come è stato fatto per il telefono e per la televisione. Si ondeggia tra due atteggiamenti che corrispondono, più che a una filosofia mediatica, a un comune sentire:
1) La Rete collega. Rende possibili relazioni istantanee e globali (seppur virtuali), veloce reperimento e scambio di informazioni, collaborazioni a distanza.
2) La Rete imprigiona. Offrendo possibilità di accesso clandestino ad archivi anche riservatissimi e di intrusione nella vita privata delle persone, la Rete diffonde un paradossale voyeurismo universale in cui tutti sono sicuri di vedere senza essere visti, pur essendo a loro volta esposti all'osservazione altrui. Chi penetra nel privato altrui, ma non sa proteggere il proprio, corre grossi rischi. Chi non è attrezzato a reagire, può venire stritolato dal meccanismo e vedere mutata in un inferno la propria vita, fino alla sua cancellazione virtuale che è annuncio e anticipo della morte fattuale.
Insomma, simbolicamente la Rete viene rappresentata di volta in volta e spesso anche nello stesso film, come Utopia (libera comunicazione universale, acquisizione di un nuovo senso di comunità platenaria) e come Paranoia (annullamento di ogni possibilità di libertà individuale e di esistenza separata, se non scoprendosi "soli contro tutti"). Da questo punto di vista la Rete non è altro che la trasposizione contemporanea delle speranze e delle paure narrate dal cinema dell'era atomica (nuove scoperte scientifiche e tecnologie consentono imprese impensabili fino a quel momento, ma anche la possibilità tutt'altro che remota di nuove tirannie e schiavitù, fino alla distruzione degli abituali e confortanti stili di vita, di ogni autonomia individuale e del genere umano nel suo insieme). Quel tipo di cinema, così manicheo e allarmista, può sembrare oggi invecchiato e semplicistico, eppure tende a rispuntare pari pari nei tanti film sugli "intrappolati dalla rete" che riescono infine a liberarsi in parte grazie alle smagliature della Rete stessa, ma soprattutto contrapponendo alla Rete la fisicità delle fughe, delle intrusioni materiali negli ambienti reali, delle relazioni affettive e complici con altri esseri umani, insomma il mito della Realtà Concreta contro il mito della Realtà Virtuale, i Sentimenti contro la Macchina, l'Anima contro la Tecnologia. Si tratta di un cinema eminentemente ambiguo, com'è ambiguo ogni dualismo esasperato, che all'apparenza celebra la resistenza e la ribellione, ma al fondo esprime istanze conservatrici. Nonostante il gran numero di scene di gente che smanetta al PC, apre programmi, scarica archivi maledicendo regolarmente il download troppo lento, elabora incomprensibili cifrari, eccetera, in questi film l'interpretazione-analisi del mezzo in sè, e delle sue ricadute sociali, resta piuttosto approssimativa e in ombra, rispetto al giudizio (di tipo morale) sul mezzo stesso.
D'altro canto, era difficile per il cinema rendere famigliare, riconoscibile e abituale un medium mutante come il computer (da enormi a piccole dimensioni, da fisso a portatile, da portatile a tascabile) e costantemente aggiornato anche nel contenuto (dalle semplici chat al collegamento video, dai siti ai blog, dalle photogallery stile "album di famiglia" alle foto rielaborate, dai filmati da scaricare con lunghi tempi d'attesa a quelli in streaming, da quelli orridamente pixelati a quelli HD, e si potrebbe continuare a lungo). La grafica, anche limitandosi puramente a questa, invecchia rapidamente e data il film in modo irrimediabile. Ricordate le scritte verdi fosforescenti su schermo nero? Sono nei film di appena un decennio fa e sembrano già preistoriche, mentre al confronto la grafica di un giornale (che è cambiata pochissimo nel tempo) risulta eterna. Esemplare la rovinosa esperienza del film Tron (1982) della Disney nel quale si presumeva che la tipica grafica dei video games dell'epoca si fosse ormai imposta come un nuovo stile di rappresentazione e che dunque un umano che venisse magicamente proiettato in quel mondo dovesse muoversi in un contesto di segni grafici essenziali. In realtà la grafica dei giochi si è emancipata in fretta dal geometrismo delle origini sviluppando un sempre più accentuato realismo. Quel fallimentare film rivisto oggi ha un effetto del tutto imprevisto dagli autori: è un futuro rappresentato in uno stile presunto avveniristico, che risulta invece tramontato da tempo. Il risultato più che straniante appare così ingenuo da far persino tenerezza.
In cinema, la Rete ha dato vita a un nuovo personaggio: l'esperto informatico, sia in versione positiva (sveltisce le indagini di polizia, sventa complotti, rintraccia password blindate in pochi secondi) sia negativa (l'agente informatico al soldo di organizzazioni potentissime e/o di associazioni criminali, capace di cancellare l'esistenza documentale di un individuo, di rubare e trasferire fondi, di dissestare bilanci, falsificare archivi e chi più ne ha più ne metta). Spesso questo esperto è un hacker, rappresentato come un giovane anarcoide che vive incollato al computer e si fa beffe dei capi e dei vecchi assetti di potere che per loro natura e mentalità tendono a sottovalutarlo. L'hacker al cinema è in genere un trickster, uno che fa trucchi e riesce a fregare gli altri, seguendo fini personali e la sua inclinazione a trasgredire le regole, ma sempre pronto a solidarizzare con i marginali o le vittime di turno, e dunque capace di contribuire alla fine a soluzioni positive. E' insomma la reviviscenza della maschera di Arlecchino, a sua volta erede dei servi e degli schiavi furbacchioni della commedia antica. Proprio come Arlecchino, l'hacker assiste alla vorticosa vita degli altri, ai loro amori, ai loro traffici, e decide quando e come inserirsi, valentissimo nello sfruttare la situazione a suo vantaggio, anche se lui si mantiene al di fuori dal grande agitarsi altrui, poco interessato a relazioni sentimentali, con l'unico ideale di vivere a sbafo e come gli pare, ma senza aspirare a diventare ricco, potente, famoso, grande amatore, perché è geloso della sua marginalità e fiero della propria autonomia. Questo personaggio apparentemente nuovo, è in realtà antico. Anche in questo caso, si rivela una certa debolezza degli autori nell'esprimere caratteri nuovi a partire da un mezzo la cui natura non ci è evidentemente ancora trasparente. Si ha bisogno di ricondurre questa novità a parametri del passato, altrimenti risulta difficile raccontarla.
Narrativamente, le Rete non ha portato dunque grandi contributi innovativi (sicuramente non tanti quanti ne hanno portato la tecnologia digitale e i computer alla forma cinema e ai modi di produzione). Il glamour di questa novità tecnologica ha fatto sì che il PC e la Rete, quando impiegati in un film, si ritagliassero un ruolo essenziale nel racconto, ma questo ruolo non ha sviluppato un proprio racconto, è stato irregimentato nelle vecchie regole. Naturalmente è sempre possibile in un film ricorrere al PC come a uno strumento di uso comune, senza farlo diventare elemento protagonista o dominante del racconto. A volte fornisce solo lo spunto iniziale. Per esempio in quei film dove due persone si conoscono via Internet chattando e poi si incontrano davvero. La storia può avere sia uno sviluppo sentimentale che drammatico, dare spunto a una commedia o a un thriller. In questo caso il PC è un pretesto per poi seguire i protagonisti nel quotidiano e senza più relazionarli necessariamente all'uso del PC. Che i due si contattino per email o per posta cartacea non fa grande differenza narrativamente, se non per corrispondere agli usi correnti di una certa epoca e di un certo periodo. Fa differenza invece (e uno sceneggiatore deve tenerlo in debito conto) nello stile e nelle caratteristiche delle due forme di comunicazione. La lettura di una lettera cartacea, in cinema, è un'occasione per entrare nell'intimo di un personaggio. Di rado leggiamo se non fugacemente il testo scritto della lettera: lo sentiamo recitato dalla voce fuori campo dello scrivente, sovrapposta all'espressione del volto di chi legge. Questo personaggio assente lo sentiamo come attraverso l'evocazione di chi legge, cioè del personaggio che vediamo. La sottolineatura psicologica che ne deriva è molto simile al "discorso interiore". Alcuni registi hanno anche scelto, come voce fuori campo recitante, non quella di chi scrive, ma quella di chi legge, per rendere ancora più chiaro che noi stiamo entrando nella lettura mentale cioè tout court nei pensieri del destinatario della lettera. Altri hanno alternato il pensiero di chi scrive (mostrato mentre scrive e pare dettare la lettera a se stesso), al pensiero di chi legge, mantenendo la voce dello scrivente, oppure sostuituendola con quella del destinatario che "fa sue" le parole altrui. Tutte queste varianti consentono un ventaglio piuttosto ampio di sfumature espressive. Questo modulo non può essere ripetuto con le mail, in genere comunicazioni più brevi e neutre, e nemmeno con le più emotive e dilaganti chat. Le chat sono uno scambio verbale scritto, di poche parole. Le chat reali comportano in genere conversazioni prolungate, una quantità di ripetizioni, di battute riuscite o assolutamente idiote, di interpunzioni grafiche, di botta e risposta anche inconcludenti. Possiamo far leggere allo spettatore questi lunghi scambi di battute mentre scorrono sullo schermo di un PC? Sarebbe brutto, noioso e terribilmente frustrante. Anche in questo caso il cinema se ne frega del realismo. Mentre in una chat autentica si mutano in caratteri i pensieri, digitando quel che viene spontaneo sul momento, nella chat di un film bisogna esprimere tutto in una sintesi espressivamente efficace e pungente. La frase diventa icastica. E' come se chi scrivesse avesse già meditato in anticipo cosa scrivere o fosse sempre in grado di colpire il segno al primo colpo, cioè un vero maestro della comunicazione, cosa che le persone normali non sono. Ma questa riflessione, da spettatori, non la facciamo. Sappiamo di trovarci di fronte a un artificio e che precipiteremmo invece nel torpore se dovessimo leggere (in un film) una lunga chattata, come diventerebbe assurdo darle la forma recitata di voci fuori campo in alternanza. Di nuovo, come ho ripetuto spesso in queste lezioni, non c'è realismo in un film che non sia condizionato dai tempi, dagli spazi e dai modi espressivi del film stesso. Un film è la realtà "da un certo punto di vista" non la presunta realtà oggettiva e nemmeno la realtà semplicemente percepita, ma narrata.
Ogni strumento di comunicazione che appare in un film muta e adatta la sua natura a quella specifica forma di comunicazione che è il cinema stesso. Può in qualche caso arricchirla, ma non può prescinderne, nè tantomeno pretendere di subornarla.
E ora un esempio di un uso ancor più occasionale del PC. Il film Teeth (2008) di Mitchell Lichtenstein narra di una adolescente alle prese con gli imbarazzi dei primi rapporti sessuali, aggravati da una complicazione: ha la vagina dentata. Non riuscendo bene a capire l'origine della sua particolarità anatomica, la ragazza prima legge un tascabile su cui trova alcune informazioni sulla Gorgone e altri esseri prodigiosi della mitologia greca. Poi si mette al PC, digita Mutations su un motore di ricerca e trova un sito sul mito antico della Vagina Dentata. La scoperta le causa sconcerto, ma nello sviluppo della storia diventa persino confortante: il suo non è un handicap, è una sorta di attributo divino. E può essere regolato. Se il rapporto è consenziente e gratificante, i denti non scattano. Entrano in azione invece quando la ragazza si sente forzata, abusata o svilita nel rapporto da parte del suo partner di turno, o addirittura violata da un ginecologo senza scrupoli. Nella metafora del film dunque la vagina dentata non rappresenta qualcosa di demoniaco che rimanda a forze oscure e infernali, non è nemmeno simbolo di un'aggressività femminile senza controllo. Questa aggressività è spiegata come reazione istintiva, prima che mentale, alla violenza maschile. Umori, come si vede, piuttosto anni settanta, che ricordano i tanti film dell'epoca con protagoniste donne abusate che si vendicano. Ora, in un normale film horror, quando il protagonista si imbatte in qualcosa di straordinario che può aver a che fare con figure mitologiche, in genere va in biblioteca, e consulta un grosso tomo che parla di antiche leggende. Di solito questo tomo è rilegato in pelle (umana?) e scritto in caratteri gotici, è cioè anch'esso un volume antico. Quelle notizie si sarebbero potute ricavare anche da un'enciclopedia, ma essendo un film racconto visivo, è più rigoroso e affascinante che un libro che tratta di antiche leggende e rare creature, sia anch'esso raro e antico. Se però la protagonista di Teeth fosse andata a cercarsi un volume del genere in biblioteca o in una polverosa bottega antiquaria, il film avrebbe inevitabilmente preso un altro percorso: quello dell'evocazione fantastica di antiche divinità dalla vagina dentata, che ricompaiono minacciose nel mondo moderno. Ma non è quello che vuole raccontare l'autore del film. La sua metafora intende restare ancorata all'attualità.
Ecco dunque che l'uso del PC casca a proposito. E' coerente al racconto. Occasionale (perchè il PC non compare più nel film) ma opportuno. E' anche realistico. Cosa fa un giovane quando cerca un'informazione? Si mette al computer e ricorre ai motori di ricerca. Non va in biblioteca. Ma come ho detto, questo realismo non è d'accatto, ma intrinseco al film, esprime una scelta narrativa.
Questo uso minimale del PC e della Rete come risorsa informativa, senza che la storia abbia o debba avere implicazioni tecnologiche, si sta diffondendo largamente nei film. Ha il vantaggio della rapidità. Le schermate animano i dettagli più di una pagina fissa di un libro e dunque danno movimento all'immagine. L'uso del PC, limitato alla circostanza di una semplice esigenza informativa, cancella il rischio di inquadrature bloccate troppo a lungo su un personaggio seduto a smanettare. Ma ha anche un significato più profondo. E' come se dall'era dei grandi esperti informatici, si passasse a quella dell'uso domestico da parte di una persona qualsiasi. Il PC e la Rete, come è avvenuto per il telefono e la televisione, perdono l'aura di magia o di invenzione mirabolante che avevano agli inizi, e si accostano alla normalità di altri attrezzi che abbiamo per casa: l'asciugacapelli, il forno a microonde, il frigorifero, tutti strumenti che per un uomo dell'ottocento sarebbero prodigiosi e che per noi sono famigliari e su cui non ci interroghiamo affatto, ci basta che funzionino.
I mezzi di trasporto sono un’altra situazione obbligata che si ritrova in ogni genere di film. Anche in questo caso, non va considerata come una situazione ovvia e narrativamente neutra. Anzitutto, il mezzo di trasporto usato dal nostro personaggio, è un elemento prezioso per la sua caratterizzazione. Che si sposti in auto o in autobus o con qualsiasi altro mezzo, il pubblico verrà aiutato a capire chi è, dal tipo di mezzo usato. Un mezzo di trasporto abituale può anche non essere enfatizzato da chi sceneggia, ma un mezzo di trasporto particolare (ad esempio la bicicletta oppure la moto) in genere non rappresenta una mera dotazione del protagonista, ma un suo strumento a tutti gli effetti che gli risulterà utile, proprio per la sua particolarità, nello sviluppo della vicenda.
Certi mezzi di trasporto collettivi (l’autobus, la metropolitana, il treno, l’aereo) sono luoghi che possono assurgere a protagonisti del racconto, luoghi in cui interi film sono stati ambientati, cioè luoghi dominanti. Usarli come momenti occasionali, spesso risulta controproducente dal punto di vista produttivo. Girare in una vera stazione, su un vero treno, o in una vera metropolitana, comporta un’organizzazione complessa del set. Se vediamo due personaggi che chiacchierano mentre vanno al lavoro, è più semplice (oltre che più economico) farli incontrare per strada magari all’uscita di un metrò, piuttosto che sul vagone del metrò all’ora di punta. Se scrivete una scena impegnativa sotto il profilo produttivo che non è davvero essenziale narrativamente, finirà inevitabilmente per essere tagliata o spostata in un altro ambiente.
Altro fatto da considerare: i mezzi di trasporto non solo caratterizzano il protagonista e possono diventare location prevalente della storia, ma datano anche il film. Nei film degli anni 60, l’automobile assurge a mezzo di trasporto dominante e “mitico” (si pensi ai primi film di James Bond, a capolavori come Il Sorpasso o Il Laureato). Qui l’automobile (l’auto ultimo modello, rapida e scattante) assurge a simbolo di un’epoca e può persino venire intesa come metafora della libertà. Nei film degli anni ’70 il mezzo di eguale rilievo simbolico diventa l’aereo. In qualsiasi genere di film di ambientazione contemporanea di quegli anni, che si tratti di un thriller, di una commedia, di un film di viaggi erotico-esotici, di un dramma sentimentale, partono e atterrano aerei di continuo. E’ in quegli anni, come è stato per l’automobile nel decennio precedente, che il trasporto aereo, pubblicizzato come esclusivo e “lussuoso” comincia in realtà a diventare trasporto di massa, cioè mezzo di trasporto appetibile dal largo pubblico. Ne nasce anche un fortunato filone cinematografico tutto basato sui disastri aerei. Nei film degli anni ’80, la metropolitana assume un ruolo di tutto rilievo. E’ attraverso la metropolitana che si racconta “il ventre oscuro” delle grandi città metropolitane. Non esiste più ormai un mezzo di trasporto che possa presentarsi insieme come nuovo e desiderabile. Lo sviluppo delle reti metropolitane ha certo delle caratteristiche di novità e (si pensi ai Guerrieri della Notte di Walter Hill, film del 1979) si ripresenta come simbolo di libertà di movimento. Ma per chi?
Per la gente che prima non usciva mai dal suo quartiere, per i pendolari urbani e per imarginali, cioè per personaggi i cui parametri di “lusso” e “comodità” sono piuttosto bassi. Simbolicamente, la metropolitana, rappresenta, tranne eccezioni, le fogne di Parigi del feuilleton ottocentesco, ciò che sta “sotto” alla città dei ricchi e dei potenti.
L’underground, appunto. Un undergound che può anche riservare occasioni e sorprese (come in Sliding Doors film del 1998 di Peter Howitt il quale ci mostra genialmente come sarebbe diversa la stessa giornata della protagonista se invece della metropolitana avesse preso il taxi).
In sostanza, la scelta di un certo mezzo di trasporto non è mai neutra e ha parecchie e diverse implicazioni che uno sceneggiatore deve tenere ben presenti. Oltre alle occasioni espressive, vanno però considerati attentamente i limiti espressivi, dati dalla possibilità di manovrare la camera in certi ambienti ristretti e dal budget previsto per il film. Si può ritenere, a torto, che un film girato prevalentemente in un unico ambiente, in questo caso un mezzo di trasporto (come un treno o un aereo) sia più economico. In realtà più ristretto e vincolante è l’ambiente, più deve essere predisposto in modo da consentire varietà di inquadrature, di movimenti di macchina e di punti di illuminazione. Il mezzo di trasporto, più diventa ambiente prevalente, e meno può essere autentico, cioè un vero mezzo di trasporto usato come set. Deve infatti avere pareti rimuovibili, consentire il passaggio dei carrelli, essere attrezzato per eventuali effetti speciali, simulare il movimento (ad esempio il rollio di una nave o l’andamento di un treno) insomma dev’essere ricostruito in studio.
Inoltre, quando un film si ambienta quasi tutto su un mezzo di trasporto, le scene di stacco devono liberarci dalla sensazione di claustrofobia e di limitazione del movimento, dunque sono spesso complesse, movimentate e costose scene di massa in enormi location. Lo stesso mezzo di trasporto, visto dall’esterno (un treno in movimento, un aereo in volo) richiede il più delle volte la costruzione di modellini e di plastici o riprese “dal vero” di autentici mezzi pubblici affittati per l’occasione, in paesaggiadeguati, spesso con vedute aeree. In conclusione: non è affatto vero che ambientare un film su un mezzo di trasporto sia più economico, casomai è vero il contrario.
Vediamo ora alcuni vincoli imposti dal mezzo di trasporto più comune: l’automobile.
In molti film, e in molte delle sceneggiature che mi avete inviato, l’automobile sembra apparentemente scaricare lo sceneggiatore dal compito di doversi figurare i movimenti dei personaggi nell’ambiente e dunque diventa facile abbandonarsi ai dialoghi, come principale elemento di caratterizzazione. Sbagliato. Vanno considerate le controindicazioni.
1. Le inquadrature all’interno di un’automobile offrono limitate possibilità, anche quando l’automobile è attrezzata per consentire una maggiore varietà di punti divista.
E’ quasi inevitabile che il primo piano dei diversi personaggi diventi il modo narrativo prevalente. Una scena troppo lunga e con dialoghi diffusi all’interno di un’auto può diventare espressivamente monotona, persino affliggente.
2. Per gli attori non è semplice recitare a proprio agio in una posizione obbligata.
L’auto è spesso trainata da un camera-car , il contatto con la troupe e con il regista non è sempre a vista, i microfoni e le luci piazzate in auto comportano disagi, le riprese richiedono frequenti interruzioni e riposizionamenti del mezzo. Ne conseguono un gran numero di ciak, lunghe permanenze in auto, e naturalmente molti limiti espressivi perché il movimento del corpo non può certamente essere fluido.
Il migliore consiglio che si può dare, dunque, quando si gira un film a basso costo o di costo medio, in cui l’automobile è uno dei tanti ambienti che vediamo, non particolarmente significativo per il nostro racconto, è che i dialoghi in automobile siano limitati o quanto meno che non rimarchino, allungando troppo la scena, la relativa immobilità dei protagonisti, la ripetitività delle inquadrature, e la sensazione claustrofobica dell’insieme.
Detto questo, a volte si può scegliere di fare di questi stessi limiti espressivi, l’occasione per un “esercizio di stile”, nel tentativo cioè di dimostrare (in genere da parte del regista-autore) quanto si è bravi nel non fare assolutamente pesare sul pubblico la costrizione dell’ambiente (nel caso, dell’abitacolo di un’automobile), anzi nel farla diventare un elemento potentemente espressivo. Invece di indicarvi dei classici, questa volta vi suggerisco due horror indipendenti, molto ben fatti, che hanno scelto l’automobile e l’interno di un’automobile come ambiente prevalente: Penny Dreadful di Richard Brandes (2006) e Wind Chill di Gregory Jacobs (2007). In entrambi i film l’automobile a un certo punto e per molto tempo resta addirittura ferma (incastrata tra due alberi o bloccata dal gelo) e con un unico personaggio a bordo. Come si possono ricavare da una simile costrizione delle scene piene di tensione, ma allo stesso tempo animate, varie e vivaci? Non ci si può affidare ai dialoghi e devono accadere “cose”. Lo sceneggiatore deve consentire che l’esercizio di stile abbia un senso narrativo, altrimenti risulterebbe alla lunga sterile. Può benissimo darsi che l’horror non rientri tra i vostri generi preferiti, ma guardate comunque questi due film a titolo di esempio del tema di questa lezione e in particolare di come si possa rendere espressiva e dinamica una situazione bloccata all’interno di un’automobile. Vi accorgerete anche di come la limitatezza dello spazio non sia affatto garanzia di un’operazione low-budget, richiede al contrario attrezzature e mezzi adeguati allo scopo. Difficilmente un “esercizio di stile” è economico.
Dal punto di vista della caratterizzazione del personaggio, l’auto di sua proprietà riveste una certa importanza narrativa: è un’estensione delle sue caratteristiche in modo anche più preciso di una casa. In un appartamento le stanze possono corrispondere ai diversi caratteri e alle diverse età di chi le abita e la casa nel suo insieme risultare un coacervo di diverse personalità. L’automobile invece è un ambiente più legato al singolo e in genere (anche quando è un’auto di famiglia) assomiglia a chi la usa in prevalenza. Fate attenzione, da sceneggiatori, a questo dettaglio. Troppi interni di automobile risultano nudi, neutri, non caratterizzati a sufficienza. Questo anche perché le automobili che si usano nei film si affittano, e raramente gli scenografi si preoccupano di adattarle al personaggio. Avrete notato che se si rappresenta l’interno di un taxi, è diventato quasi un luogo comune attrezzarlo alla personalità e in particolare all’origine etnica del guidatore, mentre se si racconta l’interno dell’auto del nostro protagonista gli elementi direttamente riconducibili a lui sono molto pochi, spesso non vanno al di là del modello di vettura.
In realtà i taxi sono ambienti più neutri di quello di una normale automobile. Pensate quando scrivete, all’automobile vostra, dei vostri amici, o di quelle persone che corrispondono per temperamento o per condizione, al vostro personaggio. C’è sempre un sacco di roba sparsa, sopra e sotto i sedili, qualcosa che non è in ordine o che non funziona, ci sono un’infinità di dettagli che fanno di un’automobile la nostra automobile. Dalla semplice osservazione di un abitacolo di un’auto parcheggiata, si può spesso dedurre (senza bisogno di essere Sherlock Holmes) l’età, il sesso e certi tratti caratteriali di chi la usa. Le automobili non sono quattro sedili dove fare accomodare i nostri personaggi. Le dotazioni di un’automobile, gli oggetti che vi sono contenuti, gli optional di cui dispongono, tutto questo può aiutarci nell’esprimere la personalità del personaggio oltre che fornirci occasioni per suggerire gesti e azioni che aiutino l’immedesimazione degli attori.
L’automobile conduce inevitabilmente ad altri ambienti: parcheggi all’aperto o al coperto, garage pubblici e privati, officine meccaniche, motel, grill, benzinai, strade desolate o piene di traffico. Nel caso di traffico, può nascere una certa confusione tra l’automobile del protagonista e le altre, perché molti modelli e colori di vetture nella realtà si somigliano o sono addirittura identici. Hitchcock suggeriva un trucco molto semplice che potesse rendere più immediata l’identificazione, particolarmente ardua in un film in bianco e nero, e cioè ricorrere a una macchina nera o bianca che si muove tra auto d’un grigio anonimo. Anche qui, come potete ben capire, non è un semplice fatto di scelta estetica, ma di soldi a disposizione, perché per consentire questa soluzione, non bisogna soltanto affittare l’auto del protagonista, ma tutte quelle che si notano nell’inquadratura. Oggi che il bianco e nero non si usa quasi più, e che si tende a girare in ambienti reali e non ricostruiti in studio, in genere per facilitare l’identificazione dell’auto del protagonista, la si sceglie d’un colore acceso o di un modello molto particolare, oppure la si caratterizza all’eccesso (ad esempio sul modello dell’automobile del Tenente Colombo che nel telefilm pare realistica, ma vista dal vero negli studi Universal è quanto di più finto si possa immaginare). In pubblicità, dove lo scopo è promuovere quella certa auto e solo quella, le strade sono sempre deserte, il viaggio sempre solitario. Ne risulta un effetto inevitabilmente finto.
Invece di ridurlo, in genere si sceglie di rendere la scena quasi onirica, in paesaggi meravigliosi, evidenziando una sorprendente facilità di manovra e duttilità di prestazioni. Non si fa cioè appello al senso comune, ma a una sorta di rappresentazione dei desideri dello spettatore. Avrete anche notato che nei film abbondano le auto scoperte, in misura tale da rischiare la totale implausibilità. Ma l’auto scoperta può rendersi necessaria nei road-movie perché consente maggiore varietà di riprese e di dare più evidenza al senso di libertà e di avventura del viaggio.
Se nel film inserite scene di incidenti o di inseguimenti tra auto, dovrete ovviamente tener ben presente che queste scene comporteranno auto speciali, adatte allo scopo, e guidate da piloti e stunt all’altezza. Dunque, da sceneggiatori, dovrete essere sicuriche il budget previsto per il film le consenta, altrimenti queste scene risulteranno terribilmente velleitarie. Ciò vale anche per incidenti piccolissimi, come ad esempio la rottura di un fanalino. Un’auto a noleggio va restituita intatta. Un’auto che subisce dei danneggiamenti dev’essere predisposta allo scopo. Rappresenta cioè una spesa suppletiva. Dei problemi di costo, riparleremo più approfonditamente, ma uno sceneggiatore deve sempre ricordare che il suo lavoro è molto diverso da quello di unqualsiasi scrittore o narratore, in quanto lo sceneggiatore cinematografico deve costantemente fare i conti con i soldi. Un film è un’impresa industriale e un investimento economico. Le nostre idee devono essere sempre compatibili con il budget previsto. Se una scena è dunque particolarmente costosa, ma nondimeno assolutamente necessaria al racconto, ci toccherà equilibrarla con scene “al risparmio”.
L’automobile è uno dei fattori di costo più delicati di un film. Da filmaker, siate molto parchi nello scrivere scene in auto o che prevedono l’uso di automobili. Questo mezzo di trasporto ordinario, che pare l’ideale per situazioni “di comodo”, in realtà dal punto di vista pratico, estetico e produttivo si rivela spesso parecchio scomodo.
RISVEGLI è la nuova lezione di Gianfranco Manfredi. Riprende così il Corso con lezioni approfondite sulla sceneggiatura. Un corso di sceneggiatura che si propone di affrontare alcune questioni specifiche poco sottolineate dei manuali di sceneggiatura. Le sue lezioni non sono però un manuale di quelli tradizionali: il suo scopo non è quello di bypassare la difficoltà e l’impegno indispensabili se si vuole imparare a raccontare per immagini, ma all’opposto è quello di mettere in piena luce i problemi che si incontrano e le possibili soluzioni, anche grazie a lezioni puramente teoriche, vedi il ciclo di lezioni sui generi cinematografici, che possono a prima vista sembrare astratte, ma che aiutano molto nella pratica dello scrivere, comunque assai più dell’imparare a impaginare in modo corretto e adeguato ai tempi. (qui l'elenco delle sue lezioni)
Spiega Gianfranco Manfredi: Un corso di sceneggiatura, utilizzabile gratuitamente, che si propone di affrontare alcune questioni specifiche poco sottolineate dei manuali di sceneggiatura. Non aspettatevi però un manuale di quelli tradizionali che iniziano insegnandovi come si scrivono un soggetto, una sinossi, un trattamento, e quale forma debba avere la sceneggiatura, in modo che il vostro progetto possa presentarsi sotto una corretta veste professionale. Queste indicazioni potete già trovarle su qualsiasi manuale per screenwriters disponibile in libreria. In questo corso si farà il cammino contrario, partendo cioè dalle vere basi , che risiedono del lavoro drammaturgico. Senza una buona preparazione drammaturgica, non si perviene ad alcun risultato decente, anche se la forma finale del vostro script si presenta come professionale. I consueti corsi di sceneggiatura partono dalla forma della sceneggiatura come se fosse la prima cosa da imparare. Io ho completamente capovolto l’ordine consueto partendo dal cosa e dal come si sceneggia e arrivando soltanto alla fine alla forma dello scritto. La manualistica può fare molti danni. Se si parte da un modello standard di elaborato, in modo da poterlo presentare professionalmente (all’apparenza) , e poi lo si riempie di contenuti sbagliati, non si impara a sceneggiare.
Questo non è un corso del tipo: Cuoco in 4 ore.
Il suo scopo non è quello di bypassare la difficoltà e l’impegno indispensabili se si vuole imparare a raccontare per immagini, ma all’opposto è quello di mettere in piena luce i problemi che si incontrano e le possibili soluzioni, anche grazie a lezioni puramente teoriche (mi riferisco al ciclo di lezioni sui generi cinematografici) che possono a prima vista sembrare astratte, ma che aiutano molto nella pratica dello scrivere, comunque assai più dell’imparare a impaginare in modo corretto e adeguato ai tempi. Il punto di partenza vi apparirà insolito, in quanto tratterò di come si presentano i personaggi e in particolare il protagonista del vostro racconto per lo schermo. Gli aspiranti sceneggiatori di solito muovono dalla convinzione che per scrivere una buona sceneggiatura si debba partire da un’idea, sviluppata in un plot efficace, cioè da una buona storia. Questa convinzione è in parte legittima, ma può oscurare un altro e fondamentale aspetto. Non esiste storia senza personaggi. Certo possono esistere storie avvincenti indipendentemente dai personaggi che le vivono, ma è ingannevole pensare che si possa prescindere dalla creazione di personaggi in qualche misura autonomi dalla storia che rappresentano e che vivono. Una storia senza personaggi forti o con personaggi puramente funzionali allo sviluppo della storia, rischia di risultare una storia senz’anima, meccanica, tutta governata dall’alto e secondo schemi prefissati.
Una storia è sempre storia di qualcuno
Il primo lavoro che dovrebbe essere fatto da uno sceneggiatore, di teatro, di cinema, di fumetti, ma anche da un romanziere, è quello della costruzione del personaggio protagonista e degli altri personaggi. Cominceremo dunque da qui. Ma accingendomi ad illustrare alcune tecniche di presentazione di un personaggio-protagonista, sulla base di esempi tratti dal cinema che è lo specifico indirizzo di queste lezioni, trovo anche indispensabile premettere che impadronirsi delle tecniche, non vuol dire affatto imparare un infallibile codice che ci permetterebbe di controllare la risposta e le reazioni del pubblico e di conseguenza di assicurare “successo” all’opera cui lavorate. Questa impostazione dirigista, frutto di un’errata sindrome del controllo, snatura ogni apprendimento tecnico. Nessuna tecnica può essere sostituita alla creatività, nessuna tecnica può venire scambiata per una sorta di Razionalità Superiore che produce effetti sicuri e misurabili. Nessuna tecnica è inoltre definitiva e compiuta, cresce e matura nel concreto dell’esperienza, comporta molti errori di passaggio, e un’attitudine costante alla sperimentazione. Non si impara all’inizio per poi sfruttare quanto si è appreso, si continua a imparare mentre si lavora, e per certi versi si può dire che non si finisce mai di imparare, se non altro perché il cinema non è dato una volta per tutte, è costantemente in divenire, a partire dal suo aspetto tecnologico. D’altro canto, questo corso non convenzionale si presta ad essere letto anche per puro interesse culturale e di approfondimento. Si può anche non voler fare lo sceneggiatore, ma essere curiosi di saperne di più sul lavoro di scrittura (invisibile al pubblico) che sta dietro e a fondamento di un film. Apprendere alcune tecniche di scrittura drammaturgica e di narrazione per immagini è utile anche per altre forme di scrittura creativa, pur se non trasferibile meccanicamente.
RISVEGLI
Abbiamo visto nelle prime lezioni che il primo problema che si incontra cominciando una sceneggiatura, è presentare il protagonista. Molti scelgono la soluzione più ovvia e apparentemente più semplice: mostrare una sua giornata tipo, fin dal risveglio.
L’ora in cui il protagonista si alza, già ci rivela le sue abitudini, la sua casa, il suo modo di lavarsi e di vestirsi, la fretta o la calma con cui fa colazione, ci rivelano altre cose di lui. Quando raggiunge il posto di lavoro conosciamo anche la sua
occupazione. Questo semplice inizio, adottato in moltissimi film, in realtà non è affatto semplice e spesso neppure consigliabile. Consideriamo anzitutto le controindicazioni:
1. Un attore, e soprattutto un’attrice, non gradisce molto di essere presentato al risveglio. Non abbiamo una bella faccia, appena svegli, e non figuriamo certo al meglio.
2. Le procedure rituali rischiano sempre di rallentare la scena, indugiando in dettagli in realtà ben poco significativi, soprattutto se abituali e consueti.
3. Questo genere di situazione d’apertura è stata usata tante di quelle volte, da essere diventata uno stereotipo e questo non facilita certo chi, fin dal principio, vuole esprimere un proprio stile originale.
Vediamo come sono stati risolti questi problemi nel film di Oliver Stone World Trade Centre (2006). La scena d’apertura è questa: all’alba, come ogni mattino, John McLoughlin (Nicolas Cage), sergente del Dipartimento di Polizia Portuale della città, lascia la propria casa per andare al lavoro. Vediamo il suo risveglio. Non sappiamo ancora nulla del personaggio. L’ora è insolitamente mattutina (non è nemmeno l’alba) dunque (prima informazione) il protagonista fa un lavoro particolare che lo costringe ad un’alzataccia. Una donna giace accanto a lui nel letto matrimoniale, dunque (seconda informazione), non è un single. Non lo vediamo in volto, ma in penombra (l’attore non potrà certo lamentarsi di non apparire al meglio). Rapido stacco. Lo vediamo in trasparenza dietro il vetro della doccia. Quando se ne va, notiamo che sua moglie è sveglia, ma non lo saluta, anzi finge di dormire, e non ha certo un’espressione serena (terza informazione: difficoltà di coppia). Nuovo stacco e vediamo Nicholas Cage in macchina che sta andando al lavoro. Quando ci arriva scopriamo (ultima informazione) che è un poliziotto.
Dal punto di vista narrativo, la scelta di Oliver Stone si motiva perché il film racconta la giornata dell’11 Settembre. Il pubblico sa già cosa sta per accadere. Il film inizia dalla quiete prima della tempesta. E’ una tranquilla e serena mattina di autunno. Nulla lascia presagire che…
Nel disegno del protagonista e nella sua presentazione graduale, si sottolinea che egli è un uomo comune, un lavoratore. In un film del genere, se lo avessimo presentato fin dal principio in divisa, ci sarebbe apparso come una sorta di eroe, ma non è questo che Stone vuole sottolineare: vuole invece farci capire che c’è una persona come noi, dentro quella divisa. Ecco perché la scena del risveglio è fondamentale (oltre che rapida e stilisticamente impeccabile).
Vediamo un altro esempio, tratto dal film Una vedova allegra, ma non troppo (Married to the Mob, 1988) di Jonathan Demme. E’ la scena del risveglio di Mike (un detective, interpretato da Matthew Modine). Dorme su un letto sospeso (come sul piano superiore di un letto a castello). Si sveglia, si siede e solleva le braccia.
Dall’alto discende una camicia già infilata nella giacca. Mike salta giù dentro un paio di pantaloni appesi a quattro mollette e in un istante si ritrova vestito di tutto punto.
Prima d’uscire, preme un bottone e da un’attrezzatura/dispenser artigianale sistemata lungo il battiscopa delle scale piovono croccantini nelle ciotole dei suoi gatti, disposte una per gradino.
Siamo evidentemente in pieno genere commedia. Il protagonista è presentato come un tipo originale, dotato di una certa ingegnosità. Non vuole perdere tempo, per poter godere di qualche minuto di sonno in più. Non può permettersi molti comfort, ma ha trovato il modo di rendersi più comodo il risveglio. Questo genere di scena è un lazzo codificato (una gag), che origina dal cinema comico muto. Si stacca dal flusso narrativo, è una scena quasi a se stante, uno sketch che nasce da una tradizione.
Nel cortometraggio Sunnyside (1919) Charlie Chaplin lavora in una fattoria dalle 4 del mattino fino a tarda notte. E’ il suo padrone a svegliarsi per primo (alle 3 e mezzo) al solo scopo di buttarlo giù dal letto. Diverse volte, con tutta una serie di piccoli stratagemmi, Chaplin simula di alzarsi e si rimette a dormire. Quando davvero non riesce più a sottrarsi all’insistenza del padrone, si toglie il camicione da notte e scopriamo che sotto è già vestito di tutto punto. Prepara la colazione in gran fretta, piazzando una gallina su una padella in modo che faccia l’uovo già dove deve essere fritto, munge latte di vacca direttamente nel caffé, eccetera. In altre comiche, i protagonisti architettano marchingegni che recapitano i vestiti, servono il caffè, fanno scomparire il letto. Sistemi rozzi, a base di cordicelle, contrappesi, carrucole. Più sono rudimentali, più fanno sorridere. Dal punto di vista della caratterizzazione del personaggio, lo definiscono come povero, ma ingegnoso, e ce lo rendono indubbiamente simpatico. Nel caso di un film dai risvolti comici, che il protagonista si presenti arruffato non è fastidioso, anzi ne aumenta la simpatia.
Il terzo esempio, lo ricaviamo dal film Vero come la finzione (Stranger than fiction, 2006) di Marc Forster con Will Farrell. (Il film va visto anche per l’interessante gioco su Tragedia e Commedia, con spiegazione dei relativi meccanismi narrativi). In
questo caso torniamo a uno dei temi trattati nella precedente lezione, quello delle situazioni tendenzialmente ripetitive. Qui vediamo appunto il risveglio abitudinario del protagonista (che come capiremo poi è un esattore delle tasse). Ma non vediamo solo il risveglio, ma l’intera sua giornata (risveglio/lavoro/nuovamente a letto) montata in un rapido clip. La chiusura è circolare. Si usa anche la voce off (di una narratrice) e delle sovrapposizioni grafiche (numeri e tabelle fiscali) che già ci dicono qualcosa del lavoro del personaggio e di una certa sua maniacalità ossessiva per i numeri. Inoltre le insolite inquadrature (come ad esempio un lavaggio dei denti visto dall’interno della bocca) rendono stilisticamente originale la clip eliminando il rischio di descrivere in modo ripetitivo (e noioso) una situazione di per sé ripetitiva. Dopo questa presentazione circolare, il nuovo risveglio presenta un’inattesa novità. Il protagonista comincia a sentire le voci, o più esattamente, la voce fuori campo che racconta i suoi gesti, prima ancora che lui li compia. L’inizio, dunque, è motivato dal fatto che noi raccontiamo l’abitudine e subito dopo la rottura dell’abitudine. Anche questo tipo di svolgimento ha dei precedenti che risalgono al cinema muto. Anche qui si tratta di un lazzo: il Crude Awakening, cioè il Duro Risveglio. Il protagonista apre gli occhi su una realtà cambiata e noi sorridiamo del suo sconcerto. Nel film Fatty & Mabel Adrift (1919) vediamo due freschi sposi che si sono stabiliti in una casa prefabbricata sul mare. Dei malandrini dissestano i sostegni della casa durante la notte e al risveglio i due sposi si ritrovano con la casa finita in acqua. Nel film Steamboat Bill Jr. (1920), Buster Keaton dorme mentre infuria un ciclone che gli porta via la casa, e si risveglia in pieno tornado. Nel Crude Awakening, lo scarto tra l’abitudine e il cambiamento è totale. E’ così netto e rimarcato da diventare surreale.
E’come se il protagonista si risvegliasse non nella realtà, ma in un incubo. Nel film Il Dormiglione (Sleeper, 1973) Woody Allen si risveglia duecento anni dopo. Ricoverato per un’ulcera, è stato ibernato a sua insaputa. Insomma, qui il tema è
Svegliarsi per trovare tutto cambiato. Il Risveglio è metafora dell’aprire gli occhi su un’altra realtà.
E veniamo così all’ultimo tema classico attinente al Risveglio, cioè il rapporto tra Sogno e Realtà. In questo caso il risveglio viene anticipato dal racconto di un sogno.
E’ un classico di Chaplin: nel sogno sono rappresentati i desideri, le piccole utopie del protagonista, nel risveglio la realtà, per nulla conforme al sogno. Vediamo sogni di questo genere in The Kid(1921), The Gold Rush (1925) e nel già citato Sunnyside.
Particolare importante: l’ambiente del sogno non è un altrove immaginario, è lo stesso mondo del protagonista, ma abbellito come in una favola. In altre parole, in questa variante del Crude Awakening, il protagonista sogna la realtà trasformata, ma al risveglio la ritrova identica a prima e altrettanto affliggente. E’ la sconfitta quotidiana dell’Utopia. Il Risveglio come Fine dei Sogni. La sottolineatura di un elemento drammatico nel comico.
Nei film avventurosi, dove il protagonista è un eroe tutto d’un pezzo, è abbastanza raro che venga presentato al risveglio. Un uomo d’azione, questa è la regola prevalente, va mostrato da subito in azione. Ma ci sono casi in cui una scena di
risveglio può essere importante e collocare meglio il protagonista nel suo contesto ambientale, specie se questo contesto non è qualunque. Un esempio può essere la misera stanzetta modulare, cioè il loculo neo-giapponese micro-abitazione di Bruce Willis ne Il quinto elemento (1997) film di fantascienza di Luc Besson. Attenzione, però. Il protagonista qui al principio è un tassista dalla vita grigia, che solo in seguito si ritrova a dover salvare il mondo. Questo conferma che la scena del risveglio si adatta particolarmente quando vogliamo ritrarre degli individui comuni, con i quali il pubblico può facilmente identificarsi.
Questi esempi possono farvi capire come una scena apparentemente banale come il Risveglio abbia in realtà dei risvolti narrativi e simbolici che non si può fare a meno di considerare, da sceneggiatori, se non si vuole che la scena resti puramente utilitaristica. Le scene puramente utilitaristiche in genere, in un film, sono in realtà inutili. O diventano espressive o è meglio eliminarle.
32° Lezione di Gianfranco Manfredi
I GENERI MODERNI (II)
IL CINEMA COMICO (Parte Prima)
SULLA DIFFERENZA TRA COMMEDIA E COMICO
Un errore molto comune (infatti si continua a farlo) è considerare il genere comico come un derivato della Commedia, o più esattamente come una commedia che fa più ridere , con una maggiore presenza di situazioni paradossali. Questo non è affatto vero.
Nella lezione dodici, parlando della Commedia, abbiamo rilevato tra l’altro che:
1. Il protagonista precede l’azione
2. L’azione consiste in una serie di situazioni che mettono a dura prova il protagonista e ci consentono di esaltarne le qualità e le risorse, anche insospettate
3. Le azioni e il racconto nel suo insieme sono finalizzati a uno scopo “morale” : mettere in risalto l’inconsistenza dei ruoli sociali “smascherandoli” e insieme consentire al protagonista dopo tante disavventure, di diventare e manifestarsi di fronte a tutti come “un uomo migliore” , mostrando con ciò che anche la società può migliorare
Nel genere comico questi punti sono tenuti ben fermi, quanto meno i primi due, tuttavia con una specificità che li rende profondamente diversi:
1. Il protagonista non è un attore che interpreta un ruolo, è il comico , che interpreta se stesso o più esattamente assorbe il ruolo nella propria figura. C’è perfetta coincidenza tra Attore e Maschera.
2. Le situazioni in una commedia sono spesso intricate e paradossali , in un film comico possono invece essere anche situazioni normalissime (la dettatura di una lettera, come in Totò ,Peppino e la Malafemmina; il mangiare un piatto di maccheroni ,come in Un Americano a Roma con Alberto Sordi). La situazione non è buffa di per sé, è il comico a renderla buffa.
3. Le vicende che il comico attraversa lo lasciano assolutamente inalterato : tale era all’inizio, quale resta alla fine. Certo mentre all’inizio può sembrarci un perdente predestinato, alla fine possiamo scoprirlo vincente. Ma questa fine e questo inizio non sono necessariamente l’inizio e la fine della storia, sono il più delle volte l’inizio e la fine delle singole azioni, dei singoli rammenti di racconto. Charlot è un vagabondo vincente, sempre, se non altro per il fatto che non soccombe mai e sempre si ripresenta immutato. Su di lui, tutto scorre. Sovverte le cose, ma in modo così unico, esemplare e non replicabile dagli altri, che questo sovvertimento non tocca in alcun modo la natura del mondo che lo circonda, un mondo in sostanza non riformabile. Se il Comico è un anarchico, è del tipo anarchico-individualista, non pretende di realizzare un’utopia, anzi i suoi sogni e le sue aspirazioni sono spesso modesti ( piccolo-borghesi, come è stato detto appunto per Charlot), in realtà il suo unico orizzonte è la sopravvivenza. Vince perché sopravvive nella sua unicità/diversità, che non è un dato di “cultura”, ma di “natura”, non è un fine da raggiungere, ma una condizione da mantenere e rimarcare in ogni singolo istante. Il comico vive in un eterno presente.
Abbiamo anche sottolineato come l’attore che interpreta un ruolo di Commedia debba necessariamente identificarsi con il personaggio, il quale vive molto seriamente le vicende in cui si ritrova coinvolto. Anche Syd Field rileva che gli attori ideali, perfetti per una commedia, sono Marcello Mastroianni (di cui cita l’interpretazione in Divorzio all’Italiana di Pietro Germi) e Cary Grant. Nella dodicesima lezione, ho anche citato il Dustin Hoffman di Tootsie. Si tratta insomma di autentici attori, in grado di interpretare con lo stesso rigore (e realismo) ruoli drammatici o ruoli brillanti. In entrambi i casi sanno aderire perfettamente alla vicenda, rendendo efficacemente la dinamica di “cambiamento” del proprio personaggio nel percorso dall’inizio alla fine della storia. Interpretano cioè una “biografia”, con un passato, un presente, un futuro.
Charlot, Laurel e Hardy, Harold Lloyd, Buster Keaton, Jerry Lewis, Totò, Benigni, sono attori di tutt’altra natura: al di là delle loro capacità nell’interpretare occasionalmente dei veri e propri ruoli, non sono affatto degli interpreti in senso proprio. Sono Maschere. Ciò che li definisce è il volto, il costume, il modo di muoversi, loro firme inconfondibili, che si replicano identiche in ogni film che interpretano. Qualunque situazione, anche la più banale (entrare o uscire da un’automobile) diventa per loro, al di là di qualsiasi esigenza narrativa, uno spunto per far ridere.
Se avete scritto una Commedia e chiamate un Comico ad interpretarla, sappiate che correte un grandissimo rischio: al Comico, per sua natura, non interessa nulla della storia, delle sue scansioni e del suo divenire, e nemmeno del cammino psicologico del personaggio, il Comico si preoccupa di far ridere nell’istante in cui appare, attraverso l’uso del proprio corpo, non attraverso l’uso del personaggio, né tanto meno aderendo con realismo alla situazione. Nella vostra Commedia, il Comico svilupperà inevitabilmente una tale serie di gag, da far smarrire qualsiasi senso e credibilità alla storia. D’altro canto, non è questo che il pubblico chiede a un Comico, ma semplicemente di farlo ridere con lo spettacolo di se stesso.
Come il cinema horror si fonda sull’emozione della paura, così quello comico si fonda sul riso. Far ridere è l’unico centro e fine del racconto, al di là e oltre ogni possibile contenuto morale.
Come il cinema horror vive di frammenti, così il cinema comico vive di sketch e di gag, cioè di una serie di mini-racconti incentrati su esibizioni, performance del protagonista, rispetto alle quali la storia vera e propria non è altro che un pretesto. L’origine del genere Comico è pre-narrativo, cioè precede il racconto strutturato. Si tratta, come per le attività circensi (non necessariamente clownesche) e come per il teatro di varietà , di Numeri. E il numero è un’entità astratta. Se lavoriamo con un comico, nell’espressione “una pera” , non deve interessarci la pera, ma “una”. Cioè la pura, astratta, unica qualità comica, non la concretezza del “ruolo/personaggio” nel contesto di una storia. E questo rende ovviamente molto difficile il lavoro di uno scrittore per un comico. Si possono certo escogitare delle battute, ma anche queste non risolvono il nocciolo del problema. Abbiamo già notato come il cinema sia racconto per immagini e dunque, in esso, la fisicità del comico sarà sempre prevalente rispetto alla parola. Il cinema comico per eccellenza nasce muto e resta muto. La stessa voce del Comico, attraverso l’uso dei toni, degli accenti o del dialetto , si esprime più attraverso il suono della parola ( cioè la sua fisicità) che attraverso il contenuto del discorso. Un Comico può far ridere pronunciando a modo suo una frase che di per sé non fa ridere (Nu vulevon savoir l’indiriss, come Totò chiede a un “ghisa” milanese, nel contenuto è solo una richiesta di informazioni, non è una battuta, non è un motto di spirito).
Una volta mi è capitato di leggere una pagina di sceneggiatura che era più o meno così:
STRADA DI ROMA – Esterno Notte
L’automobile di Antonio si blocca improvvisamente in mezzo alla strada. Lucia esce di fretta dalla macchina. Antonio smonta dal posto di guida, la insegue e la ferma.
ANTONIO
(a soggetto)
A soggetto? Restai allibito. La sceneggiatura era stata scritta da uno dei migliori e meglio retribuiti sceneggiatori su piazza. Com’era possibile che lui non si fosse scomodato neppure a scrivere la battuta di Antonio? Dato che era di fronte a me, glielo chiesi. Mi rispose: “ tanto anche se la scrivo, lui dice quello che gli pare.”
Già! Può essere molto frustrante per uno sceneggiatore scrivere per un comico. Uno sceneggiatore non può limitarsi a sfornare vaghissimi canovacci per improvvisazioni dell’ultimo istante. E dentro di sé, se ama il cinema, sente che rinunciare a raccontare una storia o il percorso di un personaggio, smarrire totalmente il senso della narrazione, è sbagliato perché il racconto cinematografico è certo per immagini, ma fondamentalmente resta e deve restare un racconto, con un inizio, uno sviluppo e una fine . Un film , qualsiasi film, non si regge senza drammaturgia . Del resto la storia del cinema comico stesso ci mostra come il semplice impianto a gag o a sketch non è sufficiente ad accontentare lo spettatore (per questo, basta la televisione) ed espone a un rischio terribile: se il comico di turno non è in forma e le sue performance risultano deboli, il film frana. Inoltre oggi, al contrario dell’epoca del muto, i comici “fisici” (che cioè fanno ridere con il proprio corpo) sono rarissimi, mentre i “battutari” da stand up televisivo si sprecano e spesso sono renitenti ad imparare battute scritte e schiavi di modi di esprimersi fatti solo di tormentoni, di frasette-slogan ripetitive, tanto facili da ricordare sul momento, quanto deperibili nel breve periodo.
Dunque ora che abbiamo stabilito alcune differenze fondamentali e un antagonismo di base tra Commedia e Comico, cercheremo di analizzare, attraverso alcuni esempi (che non pretendono certo di esaurire la grande molteplicità di soluzioni) quali soluzioni si siano escogitate, nella storia del cinema, per risolvere il problema. Le soluzioni che indagheremo in questa Prima Parte sono indirizzate a garantire una certa autosufficienza al Genere Comico, potremmo anche dire: di esprimere Comicità Pura.
1. La Parodia
Definizione di Parodia: “ Composizione che contraffà con intento comico o satirico un’opera conosciuta.”
Cioè: 1. Si usa come racconto un racconto già esistente;
2. Lo si distorce;
3. Perché l’operazione funzioni, il racconto originale dev’essere ben conosciuto.
La soluzione consiste dunque in questo: se il Comico stravolge l’abitudine, consideriamo allora come abitudine non la vita reale nel suo più ordinario e banale svolgersi, ma una storia di fantasia che tutti già conoscono. Non dovremo raccontarla di nuovo, in quanto è già nota, dovremo invece alterarne profondamente il senso, capovolgendola (per esempio) da tragica a comica. Non avremo più così il problema di scrivere una storia che colleghi i diversi numeri del Comico, perché la storia c’è già, precede il suo trattamento comico. D’altro canto i numeri del Comico avranno un punto preciso di riferimento nelle azioni già rappresentate, non comicamente, in precedenza e così note da costituire un retaggio, un bagaglio culturale assestato, un racconto divenuto Luogo Comune, dunque Abitudine.
Cerchiamo ora di analizzare un modello classico di Parodia: Frankenstein Junior di Mel Brooks (1974). La sceneggiatura del film risponde perfettamente ai tre requisiti sopra elencati. Ci si basa su una storia talmente nota da essere risaputa, facendo dei suoi snodi narrativi, delle situazioni, dei personaggi, uno spunto per una serie di numeri comici a getto continuo. Non ci sono scene di connessione tra uno sketch e l’altro, si ride dal principio alla fine e i singoli frammenti ci appaiono sorprendentemente uniti in un unico racconto.
Il problema degli sceneggiatori di una Parodia è analogo a quello che incontrano gli sceneggiatori che si trovano a trasporre sullo schermo un racconto letterario. Bisogna trovare, nell’originale, sufficienti spunti per poter riempire due ore di film e spesso nell’originale non ce ne sono abbastanza, oppure sono poco adatti per l’effetto che si vuole ottenere: la risata. Dunque si tratta anzitutto di scegliere quali elementi usare e quali scartare.
Gli sceneggiatori Mel Brooks e Gene Wilder, non usano soltanto il film Frankenstein(1931), cioè l’originale di Whale, ma anche i due successivi della serie: Il Figlio di Frankenstein e La Moglie di Frankenstein. Cioè tre film per ricavarne uno. In questo modo si ritrovano a disposizione una vera miniera di spunti comici.
Questo è un esercizio che vi consiglio vivamente: guardate i tre film di Frankenstein sopraccitati e confrontateli alla loro parodia. Vedrete da soli, senza bisogno di troppe parole, e credo ne resterete stupiti, che nel film di Mel Brooks (così unico e originale nella storia del cinema comico) non c’è quasi nulla di veramente originale: persino i personaggi collaterali (come l’ufficiale borgomastro con il braccio di legno) esistevano già nei film della serie, con le gag già belle e pronte. Di più: se vedete i film originali dopo aver visto Frankenstein Junior, quei film, destinati a far paura, vi faranno ridere!
Mel Brooks e Gene Wilder inseriscono nel film anche situazioni che non ci sono nei film originali, e che sono parodie (più difficili da riconoscere) di altri film: per esempio la scena in cui il Mostro faticosamente si arrampica fino ai merli della torre e alla fine, distrutto dalla fatica, sembra non farcela più. Il dottor Frankenstein non lo aiuta affatto e impedisce anche agli altri di farlo: il Mostro deve dar prova di riuscirci da solo. Questa è un’esilarante parodia del finale di Fronte del Porto (1954) il drammatico film di Elia Kazan con Marlon Brando. Si ride lo stesso anche se non si riconosce la citazione beffarda, ma certo se quella situazione viene in mente si ride di più.
Ho citato quest’ultimo dettaglio per rimarcare quanto sia importante il punto 3: perché l’operazione funzioni , il racconto originale dev’essere ben conosciuto. Precisiamolo meglio: in una Parodia se una singola scena fa ridere, fa ridere anche se non ne riconosciamo l’origine. Né necessariamente tutte le scene devono essere parodistiche, possiamo anche inserire dei numeri comici originali. Però questo limite la Parodia se lo porta sempre dietro.
Pensate ai film della serie Scary Movie: è evidente che le scene fanno tanto più ridere, quanto più riconosciamo i film che vengono presi in giro. In uno degli ultimi film della serie, per esempio, il protagonista, che mette in parodia Tom Cruise , viene invitato ad un talk show televisivo e lo vediamo dare in escandescenze mostrando un entusiasmo del tutto sopra le righe. Questo è realmente accaduto (e proprio con Tom Cruise) ad un popolare talk show americano. Noi in Italia non lo abbiamo visto e dunque questa scena ci fa ridere meno di quanto abbia fatto ridere il pubblico americano.
Altri e analoghi limiti della Parodia possiamo vederli in un altro film di Mel Brooks: Alta Tensione (1977) nel quale vengono presi in giro i film di Alfred Hitchock. Qui Mel Brooks si vincola meno che nel caso di Frankenstein a una storia definita, scrive un racconto molto più frammentario e scomposto, puro pretesto per una scorribanda di citazioni parodistiche. In qualche punto, fa persino la parodia dello stile di ripresa di Hitchcok: c’è per esempio una scena in cui la macchina da presa si muove con un carrello ad avanzare dall’esterno verso l’interno di un ambiente (cioè un movimento da piano sequenza che possiamo ritrovare anche all’inizio di Psycho) ma trova sulla sua strada un vetro e lo infrange. Quando vidi questo film in sala, mi accorsi che a questa scena avevamo riso solo in tre. E’ molto difficile far ridere sul linguaggio stilistico, questo è un vezzo da appassionati di cinema . Il largo pubblico non coglie al volo questi aspetti e dunque non ride.
Vicina a Frankenstein Junior è la serie L’Aereo più pazzo del mondo. Lo spunto per la Parodia viene non da un singolo film, ma da una serie di film e telefilm sui disastri aerei e sulla traccia di questa parodia principale si inseriscono singoli sketch che mettono in satira altri film di generi disparati (per esempio La Febbre del Sabato Sera). Qui, in modo ancora più trasparente che nei film di Mel Brooks, si usa una struttura narrativa tutta composta di frammenti allineati, senza preoccupazioni eccessive di connessione. L’unità narrativa è garantita da un lato dal riferimento al film principale Airport (1970) e ai suoi sequel, dall’altro dal viaggio aereo stesso che ha un inizio (la presentazione dei vari personaggi e le fasi di imbarco), uno sviluppo (incidenti di volo) e una fine (l’atterraggio d’emergenza). In questo percorso ci può stare di tutto, anche dei flash back che ci portano fuori dalla situazione e consentono a loro volta di citare e parodiare altri film.
Una riflessione a margine
Avrete notato che abbiamo citato dei film che hanno scelto come oggetto di Parodia il cinema dell’orrore o il thriller o l’action-drama (il dramma d’azione). Non è un caso. Anzitutto i film originali sono per loro natura già ricchi di frammenti narrativi, cioè di scene a se stanti o che si ritagliano un’evidenza assoluta nel corpo della narrazione. In secondo luogo si tratta di film nei quali la risata non è affatto prevista: anzi, se avessero fatto ridere, non avrebbero funzionato. Cioè meno comica è la storia di riferimento, più sorprendente ed esilarante sarà l’esito della distorsione. In altre parole: tendenzialmente alla base della Parodia, c’è la Tragedia.
Molti grandi comici hanno sottolineato che un vero Comico non deve mai dimenticare la Tragedia, sia quella quotidiana vissuta dalla gente comune sulla propria pelle (la fame, la malattia, la guerra, la miseria), sia quella narrata. Mentre uno degli esiti della Tragedia, come abbiamo visto, è la catarsi (patire dolore per via mediata e senza subirne le conseguenze materiali), uno degli esiti possibili del lavoro del comico è il totale capovolgimento dell’esperienza, anche simulata, del dolore, in riso liberatorio. Benigni ha spesso rimarcato (anche con qualche eccesso di retorica “edificante”) come l’arte del Comico stia non nel negare la sofferenza, ma nel farne occasione di riscatto vitale. Non è questa la sede per approfondire interpretazioni filosoficamente più ricche e complesse. Basterà osservare che questo atteggiamento non va affatto confuso con il masochismo: il Comico sbatte contro una porta e la cosa ci fa ridere, ma questo non significa affatto che il Comico cerchi apposta di andare a sbattere contro la porta ,tanto meno allo scopo di provare godimento! Una gag che sembri troppo voluta, è una gag mal realizzata e mal riuscita: lo sbattere contro le porte è un dato di fatto, un evento esterno, non è una situazione cercata. E’ proprio una situazione Tragica, nel senso che viene subita, e deve apparirci assolutamente chiaro che il Personaggio l’ha subita senza volere. Nel momento in cui subisce gli eventi, il Personaggio/Comico è assolutamente Passivo, esattamente come quello della Tragedia. Nel caso della Commedia, l’evento viene visto come una prova , un ostacolo attraverso il superamento del quale il Protagonista ci mostra le sue capacità, e il suo saper essere Attivo e risolutivo. Nel caso del Comico, l’ostacolo non viene necessariamente superato, anzi spesso non viene superato affatto: nelle comiche di Stanlio e Ollio ogni ostacolo ne produce un altro, in un accumulo al di là di ogni realismo. Il tentativo stesso di superamento dell’ostacolo viene irriso: qualsiasi gesto venga fatto per rimediare a un danno, produce una reazione a catena di danni sempre più devastanti. Il punto è che il Comico ne esce sempre miracolosamente indenne. Il Comico, ripeto, incarna l’arte di sopravvivere, non quella di prevalere.
Come si lavora a una Parodia ?
Per scrivere una buona Parodia è evidente che bisogna avere una notevole cultura cinematografica. Come detto sopra, è bene non scegliere un unico film come riferimento, ma diversi film, partendo da un filone principale per poi aggregarvi riferimenti a film d’altro genere.
E’consigliabile lavorare in gruppo. In generale accade abbastanza di rado che uno sceneggiatore lavori da solo, ma in questo caso è anche più sconsigliabile. Per scrivere una parodia bisogna divertirsi . Può essere un esercizio utile riunirsi con un gruppo d’amici a vedere dei film di un certo filone (che so… tanto per fare un esempio recente, i film della serie Fast and Furious) e commentarli ad alta voce, cogliendo spunto da certe scene per escogitare delle distorsioni comiche.
E’qualcosa di simile a quello che avveniva frequentemente in una normale sala cinematografica (oggi avviene più raramente): c’era cioè sempre in sala qualche spiritoso che commentava ad alta voce le scene, facendo ridere tutti magari in un punto dove il film prevedeva tensione. Si allentava così la tensione e si parodiava il film in diretta. Scrivere una parodia è naturalmente più difficile: non si tratta di commentare una certa scena, ma di rifarla in modo che risulti ridicola. Spesso le scene originali, proprio per essere efficaci, si fermano a un pelo dal ridicolo: si tratta di spingerle oltre. In gruppo questo metodo di lavoro può somigliare a un gioco: la scelta delle scene, la discussione su come alterarle, il ricordo di scene simili di altri film e che possano venire allineate a quelle prescelte, insomma il discutere a ruota libera accumulando spunti è un’ottima base per cominciare.
Il meccanismo comico scatta dal fatto che si prendono in giro dei luoghi comuni, a partire dal carattere stesso dei personaggi che in un film “serio” tendono tutti ad essere fin troppo seri, e nella sua parodia invece risultano in genere dei totali idioti.
Il tipo di comicità è insomma affine a quella dei “Contrari”, i clown delle tribù indiane che facevano ridere reinterpretando a modo loro (farsesco e persino scandaloso) cose serissime, come ad esempio i rituali religiosi. I film horror, d’azione o drammatici devono assolutamente rendere credibili personaggi e situazioni. Più i personaggi e le situazioni sono improbabili, ai confini della realtà, più gli sceneggiatori devono sforzarsi di renderli verosimili. Uno scrittore di parodie deve fare esattamente il contrario: mostrare l’assurdità del carattere o del comportamento dei personaggi e l’improbabilità assoluta delle loro azioni, persino di fronte a situazioni normali. Questa è la regola fondamentale del gioco.
Ma siccome in una Parodia il divertimento dev’essere a getto continuo, bisogna fare riferimento a quanti più spunti possibili. Una testa sola non basta: se si lavora in gruppo, ci si sollecita a vicenda e si può anche verificare dalle reazioni degli altri se la nostra personale reinterpretazione di una certa scena fa davvero ridere oppure no.
2. La Slapstick Comedy
La parola “Slapstick” significa Schiaffi e Bastonate. La Slapstick Comedy è una forma di racconto comico che esaspera ed esagera la violenza fisica, senza che questa produca danni definitivi e letali. Cioè è un racconto per iperbole destinato a suscitare risate non crudeli, proprio in quanto talmente esagerato da non essere realistico, e da risultare negli effetti, altrettanto esageratamente innocuo: i protagonisti/vittime di tali incidenti si rialzano come se fossero di gomma, pronti a subirne altri. In questo caso il cinema comico usa lo stesso modulo espressivo dei cartoni animati.
Esaminiamo questo tipo di cinema comico attraverso due esempi: la serie Scuola di Polizia e la serie Fantozzi. Già il fatto che si tratti di film in serie è indicativo: le storie , in questi film, non hanno fine, sono una pura successione di eventi che potrebbero durare all’infinito. Quello che li tiene insieme è la cornice di luogo (la Scuola di Polizia, l’ambiente di lavoro e di vita di Fantozzi) e la narrazione viene scandita sulla base di un ordine di tipo cronologico. Nel caso di Scuola di Polizia: l’arruolamento, l’inizio del corso, un’emergenza e l’intervento/risoluzione dell’emergenza che coincide con la fine del corso. Nel caso di Fantozzi, un anno tipo nella vita dell’impiegato d’azienda. L’andamento frammentario ed episodico è giustificato (in Scuola di Polizia) dalla coralità, cioè dal fatto che non raccontiamo un unico protagonista, ma diversi personaggi e possiamo passare dall’uno all’altro con stacchi frequenti. In Fantozzi la frammentarietà è addirittura fondante: si tratta di una sorta di Diario (recitato dalla voce fuori campo dell’autore). I film di Fantozzi, almeno i primi, derivavano da una serie di brevi racconti comici pubblicati su una rivista, poi raccolti in volume. Nei film però c’è qualcosa di più: Paolo Villaggio usa una struttura narrativa fissa nella quale i singoli episodi si inseriscono come tappe. Questa struttura è geniale e molto italiana: si tratta infatti di una vera e propria Via Crucis, di cui ogni singolo episodio narrato rappresenta una stazione. Il finale, fateci caso, è fisso ed è sempre rappresentato da una sorta di coronamento mistico della tragica esperienza di Fantozzi: l’incontro con il Megadirigente, Suprema incarnazione del Potere (e più in generale di tutto ciò che Fantozzi non ha e non è) e che di film in film si colora sempre più di simbolismo religioso, in una sorta di parodia del Paradiso (che per Fantozzi è solo la soglia di una nuova umiliazione e ricaduta nell’Inferno da cui mai si risolleverà).
Gli slapstick comportano dal punto di vista della sceneggiatura un lavoro più complesso e preciso di quanto non si pensi. Non si possono girare film di questo genere sulla base di un mero canovaccio. Essendo ogni singola azione esagerata al limite del cartone animato, essa deve venire studiata e preparata nei dettagli . Non è consentita approssimazione nella sceneggiatura. Si tratta di film molto costosi e più un film è costoso e più la sceneggiatura rappresenta non solo una narrazione, ma un vero e proprio programma di lavorazione, per tutti i reparti della troupe.
Dal punto di vista della storia, non ci si appoggia affatto sulla Parodia. Scuola di Polizia non fa la parodia dei telefilm polizieschi o dei film polizieschi. Le singole situazioni del film non fanno ridere perché riferite ad altri film, ma perché sono originali. Le diverse situazioni comiche sono vissute da personaggi che non sono caricature di altri personaggi, ma caratteri originali. Lo stesso si può dire per Fantozzi e i personaggi fissi o ricorrenti che lo circondano (la moglie, la figlia-scimmia, i colleghi eccetera). Ciascuno di loro è stato ideato e sviluppato nel suo rapporto con gli altri.
Il lavoro di sceneggiatura dunque non consiste soltanto nell’ideare una serie di scenette, di frammenti narrativi dotati di una qualche autonomia rispetto all’insieme, ma anche nell’ideazione dei personaggi, senza i quali le singole scene non avrebbero senso, nel mostrare i rapporti tra questi personaggi e anche un’evoluzione di questi rapporti. Da questo punto di vista la commistione con la Commedia è evidente. Si parte dai singoli frammenti, ma questi frammenti originano dai personaggi, che vanno a loro volta inter-relati e disposti lungo un percorso. Anche se si parte dai frammenti dunque, si deve pervenire a una storia .
In Scuola di Polizia gli episodi che si susseguono mirano a un finale positivo: gli smacchi dovuti all’imperizia dei protagonisti alla fine vengono superati. Quegli imbranati, attraverso un addestramento strampalato, ma soprattutto attraverso la solidarietà tra loro, riescono alla fine a trionfare. C’è a suo modo un insegnamento morale: bisogna dare spazio ai “diversi” perché hanno una maggiore motivazione dei “normali”, i diversi cercano un riscatto sociale. Si potrebbe dunque dire che il Comico ha prodotto dal suo seno una perfetta Commedia.
Il riferimento alla Tragedia è invece estremamente rimarcato in Fantozzi. Il racconto è addirittura di film in film diventato “storico”. Questo alla lunga si è rivelato un grave errore. I personaggi non comparivano sempre identici a se stessi, come in un cartoon, ma invecchiavano, cioè sviluppavano una loro biografia. Contemporaneamente i Numeri diventavano sempre più ripetitivi e tristi, gli autori parevano preoccupati solo di incrudelire sul povero protagonista e sui comprimari, ed emergeva un fondo di desolante cinismo, una disinvolta allegria nell’infierire, che non faceva e non poteva far ridere (al di là di qualche singolo frammento).
E’ ovvio che la Slapstick Comedy, facendo della Violenza Estrema un’occasione di spasso, ha una radice per nulla confortante, ma è Comica proprio perché sa renderla innocua, sublimandola nel puro gioco infantile del “fingere” lo scontro e la morte. L’uso dell’iperbole consiste appunto in questo. Willy il Coyote resta vittima delle sue stesse mirabolanti trappole infernali, viene schiacciato come una pizza, triturato, bruciato, gliene succedono di tutti i colori, e si ripresenta sempre, miracolosamente indenne e testardo. Ma è un personaggio che non ha storia, non ha biografia. Se invece ci mettessimo in testa di scrivere la storia della vita di Willy Coyote e lo rappresentassimo nel corso del tempo sempre più spelacchiato, debole, patetico, frustrato, e sempre più intento a farsi del male, beh allora racconteremmo proprio un’altra storia, che Comica non è.
Non c’è neanche bisogno di vedere il film, basta il titolo Fantozzi va in pensione, per capire che non c’è niente da ridere. L’idea stessa che ci si possa divertire nel vedere un anziano pensionato scippato fuori dall’Ufficio Postale, è inquietante.
Si vuole rimarcare a tutti i costi il lato tragico? Non si può farlo così. In questo caso, infatti non si dà vera catarsi: nella catarsi si partecipa al patimento altrui, ma qui si pretende di far ridere di fronte alle disgrazie che colgono un altro, talmente indifeso e spogliato di ogni dignità, da rendere molto difficile se non impossibile identificarsi in lui: ci suscita infatti un profondo disagio l’idea che un giorno potremmo essere simili a lui. E non ci consola neppure pensare: tanto quello è Fantozzi… io mica sono così sfigato. Se ci consoliamo così, e ridiamo dell’inferiorità di Fantozzi, siamo dei veri pezzi di merda. La direzione presa, insomma, sembra quella del grottesco con un fondo horror neppure troppo mascherato. Ma uno spettatore moderno può ancora ridere a un Freak Show? Ne dubito. E lo dimostra il semplice fatto che un personaggio popolarissimo come Fantozzi ha visto nel tempo naufragare il proprio successo di pubblico.
Ciascuno la pensi come vuole, questo corso non presume di preparare dei critici cinematografici, né tanto meno di dare giudizi morali sulle scelte di racconto indicando come unico orizzonte possibile il politically correct (questo sarebbe del tutto assurdo nel caso della Slapstick Comedy che anzi non deve mai temere di usare spesso e volentieri il politicamente scorretto, la maleducazione e anche la volgarità), però resta indispensabile fornire qualche occasione di riflessione in merito ai limiti dei modelli narrativi proposti. Ora, nel caso della serie Fantozzi, e mi riferisco in particolare agli ultimi episodi della serie, l’errore (riassumo) sta in questo: storicizzandosi, raccontando l’invecchiamento dei suoi personaggi che replicano gli stessi e sempre più stanchi gesti, infierendo nel ridicolizzare la vittima, la serie diventa troppo crudele per far ridere.
C’è un limite che una Slapstick Comedy non può superare: non deve mai suscitare risate crudeli.
Spesso è arduo anche per dei professionisti navigati individuare il limite che separa la cattiveria innocua dalla crudeltà che può ferire sul serio. Tenete ben presente il caso Fantozzi e (confrontando i primi film agli ultimi) studiatelo bene: è un esempio perfetto, sia dei risultati notevolissimi che si possono ottenere, sia dei rischi fatali che si possono correre.
Come si lavora a una slapstick comedy?
Per la slapstick, come per la parodia, si tratta di elaborare una serie di numeri comici. Il cinema comico si struttura a partire dai Numeri, non dalla storia, come abbiamo rilevato. Ma la Slapstick Comedy mette capo a una Commedia e la Commedia origina dai personaggi e i personaggi hanno una storia (con un inizio e una fine). Nella Slapstick Comedy corale, gli stessi Numeri sono Numeri dei Personaggi e spesso il Protagonista che conduce la vicenda, non è affatto un comico, ma un tipico attore da commedia. (In Scuola di Polizia per il ruolo di protagonista al principio si era persino pensato a Bruce Willis , poi si è scelto Steve Guttenberg). Questi film seguono in parallelo le vicende di personaggi diversi, alternando scene nelle quali i personaggi compaiono da soli ad altre in cui compaiono insieme. Accade così anche nei film ad episodi intrecciati. I fratelli Vanzina hanno prodotto diversi film ad episodi intrecciati (ad esempio Via Montenapoleone ) e anche film definibili come Slapstick Comedy (come S.P.Q.R.nel quale compare un vero campione della Slapstick Comedy: Leslie Nielsen ). Lo stile di lavoro di Enrico Vanzina, che scrive la sceneggiatura di questi film, parte dalle storie dei singoli personaggi (o delle coppie di personaggi) scritte separatamente. La storia di questi personaggi viene divisa per frammenti successivi, ciascuno dei quali coincide con uno sketch. Solo in seguito queste storie separate vengono mescolate tra di loro in un ordine definito e con scene di connessione nelle quali i personaggi si incontrano. Questa tecnica consente anche di equilibrare i personaggi, in modo che ciascuno abbia il giusto rilievo nel film e che non se ne perda qualcuno per strada. Nella serie Scuola di Polizia i diversi personaggi comici hanno uno spazio “separato” per le loro gag e questi spazi in genere si equilibrano in modo che uno non schiacci eccessivamente l’altro. Il ruolo di connessione è assegnato all’agente Mahoney (Steve Guttenberg) un attore brillante (da Commedia) e dunque più adatto ad assumere su di sé il ruolo di collante narrativo. Anche altri personaggi (per esempio il nero Hightower) possono intervenire nel percorso della vicenda generale, non limitandosi cioè al semplice numero a se stante. Fateci caso: chi agisce da collante narrativo quasi mai è un Comico. Il Comico si esprime e si consuma nelle sue gag, non raccontando la storia. Tutto ciò richiede comunque sempre un grande equilibrio tra scene singole e insieme del film che racconta (nello stile Commedia) una vicenda unitaria. In questo genere di film il lavoro di sceneggiatura di gruppo è importante, ma qualcuno deve poi assumersi il ruolo di connettere i diversi numeri in una struttura narrativa coerente. Dividere il lavoro in fasi diverse è da questo punto di vista molto utile. Il soggetto può individuare una traccia del tutto generale di percorso. Poi la definizione dei singoli caratteri diventa fondamentale per elaborare le gag che a quei caratteri devono corrispondere. In questa fase i singoli caratteri possono venire esplorati singolarmente e le loro scene scritte isolatamente come scene a se stanti (anche se disposte in successione cioè lungo un percorso cronologico). Da ultimo si tratterà di unificare queste scene, cioè di elaborare l’insieme, come se ci si trovasse di fronte a un puzzle da comporre, con la differenza però (non da poco) che in un puzzle i singoli pezzi vengono ritagliati dall’insieme (che strutturalmente li precede) mentre qui l’insieme viene prodotto (non semplicemente riprodotto) dall’incastro dei singoli pezzi. Come in un lavoro di intarsio i singoli pezzi spesso dovranno venire modificati perché possano incastrarsi bene e dare luogo ad un insieme coerente. E’ importante notare come, rispetto a un film tradizionale, qui nel lavoro di sceneggiatura non si procede dall’inizio alla fine, ma per assemblaggio. Questo fa della Slapstick Comedy un mix tra Comico e Commedia tutt’altro che facile, al di là delle apparenze. Se il risultato finale è scorrevole vuol dire che si è lavorato bene, la fatica e la complessità del lavoro di incastro non devono apparire: al pubblico deve sembrare anzi il contrario e cioè che abbiate raccontato una storia dal principio alla fine e che nessun frammento, nella storia, sia lì, in quel preciso punto, per caso o per un accostamento pretestuoso e di comodo. Ma ciò che alla fine appare come “facile” e scorrevole non vuol dire affatto che sia stato facile da realizzare nel lavoro di sceneggiatura e che non abbia richiesto grande attenzione e sapiente equilibrio tra le parti e il tutto.
Nella seconda parte di questa lezione, affronteremo il tema della Contaminazione tra Comico e Commedia, esaminando alcune soluzioni eccellenti al problema principale che resta sempre lo stesso: come si possono, nel cinema comico, conciliare una storia d’insieme ben strutturata e i singoli Numeri.
16° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
A) L’EPICA COME CONTAMINAZIONE
Nelle tre precedenti lezioni, a proposito delle origini dei Generi, abbiamo visto che secondo Aristotele essi sono tre: la Commedia, la Tragedia e l’Epica. Quest’ultima è una contaminazione tra i primi due generi.
Per capire bene cosa si possa intendere per “contaminazione” , torniamo al cinema d’azione e consideriamo un tipo di film che non rientra nel modello James Bond , di cui si è trattato nella precedente lezione, e cioè il film di gangster.
Che si prenda a riferimento un film classico, già considerato nelle prime lezioni, come Pericolo Pubblico n.1 (White Heat , 1948) di Raoul Walsh con James Cagney, oppure Carlitos’ Way (1993) di Brian de Palma con Al Pacino, o il recente The Pusher (Layer Cake, 2005) di Matthew Vaughn con Daniel Craig, il discorso (dal punto di vista della struttura narrativa ) non cambia. Gli elementi fondamentali sono questi:
1. L’eroe è un criminale , dunque non incarna valori morali
2. Il linguaggio non è affatto elevato, ma “basso” e gergale
3. L’eroe , nella sua spavalderia o con la sua indubbia capacità a togliersi dai guai, può persino apparirci simpatico
4. Le sue convinzioni, in genere piuttosto ciniche, sovvertono e trasgrediscono i luoghi comuni circa i ruoli sociali
5. L’eroe è attivo, non subisce passivamente i fatti, anzi dà origine alle azioni e quando le conseguenze rischiano di travolgerlo, reagisce da vincente
Come si vede, fin qui siamo pienamente all’interno delle caratteristiche che Aristotele assegnava alla Commedia, ma andiamo avanti…
6. L’azione è protagonista assoluta, sono gli eventi che scandiscono la vicenda, sempre più
vorticosi e incalzanti
7. Per quanto si consideri (e si dimostri) padrone nel suo destino, l’eroe più sale i gradini della sua carriera, più si manifesta vincente, e più crea le condizioni della sua sconfitta finale
8. La sconfitta finale dell’eroe assume un rilievo simbolico: è la materializzazione del suo Fato
Queste altre sono caratteristiche tipicamente tragiche.
Riguardo in particolare all’ultimo punto: famosa la battuta con cui James Cagney, braccato dalla polizia, salito in cima a un enorme serbatoio di gas, prima della sua inevitabile fine, riassume insieme la situazione e il senso della sua vita: Made It, Ma! Top of the World! (Ce l’ho fatta, mamma! Sono in cima al mondo!).
Abbiamo così esemplificato come il racconto epico (d’azione) accolga e fonda in sé elementi diversi e opposti. La “contaminazione” tra stili e generi, non è affatto un modello estetico tipicamente moderno, è anzi all’origine del racconto stesso.
B) IL CINEMA E LO SVILUPPO DEI GENERI
Abbiamo già fatto notare come la Poetica di Aristotele sia un testo giuntoci incompiuto.
Non possiamo dunque dire con certezza se il filosofo greco si sia fermato all’individuazione/disamina di questi tre generi fondamentali, oppure (come è molto probabile da indicazioni sparse nel testo) si sia diffuso anche su altre strutture narrative (la poesia lirica, per esempio) e forme di rappresentazione (il balletto, le attività circensi, la mimica), non solo nelle loro origini, ma nel loro divenire dopo che i generi fondamentali si sono strutturati. Quel che è certo, è che la storia della letteratura, del teatro, dello spettacolo in genere e del cinema (nelle loro reciproche influenze) hanno nel tempo dato luogo a una serie infinita di variazioni e di sfumature, a tal punto che oggi si stenta a volte a riconoscere il Genere di appartenenza di un certo lavoro e che ne se sfornano in continuazione di nuovi, spesso etichette vacue e passeggere. Ciò non significa che le indicazioni “fondative” di Aristotele siano da considerare ormai irrilevanti, anzi prenderle come riferimento può aiutarci molto a non disperderci nella jungla dei generi e dei sotto-generi.
Per restare al cinema, alcuni generi, cosiddetti codificati, non lo sono affatto,anzi per certi versi non sono nemmeno da considerarsi generi veri e propri. Ad esempio il Western. E’ davvero un genere? Dal punto di vista narrativo e di struttura, no. Si sono fatti western di tutti i generi: musicali, sentimentali, storici, fantastici, ideologici, erotici, western-commedia, epici e tragici. Il “Genere Western” come tale non esiste, definisce solo uno scenario, non una struttura di racconto. (Per chi di voi conosce l’inglese e sia interessato a questo tema, consiglio il bel saggio di Scott Simmon , The invention of the Western Film, Cambridge University Press, 2003).
Altri generi hanno invece costituito nel tempo un unicum di tutto rilievo, apparentemente con caratteristiche tutte proprie.
E’ il caso del cinema Horror.
C) IL GENERE HORROR
Partiamo dall’attuale mainstream, cioè dal soggetto prevalente nella produzione corrente di cinema horror.
Un gruppo di persone (in genere giovani , con ragazze molto attraenti) riunite in un unico ambiente (una casa, un campeggio vacanze, una scuola, una piccola città, un’isola o una landa desolata) viene massacrato un poco alla volta (uno per uno) dai Mostri o dal Mostro di turno. Alla fine i sopravvissuti sono solo uno o due , ma il finale resta comunque aperto… uno dei sopravvissuti, marchiato dal trauma, potrà ripetere gli omicidi efferati diventando a sua volta Mostro, o il Mostro potrà risorgere in cerca di nuove vittime.
Non sarebbe neppure necessario citare dei film, la lista sarebbe lunghissima e ciascuno di voi può ricordarne senza sforzo almeno una dozzina. Si ritiene in genere che questo modello di racconto origini da alcune celebri serie anni 70/80, come Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, Venerdì 13, Nightmare, Halloween, Evil Dead eccetera. Però non è affatto così. Questo stesso soggetto era stato messo in scena nei film di Mario Bava e prima ancora nei B-Movies di registi come Gordon H. Lewis, ma non può dirsi tipicamente horror in quanto è stato usato ampiamente anche nel cinema di fantascienza, nel cinema catastrofico e persino nel giallo. Basti pensare a Dieci piccoli indiani di Agata Christie (1939) romanzo, poi lavoro teatrale e spunto di molte trasposizioni cinematografiche, fondato appunto sullo stesso meccanismo “ad eliminazione”. Lo stesso Maria Bava e dopo di lui Dario Argento hanno mescolato nei loro film queste due distinte ascendenze: il giallo e l’horror.
Ma cosa comporta questo meccanismo dal punto di vista dei personaggi?
1. I personaggi vengono creati per essere eliminati , non sono che mere e stereotipate caratterizzazioni.
2. I personaggi sono tutti passivi, subiscono gli eventi e vanno incontro al loro inevitabile destino, che è poi un autentico martirio.
3. Il vero protagonista (cui viene dedicato tutto lo sforzo creativo) è il Mostro.
4. Il Mostro, che nessuno riesce mai ad eliminare definitivamente , simboleggia né più né meno che la Morte.
Se ne potrebbe dedurre che questo genere di racconto sia tipicamente, esasperatamente tragico. Eppure non è così in quanto nessuno tra i personaggi (a parte la Morte stessa) grandeggia, e il tono non è affatto elevato, ma al contrario esplora fino in fondo ogni bassezza umana e disumana. Tanto meno può definirsi Commedia, stante la passività dei personaggi, la quasi assoluta mancanza di “positività” , lo scarso approfondimento dei ruoli sociali e delle psicologie. E nemmeno, pur se predomina l’azione più forsennata, può venire definito Epico, in quanto nessun personaggio (a parte la Morte) assurge al ruolo di eroe e i singoli protagonisti non sono affatto tali, ma membri di un “coro” progressivamente falcidiato, funzionali solo al proprio (pre-scritto) fallimento: non hanno neppure il tempo per trarre un bilancio del loro Destino, la loro Fine è spesso e volentieri gratuita.
Abbiamo già detto che questo tipo di soggetto non è necessariamente horror. Ma va anche aggiunto che ci sono una quantità di horror che non si fondano affatto su questo meccanismo. Anzi gli horror che hanno fatto la storia del cinema, che ne hanno cioè mutato gli indirizzi, dando il via a una serie di imitazioni a catena, hanno tutt’altra struttura, come i film di Roger Corman tratti da Poe, come Psycho, Rosemary’s Baby, L’Esorcista, Lo Squalo e se vogliamo anche il recente The Ring. Qui un chiaro protagonista c’è sempre, anche più di uno, e non coincide sempre ed inequivocabilmente con il Mostro. La narrazione è varia, mutevole, non ripetitiva, ricca di scansioni e ritmi diversi, e sovente al di fuori di uno stretto codice di genere.
Inoltre, non mancano certo i film narrativamente fondati su questo meccanismo,ma che lo hanno però modificato e alterato in profondità, soprattutto nel rilievo assegnato ai personaggi. Ad esempio Alien, nel quale non si può certo dire che il personaggio di Ripley sia una mera caratterizzazione.
Dunque: cosa definisce il genere Horror? Non il soggetto, non la struttura narrativa, non la gerarchia tra i personaggi , il loro maggiore o minore rilievo, ma la decisa selezione del punto di vista emotivo. E’ “cinema di paura”. Deve far paura. Si fonda cioè su un patto stabilito con il pubblico e che non può venire tradito pena il totale fallimento del lavoro. Insomma, l’horror, che la critica ufficiale troppo spesso tende a classificare come esteticamente scadente e degradato, si definisce invece in virtù di una specifica ricerca di stile. E’ lo stile che definisce l’horror, non il racconto, come bene ha mostrato Alfred Hitchock nei suoi film, coniugando tutte le sfumature del “brivido”: la Morte può far fremere e subito dopo suscitare un sorriso liberatorio (La congiura degli Innocenti) , può fare inorridire per crudezza realistica (Frenzy), può allucinare attraverso il delirio delle immagini (Psycho), o creare un senso di attonito e disarmato stupore come di fronte a un’inspiegabile apocalissi collettiva (Gli Uccelli).
In un film di paura, l’importante non è la storia, ma come la si racconta. La storia è giusta se fornisce occasioni per la paura. Ma è il modo in cui si raccontano le situazioni, non le situazioni stesse, che individua e precisa la sfumatura prescelta, su un arco emotivo che va dalla “semplice” suspense all’orrore (e dall’orrore al ripugnante). Queste sfumature sono il vero soggetto/oggetto della narrazione.
Abbiamo così qualcosa di apparentemente nuovo, rispetto alla codificazione classica. Non semplicemente gli eventi come protagonisti, ma una particolare emozione come vero centro narrativo, come focus.
Da questo punto di vista, l’Horror, come genere, ha la stessa natura del Comico, del Sentimentale, dell’Erotico/Porno: l’Horror deve fare paura, il Comico deve far ridere, il Sentimentale deve commuovere, l’Erotico e il Porno devono eccitare sessualmente. E’la storia, è il tipo di personaggio o di personaggi protagonisti a determinare il Genere? No, è l’emozione che vogliamo trasmettere e per farlo le scelte stilistiche devono essere estremamente consapevoli e sapersi anche continuamente aggiornare, in quanto ciò che fa paura oggi, domani (con la ripetizione e l’abitudine, con la mutata sensibilità del pubblico) non farà più paura. Questi generi estremi sono dunque condannati alla perpetua ricerca espressiva, che muove dalla conoscenza della tradizione precedente, ma che fondandosi sulla mutevolezza delle passioni e del sentire comune, deve costantemente rinnovarsi, se non vuole perdere sintonia con il pubblico.
Riprendendo Aristotele, questi generi sono da considerarsi precedenti al racconto strutturato: nascono intorno a un’emozione, si esprimono per frammenti, sono funzionali non ad un equilibrio interno, ma rispetto al rapporto con il pubblico che è lì, in quel momento dato.
E’ evidente che certe pulsioni “primitive” hanno nella storia dell’Umanità una permanenza che va al di là delle epoche e dei costumi e che si annidano profondamente nell’inconscio collettivo, dunque questi generi non sono necessariamente “datati”, ma è altrettanto indubbio che la forma espressiva è determinante nella loro efficacia. Il Fantasma dell’Opera di Rupert Julian con Lon Chaney è un grande film che può venire gustato ancor oggi, ma certo non può suscitare in sala la stessa paura che suscitò all’epoca della sua uscita. Analogamente, il cinema erotico dell’epoca del “si vede, non si vede” non può certo destare gli stessi turbamenti sul pubblico degli adolescenti di oggi.
Alcuni di questi film possono diventare dei Classici, ma l’Horror (e in generale il cinema dei generi sopra indicati) è un cinema per definizione Anti-Classico. Un’esperienza visiva già vissuta molte volte, non è necessariamente noiosa, anzi può confortare, risultare gradevole, persino desiderata e appagante, ma l’Horror non può permettersi di essere confortante, né gradevole, e per risultare appagante deve sconvolgere l’abitudine. L’emozione è tanto più forte, quanto più vicina al momento sorgivo, quando cioè si ha la sensazione di provarla/scoprirla per la prima volta in quel momento, quando ci colpisce perché inattesa e imprevista.
Insomma: i generi che Aristotele indicava come sorgivi ( precedenti alla narrazione strutturata) sono per loro natura destinati a ritrovare costantemente questa primitiva , originale purezza e forza sorgiva.
Non sono generi eminentemente “scritti”, o comunque non scritti in modo tradizionale, come appunto si scrive “una storia” , perché ciò che conta non è tanto il cosa si racconta, ma il come lo si racconta. A volte può trattarsi di semplici canovacci , a volte possiamo invece trovarci di fronte a una selva di indicazioni talmente minute da parere ossessive.
Infine, si tratta di cinema “fisico”. Il dialogo conta sempre molto poco. Conta quello che vediamo accadere. L’Horror (in questo è simile al porno) è rimasto ancora “cinema muto” (si sentono più urla e rumori che discorsi).
Sempre dal punto di vista della sceneggiatura, tenete conto del fatto che l’Horror ( per origine e per storia) è racconto per frammenti. In altre parole, sono le singole scene (per esempio il modo in cui avvengono le singole uccisioni) ad essere dominanti sulla storia, non viceversa. La storia va costruita a partire dalle scene, non le scene dalla storia.
La stessa cosa vale del resto per il cinema comico: si tratta di fornire al comico situazioni che siano fonte di risate, a prescindere dalla plausibilità del racconto, tanto anche il racconto più strutturato e plausibile, in mano a un comico, verrà sempre e comunque trasgredito da una recitazione sopra le righe o fuori da ogni registro di credibilità psicologica e di coerenza narrativa. I veri comici sono anarchici per natura, devastano ogni ordinata scorrevolezza del racconto. Come ha detto in un’intervista Vicenzo Cerami, lo sceneggiatore di Benigni, “ a Roberto bisogna dare dei binari.” Cioè il lavoro dello sceneggiatore, in casi del genere, è precisare una situazione definita, uno spunto, una cornice, nella quale il comico possa sprigionare tutta la sua carica espressiva. Senza questo “binario” spesso la comicità si perde in totale insensatezza, non trova né radicamento, né misura, né tempi. Ma un testo troppo definito nei dettagli e nei dialoghi, può invece imbrigliare l’espressività del comico, avvilirne le qualità “sorgive”. Approfondiremo questo tema nella prossima lezione, che verterà appunto sulla differenza tra commedia cinematografica e cinema comico.
Torniamo all’Horror: questi stessi binari, queste situazioni forti di riferimento, come sceneggiatori non dovrete pensarli per l’attore, ma per il regista. Il più delle volte sarà il regista stesso a dirvi: “vedo una scena così… e un’altra così” e starà a voi metterle per iscritto e poi escogitare delle scene di raccordo che possano giustificare o comunque unire quei frammenti in una narrazione d’insieme che si preoccupi di conservare una qualche logica. Ma ponetevi comunque il problema, d’intesa con il regista, di escogitare altre scene “forti” sulle quali scandire il racconto nel corpo di un tessuto narrativo unitario, altrimenti alla fine si avrà un film squilibrato, in continua alternanza tra scene clou e scene di puro raccordo, costrette ad equilibrismi narrativi pur di dare una qualche parvenza di coerenza all’insieme.
Se viceversa, magari trasponendo in film un racconto o un romanzo ben strutturato, avvertite che le situazioni sono troppo poche, dovrete aggiungerne altre, oppure concentravi su quelle poche, ma curandole al dettaglio, in modo che possano sprigionare la massima potenza espressiva.
Un esempio.
Nel romanzo Shining di Stephen King, le situazioni potenzialmente paurose sono troppe per un film di due ore e alcune di esse (per esempio i cespugli del giardino-labirinto scolpiti a forma di animali che si animano ) non sono cinematografabili a meno che non si voglia rischiare un tipo di grottesco che può facilmente sfociare nel ridicolo. Stanley Kubrick dunque, nel film tratto da Shining, decide di ridurre drasticamente le situazioni e di sottolineare quelle che a suo giudizio sono le più forti. Vediamo a confronto il romanzo e il film in una di queste scene clou.
Nel romanzo, quando la moglie dello scrittore ha la bruciante rivelazione che suo marito sta impazzendo, veniamo sorpresi (da lettori) con una pagina identica a quella che legge la moglie del protagonista, pagina nella quale viene ripetuta all’ossessione un’unica frase: Il mattino ha l’oro in bocca.
Nel film di Kubrick non è la pagina la protagonista, ma la moglie stessa: la macchina stringe sulla sua espressione, sui suoi occhi dilatati , sulla sua bocca che si apre senza riuscire a prendere fiato. Di nuovo: si racconta la stessa cosa, ma le risorse espressive (la pagina stampata e l’immagine cinematografica) sono diverse e richiedono scelte stilistiche diverse.
Inoltre, anche in questa scena, è il clima d’insieme a rendercela “paurosa”. E’ l’andamento complessivo della narrazione, ad esaltarne il pathos. Si deve arrivare in un certo modo alla scena, perché possa funzionare al massimo… questa scena non deve semplicemente venire incollata alle altre o infilata in una ripetitiva quanto prevedibile alternanza tra scene forti e scene di raccordo, necessita di una adeguata preparazione drammaturgica.
E infine: la frase di per sé non ha nulla di orrorifico, è un banalissimo proverbio. Il fatto che lo scrittore sia sbroccato e abbia ripetuto all’infinito una frase comune ridotta a non senso, potrebbe anche essere uno spunto comico, se raccontata in un altro contesto e in altra maniera. La scena è molto difficile per un film horror: non c’è sangue, non c’è violenza, è statica, non accade nulla. Dobbiamo avvalerci del movimento di macchina, dell’interpretazione dell’attrice, della scenografia (il piccolo tavolo da lavoro sperso nell’immensità di un salone), della musica (e/o del silenzio) per rendere questa scena potente.
In una sceneggiatura horror le indicazioni sui movimenti di macchina, sui rumori di fondo, sulle ombre e le luci degli ambienti, sui dettagli più minuti degli spostamenti degli attori e del loro crescendo espressivo sono, fin dai primordi del cinema, estremamente più numerose e precise di quelle di una sceneggiatura di altri generi cinematografici.
In conclusione: in un Horror lo stile è dominante. E questo incide, eccome, sul lavoro di sceneggiatura. Anche se non vi si chiede altro che scrivere una traccia, dovete imparare a “vedere” la scena che descrivete. Dovete concentrarvi sul focus emotivo, ciò che secondo voi può meglio innescare una reazione di paura. Più le vostre indicazioni di sceneggiatura sono sintetiche, più devono essere precise e forti. Deve risultare sempre estremamente chiaro come, secondo voi, quella certa situazione può “fare paura”. Il regista sarà sempre libero di realizzare la scena in altro modo, ma il vostro suggerimento deve essergli comunque di stimolo. Di fronte a una pagina di sceneggiatura che non fa paura, il più delle volte accade che il regista (o il produttore) la cestinino e basta, ritenendola semplicemente inutile.
ESERCIZI – Essendo questa una lezione puramente teorica, non ho esercizi particolari da consigliarvi. Tuttavia sarebbe utile se, prendendo uno dei film sopra indicati, quelli più semplici ( tipo uno qualsiasi tra quelli delle serie horror anni 70/80) vi dedicaste a smontarlo per studiare la disposizione delle scene: quanto spazio viene dedicato al prologo di presentazione dei personaggi, a che punto compare il mostro (o i mostri), quali e quante sono lo scene splatter, in cosa si differenziano tra loro per non apparire ripetitive (sono semplicemente differenti o in un crescendo di efferatezza?), come vengono raccordate tra loro e in particolare: c’è un tema generale o magari un mistero che fa da tirante e filo narrativo? Viene svelato man mano o soltanto alla fine?
Anche se questa struttura narrativa sarà ricavata a posteriori, potrà comunque fornivi una buona base di confronto per l’andamento da dare al vostro racconto.
Se invece state già scrivendo una sceneggiatura horror (qualcuno di voi nei mesi scorsi mi ha inviato degli incipit dopodiché non è riuscito più ad andare avanti) va benissimo che cerchiate di precisare i personaggi e l’ambiente, ma poi, invece di procedere in modo ordinato, con un soggetto vero e proprio, procedete per frammenti: ideate “scene di paura”, anche slegate le une dalle altre, ripensatele poi in sintonia con i vostri diversi personaggi, e solo dopo tutti questi appunti sparsi, affrontate il problema della storia da raccontare e dei ritmi e della progressione da dare agli eventi.
La Poetica di Aristotele, o meglio la parte che ci è pervenuta, tratta soprattutto della Tragedia. I riferimenti alla Commedia sono sparsi un po’ ovunque e quasi sempre contrapposti per struttura a quelli della Tragedia. Ma c’è un altro genere, per certi versi intermedio, e cioè L’Epopea, o il racconto Epico, che risulta piuttosto difficile da interpretare nel testo di Aristotele, tanto scarsi sono i passi che ne parlano. Dico genere intermedio perché lo stesso Aristotele lo definisce così. Per esempio in riferimento all’Odissea, scrive: “ Il diletto che questa forma di intreccio produce è estraneo alla Tragedia e proprio piuttosto della Commedia” . Secondo Aristotele questo “diletto” è frutto di un diverso atteggiamento, nei confronti del pubblico, degli autori di poemi epici rispetto a quelli di componimenti tragici. “I poeti seguono gli spettatori e compongono secondo i loro gusti”.
Ne nasce un racconto antitetico: i cattivi vanno incontro a un destino tragico, mentre i buoni trionfano. Dunque: “soluzioni sdoppiate.”
Ma noi possiamo dire anche (indipendentemente da Aristotele anche se certe sue allusioni portano in questa direzione) che persino l’eroe vive sdoppiato. Prendiamo Ulisse. Sappiamo che la sua principale qualità è l’astuzia. In quanto tale è un personaggio da Commedia. Prima di tutto l’autore ne ha fissato la maschera, il carattere. Gli eventi che seguono servono a mettere in luce questo carattere: è infatti grazie alla sua astuzia che Ulisse conquista Troia ideando il cavallo, sconfigge Polifemo, resta immune dal canto delle sirene, si infiltra (travestito da mendicante) nella sua reggia per sconfiggere i Proci. D’altro canto, ciò non impedisce che nel corso del racconto Ulisse non sia spesso travolto dagli eventi e dal Destino: gli Dei interferiscono continuamente con la sua vicenda, per esempio lo respingono mentre si sta avvicinando a Itaca, facendolo naufragare. Ma anche gli altri personaggi gli danno filo da torcere: Circe è più ingannatrice di lui (è capace di trasmutare i suoi uomini in porci), Calipso lo “strega” con l’amore eccetera. Inoltre nella struttura del poema, ci vengono raccontate due storie in parallelo: le avventure vere e proprie di Ulisse, rievocate da lui stesso, e le sue avventure ricostruite dal figlio Telemaco che lo cerca e ne sente raccontare le imprese da altri. Ulisse è insomma al contempo soggetto attivo e passivo della vicenda, narratore e narrato, attore e agito. Conduce la vicenda come un personaggio della Commedia e ne viene spesso travolto come un personaggio della Tragedia.
Un’altra notazione interessante riguarda la struttura narrativa. Il racconto epico vive di una serie di episodi inanellati. In altre parole è condotto per frammenti (come le prime rappresentazioni comiche che non disegnavano una storia compiuta). “La poesia epica” scrive Aristotele “ è costituita di molte azioni”. In riferimento all’Iliade e all’Odissea, precisa che sono divise in parti, “ciascuna con la propria estensione” , ma d’altro canto i due poemi sono costruiti in modo perfetto perché queste singole parti sono momenti di “un’unica azione.” Se dunque l’Epopea ha una minore unità, tuttavia essa consente, rispetto alla Tragedia, uno sviluppo maggiore del racconto, perché il suo racconto non mira esclusivamente a raggiungere “il fine” . Se una Tragedia venisse strutturata come un poema epico, ne verrebbe fuori “un poema striminzito” oppure “una tragedia prolissa”. Insomma, la Tragedia, come abbiamo visto, ci presenta una vicenda nella quale i fatti sono necessari, consequenziali e sono anche selezionati: cioè raccontiamo soltanto i fatti che ci interessano per raggiungere il fine che ci siamo proposti (cioè il contenuto “elevato”). Quelli che chiariscono esemplarmente il focus del discorso che stiamo conducendo. Quelli in una parola, Importanti. Ciò non basta per un racconto epico. Il poema durerebbe troppo poco. D’altra parte, se dilatassimo il racconto tragico alle dimensioni di un poema, ne verrebbe un racconto sbrodolato: i fatti sarebbero troppo pochi per poter intrattenere a lungo il pubblico. Rallentarli o dilatarli intrattenendoci per troppo tempo su ciascuno di loro non è una soluzione efficace: si indebolirebbe la forza espressiva e prevarrebbe la noia. Il racconto epico si concede invece digressioni, mutamenti di tono, vicende collaterali e parallele, ritorni indietro, salti narrativi, alterazioni di ritmo, mutamento di soggetto (antagonista che diventa protagonista, protagonista a volte assente o semplicemente “evocato” dagli altri, eccetera). In termini moderni: Avventure. Le Avventure dell’eroe sono segmenti, singoli racconti nel racconto, episodi. Nel dipanarsi di queste Avventure, il protagonista agisce e subisce, patisce e crea patimenti. Ma la direzione del racconto, nel suo insieme, è assecondare i desideri del pubblico. La Commedia può tranquillizzare, ma anche scuotere le coscienze e creare scandalo. La Tragedia può farci riflettere, sublimare la sofferenza, consegnarci alla rassegnazione o suscitare indignazione contro l’ingiustizia. L’Epica è celebrativa, ma celebrando in apparenza l’Eroe e le sue Imprese, celebra invece la pura e semplice corrispondenza dell’autore e dell’opera alle aspettative del pubblico. Un pubblico consapevole di essere di fronte a un puro Spettacolo che non rimanda ad altro che a se stesso. Non “imitazione” della realtà, dei caratteri o delle emozioni, ma finzione assoluta.
b) James Bond
Per chiarire quanto detto sopra in termini moderni e spero a tutti comprensibili, prendiamo a modello i film di James Bond. James Bond, come personaggio, è un tipico personaggio da Commedia: le azioni si modellano sul suo carattere. Sappiamo che è abilissimo con le armi, è un guidatore spericolato, ha un incredibile successo con le donne, ha gusti raffinati, frequenta le case da gioco ed è imbattibile al tavolo verde eccetera. In ogni suo film ci sono situazioni, occasioni, in cui egli mostra queste sue capacità. In altre parole: tutto è dato a priori. Persino le attrezzature che gli vengono consegnate prima di una missione entrano a far parte, una volta nelle sue mani, delle sue qualità: che si tratti di un’auto con mitragliere o di una penna stilografica dagli effetti esplosivi, non succede mai che uno strumento consegnato a James Bond non venga usato nel film. Uno potrebbe chiedersi: ma i reparti tecnici dei servizi segreti come facevano a sapere prima ancora che iniziasse la missione che quei loro gadget si sarebbero rivelati utili? Domanda realistica, indubbiamente, ma insignificante dal punto di vista della Commedia. I gadget sono estensioni meccaniche delle qualità del personaggio e la vicenda deve mostrarne il completo dispiego. La vicenda non è altro che la messa in scena delle qualità (accessori inclusi) del protagonista.
Inoltre, il racconto, nei film di James Bond, procede per frammenti che sono vere e proprie vicende a se stanti, a cominciare dal celebre episodio d’inizio, già in piena azione, che è spesso un prologo del tutto sganciato dalla vicenda che segue, una sorta di film a sé, di film nel/prima del film. Ma anche il resto della narrazione è un susseguirsi di scene in cui si cambia di continuo paesaggio e ambiente, in una serie di episodi separati e rappresentati in scenari esotici sparsi per tutto il globo.
Allo stesso tempo, però il racconto nel suo insieme (il film dall’inizio alla fine) ha una sua scansione ferrea che inghiotte completamente il protagonista, proprio come un Destino: a partire dall’ufficio del suo capo a Londra (dove James Bond come un qualunque impiegato di concetto fa una corte discreta alla segretaria del capo, che in azienda è sempre saggio avere dalla propria parte), dopo una serie di inseguimenti/vacanze nei luoghi più spettacolari del mondo, la vicenda si conclude sempre in un gigantesco laboratorio clandestino. Qui James Bond (hanno fatto notare alcuni critici) non solo incontra il suo nemico (capo della Spectre o dell’organizzazione para-terroristica di turno), ma il suo nemico simbolico: il Lavoro di Fabbrica. Nei grandi laboratori infatti troviamo sempre un’imponente maestranza al lavoro, uomini in tuta (senza che sia mai chiaro se sono schiavi, tecnici d’alto livello, normali salariati o cosa). In altre parole (e sta qui il lato Tragedia del racconto) ogni volta James Bond , per quanto protagonista assoluto, si ritrova incasellato nella stessa identica vicenda a tappe: Impiegato Statale / Impiegato in Vacanza-Lavoro a spese della Regina cioè dello Stato/ Prigioniero e Fuggiasco dall’aborrita Fabbrica o Impresa privata, anzi privatissima, multinazionale, tanto tecnocratica quanto criminale. Un film di James Bond che non raccontasse questa storia/apologo, non sarebbe più un film di James Bond.
James Bond non potrà mai essere fino in fondo un personaggio Tragico, perché nella vita (imitata dalla Tragedia) gli eroi veri soccombono, mentre qui, e proprio per assecondare i sogni del pubblico, trionfano, devono trionfare. E inoltre l’eroe trionfa in quanto singolo, in quanto individuo contrapposto alla massa. Ciascuno degli spettatori deve sentirsi gratificato. Non è il Servizio Segreto (organizzazione di impiegati di Stato) né tanto meno l’Inghilterra a trionfare, è James Bond. Non un’entità collettiva, ma una proiezione dei desideri del singolo spettatore-medio.
Allo stesso tempo, l’effetto Catarsi è completamente assente. Alla fine il pubblico non si sente sollevato perché ha partecipato a un’emozione (felice/infelice) senza subirne i rischi, ma si sente gratificato perché ha ceduto se stesso (le sue aspirazioni) all’eroe, lo ha eletto suo simbolico rappresentante/vincitore, per poi tornare più o meno rassegnato alla sua solita e normale vita da perdente. Il racconto epico contemporaneo, celebrando il Successo, non ne vanta affatto l’ipotetica “possibilità per tutti”. Si tratta sempre del Successo Altrui (e di un Altro dalle qualità super-umane, il che ci esonera anche da ogni proposito di imitarlo). Da pubblico idolatriamo quelli che hanno avuto Successo, plaudendo al loro Successo, come se fosse un nostro (simbolico) Successo. Ma sappiamo sotto sotto che non esiste né il nostro, né il loro (non in termini assoluti almeno: gli idoli di massa infatti crollano uno dopo l’altro e di continuo, restano Idoli fin quando sono simulacri, crollano appena vengono percepiti come esseri umani). Celebriamo insomma il Successo come Finzione. L’uno non è separabile dall’altra.
Estraneo indubbiamente alla Tragedia, il film d’Azione alla James Bond (ma si potrebbe anche dire alla Rocky o alla Die Hard) non ha nemmeno la corrosività, la propensione alla satira dei costumi sociali e dei ruoli, propria della Commedia. I film d’Azione (anche i più apparentemente realistici) sono Finzione Assoluta, bi-direzionale: dallo schermo al pubblico, dal pubblico allo schermo. E quando si scrive, questo bisogna tenerlo sempre presente. Possiamo certo sforzarci di rendere più umano, più fallibile, il protagonista, possiamo rappresentare l’azione in maniera più realistica, ma protagonista e azione, in un film di ispirazione epica, sono pura invenzione favolistica. Non c’è il minimo rapporto (se non traslato) con la realtà, né con la verità, e spesso neppure con la semplice plausibilità. Questo genere di film d’azione, che è poi il mainstream dell’Action Movie, non ha bisogno di giustificare nulla, non richiede (come il Mistery per esempio) delle Spiegazioni. Accadono cose da pazzi per motivi risibili, detti o non detti, o per nessun motivo, ciò fa ben poca differenza. Non ci interessa perché una cosa avviene, ma il semplice fatto che avvenga. L’Azione si spiega da sola: accade dunque è. Se un’azione ha bisogno d’essere spiegata, allora non è un’azione da film d’azione.
Allo stesso tempo, come spiega Aristotele, nel racconto Epico le azioni non hanno alcun bisogno (come nella Tragedia) di essere concatenate. Possono anche restare ciascuna a se stante e non determinare conseguenze. Bruce Willis resta ferito cento volte in un film della serie Die Hard, ma ogni volta si riprende con maggiore vigoria di prima. Quell’irresponsabile di James Bond si mette a guidare un carro armato in piena Mosca, abbatte monumenti e interi palazzi solo perché deve raggiungere (o fuggire dal) nemico. A nessuno frega niente di sapere se nel palazzo abbattuto vivevano delle persone. Nessuno si irrita per il fatto che venga distrutta un’opera d’arte. Insensibilità etica? Può darsi. In realtà quest’insensibilità sussiste non perché gli autori del film abbiano rinunciato a proporre queste insensate distruzioni come metafora dell’atteggiamento (molto simile) dei Militari nei paesi occupati. Questa metafora, se anche ci fosse, non sarebbe avvertibile dal pubblico. Quando in una guerra accadono disastri di questa natura, subito suscitano polemiche e giusto sdegno. Come mai al cinema , di fronte a questo genere di film, non suscitano alcuna reazione? Perché si sa che è tutto finto, tutto gratuito, tutto falso, che nessuno si fa male, che nulla viene realmente distrutto, che è tutto assurdo e senza altra logica che quella dell’Azione fine a se stessa. L’etica non c’entra nulla. Non fa parte del racconto. L’etica esiste finché un’azione la si fa per un motivo , finché possiamo chiederci se questo motivo è giusto o sbagliato. Ma se l’azione è motivata solo da se stessa, non è proprio possibile porsi interrogativi morali.
Il pubblico tutto questo in qualche modo lo sa: sa che il film d’azione è pura finzione, sa che non va giudicato né sulla base della logica, né della morale. Sa che funziona così e pretende il rispetto di questa regola di base. Per riprendere Aristotele, il genere Epico dipende più di ogni altro dalle aspettative del pubblico e dalla capacità degli autori di soddisfarle. Certo, nel tempo queste aspettative possono sottilmente mutare. C’è una grande differenza tra l’uso consapevole e critico di strutture di genere che abbiamo ereditato dalla tradizione e che mantengono comunque una loro fissità (delle “regole” fondanti), e l’abuso degli stereotipi, cioè quel tipo di “ripetizione dell’identico”, di eterno “remake”, che spesso porta a riesecuzioni del tutto scolastiche e meccaniche, incapaci di adeguare il modello originale ai sottili cambiamenti della sensibilità collettiva. Questo secondo modo, è tra l’altro il modo più infallibile per tradire l’originale. Non c’è copiatore peggiore di chi non sa copiare. In questo caso, nel caso dei film d’Azione, ciò che si deve imparare a copiare, attraverso il modello e la sua re-interpretazione, è qualcosa che non ci appare sullo schermo, ma che lo attraversa: la consonanza con il pubblico.
ESERCIZIO
Studiate un film recente che cita esplicitamente il modello Bond , ma in qualche modo ne prende le distanze ponendo al centro del racconto il tema dell’Identità (tema che certo Bond non si è mai posto). Mi riferisco a The Bourne Identity (2002) di D. Liman. Esaminate nel carattere del protagonista e nella struttura narrativa, analogie e differenze dal modello Bond. Può essere molto utile per verificare come nel tempo certi elementi drammaturgici di fondo permangano, ma come anche debbano necessariamente cambiare, di fronte alla differente sensibilità non solo dell’autore, ma del pubblico, molto cambiato dagli anni '60 ad oggi.
Nella prossima lezione, dopo la pausa estiva, riprenderemo l’esame dell’Action Movie, che approfondiremo anche in esempi non riconducibili al Modello James Bond, e mettendolo a confronto con l’Horror. Cercheremo di capire come vivano/convivano, come si contrappongano e si mescolino, in questi due generi e nei loro personaggi, gli opposti della Tragedia e della Commedia.
14° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
a) Elementi comuni
1. Sia il Porno che l’Erotico pongono la sessualità al centro del racconto. Nel cinema di tutti i generi e di tutte le epoche esistono scene erotiche, nudi e rappresentazioni di rapporti sessuali, ma solo nel Porno e nell’Erotico queste scene sono il fulcro quasi esclusivo, sempre dominante, della narrazione. Il sesso non è semplicemente inteso come uno dei tanti momenti dell’esperienza umana, ma come il momento fondamentale, il più rappresentativo, sino a coincidere con il senso stesso dell’esistenza.
2. Porre il sesso al centro dell’esistenza umana costituisce motivo di scandalo per tutte le filosofie e ideologie politiche e/o religiose che invece considerano altri aspetti della vita come centrali: la lotta per la sopravvivenza, la fede, la legge e l’ordine sociale, il lavoro, il potere, la creatività artistica eccetera. La censura e il sistema delle proibizioni entrano in campo proprio per questo motivo: non si contesta tanto la rappresentazione della sessualità, ma il fatto di assumere la sessualità come centrale e dominante. Persino la cultura liberale può considerare eccessiva e riprovevole tanta considerazione, pur non proibendola per legge. Allo stesso tempo, come ben dimostrano gli scritti del Marchese De Sade, la sessualità come dominio non è necessariamente “libertina” (oggi diremmo “libertaria”) e dunque non incarna in quanto tale valori positivi o di avanzamento sociale, anzi può manifestare aspetti assolutamente retrivi sul piano del costume e della morale. Sia il Porno che l’Erotico hanno a che fare con il “dionisiaco” , cioè il lasciarsi andare all’ebbrezza, senza freni di sorta. Il limite di solito accampato è “tutto è lecito tra adulti consenzienti”, ma in realtà la sessualità tende ad autolegittimarsi come valore a sé, a prescindere da qualsiasi consenso.
3. In nessun genere cinematografico come nell’Erotico e nel Porno, la donna assurge a protagonista assoluta, non per scelta drammaturgica, ma come dato di fatto. Che il cinema di sesso sia “per soli uomini” e strumentalizzi la donna, ovvero che esso sia (come giudicano opposte scuole critiche) parte essenziale del movimento di liberazione della donna, è comunque indubbio che in esso il ruolo femminile non è di contorno alla presenza dominante maschile, casomai avviene il contrario. (Per inciso: nessuno si sognerebbe di sostenere che la rappresentazione di un rapporto omosessuale strumentalizzi gli omosessuali. E’ stata piuttosto una certa commedia apparentemente “innocente” a sfruttare il personaggio gay, riducendolo al ruolo di macchietta). Dal punto di vista della scrittura, questo è un punto estremamente importante. Si può certo scrivere un film Erotico con un protagonista maschio ed eterosessuale, ma va tenuto in debito conto che la presenza femminile lo schiaccerà fatalmente, e dunque è proprio questo che dovremo raccontare: la sconfitta del protagonismo maschile (studiatevi L’Angelo Azzurro di Joseph von Sternberg, 1930, e Lolita di Stanley Kubrick, 1962, e questo punto vi risulterà chiarissimo).
4. L’Erotico e il Porno rappresentano il più grande business della Storia del Cinema. Ciò può corroborare la tesi della Sexploitation, cioè l’idea che il precipuo ed unico scopo degli autori, dei produttori e di tutti i protagonisti di questi generi sia quello di fare quattrini. Però al contrario di quanto si ritiene comunemente, se uno non considera centrale il sesso e la sua rappresentazione, non può realizzare un buon film Erotico o Porno. Un autore cinematografico può esprimersi attraverso molti generi, e alcuni può affrontarli senza crederci particolarmente, per pura convenienza professionale. Ma per fare film di sesso, bisogna crederci. C’è un elemento profondamente vocazionale all’origine della scelta di fare questo genere di film, che non può venire facilmente rimosso. Se non ci siete portati, non provateci neppure.
b) Differenze
- Origini strutturali
Il cinema Erotico è dal punto di vista della scrittura drammaturgica chiaramente figlio dei generi classici: Tragedia, Commedia ed Epica. La narrazione è compiuta e organizzata in tre atti: presentazione dei personaggi, sviluppo e scioglimento finale. Molti film giudicati erotici all’epoca dell’uscita (ai due classici citati sopra, è d’obbligo aggiungere quanto meno Lulù di Pabst, 1929) sono oggi considerati puramente dei drammi. Come vengono considerati commedie a tutti gli effetti i film vaudvilleschi e “scandalosi” di Mae West, piuttosto che quelli del popolare filone cinematografico della commedia erotica italiana, originato da Malizia di Salvatore Samperi (1973), come anche il collaterale filone farsesco del tipo Giovannona Coscialunga, disonorata con onore di Sergio Martino (1973). Non sono stati ancora apparentati all’epica il già citato Emmanuelle o Histoire D’O dello stesso autore (1975) eppure la scansione del racconto a tappe, attraverso cioè una serie di esperienze e di prove sessuali, miranti al compimento di un’impresa, è una chiarissima riproposizione del meccanismo fondamentale del racconto epico. Tanto che si potrebbe definirlo cinema erotico-eroico.
Il cinema Porno è pre-narrativo. Affonda le sue radici nelle esibizioni oscene con o senza palcoscenico. La sua struttura è frammentata. Il frammento è il più delle volte autonomo e ha (in cinema) dei format variabilissimi: da pellicole di pochi minuti a film di durata normale, ma anch’essi, tranne pochissime e storiche eccezioni ,componibili e scomponibili a piacere, nei quali ogni segmento costituisce un numero fine a se stesso, tanto che può venire estratto e sistemato in tutto o in parte in un altro film senza che la cosa si noti particolarmente o dia minimamente fastidio allo spettatore. Come si è notato prima, anche in una compilation c’è un qualche criterio unificante, tuttavia nel Porno, soprattutto in quello contemporaneo, questo criterio è quanto mai labile.
- Fini espressivi
Il cinema Erotico è spessissimo di derivazione letteraria seppure in una trascrizione piuttosto libera (come ad esempio La chiave, di Tinto Brass, 1983, ispirato all’omonimo romanzo di Tanizaki,già portato sullo schermo nel 1959 da Kon Ichikawa) e vanta quasi sempre una fotografia particolarmente raffinata e in generale una cura estetica notevole. Si è detto che tutto ciò avviene al mero scopo di rendere “artistico” e dunque accettabile un film che altrimenti subirebbe una doppia censura: vietato ai minori (il che è dato per scontato) e relegato distributivamente al circuito dei cinema a luci rosse (il che è ben poco auspicabile). Questo può essere un motivo d’occasione, ma quello più profondo è che il cinema Erotico non vuole e nemmeno può prescindere dall’eleganza estetica. Si tratta eminentemente di un cinema di idee. Abbiamo già notato come esso esprima una filosofia di vita, nella quale il sesso riveste il ruolo dominante. Ma qui la sessualità viene descritta e indagata molto aldilà dell’accoppiamento, in tutti i suoi rituali: prima, durante e dopo l’atto sessuale in se stesso. Il Soddisfacimento (peraltro raro perché i film erotici si fondano soprattutto sull’ardua, quasi impossibile lotta contro l’insoddisfazione) è all’interno del racconto del Desiderio, che è cosa ben più complessa, al contempo fisica ed ineffabile: ha cioè a che fare con il gioco delle Passioni. L’atto sessuale non è un atto sessuale qualsiasi, più o meno istintivo e casuale, ma è pensato e scelto. Le scene “forti” in un film Erotico, sono tali in quanto rappresentano delle situazioni esemplari, che rivelano negli amanti un gusto e una fantasia del tutto particolari (vedi il burro di Ultimo Tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci, 1972). Un critico inglese che è stato anche sceneggiatore di film erotici e soft-core, David McGillivray, ha scritto: “ Diventa molto noioso cercare di inventare modi diversi per far fare l’amore alla gente. La puoi far contorcere sotto le lenzuola, nella vasca da bagno o sotto la doccia. Io queste variazioni le ho usate tutte.” Per uno sceneggiatore di film erotici il principale e difficile compito è quello di sconfiggere la ripetitività dell’atto sessuale, rendendo ciascun accoppiamento davvero unico e memorabile. Ci sono stati nel passato, degli autori porno di spicco che si sono assunti lo stesso obiettivo (ad esempio Gerard Damiano che si è sempre considerato, a ragione, un autore cinematografico, non un semplice pornografo), però l’unicità di un film erotico non sta tanto nella varietà delle posizioni, delle combinazioni, delle tecniche sessuali, nella scelta dei luoghi o delle circostanze bizzarre, ma nel rendere il singolo atto sessuale, adeguatamente collocato nel contesto della storia, simbolico di qualcosa che va aldilà dell’atto sessuale stesso. Nei film degli autori più consapevoli e di quelli unanimemente riconosciuti come Maestri (come lo stesso Bertolocci, Godard, Pasolini ) la Sessualità , proprio in quanto concepita come elemento centrale, diventa una metafora dell’intera esistenza, indagata nei più sottili risvolti psicologici e sociali, incluse le strutture di potere, le differenze di classe, di sesso,di età, di razza, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, l’esperienza del godimento e del dolore, la ricerca della felicità e quella del senso recondito della vita e della morte. Ecco allora che l’esemplare scena di sesso (quella per cui il pubblico accorre al cinema, tanto per essere chiari) deve corrispondere al tema generale del film, esprimerlo metaforicamente, e, dato che si tratta di narrazione per immagini, ambire a diventare un’Icona. Sceneggiare un film erotico di questo livello, richiede una buona dose di cultura, di esperienza e di immaginazione sessuali, ma soprattutto esige una sorta di ricerca sacra, in cui ogni atto diventa rituale e ogni rito diventa segno estetico.
Se il cinema Erotico tende alla Totalità e al Sublime, il cinema Porno tende invece al Dettaglio e al Corrivo. L’uso del Dettaglio è il contributo più importante dato dal Porno, fin dalle origini, alla grammatica del Cinema. Le prime riprese adottavano uno schema teatrale, mostrandoci totali d’ambiente, senza quasi movimenti di macchina e con una ridottissima alternanza di piani di ripresa. Ma il Porno aveva l’esigenza di mostrare un autentico atto sessuale e doveva per forza avvicinarsi perché il pubblico potesse vederlo bene. Gli organi sessuali vengono così sempre più isolati dal contesto e persino dai loro portatori. Diventando con il tempo sempre più ginecologico, il Porno è giunto a mostrarci l’atto da punti di vista impossibili alla comune percezione, e nella versione grande schermo, anche in dimensioni estranianti. Il presunto realismo estremo del Porno va a dissolversi in un’immagine puramente onirica, non percepibile nella vita reale. Dicevo che questo suggerimento passa dal Porno al Cinema in generale che nella scomposizione della figura umana e nel ritaglio dei particolari dall’ambiente trova una potente risorsa espressiva. Questo sviluppo era stato annunciato del resto, ben prima della nascita del Cinema, dal famoso dipinto del 1866 di Gustave Courbet, L’Origine du Monde, esposto al Musée d’Orsay di Parigi (cfr. immagine). Il dipinto e il suo titolo si tengono a vicenda. Il sesso (non la sessualità in generale, proprio l’organo sessuale) separandosi dall’insieme, rivela tuttavia il significato più universale che si possa immaginare, non solo l’origine della vita, ma quella del Mondo. Nel Porno l’idea del dettaglio, nata da un’esigenza di tipo pratico (mostrare da vicino), viene però riassorbita nell’atto pratico stesso. La sua valenza simbolica si perde, a causa della ripetizione meccanica, della trascuratezza stilistica e spesso della poca brillantezza degli interpreti anche sul piano della prestazione strettamente sessuale. Di questa Corrività il Porno attuale via Internet con tutte le possibili varianti del genere Gonzo, fa il suo punto di forza, nella fiducia che una realtà apparentemente senza filtri (la stessa di certi reality) possa offrire occasione di identificazione e protagonismo praticamente a chiunque.
La ricerca del Sublime può risultare ovviamente altrettanto ridicola, noiosa e irritante dell’espressione del Corrivo. E viceversa un filmetto amatoriale può sollecitare una riflessione sullo “stato delle cose” altrettanto interessante di quella di un film erotico d’autore. Lo scopo di questa lezione non è quello di esprimere una preferenza tra i due generi, ma quello di illustrarne semplicemente punti di contatto e differenze.
d) Un esercizio utile
Torniamo ai problemi di sceneggiatura, a partire da quanto abbiamo detto sull’esemplarità delle scene climax nell’Erotico e sulla funzione del Dettaglio nel Porno. La narrazione di una scena è sempre da un lato racconto di un momento magari non sempre esemplare, ma quantomeno esemplificativo, dall’altro “narrazione al dettaglio”. Noi facciamo accadere solo quello che è essenziale accada, facciamo dire solo quanto vogliamo far dire, mostriamo solo ciò che vogliamo mostrare. Noi, scrivendo per il cinema, anche quando presumiamo di voler rappresentare la vita reale, ne raccontiamo in realtà momenti particolari e frammenti. E quali tra i tanti possibili? Quelli più rilevanti e potenzialmente più espressivi. Non si tratta di istanti semplicemente “ripresi”, nel senso di “riprodotti” dalla vita reale, sono anzi prodotti, creati dal narratore e selezionati tra altri giudicati inessenziali, superflui o incongrui (tanto per fare un esempio corrivo, un eroe in genere è esonerato dall’andare al cesso). Il maggiore contributo del Porno alla sceneggiatura e alla regia ci viene rivelato in questo aneddoto raccontato dal grande sceneggiatore e regista Billy Wilder. Lo cito a memoria non ricordando l’esatta fonte documentaria, dunque scusate le imprecisioni. Racconta Wilder che dovendo affrontare la sua prima regia, si recò a chiedere consigli a uno stimato ed esperto regista. Questi gli mostrò un filmino porno. Wilder si ritenne preso in giro, ma il suo mentore gli precisò che il problema era centrare sempre il Fucking Point. Si tratta di un gioco di parole: What’s the fucking point ? Cioè: qual è il punto? o più letteralmente il fottuto punto, non dovrebbe essere una risposta, è una domanda. Ma la risposta sta proprio nel fottuto. Qual è il centro della messa in scena, il punto focale e dominante, in un film porno? L’atto del fottere. Se funziona quello, funziona la scena, altrimenti non funziona proprio niente. Questo può valere da insegnamento per il racconto cinematografico in generale: al centro di ogni scena dev’esserci ciò che conta, e perché conti davvero deve poter attirare lo sguardo e l’attenzione del pubblico, suscitandone l’interesse più istintivo e immediato. Un bravo regista deve saper cogliere al volo e dal vivo ciò che nasce sul set: se il dettaglio più espressivo e riassuntivo di una situazione, è per esempio l’espressione di un attore, va colta e focalizzata quella, anche se il programma delle riprese non prevedeva affatto un primo piano. Ma già in sede di scrittura e a prescindere da scelte di inquadratura che non ci competono da sceneggiatori, dovremmo evitare descrizioni troppo generiche o divagazioni su troppi dettagli, concentrandoci invece sempre sul nocciolo della situazione ed esprimendolo in modo che sia subito evidente alla lettura e non consenta equivoci di interpretazione. Un ottimo esercizio può essere, quando ci imbattiamo in una scena difficile che non sappiamo bene su quale elemento centrare, domandarci: come la scriverei se fosse un film porno? Sarà molto più facile capire dove dobbiamo sfrondare e cosa invece dobbiamo rimarcare con forza.
I GENERI MODERNI
IL GIALLO E IL NERO (1° PRIMA)
A) Definizione dei generi considerati
Al posto di giallo potremmo usare termini diversi, come: mistery, poliziesco, detective-story, ma si tratta di sfumature, il genere di riferimento è sempre quello e il nome che gli è stato dato in Italia , sulla base delle copertine di colore giallo della storica collana della Mondadori, ha una sua sintetica efficacia. Il giallo è un tipo di racconto che si fonda su un’indagine. Può essere un poliziotto a svolgerla, oppure un detective privato un investigatore free-lance, comunque il tirante narrativo è lo stesso: la ricerca del whodunnit, cioè della risposta alla domanda: “Chi è l’assassino?”
Al posto di nero potremmo usare termini diversi, come noir o thriller. Il termine italiano è di per sé efficace, il colore allude alla notte, al buio dell’anima, al lutto, al brancolare nelle tenebre, però in questo caso ha una storia meno lineare. Infatti il termine nero veniva usato nella critica letteraria del dopoguerra per indicare il racconto gotico o l’horror, solo più tardi, mutuandolo dai francesi (la Serie Noire di Gallimard) e dagli americani di Black Mask, finì per indicare un genere di racconto giallo a forti tinte e particolarmente crudo nella rappresentazione, il che però può ingenerare qualche confusione: molte detective story del genere letterario più propriamente detto hard boiled vengono considerate nei testi di storia e di critica del cinema come esempi di noir. Troverete dunque spesso citato Il Falcone Maltese film di John Houston del 1941 con Humphrey Bogart tratto dal romanzo omonimo di Dashiell Hammett come tipico noir, mentre a rigore non lo è affatto, è anzi una tipica detective-story. Dunque puntualizziamo, per differenza da quello che abbiamo definito giallo: il noir non si basa su un’indagine esterna e distaccata. Il protagonista può anche essere un detective o un poliziotto, ma le circostanze lo coinvolgono a tal punto che egli finisce per essere implicato nei fatti in quanto persona, non in quanto professionista. Viene insomma, tragicamente, ingoiato dalla vicenda fino a che essa non è più qualcosa che riguarda altri, ma lui stesso e il proprio fato. ( Un esempio, il film Seven di David Fincher, 1995). Ma nel noir classico, la polizia o l’investigatore non ci sono neppure. Il protagonista è un uomo comune che si trova, senza strumenti professionali, coinvolto in una catena di delitti. Il suo scopo non è tanto quello di scoprire la verità, ma di uscire vivo da un’esperienza da incubo, che ha regole del tutto sconosciute per lui. Il protagonista può essere un innocente, ingiustamente accusato di un delitto, oppure l’assassino stesso che cerca di farla franca. Una prima differenza fondamentale dal giallo classico, giustamente sottolineata da un grande autore di noir, James Hadley Chase, è che mentre il giallo classico tende alla serialità (il protagonista investigatore, si suppone abbia svolto e svolgerà altre inchieste, e dunque non può morire), il noir tende alla vicenda esemplare che nasce eccezionalmente e lì si conclude ( dunque il protagonista può morire ed è da questo elemento di tensione che la narrazione acquista pathos). L’interrogativo non è “ Chi è l’assassino?” (con il correlato “ E perché?”) , anzi il più delle volte l’assassino lo conosciamo subito, ma è “ riuscirà il protagonista a cavarsela?” (con il correlato “E come?”)
Entrambi questi generi, dunque, si fondano su una domanda. In altre parole, lo stato emotivo cui fanno riferimento ( e che intendono esaltare) è la curiosità. Nel giallo si tratta di una curiosità intellettuale e/o morale, nel noir si tratta di una curiosità viscerale.
Altra importante differenza. Nel giallo l’indagine, e dunque il racconto, prendono le mosse dopo che i fatti (il delitto originale) si sono verificati: si tratta dunque di ricostruire quanto è avvenuto prima. Nel nero, invece, i fatti vengono presentati mentre accadono, nell’istante in cui accadono, e spesso il delitto non costituisce affatto l’inizio della vicenda. Ad esempio nel noir classico, è spesso l’incontro con una donna (la Dark Lady, la Femme Fatale) a segnare l’inizio del movimento dalla stasi esistenziale del protagonista, al suo precipitare nel gorgo degli eventi , via via sempre più delittuosi. Mentre nel giallo il movente del delitto ci appare sconosciuto (e si tratta di ricostruirlo a posteriori) nel noir il racconto del movente precede il racconto del delitto.
Da quanto detto sopra emerge anche una differenza importante nell’impostazione stessa del racconto.
Nel giallo si parte da un evento, oltre che già avvenuto, di per sé misterioso e indecifrabile e si tratta di ricostruirne razionalmente la causa e i motivi, restaurando cioè l’ordine logico in cui si sono svolti i fatti.
Nel noir invece i fatti sono evidenti e di per sé chiari. Il protagonista non giunge al delitto per scelta razionale, ma trascinato dall’occasione e cioè dal caso. Il primo evento casuale comporta una serie di conseguenze a catena che avviluppano sempre più strettamente il protagonista.
In altri termini il giallo e il nero si trovano a dover equilibrare,nel corso del racconto, due elementi opposti.
Nel giallo si passa da un fatto apparentemente gratuito, misterioso e inspiegabile, fino ai limiti dell’assurdo, alla minuziosa spiegazione logico-razionale del fatto stesso.
Nel noir si passa dalla casualità dell’evento, alla ferrea , persino tragica, necessità degli sviluppi.
Nel giallo il protagonista agisce orientato dalla Ragione e domina gli eventi ricostruendone la dinamica. Il suo approccio ai fatti, cioè, è intellettuale e distaccato.
Nel nero il protagonista è dominato dal Fato, la dinamica dei fatti lo travolge. Il suo approccio ai fatti è emotivo e partecipe.
Nelle indagini di Sherlock Holmes, il delitto iniziale appare assurdo, spesso venato addirittura di sfumature sovrannaturali (Il mastino di Baskerville). La scena del crimine è caotica e stipata di tracce (Uno studio in rosso) che non sembrano portare in alcuna direzione definita. L’indagine discrimina, divide, analizza e lentamente ci porta alla geniale spiegazione che si manifesta sempre come estremamente logica, unica e incontrovertibile. Al principio c’è l’enigma, alla fine la soluzione. Inizio e fine sono termini opposti e contrari: tanto più inspiegabile e oscuro è il principio, tanto più argomentata e chiara dev’essere la conclusione.
Nei racconti neri di James Hadley Chase l’inizio ci appare invece chiaro, conosciuto, persino prevedibile. Non c’è praticamente nulla di insolito in quanto ci viene raccontato. Ma il primo guaio che giunge ad inceppare il normale scorrere degli eventi, ne trascina altri a valanga che generano conseguenze imprevedibili. Il realismo dell’inizio lascia il passo a un irrealistico accumulo di eventi nefasti, in omaggio al noto adagio “le sfighe non vengono mai sole” o “ al peggio non c’è mai fine” , o se vogliamo essere più filosofici, “le cose non vanno mai come vorremmo che andassero.” Anche qui si deve raccontare insomma tenendo presente che inizio e fine sono, devono essere, due contrari. La prevedibilità dell’inizio si rovescia nell’imprevedibilità della fine. L’energia si comunica tra poli opposti. Senza opposti non c’è scintilla.
B) Struttura e senso della narrazione
La struttura base del giallo è sempre la stessa:
1. C’è una vittima, un cadavere, al principio della storia.
2. Il protagonista/investigatore indaga . Si raccolgono indizi, si ascoltano testimoni, ci si perde in qualche pista secondaria e/o falsa.
3. Altri delitti complicano la vicenda e insieme circoscrivono la pista giusta.
4. Il caso viene risolto e l’assassino punito.
Da un punto di vista filosofico elementare potremmo dire che :
1. L’ordine sociale viene turbato da un delitto.
2. La razionalità si misura con il caos e cerca di riordinare gli elementi.
3. La ricostruzione razionale (ipotetica) viene confermata dai fatti, dalle prove, e l’ordine sociale viene ricostituito tramite la punizione del colpevole.
La struttura base del nero è la seguente:
1.C’è un vivente al principio della storia, che si trascina nella sua routine quotidiana.
2.Un incontro, un evento apparentemente casuale cambia direzione alla vita del protagonista.
3. Le conseguenze di quel primo evento ne trascinano altre a catena, che avviluppano sempre più strettamente il protagonista e ne minacciano la sopravvivenza.
4. L’accumulo straordinario di reazioni a catena, acquista la forma di una necessità esterna, di un vero e proprio Destino.
5. Il protagonista, cercando di sopravvivere, da un lato cerca di liberarsi dal Destino che lo intrappola, salvo scoprire che le sue stesse reazioni sono parte di quel Destino. Che lui si salvi o che lui soccomba, in ogni caso il finale era già scritto.
Dal punto di vista filosofico si potrebbe dire:
1. Irrompe il caos.
2. Non è la razionalità a condurci fuori dal caos, è anzi la totale immersione emotiva nel caos che ci stimola a reagire, per istinto di sopravvivenza.
3. C’è un solo ordine che si impone sull’apparente casualità degli eventi: è l’ordine governato dal Destino e dal Fato. Questo ordine non ha bisogno di essere restaurato perché domina e prevale sempre sulla storia collettiva e in particolare sulla vita del singolo.
C) Il giallo e il nero sono generi classici
Il giallo e il nero, come si evince da quanto detto sopra, sono due forme di racconto compiuto, che come tale comporta delle tappe (un inizio,uno sviluppo e una fine) e un equilibrio interno di struttura. E la loro stessa leva emotiva (suscitare e soddisfare la curiosità ) è molto diversa da quella dell’horror (suscitare paura e/o ripugnanza) , del comico (suscitare riso) dell’erotico (solleticare la libidine). La curiosità umana è un tipo di stato emotivo che ha a che fare con l’intelletto, più che con gli istinti cosiddetti ancestrali, ed è inoltre necessaria a qualsiasi racconto compiuto, anche quando il tema centrale non è un crimine: un racconto lo si segue perché si vuol capire”come va a finire”. Insomma: il giallo e il nero non sono generi riconducibili allo stadio pre-narrativo e non si basano sulla frammentarietà. Il giallo e il nero sono varianti particolari dei tre generi classici: commedia, tragedia ed epica.
Che il giallo sia strettamente legato alla commedia, lo si può vedere chiaramente da queste caratteristiche:
1. E’ fondamentale la creazione del personaggio/maschera dell’investigatore. L’investigatore precede i fatti. Apparentemente sembra il contrario (deve esserci un delitto perché l’investigatore entri in scena) ma in realtà lo scrittore costruisce i fatti in modo tale da consentire al protagonista di mostrare le proprie virtù e i propri difetti. Poirot si troverebbe molto a mal partito nella Parigi di Maigret o nella New York del 87° Distretto. Poirot opera in un ambiente che gli corrisponde. E i delitti che deve risolvere sono costruiti in modo tale da collimare perfettamente con la sua tecnica investigativa.
2. Nello sviluppo dell’indagine, la vicenda si complica per accumulo di indizi e di nodi irrisolti, che rappresentano altrettanti ostacoli che il protagonista deve superare, ricorrendo al suo acume, ma anche a una buona dose di mascheramento delle proprie intenzioni e dei propri ragionamenti. Sherlock Holmes, Nick Carter e molti altri investigatori giungono persino a travestirsi (proprio come personaggi da commedia) per potersi per esempio infiltrare in certi ambienti. E molti investigatori hanno accanto una spalla, che di solito non capisce gran che di quel che fanno: classico ruolo servile da commedia.
3. Il giallo classico alla Agatha Christie (ma non solo quelli scritti da lei) si conclude quasi sempre con una seduta collettiva nella quale l’investigatore svela compiutamente e pubblicamente (cioè di fronte alla società) quale sia stata la sua strategia occulta e insieme smaschera definitivamente il colpevole, che viene inchiodato “di fronte a tutti”. Anche questo è un tipico finale da commedia come abbiamo visto nelle precedenti lezioni. Inoltre l’investigatore, non si limita in queste sedute collettive a indicare l’unico colpevole, ma si prende un po’ sadicamente la briga di smascherare anche tutti gli altri presenti, denunciandone le ipocrisie e le debolezze morali. Dunque egli non si limita a restaurare l’ordine originale, suggerisce in qualche modo un’istanza di cambiamento dei comportamenti sociali, mostrando che il delitto del singolo è comunque parte integrante di un ambiente e che l’inevitabile punizione, se si vuole evitare che casi del genere si ripetano, deve accompagnarsi a una presa di coscienza generale, sociale: tutte le persone coinvolte debbano trarne un ammaestramento morale e cambiare attitudini.
Che il nero sia intimamente legato alla tragedia lo si vede da questi elementi:
1. Il protagonista è totalmente suddito dei fatti che l’autore gli fa piovere addosso. Nel suo dibattersi per trovare una via d’uscita, non è agente, ma agito.
2. I fatti si presentano in successione come manifestazione di un Fato, di un Destino in genere affliggente. Tutto pare nascere dal caso, ma le conseguenze sono talmente coincidenti, che assumono la forma di una necessità. (Ricordate la Statua di Miti? Cfr. la lezione XIII).
3. C’è un indubbio effetto catartico nel patire con il protagonista ( che sia esso una vittima innocente o un criminale braccato) confidando fino all’ultimo in una salvezza che temiamo impossibile, ma che speriamo possibile.
D’altro canto, per altri aspetti, giallo e nero sembrano scambiarsi le parti:
1. Il protagonista di un giallo (l’investigatore) tende ad essere un personaggio sopra la media, dotato di intelligenza e sensibilità superiori e spesso anche di un linguaggio (vedi appunto Poirot o Holmes) particolarmente forbito. In altre parole: un personaggio che parrebbe più caratteristico della tragedia che della commedia
2. Viceversa il protagonista del nero è spesso un individuo comune o di modesta estrazione, legato a passioni e a reazioni istintive e costretto a mobilitare risorse nascoste che spesso non presume neppure di possedere. E in questo sembra più caratteristico della commedia che dalla tragedia.
Abbiamo già considerato questa sorta di scambio trattando del film d’azione. In effetti sia il giallo che il nero riservano un ruolo di preminenza alla successione dei fatti e delle azioni e hanno l’andamento del racconto “eroico” perché il protagonista deve sormontare una serie di ostacoli in direzione della Verità (nel giallo) o della Salvezza (nel nero). A partire da una radice diversa, giallo e nero finiscono entrambi per strutturarsi secondo moduli tipici del racconto epico, che come abbiamo visto nella Lezione XIV sta a fondamento di ogni contaminazione di genere.
Epos in greco, significa né più, né meno che Racconto. L’espressione “racconto epico” parrebbe dunque una tautologia. In realtà ci indica che si tratta di storia narrata, cioè che il nostro racconto fonde in sé fatti storici (eventi reali) e leggende (eventi tramandati, ma non si sa se realmente avvenuti , e punti di vista/testimonianze contraddittori).
Il giallo, in quanto ricostruzione logica dei fatti attraverso indizi e testimonianze, intreccia costantemente eventi reali e narrazioni più o meno verosimili di quegli stessi eventi.
Il nero ci presenta gli eventi come significativi ed esemplari, cioè come manifestazioni e tappe di un Destino coerente. Questo Destino costituisce la narrazione. In altre parole, i fatti non sono a se stanti, significano anche altro da sé: raccontano una storia. Il noir, tra l’altro, usa più frequentemente di altri generi la voce fuori campo: è spesso il protagonista stesso a raccontarsi e a trarre un bilancio della propria esperienza. Anche il nero dunque intreccia strettamente fatti e narrazione/ricostruzione del senso profondo dei fatti stessi.
Se invece della parola “epico”, usiamo la parola “avventura” troviamo un’ulteriore specificazione. Deriva dal verbo latino advenire che significa arrivare. In altre parole, il finale ha una grandissima importanza. Tutto ciò che accade acquista senso perché perviene a un finale, anzi proprio a quel finale, non un finale qualsiasi. Senza un finale, la nostra storia resta incompiuta. E il finale deve risultare tanto sorprendente quanto coerente. E’ questo finale ad ordinare gli elementi del racconto. Insomma: sia nel giallo che nel nero la narrazione va condotta dal punto di vista del finale.
Vediamo ora come.
D) LA FUNZIONE ORDINATRICE DEL FINALE
L’ordine reale dei fatti in un delitto perfetto è questo:
1. Qualcuno ha motivo di uccidere un’altra persona.
2. Programma il delitto nei dettagli.
3. Si assicura un alibi.
4. Esegue il delitto.
Come corollario: può seminare sulla scena del delitto falsi indizi, tali da portare la polizia sulla pista sbagliata.
Questo è l’ordine in cui vediamo accadere le cose, prima dell’inchiesta, nei telefilm del Tenente Colombo. Li esamineremo nella seconda parte di questa lezione, ma come eccezione che conferma la regola. Nel giallo classico infatti il pubblico non conosce l’assassino fino alla fine.
L’ordine narrativo di un giallo classico non è affatto quello reale in cui si sono svolti i fatti, ma è capovolto. Si parte dal delitto. Si valutano gli alibi. Si cerca di ricostruire la dinamica del delitto e si indaga sul possibile movente. Insomma, quando scrivete un giallo dovrete forzatamente procedere all’inverso rispetto alla cronologia reale dei fatti, cioè dalla fine all’inizio. Voi state cominciando a raccontare la storia dalla fine. Il vostro racconto è una ricostruzione a posteriori. Si parte dagli effetti, per individuare le cause.
Ma in pratica come si scrive un giallo? Molti scrittori amano condividere le difficoltà del detective e quindi cominciano a raccontare accumulando dei misteri e, pur avendo una traccia di soluzione in testa, preferiscono individuare lungo il percorso una spiegazione razionale e a volte persino l’identità dell’assassino, tra i tanti indiziati e possibili colpevoli. Per uno sceneggiatore cinematografico, questo procedimento è quanto mai sconsigliabile. Anzitutto c’è una maggiore esigenza di chiarezza nell’esposizione: il racconto cinematografico vive in un tempo molto concentrato e il pubblico deve poter cogliere con estrema precisione ogni singolo passaggio, perché non può tornare indietro a controllare e rileggere, e nemmeno può fermarsi a pensare perché se si distrae rischia di perdersi i nuovi sviluppi. In particolare, più indizi contrastanti accumulate all’inizio e più spiegazioni sarete costretti a dare nel corso e soprattutto alla fine della narrazione. Troppe spiegazioni (soprattutto verbali) sono terribilmente noiose in un film. In alcuni film tratti dai romanzi di Agatha Christie, (per esempio Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet, 1974) per rendere più vivaci queste spiegazioni, si è scelto di mostrare gli eventi in flash back: di ogni indiziato vediamo cosa aveva fatto e come si era mosso sul luogo del delitto. In questo modo l’azione annulla l’effetto noia, ma ne procura un altro, di tipo strutturale: il finale-spiegazione finisce per durare un terzo del film. Se consideriamo che un altro terzo se ne va per la presentazione dei personaggi, sempre molto numerosi in questo genere di gialli, e per il verificarsi del delitto, ecco che allora la parte centrale del film ne risulta molto contratta: in pratica lo sviluppo vero e proprio della vicenda, con tutte le complicazioni del caso, l’indagine del detective, la sua raccolta di prove e di testimonianze, eventuali nuovi delitti e colpi di scena … tutto questo dovrebbe venire compresso in mezz’ora. I film tratti dai gialli di Agatha Christie in effetti sono sempre più lunghi del normale (Assassinio sull’Orient Express dura 128 minuti). E la spiegazione finale, per quanto animata dalla rappresentazione, risulta spesso estenuante.
E’ evidente comunque che se siete chiamati a sceneggiare un romanzo giallo, avete già la storia a disposizione in tutti i dettagli e potrete limitarvi a scegliere quali approfondire e quali trascurare per non complicare troppo il racconto e per trovare il giusto equilibrio tra le parti. Ma se invece quello che dovete sceneggiare è un giallo originale, pensato da subito per il cinema , beh allora il modo migliore per farlo è avere perfettamente in testa come si è svolto il delitto e chi è l’assassino (cioè l’ordine reale dei fatti) prima di mettere mano alla scrittura del film (dove dovrete raccontare in ordine inverso). La scoperta dell’assassino, che è il finale del vostro film, deve essere una scoperta per l’investigatore e soprattutto per il pubblico, non per voi che scrivete il film. Non potete raccontare bene il film senza conoscere in anticipo questo finale.
Uno scrittore di gialli può cominciare il suo libro, tornare indietro, correggere delle parti, chiarirsi man mano le idee, fino a trovare un finale persuasivo e poi magari controllare e rivedere il tutto sulla base di quel finale. Se per questo lavoro ci mette un anno, nessun editore si scandalizza . Ma se uno sceneggiatore cinematografico impiega più di un mese a completare una sceneggiatura, difficilmente un produttore lo chiamerà un’altra volta. Ogni giorno che passa, per un film rappresenta un costo. Non potete certo pretendere di bloccare una produzione perché non avete ancora trovato la soluzione alla vostra complicata storia, per quanto attraente essa sia. Dovete assolutamente aver chiaro come va a finire per poter sistemare in ordine, e in un tempo di scrittura ragionevole, i singoli elementi e snodi del racconto. D’altro canto, non potreste proprio fare altrimenti, perché prima di scrivere la sceneggiatura dovrete in ogni caso presentare un soggetto in cui raccontate in breve la storia svelando molto chiaramente come va a finire e una volta che quel progetto viene approvato a quello dovrete attenervi. Poi vi toccherà lavorare sulla base di una scaletta davvero di ferro che conducendo all’unica soluzione giusta, logica e coerente, la sappia efficacemente occultare e insieme rivelare con dei segnali ben distribuiti nel corso del racconto.
Scrivere un giallo non è facile. Scrivere un whodunnit per il cinema è difficilissimo. Non provateci neppure se non avete una mente matematica, se vi da fastidio l’idea di lavorare entro una gabbia predeterminata, se non vi piacciono i giochi enigmistici. Anche un enigmista quando per esempio lavora a uno schema di parole crociate, parte dalla costruzione del finale, cioè dalle parole, trova gli incastri tra di esse e sistema gli intervalli (le caselle nere). Poi scrive le definizioni. Il pubblico si troverà invece di fronte all’esatto opposto: le definizioni e le caselle nere, gli incastri orizzontali e verticali, lo guideranno alla scoperta delle parole, cioè alla tavola compiuta e finale che corrisponde in realtà all’originale costruito in anticipo dall’enigmista.
In teoria questo non dovrebbe valere per il nero, dove raccontiamo la sequenza reale degli avvenimenti in ordine cronologico. Anche qui ci sono robuste eccezioni, cioè film tipicamente noir, veri classici del genere, che sono in realtà raccontati in flash back. Esamineremo la prossima volta queste eccezioni, valutando se anch’esse confermano la regola. Qui rimarchiamo un punto. Abbiamo detto che un nero racconta/rivela attraverso una sequenza di eventi, un Destino. Questo Destino chi scrive deve conoscerlo prima, non può trovarlo per strada. Prendete come esempio il recente e ottimo film noir Layer Cake di Matthew Vaughn , 2004 (uscito in Italia con il titolo The Pusher che purtroppo crea confusione con una serie di film omonima). Studiatevelo bene. Il film ci presenta un protagonista che fa un turpe mestiere, ma che è capace comunque di suscitare la nostra simpatia, tanto più se lo confrontiamo ai figuri da cui è circondato. Attraversa una serie sempre più intricata e pericolosa di peripezie e riesce in qualche modo non solo a cavarsela, ma a fare carriera, rivelandosi un vincente. Il finale lo coglie nel momento del suo trionfo, ma proprio quando pensiamo che la vicenda si sia conclusa, sbuca fuori un criminale da quattro soldi che lo fulmina a pistolettate. Dunque il finale è tragico. L’happy end era solo la falsa pista che ha assecondato la nostra speranza di salvezza mentre ci stavamo sempre più identificando con il protagonista, ma questa speranza (ora lo capiamo) contraddiceva l’evidenza (tragica) di un vicenda senza speranza alcuna. E qual è il Destino beffardo? Il protagonista ha eliminato pezzi più grossi di lui, mentre ha trascurato una figura che riteneva (ed era) minore. Usando una metafora, si potrebbe dire che il suo rivelarsi vincente contro i giganti, lo ha reso vulnerabile a un nano. Questo non è uno di due finali possibili, è l’unico finale rigoroso e coerente con quanto l’autore ci ha voluto raccontare. Anche qui, l’autore, nello svolgimento della narrazione, ha da un lato mascherato il finale tragico, dall’altro ce lo ha fatto presentire per tutto il film. Da dove deriva la nostra sorpresa? Che mentre per tutto il film abbiamo assistito a delle situazioni terribilmente rischiose da cui il protagonista è riuscito ad uscire indenne, sul finale abbiamo subito il meccanismo esattamente contrario: appena il protagonista ha assunto lo status di vincente, è stato ucciso.
Insomma anche qui è il finale che ci permette di dare ordine agli elementi della narrazione, alla successione dei fatti e al modo stesso di raccontarli: i fatti acquistano senso perché corrono verso quel finale, la scelta narrativa di rivelare e/o di occultare, la dinamica in crescendo delle singole situazioni, tutto ciò nasce e si sviluppa a partire dalla nostra idea di finale.
E) Il Realismo nel Giallo e nel Nero e l’esigenza di equilibrio narrativo
Apparentemente il giallo è più realistico del nero: i gialli si basano spesso su episodi di cronaca nera, ci presentano ambienti reali (il commissariato, la società criminale, il contesto sociale in cui maturano i delitti), ci fanno conoscere metodi d’indagine realmente in uso. Il nero invece tende a presentarci situazioni limite, marginali, tanto esemplari quanto rare ed estreme, sulle quali si può liberamente intervenire di fantasia, finendo nel puro racconto d’avventura. Ma le cose stanno davvero così? Nella vita, non ci capiterà mai di trovarci nei panni di Poirot o di Maigret, ma potrebbe capitarci benissimo di ritrovarci incastrati in una situazione senza apparenti vie d’uscita, di venire accusati di un delitto che non abbiamo commesso, o di venire scoperti per qualche colpa di cui siamo davvero responsabili, o di sentirci come burattini in mano al Destino. La cosa risulta ancor più evidente se consideriamo questi due generi non per singole storie, ma nell’insieme.
Il giallo. La narrativa gialla è dilagata negli ultimi anni. L’esigenza di ciascun narratore di dare una qualche originalità e riconoscibilità al proprio investigatore, ha prodotto innumerevoli personaggi di cui non è stato ancora neppure tentata una catalogazione sistematica: investigatori di tutte le epoche storiche, di tutte le razze e nazionalità, di ogni classe, ceto e categoria sociale, di tutte le età, di ogni genere di appartenenza/preferenza sessuale, di ogni tipologia fisica (dai giganti ai nani, dagli obesi agli anoressici) e psicologica (razionali, istintivi, grigiamente normali o psicotici), persino investigatori del regno animale (cani poliziotto, gatti e topi detective, eccetera). Se si considera che ciascuno di questi investigatori indaga su parecchi delitti, la rappresentazione del mondo che ci viene offerta dal giallo è di un universo in cui il delitto è una pratica più che comune, ma non per questo normalizzata, e in cui l’investigazione non è più un ambito professionale definito, ma un’attitudine diffusa. Inoltre in questo mondo la quasi totalità dei delitti risulta risolta e i colpevoli puniti secondo giustizia.
Nel cinema in particolare, l’esigenza di condensare la narrazione e di stringere i tempi della vicenda spinge da un lato ad isolare la vicenda crimine da ogni altra vicenda parallela o concomitante, dall’altro nell’attribuire al lavoro della polizia e degli investigatori una rapidità e una precisione da fantascienza: perizie, indagini delle scientifica, costosissime attrezzature, tutto viene messo all’opera e fornisce risultati praticamente istantanei.
Non c’è nulla di più fittizio di questa rappresentazione dello stato delle cose: qualsiasi banale statistica, e minima conoscenza delle procedure può smentirla.
L’universo del giallo è all’origine una pura e astratta convenzione. Il realismo nel giallo è fondamentale proprio per equilibrare questo assoluto non-realismo di base. Il giallo investigativo, fondandosi sulla ri-costruzione di una logica, è racconto eminentemente astratto. Ma siccome nessun racconto può risultare appassionante se ridotto alla sua pura struttura, ecco che il realismo diventa indispensabile nella costruzione dei personaggi, degli ambienti, dei moventi delittuosi e delle tecniche d’indagine. Il giallo va alla ricerca della verità come un matematico va alla ricerca della soluzione di un’equazione, ma per il lettore comune verità e realtà sensibile sono due termini coincidenti. Dunque raccontando un giallo, l’elemento astratto deve sempre venire equilibrato da un elemento contrario di concretezza.
Il nero. Anche questo genere si è sviluppato quantitativamente negli ultimi anni al di là dei normali standard di produzione. Il nero ci presenta un mondo perennemente sconvolto e sull’orlo del collasso in cui non ci si può più fidare di nessuno: la maestra elementare, la baby sitter, la vecchina, il timido vicino di casa, il bravo giovane di buona famiglia, le persone apparentemente più innocue e normali tra quelle che ci circondano, possono rivelarsi insospettabili portatrici di allucinanti sventure e di patologie caratteriali devastanti. Non è ovviamente questa la realtà prevalente del mondo, ma è tuttavia la realtà delle nostre ansie interiori, quel substrato di paranoia che sottende le nostre vite e che può venire risvegliato da eventi esterni, magari solo letti sul giornale, e che improvvisamente avvertiamo come possibili minacce anche per noi. Nella percezione del pubblico e prima ancora nella sua esperienza di vita, due sono gli elementi dominanti: la grigia ripetitività del vissuto quotidiano e la parallela sensazione della totale precarietà su cui si fonda questa apparente normalità. Essendo questi i temi prediletti del nero, appare evidente che il suo fondamento narrativo non sta nella messa in scena concreta di una struttura astratta, ma nel suo esatto contrario e cioè nella messa in scena simbolica (e dunque astratta) della realtà concreta delle cose (o meglio quella da noi percepita e temuta). In altri termini, il nero ha l’esperienza della realtà, il vissuto e le paure di ciascuno, per fondamento, e la strutturazione formale ne è il necessario contrappeso. E’ fondamentale che il caos che raccontiamo diventi un caos organizzato e regolato da una dinamica conseguente. Se tutto ciò che accade è insensato, come potremo mai identificarci con quanto accade al protagonista? Come potremo sentire la vicenda come possibile anche per noi?
In conclusione: entrambi i generi debbono per loro natura trovare al loro interno un equilibrio. Questa ricerca di equilibrio li porta a controbilanciare il loro fondamento con l’elemento contrario: quanto più un giallo è astratto tanto più necessita di realismo nella messa in scena, quanto più il nero è realistico tanto più deve trovare una sua struttura e una sua rappresentazione simbolica. Entrambi i generi si reggono su un gioco ben bilanciato degli opposti.
D) Un paio di modelli operativi per esercitarsi
Per il giallo.
Scrivete una scaletta particolareggiata di un delitto perfetto. Chi è la vittima , chi è l’assassino e quali sono le sue motivazioni. Come l’assassino attua il delitto. Come si garantisce un alibi. Come, eventualmente, semina falsi indizi in modo che il delitto venga giudicato dalla polizia un mero incidente oppure attribuito ad altri.
Costruite poi lo schema contrario. Il vostro investigatore (che dovrete caratterizzare molto bene negli aspetti salienti della sua personalità) comincia l’indagine. Conducetelo gradatamente alla verità nell’ordine contrario,cioè a partire dagli indizi, fino alla ricostruzione del movente. Attorno al nocciolo principale ( la sfida tra assassino e investigatore) sistemate gli altri personaggi. Se volete scrivere un giallo classico, questi altri personaggi devono avere avuto tutti un possibile movente per quel delitto e la possibilità teorica di averlo commesso. Se buttate giù questo primo schema pensando non a scrivere un romanzo, ma un film, badate (è un consiglio,non un vincolo) che i personaggi non siano troppo numerosi. Ricordatevi sempre che alla fine o nel corso del racconto vi toccherà spiegare tutto di tutti.
Per il nero.
Prendete come base un fatto di cronaca. Per esempio: una coppia è scomparsa, i loro corpi vengono trovati fatti a pezzi, infilati in sacchi di plastica e gettati in fondo a un burrone. Gravi indizi conducono la polizia a identificare il possibile responsabile in un loro parente, tra l’altro convivente. Appuntatevi tutte le prove, le evidenze, i dubbi, i testimoni coinvolti, riprendendoli dal giornale. Avrete così come base un autentico giallo, perché i giornali fanno la cronaca dei fatti solo dopo che essi sono avvenuti e seguono scrupolosamente il procedere delle indagini.
Adesso mettetevi a scalettare il vostro nero, capovolgendo quest’ordine. Provate a considerare colpevole il principale accusato e raccontate la sua storia. Per far questo dovrete necessariamente conferire al personaggio una psicologia credibile e rappresentarlo in un ambiente realistico, dunque ben documentato. Poi delineate per punti come ha concepito il delitto, come lo ha eseguito, come ha cercato di occultare i corpi. Sforzatevi di identificarvi in lui. Immaginate la sequenza dei fatti minuto per minuto. I fatti importanti e i personaggi coinvolti li conoscete già, sono lì sul giornale. Ma ora dovete approfondire anche i momenti morti, le più minute operazioni possono essere un’occasione di tensione, per esempio la necessità di procurarsi gli attrezzi per sezionare i corpi, le operazioni necessarie a rimuovere le tracce, un viaggio con due cadaveri nel bagagliaio,un rifornimento di benzina imprevisto, la sosta in un albergo. Cercate insomma di immaginarvi,dal punto di vista dell’assassino, ogni singolo momento. Quali difficoltà, quali imprevisti potrebbe aver attraversato? Oltre agli indizi che ha seminato sul campo, è riuscito ad occultarne altri? Quali azioni lo hanno incastrato? A quali altre potrebbe aggrapparsi per difendersi? Non abbiate paura di inventare fatti non documentati, se servono ad aumentare la tensione. Usate liberamente l’immaginazione, badando però a non debordare troppo dagli eventi essenziali della vostra scaletta.
Ma tutto questo non basta. Dovrete chiedervi: cosa voglio raccontare? La mera cronaca di un delitto oppure un caso esemplare di una condizione tragica? Se è questa seconda la vostra scelta, quella cioè più tipicamente nera, la cronaca potrà non bastarvi. E’ il Destino del protagonista che dovete mettere in scena . I fatti vi devono servire a rimarcare questo Destino. E questo Destino lo dovrete scegliere voi in anticipo: è il punto di vista dell’autore sulla vicenda narrata. La vicenda reale , nella cronaca, può anche non essersi conclusa affatto, ma voi una conclusione dovete prevederla e conoscerla in anticipo. Il protagonista muore o sopravvive? Scampa alla condanna o viene incastrato? Confessa o si intestardisce nella menzogna? Insomma le caratteristiche psicologiche del vostro protagonista devono corrispondere al finale. Un Destino infatti è insieme un percorso oggettivo verso un finale necessario e la natura soggettiva, intima di un essere umano.
Nella prossima lezione, esamineremo le eccezioni cui ho fatto riferimento e vedremo se confermano o meno le regole di massima qui indicate, e affronteremo un altro problema davvero esiziale sia per il giallo che per il nero: come evitare la prevedibilità, in due forme di narrazione che hanno una loro rigidità di struttura, ma che fondandosi sulla curiosità del pubblico e sull’effetto sorpresa, non possono assolutamente prescindere dall’imprevedibile.
18° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
LEZIONE XXV
I GENERI MODERNI (VII)
IL FILM STORICO
1. L’Histoire en travesti ovvero il Film in Costume
In questo popolare filone narrativo e cinematografico la Storia appare fondamentalmente come arredo. I personaggi sono travestiti da faraoni, da crociati, da cortigiani settecenteschi, ma la loro veridicità storica e psicologica non va molto al di là del vestito che indossano ( il costume), il loro ambiente è “di cartapesta”, la loro vita quotidiana sintetizzata in quadri coreografici di maniera. L’anacronismo ci colpisce solo quando è vistoso (un orologio al polso di un centurione romano, o i pali della luce su un campo di battaglia medievale), ma ci sono una quantità enorme di anacronismi che passano inosservati o che sono per tradizione tollerati (antichi romani con il ciuffo alla Elvis e la brillantina, donne preistoriche con bikini e calzari di pelle). Ci troviamo come a una festa in maschera: se avete scelto di travestirvi da sceicco, avrete un costume vagamente da beduino, vi sarete magari scuriti la pelle o annerito le ciglia, ma nessuno pretenderà da voi che per tutta la durata della festa parliate in arabo. Similmente nessuno si scandalizzerà se in un romanzo o in un film inventerete la figura di un detective d’epoca romana che raccoglie indizi ed elementi di prova e li analizza con la stessa scrupolosità di Sherlock Holmes. Non importa a nessuno, del pubblico, che la detection sia figlia della rivoluzione industriale e del metodo scientifico. Potrete anche raccontare una storia d’amore e di gelosia che faccia riferimento ai tipici problemi della famiglia borghese, proiettandoli inalterati in epoca pagana, senza che nessuno noti l’improponibilità della cosa. In questo genere di film, al fondo, noi diamo per scontato che i costumi attuali, il nostro modo di intendere e di vivere i rapporti sociali , il nostro modo di ragionare abbiano caratterizzato sempre il genere umano, siano rimasti eterni, come una sorta di legge naturale, indipendente dal mutare delle epoche storiche. In questi film non c’è bisogno di spiegare niente perché le relazioni tra le persone sono esattamente quali le conosciamo già, qui ed ora. Vengono soltanto rese più spettacolari, ricche, evocative, rivestendole di Storia. Può esserci egualmente un fondamento “storico” al nostro racconto (un Imperatore realmente esistito, un intrigo documentato dalla tradizione) , ma eviteremo di approfondire tutti quegli elementi specificamente d’epoca che comporterebbero nel film troppe spiegazioni o scostamenti da quanto consideriamo abituale. Un esempio: Il Gladiatore di Ridley Scott. Non c’è nulla nello spettacolo del Circo Massimo di storicamente autentico. Il pubblico sugli spalti (rigidamente inquadrato in epoca romana secondo criteri di ceto sociale) è lo stesso anonimo pubblico di massa che potrebbe assistere oggi a un concerto o a uno spettacolo sportivo. Reagisce a ciò che accade nell’arena con la stessa passività, corale e partecipata, dei moderni raduni di massa. Le azioni che si verificano sul campo, si susseguono secondo ritmi, dinamiche, colpi di scena spettacolari e continui, lontanissimi dal cerimoniale d’epoca ricostruito dagli storici. Questi film, come nel fantasy, inventano il passato ad uso e consumo del presente, ma a differenza del fantasy (che riesce a stupirci per la capacità di invenzione di razze, costumi, usi e linguaggi) si fa forte di tutti i luoghi comuni possibili e non immaginati: non c’è alcun bisogno di immaginarli, fanno parte , devono far parte, di un mondo visivo codificato e ben riconoscibile dal pubblico nei suoi tratti più vistosi ed esteriori. Gli attori vengono scelti indipendentemente dalla loro aderenza fisica all’epoca rappresentata: un eroe deve sembrare alto, non importa se all’epoca del personaggio l’altezza media era di un metro e mezzo. La dentatura dev’essere impeccabile, non importa se all’epoca quasi nessuno aveva la dentatura intatta, tanto meno splendente. La corrispondenza somatica conta ancor meno: noi non stiamo realmente raccontando Cleopatra, ma Liz Taylor nella parte di Cleopatra, e non importa a nessuno che l’attrice sembri egiziana neanche approssimativamente. Così nel Gladiatore, un’algida biondina del nord europa con un fisico da modella come Connie Nielsen può venire scelta per rappresentare una matrona romana, senza che il pubblico ne avverta la scarsa aderenza al ruolo. Anzi, mentre in un film di ambientazione contemporanea, si tende al massimo scrupolo realistico nell’attribuzione di un ruolo (al punto che De Sica rifiutò l’offerta di Cary Grant nel ruolo del protagonista di Ladri di Biciclette) , in un film in costume ogni presenza si integra perfettamente alle caratteristiche visibilmente finte della ricostruzione: tutto è décor, attori inclusi.
2. Il Film storico-documentario
L’istanza di Roberto Rossellini , nei suoi grandi cicli televisivi di storia documentaria degli anni 60 (come L’Età del Ferro e La presa del potere di Luigi XIV ) è totalmente, programmaticamente e anche polemicamente opposta a quella sopra esaminata. Il plot viene cancellato, a vantaggio di un proposito didascalico: quello di farci comprendere, attraverso una serie di scene indipendenti, cioè per frammenti esemplari, qual era la vita quotidiana nell’epoca rappresentata. Un cavaliere come sceglieva la propria armatura? Nessun dettaglio ci viene nascosto: dall’entrata in bottega alla scelta dei materiali, dalla discussione sul prezzo alla prova dell’armatura. Come si combatteva così bardati e con spadoni di quelle dimensioni? Rossellini ce lo mostra scrupolosamente e nulla ci sembra più lento, faticoso e antieroico, di un combattimento del genere, tanto che la stessa situazione può fornire lo spunto (ne L’armata Brancaleone di Mario Monicelli) per una scena irresistibilmente comica, tanto è lontana da quello che nel nostro immaginario “codificato” è un epico scontro tra cavalieri. Ma si può avere altrettanto scrupolo di precisione anche in film che non intendono essere didascalici, ma raccontare una storia. E’ nota la maniacalità di Visconti nella ricostruzione degli ambienti e degli stili di vita nei suoi film storici (Senso, Il Gattopardo, Ludwig). Per Visconti il passato va raccontato (neo realisticamente) secondo i codici propri dell’epoca narrata, non solo quelli d’arredo, ma anche quelli relativi ai rapporti sociali, all’emergere di particolari ideali politici, di scelte estetiche ben definite, al modo di intendere ed esprimere i sentimenti. Il fatto che i personaggi vivano e agiscano in modo diverso da noi, non ce li allontana affatto. La scelta di raccontare quel mondo che non è più, ci aiuta a riflettere su ciò che abbiamo perso, su come diversamente viviamo problematiche analoghe nella nostra contemporaneità e su come quel lontano passato ancora ci parli e ci influenzi profondamente. La Storia è in qualche modo la parte rimossa della nostra vita collettiva e individuale, l’eredità che ha contribuito a renderci tali e quali siamo e che abbiamo disimparato a conoscere e a distinguere in noi. Noi uomini contemporanei siamo fatti di passato, anche di quella parte che consideriamo morta e sepolta, ma che sopravvive nel nostro codice genetico, nell’organizzazione della nostra società, nelle nostre lotte civili e politiche, nelle sedimentazioni del gusto, nel nostro stesso linguaggio. Si tratta dunque di evidenziare nella narrazione il legame tra ciò che non è più e quanto continua ad esistere al di là e attraverso i cambiamenti. Solo considerando e rappresentando con estrema precisione il passato, possiamo attivare nello spettatore questo continuo raffronto, questo perpetuo ondeggiare tra stupore e abitudine, tra inattualità e permanenza, tra smarrito e ritrovato, tra sconosciuto e ri-conosciuto.
In questo genere di film, uno dei problemi fondamentali che lo sceneggiatore si trova a dover risolvere è dato dalla compresenza tra personaggi storici (di cui dobbiamo rispettare la biografia) e personaggi inventati (la cui biografia creiamo noi) e tra eventi storici reali (grandi battaglie per esempio, il cui andamento e il cui finale è segnato) ed eventi immaginati (cui siamo noi a dover stabilire un inizio, uno svolgimento e una conclusione). E’ in genere nel personaggio e nell’episodio inventato che l’autore può meglio esprimere il suo punto di vista, la sua interpretazione del periodo e delle vicende narrate e trovare insieme la necessaria distanza e libertà rispetto al dato storico. Il personaggio inventato è in qualche modo il mediatore, a noi vicino, che ci permette di rivivere il passato, essendone insieme partecipi e spettatori. Considerate ad esempio l’efficacissimo personaggio (del tutto inventato) di Nicholas Garrigan il medico scozzese del dittatore Idi Amin nel recente The Last King of Scotland di Kevin MacDonald (regista che proviene da un’esperienza di documentarista). Le ambiguità della discussa figura storica del tiranno sono meglio raccontate ed esplorate attraverso un personaggio fittizio, prima sedotto dal personaggio emergente di Idi Amin, poi suo smarrito complice e amico nei primi anni del potere e infine tragicamente consapevole non solo degli errori del leader africano, ma dei propri, nell’averlo investito di un’aura quasi mitica. Non si racconta in questo modo soltanto la storia di Idi Amin, ma anche quella dell’ambiguo rapporto delle potenze occidentali con lui. Nicholas Garrigan incarna il punto di vista dell’autore e insieme lo sguardo attratto e turbato di noi pubblico che alla conoscenza del personaggio e di quella pagina di storia recente, ci accostiamo. Va notato che anche nei film televisivi di Rossellini, il passato non si presenta da solo. La voce narrante, la struttura della narrazione per scene esemplari, l’ironia sottile e il distacco sempre presenti nella “messa in scena”, costituiscono anche qui un intreccio tra fiction e documentazione, cioè l’antecedente più chiaro e smagliante di quel genere oggi definito docu-fiction, in altre parole un equilibrato mix tra Storia e Interpretazione della Storia, tra Storia reale e storia narrata , tra testimonianza documentaria e sua ricostruzione nel tempo fittizio della narrazione cinematografica.
3. Il film storico-visionario
C’è un altro modo di raccontare il passato e cioè quello di rappresentarlo come totalmente altro dalla nostra esperienza, come qualcosa di irriconoscibile. Di questo passato ci restano soltanto rovine, frammenti, vuoti incolmabili. Se viaggiassimo indietro nel tempo e ricomparissimo in un’altra epoca, tutto ci sembrerebbe ignoto, indecifrabile, non solo i connotati esteriori delle cose, non solo la lingua, anche gli atteggiamenti, i costumi, i riti. Avremmo l’impressione di non ritrovarci nella realtà, ma in un sogno. E’ questo il punto di vista in cui si colloca Federico Fellini quando decide di trasferire sul grande schermo il Satyricon di Petronio. (Rimando per un esame più approfondito al saggio di Raffaele de Berti ed Elisabetta Gagetti “Fare un po’ come fa, appunto, l’archeologo”. L’antichità ambigua di Fellini-Satyricon contenuto nel volume a cura di Raffaele De Berti, Federico Fellini, Analisi di film: possibili letture, McGraw-Hill, Milano 2006).
Per Fellini, il mondo di Petronio “è un mondo perduto, scomparso, defunto. Un mondo totalmente estraneo.” Come un archeologo dissotterra il passato per ritrovarne solo frammenti enigmatici, così noi di fronte a un mondo che non è più, non possiamo che restare turbati dall’apparente mancanza di senso, o più esattamente dal nostro non sapere attribuire senso a ciò che vediamo. Ciò non riguarda soltanto l’aspetto visivo. Come possiamo dopo secoli di cristianesimo comprendere la mentalità pagana? Fellini fa un esempio: “ ci sfugge completamente il senso di un mondo nel quale si passava al botteghino e si acquistava un biglietto che dava il diritto di divertirsi con l’agonia di un proprio simile.” In verità questo esempio pare fuori bersaglio: Fellini stesso non ci ha raccontato la crudeltà del mondo di Zampanò e degli spettacoli da fiera in cui un pubblico pagante assisteva se non al sacrificio umano, certo all’esibizione impudica e umiliante della brutalità, della miseria, della degradazione? I jeek dei Freak Show che mangiavano topi vivi ed escrementi per la delizia degli spettatori non sono poi tanto lontani da noi. E il mondo (vero o fittizio che sia) degli snuff movies o degli spettacoli della morte dal vivo (corride, combattimenti di galli e di cani, cronache della morte in diretta TV) non è ancora ben vivo e presente? Eppure è vero che queste forme di spettacolo anche quando non ci appaiono deviate e degradanti, ci lasciano un profondo disagio e disturbo. Questo disturbo “etico” non ci coglie solo di fronte al “vero” (come guardando le fotografie delle torture di Abu Ghirba), ma persino quando è chiaro che si tratta di fiction (come nel film Hostel). Cioè simili rappresentazioni sono da noi considerate “estreme” e tutt’altro che normali (anche se ne produciamo in grande quantità). Nel mondo pagano invece si andava a vedere lo spettacolo della morte con la stessa serenità d’animo con cui oggi una famiglia va a vedere un film della Disney. Non è lo spettacolo in sé, è questa serenità a risultarci indecifrabile, incomprensibile, aliena. Altrettanto incomprensibile ci risulterebbe un concerto di musica dell’antica Roma. Ne abbiamo smarrito i codici. Possiamo egualmente riprodurla ed ascoltarla, ma non possiamo provare le emozioni che il pubblico del tempo ricavava da quella musica. In altre parole, più che l’insondabilità delle cose, siamo di fronte all’insondabilità del senso e delle emozioni. Perché allora non scegliere di raccontare proprio questo? Non dobbiamo cercare di colmare i vuoti, di spiegare, di dare strumenti al pubblico perché possa capire ciò che rappresentiamo, ma dobbiamo fare tutto il contrario: dilatare i vuoti, sottolineare l’ignoto e l’incomprensibile, porre il pubblico di fronte all’esperienza dell’estraneità assoluta. Alberto Moravia chiede a Fellini: “In che lingua parleranno i personaggi?” Fellini risponde: “In latino. Questo accentuerà il senso di estraneità.” E’ strano che nessun critico (forse qualcuno sì, ma non me ne sono accorto) abbia rilevato la stretta contiguità tra questa scelta di Fellini e quella di Mel Gibson nel suo film sulla Passione di Cristo (recitato in aramaico) e in Apocalypto (recitato in lingua Maya). Poco importa se il latino di Fellini, l’aramaico o la lingua maya di Mel Gibson siano usate con proprietà e pronunciate correttamente, quello che conta è che ci sono, devono risultarci, incomprensibili. Il problema diventa questo: come può il pubblico appassionarsi a due ore di spettacolo incomprensibile? Questa è la risposta che dà Fellini: “ In senso figurativo, cercherò di operare una contaminazione del pompeiano con lo psichedelico.” Nel suo saggio, Raffaele de Berti nota acutamente: “ E’ interessante ricordare, a testimonianza del clima culturale di quegli anni, che nel 1971 i Pink Floyd realizzarono un film-concerto con riprese diurne e notturne nell’anfiteatro di Pompei (Live at Pompei)”. In altre parole, il punto di vista onirico e visionario proposto da Fellini come finestra sul passato più remoto, è però radicato (e non potrebbe essere altrimenti) nella visionarietà tipica della sua epoca e del periodo in cui il film viene realizzato. D’altra parte questo vissuto visionario si fonda su una filosofia: quella dell’allargamento della percezione , delle porte dell’immaginazione, del fare esperienza di ciò che è al di là della nostra esperienza sensibile in stato di veglia o di lucidità. Anche in Mel Gibson la scelta visionaria si fonda su una filosofia: quella del delirio di onnipotenza, dell’indulgere alla violenza estrema vissuta come esperienza mistica. Se Fellini ci conduceva ad ogni passo verso la sessualità pagana (che pareva rinascere nell’esperienza hippie) , Gibson ci conduce verso lo spettacolo del sangue, l’ingiustificabile barbarie di un’epoca di guerra, prevaricazione e tortura, come la nostra attuale, ma che a differenza dell’attuale la esibisce senza sentirsene affatto colpevole. Se Fellini giudicava incomprensibile pagare un biglietto per assistere ad un’agonia, per Gibson la sfida è proprio questa: vincere al botteghino grazie al puro spettacolo dell’agonia. In entrambi i casi, la spettacolarità (grandiosa) della messa in scena ci inchioda alle poltrone. La totale incomprensibilità del passato viene alchimisticamente trasmutata in esperienza visionaria emotivamente vissuta, secondo la sensibilità tipica del nostro tempo. Un antico romano dell’epoca di Petronio, o un maya dell’epoca di Apocalypto, di fronte a una simile rappresentazione del loro mondo, la troverebbero infinitamente più estranea di come la troviamo noi. Ma noi scriviamo e facciamo cinema per la gente della nostra epoca, non per gli antichi romani o per i maya. E’sempre il nostro punto di vista che mettiamo in scena, anche quando assumiamo un punto di vista “delirante”.
In tutti e tre gli esempi di cinema storico che abbiamo esaminato, per lo sceneggiatore la documentazione ha un’importanza decisiva.
Nel caso dell’Histoire en travesti, magari ci sarà utile per escluderla dalla narrazione, ma non potremo ugualmente prescinderne. Anche se questo filone ha conosciuto una certa rinascita letteraria negli ultimi anni, va comunque tenuto conto che la conoscenza storica diffusa è nel frattempo cresciuta. Oggi non è soltanto l’orologio al polso del centurione che può minare la credibilità del nostro racconto, anche sentire un faraone usare la parola “inconscio” può apparirci ridicolo. Una maggiore attenzione, pur in una cornice di cartapesta, è fondamentale. La soglia della percezione degli anacronismi si è alzata, e bisogna tenerne conto. Vanno limitati al massimo. E per poterlo fare, è indispensabile una buona conoscenza storica. Nelle scelte di racconto e di rappresentazione inoltre bisogna essere molto rigorosi : bisogna sapere se il nostro Attila è un puro film d’avventura in costume cui il personaggio storico fa da occasione e da pretesto, o se il nostro film intende invece essere la biografia storica (per quanto romanzata) del personaggio. Le due scelte non possono convivere: o l’una o l’altra. Molti insuccessi (come l’Alexander di Oliver Stone) sono dovuti in larga parte alla totale improbabilità e incoerenza della rappresentazione. In un film in costume che mira puramente all’avventura (come Troy) si possono ancora tollerare, in un combattimento corpo a corpo, balzi degni di Batman e dell’Uomo Ragno, ma in un film che ambisce anche e soprattutto ad essere ricostruzione storica e biografia di un grande personaggio questo genere di esasperazioni mandano in pezzi la credibilità dell’operazione.
Se scegliamo di narrare un film storico-documentario è evidente che l’attenzione dev’essere suprema. Le scene, gli oggetti usati, le abitudini di vita quotidiana, anche nel più didascalico di questi film non possono però limitarsi a far da cornice, dovrebbero avere un ruolo direttamente narrativo. Dobbiamo cioè affrancarli dalla funzione puramente decorativa e farli diventare uno spunto per quanto raccontiamo. Esempio: se fate una visita in un castello, noterete che i letti sono molto corti, e ciò non è dovuto solo all’altezza media delle persone, ma al fatto che (soprattutto i ricchi) dormivano quasi seduti. Gli storici spiegano che questo era dovuto a due fatti: 1. Le frequenti malattie bronchiali potevano causare soffocamento se si dormiva in orizzontale; 2. L’avvelenamento, principale strumento di delitto dell’epoca, era più semplice se la vittima se ne stava coricata e magari dormiva a bocca aperta. Ora: questi sono i dati. Da questi dati potete ricavarne una narrazione, rappresentando le situazioni di cui sopra (un soffocamento, un avvelenamento). Se invece nel vostro film a nessuno capita un “incidente” nel sonno, se nessuno neppure teme un simile incidente, è narrativamente piuttosto inutile mostrare gente che dorme seduta . Sarebbe mero didascalismo. Se lo spiegate (e non c’entra nulla con la vicenda) distraete il pubblico con una digressione superflua, se non lo spiegate, lo distraete ugualmente con una stranezza immotivata.
Nel modello storico-visionario il documento e il reperto storico-archeologico hanno una funzione anche più marcatamente espressiva: tutto ci appare misterioso, frammentario, unico. Un’arma ci affascina perché non riusciamo a prima vista a comprenderne l’uso, poi certo possiamo vedere come la si usa e quali effetti produce, eppure nella sua forma permane qualcosa di non puramente funzionale, qualcosa che attiene ad un’estetica che non conosciamo, a significati simbolici che non afferriamo, insomma: non dobbiamo aver paura di non spiegare perché quell’arma è fatta proprio così, dobbiamo invece guardarci dallo spiegarlo troppo. L’abbiamo scelta sulla base della documentazione, dopo averla vista magari su un bassorilievo, proprio perché ci è sembrata strana e misteriosa. E’ così che funziona davvero nei confronti del pubblico. In un racconto visionario non è affatto necessario che gli oggetti rispondano a criteri di utilità/funzionalità, sono funzionali e utili in quanto “segno”, proprio come enigmatici glifi rupestri. Possono venire accostati tra loro per analogia, come gli oggetti dei sogni, non necessariamente per coerenza logica o d’insieme o per uno scopo pratico.
Ultimo avviso. Nella storia umana il tempo non corre omogeneo, più ci si avvicina alla contemporaneità e più i cambiamenti nel costume, negli stili di vita, nel paesaggio, diventano frequenti. In un film storico-documentario un arco narrativo di venti anni determina necessari cambiamenti nei costumi, nelle scenografie, nelle abitudini. Questo però non vale allo stesso modo per tutte le epoche. Se il vostro film è ambientato nel tredicesimo secolo, non c’è grande differenza tra il 1220 e il 1240. Se il vostro film è ambientato tra la fine del XIX e all’inizio del XX , la differenza tra il 1890 e il 1910 è già molto più sensibile. Più ci avviciniamo alla nostra epoca e più, anche nelle conoscenze del pubblico, le differenze diventano notevoli: non possiamo vestire un personaggio allo stesso modo nel 1960 e nel 1980, gli oggetti che usa sono diversi, le abitudini quotidiane, i gesti di lavoro, tutto è cambiato e il pubblico lo sa, dunque il minimo anacronismo (anche linguistico) viene colto e diventa un elemento di disturbo. Per uno sceneggiatore contano molto anche gli eventi storici di rilievo del periodo considerato, siamo liberi di utilizzarli oppure no, ma dobbiamo conoscerli. E’ anche molto utile consultare libri di storia comparata : eventi lontani geograficamente o culturalmente dall’ambiente che stiamo raccontando, possono esserci comunque utili ad entrare nel clima complessivo di un’epoca. Infine molti spunti possono venirvi dai libri di storia del costume e della vita quotidiana. Dovete imparare a vedere vivere il vostro personaggio, sapere cosa mangia, come lavora e come passa il tempo libero, quali ambienti e situazioni trova abitualmente intorno sé e sulla sua strada. Senza figurarvi tutto questo, il vostro personaggio resterà una figura astratta, imprecisa e spaesata.
25° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
a) Le origini
La Poetica di Aristotele, o meglio la parte che ci è pervenuta, tratta soprattutto della Tragedia. I riferimenti alla Commedia sono sparsi un po’ ovunque e quasi sempre contrapposti per struttura a quelli della Tragedia. Ma c’è un altro genere, per certi versi intermedio, e cioè L’Epopea, o il racconto Epico, che risulta piuttosto difficile da interpretare nel testo di Aristotele, tanto scarsi sono i passi che ne parlano. Dico genere intermedio perché lo stesso Aristotele lo definisce così. Per esempio in riferimento all’Odissea, scrive: “ Il diletto che questa forma di intreccio produce è estraneo alla Tragedia e proprio piuttosto della Commedia” . Secondo Aristotele questo “diletto” è frutto di un diverso atteggiamento, nei confronti del pubblico, degli autori di poemi epici rispetto a quelli di componimenti tragici. “ I poeti seguono gli spettatori e compongono secondo i loro gusti”.
Ne nasce un racconto antitetico: i cattivi vanno incontro a un destino tragico, mentre i buoni trionfano. Dunque: “soluzioni sdoppiate.”
Ma noi possiamo dire anche (indipendentemente da Aristotele anche se certe sue allusioni portano in questa direzione) che persino l’eroe vive sdoppiato. Prendiamo Ulisse. Sappiamo che la sua principale qualità è l’astuzia. In quanto tale è un personaggio da Commedia. Prima di tutto l’autore ne ha fissato la maschera, il carattere. Gli eventi che seguono servono a mettere in luce questo carattere: è infatti grazie alla sua astuzia che Ulisse conquista Troia ideando il cavallo, sconfigge Polifemo, resta immune dal canto delle sirene, si infiltra (travestito da mendicante) nella sua reggia per sconfiggere i Proci. D’altro canto, ciò non impedisce che nel corso del racconto Ulisse non sia spesso travolto dagli eventi e dal Destino: gli Dei interferiscono continuamente con la sua vicenda, per esempio lo respingono mentre si sta avvicinando a Itaca, facendolo naufragare. Ma anche gli altri personaggi gli danno filo da torcere: Circe è più ingannatrice di lui (è capace di trasmutare i suoi uomini in porci), Calipso lo “strega” con l’amore eccetera. Inoltre nella struttura del poema, ci vengono raccontate due storie in parallelo: le avventure vere e proprie di Ulisse, rievocate da lui stesso, e le sue avventure ricostruite dal figlio Telemaco che lo cerca e ne sente raccontare le imprese da altri. Ulisse è insomma al contempo soggetto attivo e passivo della vicenda, narratore e narrato, attore e agito. Conduce la vicenda come un personaggio della Commedia e ne viene spesso travolto come un personaggio della Tragedia.
Un’altra notazione interessante riguarda la struttura narrativa. Il racconto epico vive di una serie di episodi inanellati. In altre parole è condotto per frammenti (come le prime rappresentazioni comiche che non disegnavano una storia compiuta). “La poesia epica” scrive Aristotele “ è costituita di molte azioni”. In riferimento all’Iliade e all’Odissea, precisa che sono divise in parti, “ciascuna con la propria estensione” , ma d’altro canto i due poemi sono costruiti in modo perfetto perché queste singole parti sono momenti di “un’unica azione.” Se dunque l’Epopea ha una minore unità, tuttavia essa consente, rispetto alla Tragedia, uno sviluppo maggiore del racconto, perché il suo racconto non mira esclusivamente a raggiungere “il fine” . Se una Tragedia venisse strutturata come un poema epico, ne verrebbe fuori “un poema striminzito” oppure “una tragedia prolissa”. Insomma, la Tragedia , come abbiamo visto, ci presenta una vicenda nella quale i fatti sono necessari, consequenziali e sono anche selezionati: cioè raccontiamo soltanto i fatti che ci interessano per raggiungere il fine che ci siamo proposti (cioè il contenuto “elevato”). Quelli che chiariscono esemplarmente il focus del discorso che stiamo conducendo. Quelli in una parola, Importanti. Ciò non basta per un racconto epico. Il poema durerebbe troppo poco. D’altra parte, se dilatassimo il racconto tragico alle dimensioni di un poema, ne verrebbe un racconto sbrodolato: i fatti sarebbero troppo pochi per poter intrattenere a lungo il pubblico. Rallentarli o dilatarli intrattenendoci per troppo tempo su ciascuno di loro non è una soluzione efficace: si indebolirebbe la forza espressiva e prevarrebbe la noia. Il racconto epico si concede invece digressioni, mutamenti di tono, vicende collaterali e parallele, ritorni indietro, salti narrativi, alterazioni di ritmo, mutamento di soggetto (antagonista che diventa protagonista , protagonista a volte assente o semplicemente “evocato” dagli altri, eccetera). In termini moderni: Avventure. Le Avventure dell’eroe sono segmenti, singoli racconti nel racconto, episodi. Nel dipanarsi di queste Avventure, il protagonista agisce e subisce, patisce e crea patimenti. Ma la direzione del racconto, nel suo insieme, è assecondare i desideri del pubblico. La Commedia può tranquillizzare, ma anche scuotere le coscienze e creare scandalo. La Tragedia può farci riflettere, sublimare la sofferenza, consegnarci alla rassegnazione o suscitare indignazione contro l’ingiustizia. L’Epica è celebrativa, ma celebrando in apparenza l’Eroe e le sue Imprese, celebra invece la pura e semplice corrispondenza dell’autore e dell’opera alle aspettative del pubblico. Un pubblico consapevole di essere di fronte a un puro Spettacolo che non rimanda ad altro che a se stesso. Non “imitazione” della realtà, dei caratteri o delle emozioni, ma finzione assoluta.
b) James Bond
Per chiarire quanto detto sopra in termini moderni e spero a tutti comprensibili, prendiamo a modello i film di James Bond. James Bond, come personaggio, è un tipico personaggio da Commedia: le azioni si modellano sul suo carattere. Sappiamo che è abilissimo con le armi, è un guidatore spericolato, ha un incredibile successo con le donne, ha gusti raffinati, frequenta le case da gioco ed è imbattibile al tavolo verde eccetera. In ogni suo film ci sono situazioni, occasioni, in cui egli mostra queste sue capacità. In altre parole: tutto è dato a priori. Persino le attrezzature che gli vengono consegnate prima di una missione entrano a far parte, una volta nelle sue mani, delle sue qualità: che si tratti di un’auto con mitragliere o di una penna stilografica dagli effetti esplosivi, non succede mai che uno strumento consegnato a James Bond non venga usato nel film. Uno potrebbe chiedersi: ma i reparti tecnici dei servizi segreti come facevano a sapere prima ancora che iniziasse la missione che quei loro gadget si sarebbero rivelati utili? Domanda realistica, indubbiamente, ma insignificante dal punto di vista della Commedia. I gadget sono estensioni meccaniche delle qualità del personaggio e la vicenda deve mostrarne il completo dispiego. La vicenda non è altro che la messa in scena delle qualità (accessori inclusi) del protagonista.
Inoltre, il racconto, nei film di James Bond, procede per frammenti che sono vere e proprie vicende a se stanti, a cominciare dal celebre episodio d’inizio, già in piena azione, che è spesso un prologo del tutto sganciato dalla vicenda che segue, una sorta di film a sé, di film nel/prima del film. Ma anche il resto della narrazione è un susseguirsi di scene in cui si cambia di continuo paesaggio e ambiente, in una serie di episodi separati e rappresentati in scenari esotici sparsi per tutto il globo.
Allo stesso tempo, però il racconto nel suo insieme (il film dall’inizio alla fine) ha una sua scansione ferrea che inghiotte completamente il protagonista, proprio come un Destino: a partire dall’ufficio del suo capo a Londra (dove James Bond come un qualunque impiegato di concetto fa una corte discreta alla segretaria del capo, che in azienda è sempre saggio avere dalla propria parte), dopo una serie di inseguimenti/vacanze nei luoghi più spettacolari del mondo, la vicenda si conclude sempre in un gigantesco laboratorio clandestino. Qui James Bond (hanno fatto notare alcuni critici) non solo incontra il suo nemico (capo della Spectre o dell’organizzazione para-terroristica di turno), ma il suo nemico simbolico: il Lavoro di Fabbrica. Nei grandi laboratori infatti troviamo sempre un’imponente maestranza al lavoro, uomini in tuta (senza che sia mai chiaro se sono schiavi, tecnici d’alto livello, normali salariati o cosa). In altre parole (e sta qui il lato Tragedia del racconto) ogni volta James Bond, per quanto protagonista assoluto, si ritrova incasellato nella stessa identica vicenda a tappe: Impiegato Statale / Impiegato in Vacanza-Lavoro a spese della Regina cioè dello Stato/ Prigioniero e Fuggiasco dall’aborrita Fabbrica o Impresa privata, anzi privatissima, multinazionale, tanto tecnocratica quanto criminale. Un film di James Bond che non raccontasse questa storia/apologo, non sarebbe più un film di James Bond.
James Bond non potrà mai essere fino in fondo un personaggio Tragico, perché nella vita (imitata dalla Tragedia) gli eroi veri soccombono, mentre qui, e proprio per assecondare i sogni del pubblico, trionfano, devono trionfare. E inoltre l’eroe trionfa in quanto singolo, in quanto individuo contrapposto alla massa. Ciascuno degli spettatori deve sentirsi gratificato. Non è il Servizio Segreto (organizzazione di impiegati di Stato) né tanto meno l’Inghilterra a trionfare, è James Bond. Non un’entità collettiva, ma una proiezione dei desideri del singolo spettatore-medio.
Allo stesso tempo, l’effetto Catarsi è completamente assente. Alla fine il pubblico non si sente sollevato perché ha partecipato a un’emozione (felice/infelice) senza subirne i rischi, ma si sente gratificato perché ha ceduto se stesso (le sue aspirazioni) all’eroe, lo ha eletto suo simbolico rappresentante/vincitore, per poi tornare più o meno rassegnato alla sua solita e normale vita da perdente. Il racconto epico contemporaneo, celebrando il Successo, non ne vanta affatto l’ipotetica “possibilità per tutti”. Si tratta sempre del Successo Altrui (e di un Altro dalle qualità super-umane, il che ci esonera anche da ogni proposito di imitarlo). Da pubblico idolatriamo quelli che hanno avuto Successo, plaudendo al loro Successo, come se fosse un nostro (simbolico) Successo. Ma sappiamo sotto sotto che non esiste né il nostro, né il loro (non in termini assoluti almeno: gli idoli di massa infatti crollano uno dopo l’altro e di continuo, restano Idoli fin quando sono simulacri, crollano appena vengono percepiti come esseri umani). Celebriamo insomma il Successo come Finzione. L’uno non è separabile dall’altra.
Estraneo indubbiamente alla Tragedia, il film d’Azione alla James Bond (ma si potrebbe anche dire alla Rocky o alla Die Hard) non ha nemmeno la corrosività, la propensione alla satira dei costumi sociali e dei ruoli, propria della Commedia. I film d’Azione (anche i più apparentemente realistici) sono Finzione Assoluta, bi-direzionale: dallo schermo al pubblico, dal pubblico allo schermo. E quando si scrive, questo bisogna tenerlo sempre presente. Possiamo certo sforzarci di rendere più umano, più fallibile, il protagonista, possiamo rappresentare l’azione in maniera più realistica, ma protagonista e azione, in un film di ispirazione epica, sono pura invenzione favolistica. Non c’è il minimo rapporto (se non traslato) con la realtà, né con la verità, e spesso neppure con la semplice plausibilità. Questo genere di film d’azione, che è poi il mainstream dell’Action Movie, non ha bisogno di giustificare nulla, non richiede (come il Mistery per esempio) delle Spiegazioni. Accadono cose da pazzi per motivi risibili, detti o non detti, o per nessun motivo, ciò fa ben poca differenza. Non ci interessa perché una cosa avviene, ma il semplice fatto che avvenga. L’Azione si spiega da sola: accade dunque è. Se un’azione ha bisogno d’essere spiegata, allora non è un’azione da film d’azione.
Allo stesso tempo, come spiega Aristotele, nel racconto Epico le azioni non hanno alcun bisogno (come nella Tragedia) di essere concatenate. Possono anche restare ciascuna a se stante e non determinare conseguenze. Bruce Willis resta ferito cento volte in un film della serie Die Hard, ma ogni volta si riprende con maggiore vigoria di prima. Quell’irresponsabile di James Bond si mette a guidare un carro armato in piena Mosca, abbatte monumenti e interi palazzi solo perché deve raggiungere (o fuggire dal) nemico. A nessuno frega niente di sapere se nel palazzo abbattuto vivevano delle persone. Nessuno si irrita per il fatto che venga distrutta un’opera d’arte. Insensibilità etica? Può darsi. In realtà quest’insensibilità sussiste non perché gli autori del film abbiano rinunciato a proporre queste insensate distruzioni come metafora dell’atteggiamento (molto simile) dei Militari nei paesi occupati. Questa metafora, se anche ci fosse, non sarebbe avvertibile dal pubblico. Quando in una guerra accadono disastri di questa natura, subito suscitano polemiche e giusto sdegno. Come mai al cinema , di fronte a questo genere di film, non suscitano alcuna reazione? Perché si sa che è tutto finto, tutto gratuito, tutto falso, che nessuno si fa male, che nulla viene realmente distrutto, che è tutto assurdo e senza altra logica che quella dell’Azione fine a se stessa. L’etica non c’entra nulla. Non fa parte del racconto. L’etica esiste finché un’azione la si fa per un motivo , finché possiamo chiederci se questo motivo è giusto o sbagliato. Ma se l’azione è motivata solo da se stessa, non è proprio possibile porsi interrogativi morali.
Il pubblico tutto questo in qualche modo lo sa: sa che il film d’azione è pura finzione, sa che non va giudicato né sulla base della logica, né della morale. Sa che funziona così e pretende il rispetto di questa regola di base. Per riprendere Aristotele, il genere Epico dipende più di ogni altro dalle aspettative del pubblico e dalla capacità degli autori di soddisfarle. Certo, nel tempo queste aspettative possono sottilmente mutare. C’è una grande differenza tra l’uso consapevole e critico di strutture di genere che abbiamo ereditato dalla tradizione e che mantengono comunque una loro fissità (delle “regole” fondanti), e l’abuso degli stereotipi, cioè quel tipo di “ripetizione dell’identico”, di eterno “remake”, che spesso porta a riesecuzioni del tutto scolastiche e meccaniche, incapaci di adeguare il modello originale ai sottili cambiamenti della sensibilità collettiva. Questo secondo modo, è tra l’altro il modo più infallibile per tradire l’originale. Non c’è copiatore peggiore di chi non sa copiare. In questo caso, nel caso dei film d’Azione, ciò che si deve imparare a copiare, attraverso il modello e la sua re-interpretazione, è qualcosa che non ci appare sullo schermo, ma che lo attraversa: la consonanza con il pubblico.
ESERCIZIO
Studiate un film recente che cita esplicitamente il modello Bond , ma in qualche modo ne prende le distanze ponendo al centro del racconto il tema dell’Identità (tema che certo Bond non si è mai posto). Mi riferisco a The Bourne Identity (2002) di D. Liman. Esaminate nel carattere del protagonista e nella struttura narrativa, analogie e differenze dal modello Bond. Può essere molto utile per verificare come nel tempo certi elementi drammaturgici di fondo permangano, ma come anche debbano necessariamente cambiare, di fronte alla differente sensibilità non solo dell’autore, ma del pubblico, molto cambiato dagli anni '60 ad oggi.
Nella prossima lezione, dopo la pausa estiva, riprenderemo l’esame dell’Action Movie, che approfondiremo anche in esempi non riconducibili al Modello James Bond, e mettendolo a confronto con l’Horror. Cercheremo di capire come vivano/convivano, come si contrappongano e si mescolino, in questi due generi e nei loro personaggi, gli opposti della Tragedia e della Commedia.
14° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
L’argomento di questa lezione potrà apparire singolare per un corso di sceneggiatura cinematografica. Le regola hollywoodiana dell’ Happy Ending (cioè il Lieto Fine), e soprattutto il precetto secondo cui il business cinematografico non ha motivazioni di carattere espressivo, ma di Entertainment, cioè intende offrire al pubblico un’occasione di piacevole intrattenimento, evasione e divertimento, scoraggiano la produzione di Tragedie. Eppure se si considera attentamente la storia del cinema non si può non rilevare che è proprio la produzione media, che apparentemente non si propone altro fine che il risultato commerciale, ad essere contrassegnata da una serie infinita di flop, mentre quasi ogni volta che il cinema propone al pubblico una Tragedia, il successo è assicurato, non solo sul piano della vendita dei biglietti, ma anche su quello dell’apprezzamento critico, del successo ai festival eccetera. Ciononostante il luogo comune continua a prosperare: il racconto drammatico, originato dalla Tragedia, viene riconosciuto come inconfondibile marchio d’Autore, mentre gli altri generi, come la commedia, l’azione, l’horror, il musical, l’erotico vengono considerati a priori “commerciali” e spesso caratteristici di produzioni cosiddette di Serie B. Da dove trae fondamento questo pregiudizio? Anche questo sarà un argomento di questa lezione.
Ma cominciamo con il chiarire di cosa parliamo quando, in riferimento al cinema, parliamo di Tragedia. Facciamo degli esempi: i film di Clint Eastwood Mystic River e Million Dollar Baby sono chiaramente ascrivibili al modello Tragedia. Ma come per la Commedia, anche per la Tragedia, molte possono essere le sfumature di tono, di stile e di racconto. Rientra nella Tragedia il dramma sociale e/o psicologico di classici come Roma città aperta di Rossellini, Ladri di biciclette di De Sica, Fronte del porto di Kazan, o per citare esempi più recenti, Philadelphia di Demme, Le onde del destino di Von Trier, La Morte e la Fanciulla di Polanski (e ho citato apposta film estremamente diversi tra loro). Fa parte della Tragedia anche il drammone sentimentale, cosiddetto Strappalacrime (e dunque classificato tradizionalmente in un filone meno nobile), di Anonimo Veneziano di E.M.Salerno, Love Story di Hiller, Titanic di Cameron. Ne fa parte anche il dramma famigliare narrato con mano più discreta come La stanza del figlio di Moretti o Ricordati di me di Muccino. E per opposizione, anche un film come La Passione di Gibson che porta la Tragedia ai limiti del truculento. Della Tragedia è tradizionalmente fratello anche il Dramma Epico, come Apocalypse Now e Il Padrino di Coppola. E alla Tragedia si ispirano i film che trattano le biografie di personaggi illustri, come Toro Scatenato di Scorsese o il suo più recente The Aviator. Come si può vedere da questo sommario elenco, la Tragedia (almeno in senso lato) è dunque un genere più frequentato di quanto si pensi , anche se si stenta sovente a riconoscerlo come tale, perché i singoli film tendono tutti all’esemplarità, cioè ad apparire e ad apparirci come unici e dissonanti rispetto alla produzione corrente. Eppure sono film che molto più di altri, si fondano su regole di scrittura assolutamente ferree, fino all’implacabilità , e richiedono in genere nel narratore, sceneggiatore e/o regista, una totale , assoluta mancanza di pudore nell’uso, a volte persino cinico, dei “ferri del mestiere” , inclusi quelli più usati e abusati.
a) Le Origini
Anche in questo caso sarà utile cominciare da Aristotele, che nella sua Poetica, o almeno in quanto dell’opera ci è pervenuto, tratta diffusamente della Tragedia, delle sue origini, delle sue caratteristiche e della sua struttura di base. Sono talmente numerose e ricche di suggestioni le notazioni del grande filosofo greco, che ovviamente non ci è possibile esaminarle tutte. Qui ci limiteremo a quelle che possono fornirci indicazioni interessanti ai fini del nostro argomento (la sceneggiatura cinematografica e in particolare il disegno dei personaggi).
Per definire le caratteristiche della tragedia Aristotele usa questi termini:
1. azione di carattere elevato (con il termine “elevato” si intende superiore all’ordinario, moralmente esemplare, serio in contrapposizione al faceto proprio della Commedia;
2. azione completa e di una certa estensione (cioè non frammentaria, una storia narrata dal principio alla fine e con una consequenzialità rigorosa e puntuale, libera da ogni frettolosità narrativa e dunque, diremmo oggi, da un format troppo limitato nella durata) ;
3. di linguaggio abbellito ( cioè la parola ha una certa supremazia, gli argomenti vertono sugli interrogativi fondamentali dell’esistenza, i personaggi esprimono opinioni, ma anche l’aspetto tecnico e stilistico della messa in scena, cioè il linguaggio narrativo dell’autore deve rifuggire da ogni rozzezza).
Ciò spiega l’origine del luogo comune di cui si parlava sopra: cioè che i film (come i romanzi o i lavori teatrali) che si riferiscono alla Tragedia, ci sembrano più “elevati” , più seri e più degni di riconoscimento. Come ho ricordato nella precedente lezione, all’origine della rappresentazione scenica stanno i generi cosiddetti minori: spettacoli di musica e danze o di puri lazzi e sberleffi, che indulgono all’osceno, e mirano a suscitare ilarità, eccitazione o repulsione, insomma a sollecitare emozioni primarie. E’ con la Tragedia che nasce il racconto vero e proprio, la narrazione organizzata con un inizio, uno sviluppo e una fine. La Tragedia ci appare dunque come genere superiore, perché anche narrativamente più”completo”. Anche la Commedia ha avuto un’evoluzione in senso narrativo ( ne abbiamo parlato nella precedente lezione) , ma lo stereotipo della Tragedia come genere più “evoluto” e maturo è rimasto egualmente in noi ( e nella critica, la cui ignoranza in proposito è certo più ingiustificabile di quella del pubblico).
C’è poi un altro e fondamentale aspetto che, attraverso la natura dei personaggi tragici, rimanda al modo in cui il pubblico vive le emozioni, e di ciò si parla nel prossimo paragrafo.
b) I Personaggi Tragici
Può sembrare dalla classificazione Aristotelica sopra esaminata, che i protagonisti della Tragedia, persone così poco comuni, siano caratteri forti, veri dominatori degli eventi, invece è l’esatto contrario. Scrive Aristotele in uno di passi più difficili e più profondi della Poetica, spesso trascurato: “ I personaggi di una tragedia non agiscono allo scopo di rendere certi caratteri, ma assumono certi caratteri perché siano effettuate certe azioni. Le azioni sono il fine della tragedia e il fine è la cosa più importante di tutte. E se non è possibile che si diano tragedie prive di azione, ce ne possono essere invece senza caratteri.”
Per azione, occorre precisare, Aristotele intende un racconto attraverso i fatti, gli eventi. Di questi fatti ed eventi, il protagonista della tragedia è succube. Li vive come Destino ( le Onde del Destino, verrebbe da dire). La tragedia si fonda insomma su un paradosso: narra un’azione inattiva, cioè un’azione che il protagonista subisce. Egli non ne è attore, ma come sosteneva Carmelo Bene, è agito. I protagonisti apparentemente forti della Tragedia, sono in realtà l’esatto contrario. I fatti potrebbero in teoria prescindere da loro, cioè per usare le parole di Aristotele “può darsi tragedia senza caratteri”.
Se rileggete quanto abbiamo spiegato nella lezione precedente a proposito della Commedia, genere che per eccellenza non può esistere senza caratteri, perché nella Commedia i fatti e le azioni sono estrinsecazioni dei personaggi, la Tragedia è costruita su uno schema esattamente contrario: conta la storia (potremmo dire) , cioè quello che vogliamo fare avvenire, e i personaggi contano soltanto in quanto subordinati ai fatti.
Riguardo ai personaggi, scrive sempre Aristotele, cosa ci mostra la storia narrata? Il loro “cambiamento dalla infelicità alla felicità o dalla felicità all’infelicità”. Insomma i personaggi della Tragedia non possono e non devono cambiare i fatti, l’unico cambiamento da narrare è quello che i fatti, che avvengono indipendentemente da loro, determinano nella loro condizione emotiva.
Infine un passo davvero fondamentale è quello in cui Aristotele ci parla della “straordinarietà” di questi fatti. Comincia col dire che le azioni devono sorgere inaspettate per noi, però poi una volta in moto, si determinano necessariamente l’una dall’altra . E precisa: “ Tra i fatti che avvengono per caso, sembrano straordinari quelli che fanno pensare siano avvenuti a bella posta. Come la caduta della statua di Miti, in Argo, che uccise, cadendogli addosso, mentre la guardava, chi fu causa di morte dello stesso Miti. Fatti codesti che non par davvero siano avvenuti per puro caso.”
Ecco dunque spiegato cos’è un personaggio schiavo del proprio destino. Si verifica un tipico evento casuale ( una morte, una malattia) , che determina un profondo cambiamento in chi lo subisce (dalla felicità all’infelicità, nel caso) , ma il protagonista è tale che questo fatto a lui occorso non ci appare affatto casuale, ma diremmo con termine più moderno”predestinato”, ci può sembrare a volte, persino che il protagonista se lo sia meritato.
Il vero deus della Tragedia è l’autore. E’ lui a stabilire i fatti e gli eventi. E’ lui a forgiare i protagonisti prefiggendo loro un destino. Mentre nella Commedia è il carattere dei personaggi a guidare l’autore al racconto di fatti nei quali questo carattere possa meglio estrinsecarsi, nel racconto tragico il protagonista dipende totalmente dal tracciato che l’autore ha stabilito per lui.
Se dunque, nel senso comune, il burattino e la marionetta sono associati alla Commedia, in realtà sono i personaggi tragici i più manovrati, i meno autonomi, i più schiavi della volontà dell’Autore e della sequenza di eventi che l’Autore ha deciso loro di infliggere.
c) Il Fine della Tragedia
Torniamo ora al passo iniziale in cui Aristotele sostiene che nella Tragedia, il fine “è la cosa più importante di tutte”. ( E si potrebbe aggiungere che per l’Autore il fine giustifica i mezzi, e cioè ogni tecnica dev’essere spietatamente messa in campo purché il fine sia raggiunto). Ma qual è questo fine? E’ noto che per Aristotele il fine della Tragedia è “suscitando il terrore e la pietà, pervenire alla purificazione di tali affezioni.” E la famosa teoria della Catarsi. Per “tali affezioni”, Aristotele non intende la rappresentazione/imitazione delle emozioni, ma i sentimenti che proviamo nella vita reale. Per dirla rozzamente, il fatto che simili sentimenti vengano imitati e rappresentati su una scena “finta”, da un lato ce li fa rivivere, dall’altro ci conforta perché sappiamo che non sono reali e dunque possiamo in qualche modo partecipare all’emozione del protagonista senza soffrirne veramente e soprattutto senza patirne le conseguenze.
Questo è un altro motivo della segreta predilezione del pubblico (di noi pubblico) per la Tragedia. Una Commedia, come abbiamo visto, può divertirci, ma lasciarci anche degli interrogativi di non poco conto, per esempio sui ruoli sociali (quelli reali) che possono, dopo e al di là dello spettacolo, apparirci falsi, convenzionali e passibili di cambiamento. La Tragedia invece si interroga apparentemente sulle grandi e insolute questioni dell’esistenza, e dunque ci appare più profonda, ma in realtà lascia (nel suo stesso racconto) le cose inalterate, ci dice che esse nella loro ferrea dinamica non sono passibili di cambiamento. L’esistenza ci appare imprevedibile, ma poi segnata dagli eventi in modo deterministico e del tutto sottratta alla nostra volontà. Di fronte ai fatti non possiamo fare che altro che provare emozioni (felicità/infelicità), cioè Patire.
Questo patire, cioè un subire passivo in cui l’unica attività possibile è partecipare intensamente all’emozione provata, è la stessa condizione in cui si trova il pubblico che allo spettacolo assiste, e al quale può partecipare solo emotivamente. Non c’è dunque semplicemente l’effetto consolatorio della Catarsi (“dio mio quanto ho pianto, ma per fortuna era solo un film”) c’è nel dato oggettivo della presenza a uno spettacolo, un’identificazione naturale con protagonisti che come noi, subiscono e partecipano emotivamente, perché altro non possono fare.
Si è discusso molto e ancora si discute se sia davvero la Catarsi il fine del racconto tragico. Secondo molti autori, in realtà il fine è semplicemente suscitare quelle emozioni, che da pubblico, nella nostra stessa condizione di spettatori, ci permettono facilmente di identificarci con il destino dei protagonisti.
Non voglio sostenere con questo che certi drammi non ci aiutino anche a cercare di cambiare le cose. Se partecipiamo al dramma vissuto dal protagonista di Philadelphia, certo possiamo confortarci col fatto che non abbiamo perciò preso l’Aids, ma possiamo anche venire stimolati a comprendere lo stato d’animo e la condizione di chi è diverso da noi e possiamo imparare a solidarizzare con i malati di Aids. Dunque sarebbe sbagliata qualsiasi semplificazione che ci facesse pensare che la Commedia cambia la vita, mentre la Tragedia la riconferma, e che dunque la Commedia è progressista e la Tragedia reazionaria. Non è proprio questo il problema. Liberarsi dai luoghi comuni non significa precipitare in luoghi comuni speculari.
Il problema è che le due narrazioni , quella della Commedia e quella della Tragedia, nascono da un punto di vista opposto. Se scriviamo una commedia, è indispensabile partire dai caratteri. Se scriviamo una Tragedia, dobbiamo partire dai fatti. Starà poi alla nostra sensibilità di autori stabilire se la nostra Commedia intende essere sovversiva rispetto ai ruoli sociali, mostrandone l’inconsistenza, oppure (come accade in molte commedie) riconfermarli , mettendo per esempio in satira i comportamenti delle minoranze al solo scopo di irriderli. Starà alla nostra sensibilità di autori stabilire se la nostra Tragedia intende prospettare al pubblico l’ineluttabilità delle cose, oppure proprio a partire da questo vissuto di ineluttabilità, stimolare le emozioni e le idee per esaltare (come in Antigone) l’urgenza e la necessità di un riscatto e di un cambiamento radicale.
In entrambi i generi, l’autore ha a che fare con il necessario superamento dei propri pudori. Nella Commedia non bisogna temere di andare fino in fondo nell’accumulo degli equivoci e nella sagra dei mascheramenti/smascheramenti. Ma potete farlo anche restando “buoni”. Nella Tragedia ,molto più che nella Commedia, si devono fare accadere le cose meno augurabili, e non possiamo che essere “cattivi” nei confronti dei personaggi (e del pubblico).
Per fare un esempio celebre: è stato certo un trauma ben poco catartico, infliggere al pubblico infantile (e anche a quello adulto) la morte della mamma di Bambi. Che Bambi resti un capolavoro nella storia del cinema, non c’è dubbio. Ma la stessa Disney mostrò di considerarlo un errore, sotto il profilo pedagogico. E dopo quel film si usò molta maggiore delicatezza nel presentare ai bambini eventi traumatici, per esempio facendo morire il padre (come nel Re Leone), sacrificio psicologicamente meno sconvolgente di quella della madre. D’altro canto se il pudore avesse contagiato gli sceneggiatori di Bambi, magari suggerendo loro di fare riapparire la madre rediviva (come la nonna di Cappuccetto Rosso dal ventre del lupo), non solo la Tragedia sarebbe andata a farsi benedire, ma si sarebbe indebolita la forza espressiva del film.
Se non ve la sentite di uccidere la madre di Bambi, non mettetevi a scrivere Tragedie.
E’ di una crudeltà inaudita che la coraggiosa e leale pugile di One Million Dollar Baby venga non solo aggredita alle spalle dalla sua violenta, criminale e impunita avversaria, ma che vada addirittura a sbattere la testa contro lo sgabello incautamente sistemato sul ring dal suo allenatore. Ma questo snodo attua perfettamente l’insegnamento di Aristotele: l’evento casuale ( e cosa può esserci di più casuale e assurdo di uno sgabello sistemato sul ring al momento sbagliato) ci appare necessario, inevitabile, predestinato. Nel caso, nessuno lo ha meritato, né la giovane pugile, né il suo allenatore, però per tutto il corso della narrazione abbiamo visto l’allenatore cercare di dissuadere la giovane dal pugilato e ora possiamo concluderne che “si sapeva come sarebbe andata a finire, ma nessuno ha fatto niente per evitarlo.” Ne soffriamo doppiamente. E questa è la legge della Tragedia.
ESERCIZIO – Anche stavolta, come nella precedente lezione, l’argomento è troppo ampio per poter suggerire degli esercizi, ma anche questa volta vi raccomando lo studio di un film, cioè Kramer contro Kramer (1979) di Robert Benton. Il film non è una Tragedia a fosche tinte, ma esprime molto bene il tipo di Dramma per cui il cinema contemporaneo pare più portato . L’attore protagonista è lo stesso di Tootsie, cioè Dustin Hoffmann, e credo possiate trovare interessante vederlo alle prese con un copione di opposta scrittura. Il confronto tra i due film, può essere molto utile a farvi intendere quanto possa cambiare il disegno di un protagonista, e come sia necessariamente diverso il suo rapporto con gli eventi, in una Commedia e in un Dramma.
13° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
IL PRIVATO SOCIALE. Analizzeremo in questa lezione quegli ambienti domestici che ricoprono una funzione sociale: il salotto di casa e gli spazi comuni del condominio.
IL SALOTTO. E' l'ambiente domestico storicamente deputato ad accogliere i visitatori. Chi ha una certa età, ricorderà che un tempo questa stanza era considerata a tal punto riservata agli ospiti occasionali, che in certe famiglie la si teneva chiusa e sempre perfettamente in ordine, per non fare cattiva figura. Oltre alla rivoluzione degli spazi interni caratteristica delle case post-boom, che avevano meno stanze a disposizione, è stata la presenza della televisione (l'apparecchio televisivo) a cambiare radicalmente la natura di questa stanza, mutandola da luogo di rappresentanza della famiglia, in una sorta di teatro privato. Al grande tavolo che normalmente occupava l'ambiente, essendo spesso il salotto anche destinato a sala da pranzo, sono subentrati i divani e le poltrone orientati verso l'apparecchio televisivo.
La televisione è stata anche il medium che ha reso dominante, fin dagli anni 50, questo ambiente della casa con le prime sit-com. La tradizione era stata ripresa dal teatro, in cui il salotto era un ambiente sul quale davano tutte le altre stanze della casa, e sul quale si apriva la cosiddetta "comune", cioè la porta principale d'ingresso.
Dunque, non una stanza riservata, ma il centro stesso della casa, da cui tutti passano e in cui tutti i personaggi si fermano. Una stanza che a volte si apriva su un giardino o su una grande terrazza, per offrire una maggiore profondità e altre possibilità di movimento. Sarebbe infatti terribilmente monotono e ripetitivo fare entrare ed uscire i personaggi, a turno, sempre dalla stessa porta. L'autore del copione si trova in questo modo a dover creare occasioni e pretesti perchè i vari personaggi passino da una porta piuttosto che da un'altra. Dal punto di vista della scritture, si può dire che le porte sono più importanti della stanza in sè. Si tratta di pensare la storia attraverso una regia dei movimenti dei personaggi, che costituiscono il necessario contraltare alla relativa fissità delle posizioni tra personaggi che si intrattengono tra loro nella stanza. Anche se non vengono mostrati gli altri ambienti della casa, dovete immaginarvi una topografia dell'appartamento, in modo che con l'andamento della pièce sia reso trasparente al pubblico che quella porta è la porta d'ingresso, che quell'altra è della camera da letto, l'altra ancora della cucina e così via. La disposizione dei mobili era già qui, in teatro, orientata verso la quarta parete, cioè la parete invisibile, rivolta al pubblico.
Similmente, nella sit-com televisiva, campeggia in genere un grande divano centrale, rivolto verso noi spettatori, che in questo modo ci troviamo di fronte a una sorta di specchio: noi schierati sul divano, guardiamo altri personaggi schierati su un divano.
La prima accortezza di uno sceneggiatore è la stessa sopra ricordata: cercare di muovere i personaggi, facendoli entrare e uscire dalle porte laterali e di fondo, in modo da togliere fissità alla scena, che però per quanti sforzi si facciano rende comunque obbligati e limitati i movimenti degli attori e mai ci mostra la quarta e misteriosissima parete. Nelle sit-com più recenti si ha cura di rendere questo ambiente più vario e multiuso (guardate ad esempio Friends oppure Will and Grace) con angolo salotto, angolo cucina, insomma sezioni dell'ambiente che possono consentirci inquadrature differenti e meno fisse. In cinema, la quarta parete non può essere invisibile, perchè ciò renderebbe appunto troppo teatrale e dunque "innaturale" la messa in scena.
Una ripresa cinematografica in genere mostra gli ambienti a 360°. Anche in questo caso, è bene che pensiate la vostra stanza (che sia un salotto reale, o che sia ricostruito in studio) in modo che si presti a ritagliare nello spazio situazioni particolari, ad esempio un angolo in cui due degli ospiti di una festa possano parlare in privato, senza essere ascoltati dagli altri presenti, punti di fuga su corridoi o altri ambienti, non necessariamente divisi da delle porte. Più un ambiente è affollato più bisogna creare occasioni perchè il quadro d'insieme non soffochi i personaggi, consentendoci comunque di ritagliare per loro ambiti e possibilità di movimento che li isolino (anche se solo convenzionalmente) dagli altri. Uno degli errori che si possono commettere più facilmente in sceneggiatura è quello di mettere in scena un gruppo di persone senza aver chiara la gerarchia dei personaggi. Dobbiamo sempre poter distinguere visivamente i protagonisti su cui dobbiamo concentrare l'attenzione, dai figuranti e dalle comparse. Questo vale soprattutto nel caso di una festa o di un ricevimento, ma quando invece mettiamo in scena un ristretto gruppo di amici, è bene comunque considerarne attentamente i ruoli. La prima distinzione di base è tra il padrone di casa e gli ospiti. Questa differenza ormai si è fatta più sfumata di un tempo. Anche se la casa è di tizio, i suoi amici-ospiti possono essere disinvolti come se si trovassero a casa loro. Già questo però può darvi delle occasioni narrative, perchè pur nella famigliarità di gruppo, i personaggi sono diversi: può esserci l'ospite abitudinario per il quale è più ovvio che si consideri "a casa", ma può esserci anche quello invadente perchè maleducato, o quello curioso che trovandosi lì per la prima volta guarda dappertutto.
Riguardo al dialogo e alla distribuzione delle battute, tutti devono trovare il modo di interloquire, naturalmente nella giusta misura. Evitate lunghi monologhi del protagonista con tutti gli altri che si limitano ad ascoltare o intervengono solo per dargli ragione. Voi non state raccontando solamente il protagonista cui gli altri fanno da mero contorno, voi avete messo in scena un gruppo di amici. Se anche un personaggio in una determinata circostanza parla più degli altri o fa da centro della conversazione, non dimenticate mai che gli altri personaggi devono esprimersi o con le espressioni o con interlocuzioni che corrispondano al loro carattere. Non commettete l'errore di affidarvi solo al dialogo (e/o a un dialogo meramente funzionale). Ciò che si dice è figlio di ciò che si vede. In scena c'è un gruppo di persone differenti, con certe dinamiche tra loro, che non possono venire meramente delegate all'inventività degli attori, devono essere pensate dallo sceneggiatore: se una ragazza è semisdraiata sul divano, un ragazzo seduto sul tappeto schiena al divano, un altro appollaiato sul bracciolo di una poltrona, un altro ancora in posizione più isolata e discosta, uno sempre in movimento per darsi un contegno, questo genere di scelte possono rimarcare e identificare il carattere di ciascuno dei vostri personaggi. Voi dovete "vedere" la scena. E' sulla base di quello che si vede che si costruisce dialogo.
Non viceversa. Questo errore (cioè il viceversa) è comunissimo tra gli sceneggiatori (non solo di cinema, anche di fumetti). Si scrive il dialogo e si suppone che ciò che si deve vedere, vada di conseguenza. Sbagliatissimo nella comunicazione visiva. Non siamo alla radio, né stiamo leggendo un libro. Un gesto, un'espressione, una posizione, possono rendere superflua la battuta, oppure possono darle senso e vita.
Ma ciò che si vede, in cinema, viene sempre prima di ciò che si ascolta. Questo è uno dei motivi per cui quando un personaggio pronuncia una battuta particolarmente importante, nel cinema classico si stringe su di lui, non solo per sottolineare l'intensità della sua espressione, ma anche per escludere possibili distrazioni, per togliere dal campo visivo tutto ciò che può far perdere concentrazione al pubblico. Si tratta in genere di un momento di assoluta intimità (per quanto espressa) che viene isolata dal contesto sociale. Se invece lo stesso personaggio non sta solamente dando voce e sfogo ai suoi pensieri, ma si rivolge a tutti o a qualcuno in particolare, ecco che allora la scena (la posizione stabilita per i personaggi) deve consentirlo. Ci sono attori che tendono sempre a "parlare da soli", altri invece che hanno assoluto bisogno, per dare forza alla propria espressività, di rivolgersi a qualcuno in particolare, di guardarlo negli occhi, di stabilire una comunicazione diretta con questo o quello.
Magari voi non saprete ancora, mentre scrivete, quale attore interpreterà un certo personaggio, ma dovete avere ben chiaro chi è il vostro personaggio: un introverso? Un vanitoso? Un polemico per natura? Un chiacchierone? E dovete aver ben presente anche quali sono i suoi rapporti con le persone che ha intorno. Con qualcuno di loro ha un dialogo più diretto? Ne sta trascurando un altro, magari il suo migliore amico, perchè in quel momento gli preme di più conoscere un nuovo arrivato? Tutte queste dinamiche psicologiche sono il fondamento di un dialogo. E il fondamento di queste dinamiche è visivo, si appoggia sulla dislocazione nell'ambiente e sull'atteggiamento dei personaggi.
In un salotto vi troverete sempre, per le caratteristiche strutturali e storiche dell'ambiente, implicati in una dinamica pubblico-privato. Un film che vi consiglio caldamente di studiare, perchè di impianto teatrale, ma in forma quanto mai cinematografica, è Festa per il compleanno del caro amico Harold (The Boys in the Band, 1970, di William Friedkin). Prima opera Hollywoodiana sull'omosessualità, questo film al di là del tema, può offrirvi un esempio perfetto di narrazione corale (nel primo tempo) cui segue (nel secondo) un approfondimento drammatico dei singoli (spesso isolati e al telefono) e illustrarvi nel modo migliore come si possa dare continuamente dinamica ad un interno con terrazza, attraverso i differenti e distinti ruoli dei personaggi, il loro comparire e uscire di scena, il loro essere centro o margine della conversazione, senza che nessuno venga relegato a mero contorno.
b) IL CONDOMINIO
Gli spazi abitativi comuni, pianerottoli, scale, atrio d'ingresso, portineria, cortile di casa, erano nel cinema italiano del dopoguerra ambienti assolutamente fondamentali.
La famiglia viveva all'interno di un contesto collettivo. Non la si mostrava isolata, conoscevamo anche i suoi vicini, attraverso gli spazi comuni del palazzo. Gli ultimi condominii del cinema italiano datano dai tempi di Fantozzi che vive in un palazzone disumano, ma che già concentra la sua attenzione più sui colleghi di lavoro che sui vicini di casa. Si segna in questo modo un passaggio storico: dal condominio comeluogo di vita in comune, al condominio come coabitazione di assoluti sconosciuti, ciascuno rinchiuso nella privacy del proprio appartamento. Dopo di che, l'ultimo e inevitabile passaggio, è stato segnato nel cinema italiano, dalla scomparsa degli spazi comuni. I personaggi vengono mostrati già nel loro appartamento. Magari c'è un location shot dove si mostra il palazzo in cui abita il nostro protagonista, ma non lo vediamo mai fare le scale, incontrare dei vicini, ritirare la posta, se non quando è narrativamente funzionale al personaggio stesso, e non per raccontare il suo contesto sociale.
Questa ormai consolidata abitudine può rappresentare un colossale errore se per esempio dovete scrivere un film o un film tv ambientato negli anni 40 o 50, dove questo concetto della privacy non esisteva e dove dunque il contesto abitativo va raccontato per forza. Ma può rappresentare un limite anche se raccontate un film nell'epoca attuale. Il condominio si presta ancora e non poco alla narrazione cinematografica. Basti citare La Comunidad (di Alex de la Iglesia, 2000) o Rec (di Paco Plaza e Jaume Balagueró, 2007) entrambi ambientati in un grande condominio.
Sono film spagnoli e può anche darsi che in Spagna sopravviva più che da noi il senso del condominio come spazio collettivo. Può anche darsi però che il nostrocinema abbia nel tempo, consapevolmente o meno, sposato un certo ideale di vita piccolo-borghese che rifugge dall'idea di raccontare il "popolo" e nemmeno le sopravvivenze di costumi "popolari", perchè è indubbio che anche in Italia in un condominio popolare, si instaurano tuttora rapporti più stretti con i vicini di casa che in un palazzo borghese. D'altra parte, nei film americani gli spazi comuni, anche in elegantissimi palazzi di New York, vengono narrati più spesso che da noi. Lo status del palazzo in cui abita il nostro personaggio, il tipo di vicini che incrocia (non necessariamente salutandoli) ci rivelano molto di lui, e sono dunque considerati elementi preziosi per la narrazione. Quand'anche limitati alle scene di passaggio (entrate e uscite di casa) sono senz'altro più identificativi del nostro personaggio e del clima che lo circonda di una scena di transito in auto. Il condominio e i suoi spazi comuni, sono di per sè, elemento di passaggio tra privato e sociale. Non dimenticate mai che questa relazione privato-sociale è il nodo su cui uno sceneggiatore costruisce il proprio personaggio. Tanto più oggi, che l'ambiente di lavoro non identifica più il luogo principe delle relazioni sociali, e il posto di lavoro è spersonalizzato, il palazzo in cui si abita, con la sua stessa socialità decaduta, "privato" anche in quanto deprivato di relazioni, è ambiente da non trascurare per raccontare a tutto tondo il nostro protagonista e la sua vita quotidiana.
LEZIONE XL di Gianfranco Manfredi
Andiamo in bagno diverse volte ogni giorno, eppure questa abituale attività non è rappresentata con corrispondente frequenza nel cinema. In particolare il tempo che dedichiamo alle necessità fisiologiche non viene abitualmente considerato in una storia. D'altro canto, anche nella storia dell'arte figurativa, della letteratura e del teatro, sono rarissimi gli esempi in cui si rappresenta questo genere di attività, da un lato oggetto di persistente pudore, dall'altro, momento di pausa per eccellenza, poco significativo nello sviluppo di una storia e sul quale si può dunque tranquillamente soprassedere. Eppure, come ambiente, il bagno una sua importanza ce l'ha nella nostra vita individuale e nello sviluppo stesso della nostra società. Nello spazio di un secolo siamo passati da bagni o latrine esterne, ai doppi/tripli servizi come indicatore di livello di sviluppo civile. Gli standard minimi di confortevolezza abitativa, passano dalla storia delle stanze da bagno.
Il numero e la confortevolezza delle sale da bagno in un harem è sempre stato di gran lunga maggiore di quello dei nostri bordelli, e persino delle nostre regge e palazzi nobiliari: per secoli questa differenza ha evidenziato un livello di igiene pubblica molto più sviluppato in oriente che in occidente. Gli esempi di "scene in bagno" sono d'altro canto di gran lunga aumentati in letteratura e in cinema nel dopoguerra. Questo è il sintomo evidente di un abbassamento della "soglia del pudore" e insieme di una identificazione del bagno come luogo esemplare, particolarmente adatto a rappresentare situazioni narrative "di limite".
Ad esempio, alle origini del cinema neo-realista che programmaticamente intendeva rappresentare tutti i momenti dell'esistenza quotidiana e dunque anche le permanenze "in cesso", questa scelta destò non poche polemiche. Quando il senatore Andreotti denunciò il fatto che il cinema italiano non faceva onore al paese rappresentando situazioni che sarebbe stato meglio evitare di mostrare (cioé "lavava i panni sporchi in pubblico"), non si riferiva tanto al cinema di denuncia sociale, quanto all'indulgere nella rappresentazione di situazioni giudicate "indecorose" come ad esempio mostrare persone in canotta e mutande calate che leggevano il giornale sulla tazza del cesso e consimili situazioni di vita quotidiana che il "comune senso del pudore" giudicava quanto meno di cattivo gusto. E persino negli anni 60 e 70, ormai vaccinati dall'abitudine alla provocazione, ben più dei "bed-in" di John Lennon e Yoko Ono, destò scandalo il poster di Frank Zappa che dissacrando violentemente anche il mito della rock star, abitualmente rappresentata come una sorta di divinità, sifece effigiare seduto sul cesso. Da allora, lentamente e progressivamente, l'aura di scandalo attorno alla stanza da bagno si è molto stemperata.
Intendiamoci: anche oggi è molto difficile che una star cinematografica accetti di farsi riprendere seduta sulla tazza del cesso, però l'inviolabile sacralità del bagno è finita. Questo genere di scene si sono moltiplicate nei film e non sono più un tabù. Ma come e perchè vengono utilizzate? Dev'esserci alla base un elemento di coerenza con il racconto. E devono essere occasione per rappresentare qualcosa che non si riduce al semplice mostrare ciò che possiamo dare per scontato e cioè che ogni persona ha la necessità di fare i propri bisogni e/o di lavarsi regolarmente.
Consideriamo in proposito alcune scene celebri nella storia del cinema, ambientate in bagno, da un lato nella commedia, dall'altro nel dramma.
a) Il Bagno in commedia
Consiglio di vedere attentamente due scene esemplari dei film Hollywood Party (in originale The Party, 1968) di Blake Edwards, e Tutti pazzi per Mary (There's Something About Mary, 1998) di Bobby e Peter Farrelly. Nel primo film, il protagonista Peter Sellers ospite di una faraonica villa hollywoodiana e afflitto da un'irrefrenabile necessità fisiologica, riesce finalmente a trovare un gabinetto nel quale combina guasti a catena. E' una delle scene comiche più irresistibili del film, nella quale tutti gli elementi dell'ambiente vengono usati: i rotoli di carta igienica, l'impianto idrico della tazza, eccetera. Scene simili erano state coraggiosamente interpretate in televisione già anni prima, ad esempio nella famosa serie di telefilm per famiglie I Love Lucy (1951/1957) con Lucille Ball. La serie ironizzava sui nuovi costumi di vita americani della middle class, in particolare l'uso sempre più spinto degli elettrodomestici nella vita domestica, con un satira spesso corrosiva che valse persino all'attrice l'etichetta di "comunista". In uno degli episodi viene mostrato il tentativo di Lucille e della sua amica di installare da sole una doccia, nella quale finiscono imprigionate fin quasi ad annegare. Le gag basate sull'acqua e sui tubi sono antiche quanto il cinema: una delle prime comiche mute rappresentava appunto i guai provocati da una pompa da giardino. Lo sviluppo di Blake Edwards, che parte dalla situazione di un bisogno fisiologico, rappresenta uno scatto in più e riesce a rendere non solo gradevole, ma spassosa una situazione che fino a pochi anni prima sarebbe parsa volgare e non rappresentabile: ad esempio il senso di liberazione nello sfogo di una pisciata troppo a lungo trattenuta.
Tutti pazzi per Mary è un gradino ulteriore in quanto mette in scena il protagonista Ben Stiller che in previsione di un incontro erotico, temendo di non riuscire a controllare l'eccitazione e di avere un'eiaculazione troppo precoce, su consiglio di un amico, si masturba in bagno prima che l'incontro abbia luogo. Lo sperma stesso diventa origine di una scena comica irresistibile, quando la ragazza, giunta prima del previsto, lo scambia per un gel e se lo mette sui capelli. Anni prima, una scena simile sarebbe stata bandita da un film comico "per tutti". Anche in questo caso, più la scena è al limite, più si tratta di essere accorti nel renderla "lieve" cioé nel non involgarirla con dettagli che potrebbero causare disgusto. D'altro canto se una simile scena era ormai rappresentabile, ciò significava senza ombra di dubbio che ormai la generalità del pubblico non la considerava più istintivamente fastidiosa. Del resto non è l'unica scena in bagno del film. Ce n'è un'altra nella quale Ben Stiller, anni prima, ha un altro incidente in bagno, nella casa della ragazza, quando si chiude la zip sui coglioni. In altre parole, l'ambiente bagno viene usato per rappresentare una sorta di evento traumatico che si ripete come un imbarazzante destino nella vita del protagonista. E in questo si può già evidenziare come il bagno mantenga tutta la sua natura originale di ambiente "eccezionale", riservato, privato per definizione e ai limiti della rappresentazione. Insomma: non si mette in scena un bagno per rappresentare qualcosa di abituale, al contrario il bagno è l'ambientazione ideale per rappresentare una situazione estrema.
b) Il Bagno nel dramma
Anche in questo caso consiglio due film fondamentali: Psycho (1960) di Alfred Hitchcock e The Shining (1980) di Stanley Kubrick . Il primo, con la famosissima scena della doccia, condiziona la storia del cinema a venire: mai scena è stata infatti più imitata. Come ho già rilevato in una precedente lezione, se si facesse una compilation di tutte le scene di delitti o di aggressioni o di minacce sotto la doccia nel cinema (non solo horror) dopo Psycho, ne uscirebbe un video di durata interminabile.
E se si confrontassero queste scene, si potrebbe scoprire quante infinite varianti si possono sviluppare da un'unica radice. Del resto, lo stesso Hitchcock è probabile si sia ispirato a un precedente, cioè il film The Seventh Victim (1943) di Mark Robson prodotto da Val Lewton. In una scena di questo film, vediamo la protagonista, sotto la doccia, che riceve la improvvisa visita di una inquietante signora di cui vediamo soltanto l'ombra minacciosa attraverso la tenda della doccia. La signora non aggredisce, si limita a rivelare un inquietante segreto alla protagonista, ma la situazione di tensione c'è già tutta e nasce da un paradosso. La doccia infatti non è soltanto un luogo di estrema riservatezza, ma è anche un luogo eminentemente confortevole. Che un ambiente ideato come rimedio antistress, diventi invece l'ambiente stressante per eccellenza, è un capovolgimento drammatico non da poco. Il trovarsi nudi sotto un getto d'acqua, da cerimoniale di purificazione, diventa sintomatico della totale impossibilità di difendersi. Ora, per quanto la scena di Psycho sia stata imitata, per quanto sia diventata un topos quasi obbligato, uno sceneggiatore deve tenere in debito conto alcuni elementi di ordine pratico e produttivo: la scena dura soltanto quarantacinque secondi nel film, ma comportò duemila dollari di spesa soltanto per pagare lo storyboard di Saul Bass. Infatti prima delle riprese fu necessario disegnare ogni singola inquadratura. L'esigenza di superare i prevedibili ostacoli della censura, spinse Hitchock a scegliere di girare la scena per stacchi repentini e improvvisi "in modo che il pubblico non possa rendersi conto di che diavolo sta succedendo". Dunque vennero alternati i più diversi punti di vista e angolazioni, in genere piani molti stretti. Bisognava creare l'effetto di un'aggressione selvaggia e di inaudita violenza, senza mostrarla in dettaglio. Per consentire questa varietà di riprese in un ambiente ristretto come quello di una doccia, fu necessario costruire un ambiente con quattro pareti rimovibili. Dopo vari adattamenti si programmarono ben settantotto diverse posizioni di camera per riprendere la sequenza. Secondo il foglio di produzione per realizzare la scena della doccia sarebbero stati necessari undici giorni di riprese! Se dunque qualcuno di voi pensa che una scena di paragonabile efficacia possa venire realizzata semplicemente piazzando una donna nuda sotto una doccia, commette un errore di ingenuità. Oggi è praticamente impossibile che una produzione autorizzi un regista ad impiegare undici giorni per girare una scena di quarantacinque secondi. E' già difficile ottenere che per una scena in bagno si ricostruisca un bagno in studio. Ma in un bagno autentico le difficoltà per girare una scena simile sarebbero insormontabili: lo spazio per muoversi è estramente ridotto, le angolazioni possibili poche e obbligate, e anche girando con una camera digitale e più flessibile, la doccia stessa, il vapore, la disposizione "naturale" delle luci, renderebbero la scena impraticabile.
Insomma: se ambientate una scena in bagno, dovete appurare prima di scriverla, se la produzione consente riprese in studio e in un ambiente attrezzato allo scopo oppure se la scena verrà girata in un ambiente reale, cioè in un vero bagno. In quest'ultimo caso, toglietevi dalla testa Psycho. In The Shining il bagno è egualmente usato drammaticamente come luogo di un'aggressione. La ristrettezza dell'ambiente, che ha come unica via di fuga una finestrella, viene anche in questo caso sottolineata e rese ancor più angosciosa da riprese molto strette e la dinamica viene assicurata da una notevole quantità di stacchi. Si tratta egualmente di una scena estremamente complessa nella preparazione e nell'esecuzione, che richiede notevoli mezzi economici e molti giorni di riprese. In questo caso le preoccupazioni hicthcokiane di evitare la censura, erano cadute ( c'è un'altra scena in bagno, nel film, dove una donna viene mostrata completamente nuda). Restava però l'esigenza di usare l'ambientazione per una resa drammatica estrema. In un tempo contratto e in un ambiente ristretto il ritmo e la mobilità della scena devono aumentare e ciò comportauna location adeguata e tempo per le riprese.
Tenete dunque a mente, quando sceneggiate, che un scena di breve durata non è necessariamente una scena che si possa girare alla svelta. Tutto dipende non solo da cosa avviene, ma da cosa bisogna esprimere, e dunque dallo stile necessario a dare il massimo sotto il profilo dell'intensità espressiva e dai quattrini a disposizione.
Riassumendo: le scene in bagno (che si tratti di una commedia o di un dramma) sono da considerare scene climax. Quello che nella realtà è un ambiente abitudinario, in cinema è un ambiente eccezionale, cui è bene ricorrere per situazioni limite e di massimo risalto espressivo e a condizione che la macchina produttiva lo consenta.
LEZIONE XXXVIII di Gianfranco Manfredi
Si tende ad ambientare in camera da letto le scene di risveglio (di cui abbiamo già parlato) e quelle di sesso, il che è piuttosto ovvio. In realtà la camera da letto è più simile di quanto si pensi ad una stanza di soggiorno. Scrive Anthony Burgess (Letti, 1982, Rizzoli): "Il letto è un mobile pulifunzionale, intorno al quale si organizza la vita di tutta la famiglia o di alcuni dei suoi componenti. Così il letto ha finito per simboleggiare, anche nella vita di tutti i giorni, i concetti di comodità e di distensione (...) Per i bambini poi il letto è anche il simbolo dell'unità e dell'affetto famigliare e proprio alla ricerca di tali sensazioni tentano con moine e manfrine di vario tipo, di essere accolti nel lettone dei genitori." E' dunque bene che uno sceneggiatore non dimentichi questa natura primaria, simbolica, e insieme sociale del letto. Una conversazione tra amiche, per esempio, che potrebbe essere ambientata in qualsiasi posto, un bar, un salotto, una spiaggia, se viene ambientata in una camera da letto esprime da subito e con immediatezza quel senso di confidenza, di comodità, e di unità d'affetti che in altri ambienti deve essere ricreato attraverso l'isolamento, il tono di voce, i gesti e gli atteggiamenti.
La camera da letto è fondamentale quando si deve raccontare la storia di un bambino.
In questo caso assume anche un aspetto di incrocio tra il contesto di vita e famigliare (l'affetto con cui i genitori l'hanno decorata pensando a lui come "bambino") e il suo privato (gli oggetti e i giochi cui è più affezionato e che rivelano qualcosa di lui, i poster e le affiches con cui il bambino o il ragazzino l'hanno personalizzata). Nel corso della crescita, da ambiente riservato dai genitori al bimbo, la camera da letto accentua il suo carattere personale e privato. C'è un momento dell'adolescenza in cui il ragazzino sente il bisogno di dichiarare esclusiva la SUA stanza e allora affigge sulla porta il classico cartello VIETATO ENTRARE. La camera da letto dunque è un ambiente, in questo caso, evolutivo, che segna il maturare di una propria e autonoma personalità. Non ci si affida più alla stanza dei genitori per ottenere rassicurazione, come nella prima infanzia, ma ci si separa per rassicurarsi sulla propria e autonoma identità. Questo trapasso è mostrato in molti film. Nel film Poltergeist di Steven Spielberg (sceneggiatura) e Tobe Hooper (regia) del 1982, la camera da letto è un ambiente multiplo che esplora tutte queste sfumature: c'è la camera da letto con il lettone dei genitori e la televisione davanti, dove appunto ottenere rassicurazione dalle paure notturne e dove anche vivere un'intimità famigliare rilassata e giocosa, anche sancita da quell'altare di famiglia che è il televisore (con tutte le sue insidie, nel caso); c'è la camera da letto del bimbo che si trova ossessionato dall'inquietante "mondo esterno" (l'albero fuori dalla finestra, scosso dalla tempesta e pronto ad irrompere nella stanza, spezzando i vetri) e dai pupazzi/bambolotti che si mutano di notte in presenze vive e minacciose. Attraverso la camera da letto (le camere da letto) gli autori dipingono un quadro del passaggio dall'infanzia all'adolescenza, raccontando turbamenti che rappresentati in un altro ambiente non avrebbero la stessa forza simbolica. Questo aspetto in cinema è da tenere sempre presente: l'ambiente crea psicologia. Non dovete pensare alla psicologia di un personaggio come se fosse semplicemente inscritta in lui e collocabile ovunque. L'ambiente non è mero fondale e scenario. L'ambiente forma gli stati d'animo. Quando dunque scegliete un ambiente per una situazione narrativa, non sceglietelo per una mera questione di opportunità, sceglietelo per i suoi valori espressivi e simbolici.
In molti film Gialli, l'esplorazione da parte del detective della camera da lettodell'indiziato è spesso la sede della rivelazione della psicologia dell'indagato e non ci si limita all'esplorazione della camera da letto attuale, ma si va persino alla ricerca della sua stanza da bambino, nella quale possiamo vedere la genesi della sua personalità. Nella realtà non avviene mai che un poliziotto vada a frugare nella casa dei genitori, e nella stanza del killer da bambino, sia perchè questa stanza in genere non esiste più (mentre nei film è rimasta come una sorta di sacrario museale mantenuto inalterato negli anni) sia perchè nessun investigatore considererebbe determinante esplorare un ambiente frequentato dall'assassino in epoche assai lontane dal suo delitto. In cinema invece questa "radice" è fondamentale non per un'esigenza realistica, ma simbolica. L'esame della camera da letto, delle fotografie, dei passatempi giovanili, dei vezzi privati di un killer, è esplorazione del suo animo, della sua psicologia, cioè della sua intimità, e insieme del contesto famigliare in cui è maturata la sua personalità.
Ma riprendiamo dalle situazioni ovvie, la più ovvia delle quali è la classica scena d'amore e di sesso, rispetto alla quale il cinema, nella sua storia, mostra un atteggiamento inizialmente piuttosto pudico: la macchina da presa indietreggia o si ferma sulla soglia della camera da letto, da un lato per sottolineare la privacy dei personaggi che in quel momento si separano dal mondo e dagli sguardi altrui, d'altro lato per non raccontare ciò che narrativamente (in un certo contesto narrativo) non offrirebbe spunti particolari: i due fanno l'amore, come normali esseri umani.
Mostrare come lo fanno non aggiunge nulla alla nostra narrazione ed è dunque bypassabile, anzi è meglio immaginarlo, ciascuno con la propria sensibilità, sulla base delle proprie memorie, della propria esperienza e della propria fantasia.
L'identificazione è favorita in questo caso dal non mostrare più che dall'esibire.
Ovviamente in questi film, l'accoppiamento è una manifestazione di sentimento più che di erotismo. Rispetto al "sentimento" il riserbo è maggiore che rispetto a un atto fisico. C'è qualcosa di soggettivo, di intimo, che non può venire rappresentato pienamente nell'oggettività della situazione perchè ne verrebbe svilito. La camera da letto è in questo caso un ambiente per certi versi Tabù, come un tabernacolo dove si è al cospetto del Sacro, cioè del Non Rappresentabile ( Non fatevi immagine alcuna, come recita il Comandamento), luogo non-luogo del Mistero, del cerimoniale segreto che acquista senso solo per chi vi partecipita, non per chi vi assiste.
Nel tempo e con l'evoluzione del costume, a sessualità de-sacralizzata e disvelata, la macchina da presa non arretra più, entra in camera da letto, nella camera degli amanti e ce li mostra mentre si amano. Anche qui, però, se ci fate caso, una certa segretezza, un senso di occultamento permane: nel gioco della penombra che dissolve i corpi in forme, nei dettagli alternati di corpi nudi che si abbracciano avvolti da una musica che detemporalizza la situazione. Non ci vengono mostrate "tecniche" d'accoppiamento, ma una sorta di sintesti emotiva di fasi diverse e accavallate, a dissolvenza incrociata. Il dissolvere esplicita un annullamento/superamento/sublimazione della fisicità e dell'oggettività. Questo tipo di rappresentazione è diventata talmente standardizzata da non esprimere ormai più nulla di creativo. Meglio per certi versi, non mostrare affatto come nel cinema d'un tempo, piuttosto che mostrare una sorta di clip obbligato e replicante in cui i personaggi si spersonalizzano. Il consiglio è dunque di evitare situazioni e modi di rappresentazione che l'uso costante e ripetuto ha reso banali. Un rapporto sessuale e amoroso ha sempre in sè qualcosa di "eccezionale" ed "elettivo" che la riproposizione standardizzata finisce per uccidere. Altra situazione ormai talmente standardizzata da non offrire più alcuna sorpresa al pubblico, è la rappresentazione di un rapporto particolarmente passionale, attraverso la solita carrellata di indumenti frettolosamente abbandonati sul pavimento. Davvero non la si riesce più a vedere, non solo per la noia, ma anche perchè non c'è nulla di meno appassionante dell'abitudine. Se dobbiamo raccontare una passione travolgente, la cosa peggiore che possiamo fare è mostrarla con uno stile di racconto consueto.
E' sbagliato per uno sceneggiatore e ancor di più per un regista appoggiarsi esclusivamente ad elementi di "codice" senza averli verificati criticamente. I codici hanno una storia. Vanno riscritti a seconda della propria sensibilità e delle "ricadute" sulla mutata sensibilità del pubblico. Nell'affrontare queste "situazioni obbligate", in questo caso applicate agli ambienti di vita quotidiana che ci troviamo a dover descrivere nel corso di una storia, dobbiamo imparare a distinguere tra elementi simbolici strutturali non transeunti (ad esempio il senso simbolico della "camera da letto" che ha mantenuto nei secoli, a partire dalle arti figurative, delle sue costanti di senso) e stili narrativi profondamente segnati dalla mentalità e dagli usi di una certa epoca e non meccanicamente trasferibili, nè adatti per raccontare l'attuale e/o il nuovo. Il cinema non è solo quel certo film che state scrivendo, è anche l'insieme dei film. Una sequenza troppo riprodotta, uno stile troppo consueto, una scansione consuetudinaria dei tempi e delle azioni, una scalettatura troppo evidente degli eventi, può essere d'ostacolo alla specificità e all'originalità della vostra narrazione, rendendola indistinguibile dalle altre, dunque banale e inespressiva.
In conclusione: la camera da letto è un ambiente che unisce socialità e intimità. Questo non è un elemento passeggero, ma permanente, è un dato simbolico imprescindibile. Il cosa vi avviene e il come esprimerlo va invece definito sulla base della vostra storia, dei vostri personaggi, del contenuto espressivo e "di senso" che intendete rimarcare, non è copiabile ed espropriabile se non a prezzo di degradare la vostra narrazione a stile corrente (e corrivo) e il vostro presunto "autorismo" a superficialità. E' importante comprendere questo punto, proprio perchè troppo spesso si tende a fare il contrario e cioè a considerare transeunte e accessorio (se non a ignorare del tutto) il significato simbolico specifico di alcuni ambienti, e a considerare invece permanente cioè che è passeggero e datato, cioè il modo in certe fasi prevalente di raccontare una situazione.
LEZIONE XXXIX di Gianfranco Manfredi
Il copione teatrale, fin dal teatro classico antico, è diviso in Atti. E ciascun Atto è suddiviso in Scene. A differenza dalla sceneggiatura cinematografica, dove le Scene in genere prevedono scenografie/ambienti diversi (cioè si cambia scena quando si cambia ambiente), quelle teatrali sono suddivisioni di comodo che identificano differenti entrate in scena, cioè attori diversi che si alternano nello stesso ambiente (cioè si cambia scena quando si cambiano attori). Per secoli in Teatro, la descrizione della scena nel testo è stata quanto mai sommaria, limitandosi ad indicare il luogo d'ambientazione per il quale si lasciava massima discrezionalità allo scenografo. Le cose cambiano sostanzialmente a cavallo tra la fine dell'ottocento e l'inizio del secolo scorso. Prendiamo ad esempio un copione del Grand Guignol (teatro parigino che cominciò le sue rappresentazioni nel 1897). Sabotaggio ( atto unico di Charles Hellem, W.Valcros e Pol d'Estroc. La citazione è tratta dall'antologia a cura di Corrado Augias Teatro del Grand Guignol, Einaudi 1972).
Una sala da pranzo modesta in una famiglia di operai. A sinistra: in primo piano, una finestra. In secondo piano, un lettino da bambini, collocato parallelamente alla scena con le tendine appese a un'asta di ferro che parte dal letto. Grazie a queste tendine, il pubblico non può vedere l'interno in cui si suppone sia coricato il piccolo Jeannot. La testata del letto tocca il fondo della scena. Al fondo. In mezzo, una porta che dà su un vestibolo il quale, a destra, porta all'uscita dell'appartamento sul pianerottolo. Il vestibolo si presume dia accesso, a sinistra, a una camera.
Il copione teatrale, fin dal teatro classico antico, è diviso in Atti. E ciascun Atto è suddiviso in Scene. A differenza dalla sceneggiatura cinematografica, dove le Scene in genere prevedono scenografie/ambienti diversi (cioè si cambia scena quando si cambia ambiente), quelle teatrali sono suddivisioni di comodo che identificano differenti entrate in scena, cioè attori diversi che si alternano nello stesso ambiente (cioè si cambia scena quando si cambiano attori). Per secoli in Teatro, la descrizione della scena nel testo è stata quanto mai sommaria, limitandosi ad indicare il luogo d'ambientazione per il quale si lasciava massima discrezionalità allo scenografo. Le cose cambiano sostanzialmente a cavallo tra la fine dell'ottocento e l'inizio del secolo scorso. Prendiamo ad esempio un copione del Grand Guignol (teatro parigino che cominciò le sue rappresentazioni nel 1897). Sabotaggio ( atto unico di Charles Hellem, W.Valcros e Pol d'Estroc. La citazione è tratta dall'antologia a cura di Corrado Augias Teatro del Grand Guignol, Einaudi 1972).
Una sala da pranzo modesta in una famiglia di operai. A sinistra: in primo piano, una finestra. In secondo piano, un lettino da bambini, collocato parallelamente alla scena con le tendine appese a un'asta di ferro che parte dal letto. Grazie a queste tendine, il pubblico non può vedere l'interno in cui si suppone sia coricato il piccolo Jeannot. La testata del letto tocca il fondo della scena. Al fondo. In mezzo, una porta che dà su un vestibolo il quale, a destra, porta all'uscita dell'appartamento sul pianerottolo. Il vestibolo si presume dia accesso, a sinistra, a una camera. Tra la porta e il letto un tavolinetto rotondo; sopra, alcune boccette di medicine, una caraffa, un bicchiere, un cucchiaino. Tra la porta e l'angolo della scena, a destra, una credenza a due corpi da sala da pranzo. A destra: una porta che comunica con la cucina. Qualche quadro, oleografie o fotografie alle pareti. Verso il centro della scena un tavolo da sala da pranzo. Tre o quattro sedie. La stanza è illuminata da una lampada elettrica con paralume, appesa al soffitto, al centro, con un filo che si avvolge lungo un contrappeso di maiolica bianca, di modello corrente. Sono le nove di sera, in autunno. Fuori, notte fonda. L'azione si svolge verso il 1900 nella periferia di una grande città, in Francia.
Come mai una descrizione così minuta? Perchè ciascuno dei dettagli indicati servirà nel corso dell'azione scenica. Cioè mobili (e loro disposizione) , arredi, singoli oggetti entrano a far parte della narrazione. Il Grand Guignol inoltre, essendo un teatro dell'orrore, si avvale di effetti speciali che richiedono attrezzature particolari incluse negli elementi scenici (la sottolineatura del lampadario serve perchè poi si verificherà un black out).
Questo sviluppo del copione teatrale (che include anche una precisa descrizione dei movimenti degli attori nell'ambiente, al di là delle indicazioni espressive), chiarisce come tra il Teatro e il neonato Cinema cominci a stabilirsi un rapporto molto stretto.
Nulla dev'essere lasciato al caso perchè tutto, dal tipo e dalla disposizione dei mobili alla collocazione dei punti luce, diventa parte integrante della narrazione. L'ambiente non è più una scena generica o un fondale dipinto in cui avvengono azioni tra attori. L'ambiente è esso stesso personaggio e gli attori interagiscono con esso, quanto con gli altri altri attori.
Confrontiamo la descrizione di Sabotaggio, con quella della sceneggiatura del film Son of Frankenstein di Willis Cooper (1938).
Salone. E' una stanza con alti soffitti a volta, situata nella parte centrale del castello. La pareti sono in pietra e coperte da una tappezzeria visibilmente vetusta. Bandiere con stemmi araldici sono appese alle travi a soffitto. Lungo le pareti, alte finestre e sul lato più lontano della stanza, un grande camino in cui arde un grosso ciocco. Tappeti di pelle d'orso e di capra sul pavimento di pietra, e sedie antiche, divani e divanetti piazzati qua e là per la stanza; alcuni mobili sono ancora coperti di lenzuola anti-polvere. Luci elettriche brillano in applique di bronzo a parete, e ci sono lampade su uno o due tavoli. Davanti al camino, due comode poltrone, con un tavolino fornito di lampada. Sul camino, un ritratto a grandezza naturale del primo Barone Frankenstein, proprio quello che creò il mostro.
Queste descrizioni non sono "testo per il pubblico", in quanto al pubblico basta vedere l'ambiente. Sono un testo per gli addetti ai lavori, gli scenografi, nel caso.
Nella sceneggiatura cinematografica questo sotto-testo invisibile al pubblico è fondamentale. I reparti devono sapere cosa è necessario avere in scena. Dove possono essere liberi nel dare una propria interpretazione e dove invece sono vincolati perché gli elementi prescritti servono alla narrazione.
Mi è capitato di leggere un copione per una situation comedy scritto da Umberto Simonetta, che oltre che romanziere e autore di teatro, fu uno dei più brillanti autori televisivi italiani. In Italia, spesso le persone geniali e anti-conformiste si prendono in sceneggiatura delle libertà ignote al mondo dei professionisti americani, usando a volte, quando si rivolgono ai reparti, uno stile discorsivo. Nel caso, Simonetta doveva semplicemente indicare che il tal personaggio tornava a casa da un viaggio esotico.
L'epoca era precedente a quella delle anonime Samsonite o delle borse a ruote ormai talmente standardizzate che in aereoporto al ritiro bagagli capita di tirarne giù quattro prima di capire quale sia la tua. Allora, chi tornava da un viaggio, spesso aveva appiccicate alla valigia etichette-cartoline multicolori del posto in cui era stato. Dunque, presentare un personaggio con valigia così etichettata, di per sè, faceva già capire visivamente che era stato in vacanza in qualche posto turistico senza doverlo necessariamente precisare nel dialogo. In questo caso, uno sceneggiatore scrive: Tizio entra con una valigia etichettata. Simonetta si prendeva il divertimento di precisare:
una o due etichette, non fatemelo entrare con una valigia cosparsa di etichette, non è un rappresentante, non ha fatto il giro del mondo in ottanta giorni, non è un collezionista di etichette kitsch eccetera. Conoscendo i vizi e i possibili errori dei reparti, metteva insomma le mani avanti. Di tutto questo testo (molto più spassoso di come lo abbia riassunto io a memoria) il pubblico non sa nulla, perchè è appunto rivolto esclusivamente ai reparti. Questo testo serve a chiarire bene: 1. cosa è essenziale sotto il profilo del racconto visivo; 2. cosa non deve esserci, ad evitare travisamenti.
Mi è capitato invece di leggere una sceneggiatura di fumetti in cui l'autore, spiegando al disegnatore cosa avrebbe dovuto o potuto esserci in una singola vignetta, si dilungava per un'intera pagina accumulando indicazioni d'ambiente e di oggetti che mai sarebbero potuti entrare tutti insieme in una sola vignetta. Leggevo perplesso chiedendomi che senso avesse dilungarsi tanto. Alla fine, nell'ultima riga, l'autore scriveva: Ti ho messo un po' di cose, scegli tu. Ecco, questa è la cosa da evitare assolutamente. Lo sceneggiatore deve avere in testa delle scelte chiare, precisare cosa deve esserci per forza, lasciare sul vago quello che è e deve restare vago (nel testo del Grand Guignol citato, si dice ad esempio verso il 1900, alla periferia di una grande città, in Francia, il che significa che vanno evitate cose che possano invece identificare la città- ad esempio un monumento noto oltre la finestra- e l'anno preciso - ad esempio un calendario vistoso).
In una sceneggiatura, queste indicazioni non sono descrittive e d'atmosfera come sarebbero in un romanzo. Sono puramente e semplicemente utili. Devono essere scritte in un linguaggio scarno, semplice, diretto ed inequivocabile. Non sono testi per cui lo scrittore venga giudicato stilisticamente. Anzi quando uno sceneggiatore cinematografico si prende delle libertà stilistiche para-letterarie, spesso risulta fastidioso e ridicolo. I reparti vogliono sapere qual è il fabbisogno. Non gliene importa niente di un'alata descrizione. Un regista non si sente più ispirato se legge in
sceneggiatura una descrizione simil-poetica di un pomeriggio autunnale, non valuta lo sceneggiatore come un bravo scrittore, semplicemente si chiede : ma io, come la giro, questa roba? E un attore si chiede: io cosa dico? cosa faccio? Dunque, siate chiari e stringati. Un para-testo non lo si scrive per fare bella figura.
Ma torniamo alle descrizioni d'ambiente. Molta confusione che si fa nella conversazione comune tra "sceneggiatore" e "scenografo" nasce in realtà da un dato storico: in cinema e in teatro, gli ambienti si descrivono a parole prima d'essere disegnati o arredati. E le prime indicazioni minutamente dettagliate, in teatro, sono quelle rivolte allo scenografo. L'indicazione/descrizione della scena in quanto ambiente, ripeto: nei suoi elementi necessari alla narrazione (non voglio sapere dove sono situate le prese elettriche se questo non è un dettaglio utile al racconto), è parte integrante e necessaria del testo "sceneggiatura".
Lo è, per chi scrive, anche prima di mettersi a raccontare la scena vera e propria (cioè quello che accade). Io devo figurarmi l'ambiente in cui si muovono i personaggi, per poter sfruttare le occasioni narrative che ne derivano. Devo pensare prima anche quali oggetti possono tornarmi utili in scena. In fumetto può accadere, lo avrete visto un'infinità di volte, ad esempio questo: un cowboy smonta da cavallo e corre a rifugiarsi in un anfratto per sfuggire a un agguato. Poi risponde al fuoco con un fucile che non aveva in mano quando è sceso da cavallo. Cosa è successo? Lo sceneggiatore si è dimenticato di indicare (perchè non ci aveva pensato) che il cowboy scendeva da cavallo col fucile in mano e dunque il disegnatore non l'ha disegnato. Poi quando il fucile serviva, lo sceneggiatore ha scritto che il tipo spara col fucile. Risultato ? Il fucile appare magicamente. A me personalmente è capitato di scrivere in un fumetto che nella tal stanza c'era un camino. Dunque nel totale si vede il camino. Poche vignette più in là, l'eroe impugna un attizzatoio. Presumevo ovvio che scrivendo:
nella stanza c'è un camino, al disegnatore sarebbe stato chiaro che oltre al camino doveva disegnare (nel totale) anche gli attrezzi. Invece il disegnatore ha disegnato soltanto il camino. L'attizzatoio, anche in questo caso, è comparso magicamente nelle mani dell'eroe. Cautela vuole dunque che se avete pensato di piazzare un camino in un ambiente perchè quello che vi serve nell'azione non è il camino in sè, ma l'attizzatoio, precisiate anche ciò che parrebbe ovvio (e che in un romanzo si tralascerebbe) e cioè che accanto al camino ci sono gli attrezzi. Il problema non è che i reparti (o i disegnatori) siano scemi. Non lo sono affatto, anzi sono quasi sempre degli eccellenti professionisti. Il problema è che un para-testo nudamente descrittivo, non lo si legge con l'attenzione che si presta ad un dialogo o a una descrizione poetica o letteraria, lo si legge (giustamente) come una lista della spesa. In una lista della spesa non si dà e non si deve dare per scontato niente. Quello che non c'è scritto, non lo si acquista.
D'altra parte, insisto, se io mi metto a descrivere qualsasi cosa, anche le cose non necessarie, semplicemente perché mi sono venute in testa e sono di mio gusto, ma non fanno narrazione, un poveretto che legge questo testo non sa più distinguere cosa dev'essere in scena da cosa potrebbe esserci, ma non è affatto indispensabile. Il risultato è che non presta più attenzione a nulla e fa di testa sua. Non date mai dello scemo a nessuno. Se le vostre indicazioni di sceneggiatura non vengono comprese è perchè avete sbagliato voi a scriverle.
Certo può capitare che una certa idea venga scrivendo. Cioè che nel corso di una scena vi rendiate conto che vi sarebbe utile un dato oggetto. In questo caso tornate indietro, cioè al momento in cui avete descritto la scena e precisate che ci vuole quel dato oggetto. Un professionista fa "lo spoglio" scena per scena dunque in genere in cinema ci si accorge sempre se un oggetto dev'essere sul set, però è più comodo per i reparti se le indicazioni vengono raggruppate al principio, non disseminate lungo la scena, altrimenti qualcuna può andare perduta. Una persona dei reparti non è un lettore nel senso pieno del termine. Quando legge la sceneggiatura , può anche prescindere ad esempio dai dialoghi. Si concentra su quello che gli serve sapere. Se dunque in un dialogo scrivete: passami quel posacenere, la cosa può risultare inavvertita a chi sul set deve procurare quel posacenere. Dunque dovete scrivere in testa, tra le altre indicazioni, che nel tal posto c'è un posacenere. Questo vale anche per gli attori. Non tutti gli attori che compaiono in un film leggono l'intera sceneggiatura. A quelli che hanno un numero limitato di "pose" si danno soltanto le pagine relative al proprio personaggio. Si può in sostanza recitare in un film senza conoscere (se non per sommi capi) la storia narrata dal film. Ciò significa che ogni scena dev'essere estremamente chiara di per sè, alla lettura. L'attore in questione deve comprendere cosa deve fare e dire nelle scene in cui compare. Se ha esigenza di sapere dove sono collocate narrativamente le sue scene può chiedere spiegazioni al regista, ma nessun regista starà a perdere tempo raccontandogli l'intero film, si limiterà a indicargli come interpretare quella scena lì in modo che leghi con le altre. Faccio un esempio, tratto sempre dalla sceneggiatura di Son of Frankenstein.
Wolf e Elise, in piedi nell'anticamera del salone principale, si tolgono i soprabiti mentre Fritz, il maggiordomo entra con i bagagli. Il suo abito è inzuppato di pioggia.
Una precisazione del genere sarebbe superflua in un romanzo. Nella scena immediatamente precedente, pioveva, e avevamo visto Fritz prelevare i bagagli dall'automobile degli ospiti. Dunque è ovvio che Fritz si sarà bagnato il vestito. Ma in cinema, questa scena in interno può venire girata giorni dopo o anche prima della scena precedente all'esterno, con pioggia. Certo, l'assistente alla regia ha proprio il compito di assicurarsi che le diverse scene combacino, però è sempre meglio scrivere che il maggiordomo è bagnato, perchè l'assistente potrebbe dimenticarsene, e comunque chi si occupa dell'attore dove provvedere a bagnarlo, e deve saperlo quel giorno lì che si gira la scena. Per l'attore che interpreta Fritz, poi, un conto è entrare in scena sfuggendo a un temporale, un altro è entrare impeccabile. Questo deve stare scritto in sceneggiatura, altrimenti il set diventa un inferno. Non si possono chiedere delucidazioni ad ogni momento e improvvisare di continuo. Bisogna sapere tutto prima. Sul set si approfondisce, si cercano le sfumature, ma i fondamentali devono essere chiari su carta.
Tenete dunque presente che la sceneggiatura è una forma di scrittura composita. Il vostro racconto generale, certo, si rivolge al pubblico. La vostra scrittura, in pratica, si rivolge al regista (quello con cui dovreste avere fin dal principio una condivisione del racconto generale e se possibile anche qualche condivisione di gusto ed estetica), agli attori (e delle loro esigenze si è parlato diffusamente in altre lezioni), allo scenografo, al costumista, e in alcuni casi (quando è necessario indicare certi movimenti di macchina) all'operatore e ai macchinisti, insomma ai reparti. E ciascuno di questi lettori è un lettore molto particolare che si concentra su quello che gli compete. Voi avete di fronte dei lettori di frammenti, non dei lettori della storia. E avete di fronte dei lettori che lavorano al film che poi il pubblico vedrà, cioè dei lettori che non sono pubblico, ma collaboratori che raccontano insieme a voi, "mettendo in scena".
Lezione Lxii - La Forma Della Sceneggiatura (i) - di Gianfranco Manfredi
Gli studiosi della cultura greca considerano l’Iliade di Omero come il primo testo scritto destinato al teatro. Trattandosi di un poema, è dunque evidente che siamo di fronte a una pura declamazione di un testo in scena, cioè a un teatro di parola, non a una vera e propria messa in scena. L'attore è unico, cui si alternano a volte il coro e/o degli intermezzi musicali. Il teatro nasce dunque in forma di monologo. Il che fa giustizia del luogo comune secondo cui il monologo, l'one man show, le letture dantesche o di altri classici, il cosiddetto teatro-canzone, siano forme teatrali innovative. E' vero l'esatto contrario: rappresentano l'anno zero del teatro. Non c'è scena, non c'è dialogo, non c'è molteplicità di attori, non c'è azione. La pura lettura/recitazione in scena non costituiscono un'autentica drammaturgia, ne sono al massimo l'infanzia.
Aristotele ricorda che fu Eschilo a portare a due il numero degli attori e dunque a inventare il dialogo. Successivamente, con Sofolcle, i personaggi diventarono tre e la scena più ricca. Le prime testimonianze di drammaturgia risalgono, secondo Aristotele, al VI sec. a.C. , prima non esistevano che spettacoli pre-narrativi di istrioni che venivano chiamati in modo diverso a seconda delle regioni in cui si esibivano: mimi, virtuosi, improvvisatori, burloni o dilettanti (nel senso che procuravano diletto). Si trattava di attori nomadi che intrattenevano il pubblico dei villaggi e dei borghi con lazzi e buffonagini, piccole scenette realistiche, azioni mimiche, caratterizzazioni burlesche di personaggi (l'atleta millantatore, lo spacciatore di intrugli miracolosi, il ladro di frutta, insomma "macchiette"). Le esibizioni buffonesche di Susarione ad Atene, non raccontavano una storia compiuta, erano rappresentazioni senza capo né coda.
Gli studiosi della cultura greca considerano l’Iliade di Omero come il primo testo scritto destinato al teatro. Trattandosi di un poema, è dunque evidente che siamo di fronte a una pura declamazione di un testo in scena, cioè a un teatro di parola, non a una vera e propria messa in scena. L'attore è unico, cui si alternano a volte il coro e/o degli intermezzi musicali. Il teatro nasce dunque in forma di monologo. Il che fa giustizia del luogo comune secondo cui il monologo, l'one man show, le letture dantesche o di altri classici, il cosiddetto teatro-canzone, siano forme teatrali innovative. E' vero l'esatto contrario: rappresentano l'anno zero del teatro. Non c'è scena, non c'è dialogo, non c'è molteplicità di attori, non c'è azione. La pura lettura/recitazione in scena non costituiscono un'autentica drammaturgia, ne sono al massimo l'infanzia.
Aristotele ricorda che fu Eschilo a portare a due il numero degli attori e dunque a inventare il dialogo. Successivamente, con Sofolcle, i personaggi diventarono tre e la scena più ricca. Le prime testimonianze di drammaturgia risalgono, secondo Aristotele, al VI sec. a.C. , prima non esistevano che spettacoli pre-narrativi di istrioni che venivano chiamati in modo diverso a seconda delle regioni in cui si esibivano: mimi, virtuosi, improvvisatori, burloni o dilettanti (nel senso che procuravano diletto). Si trattava di attori nomadi che intrattenevano il pubblico dei villaggi e dei borghi con lazzi e buffonagini, piccole scenette realistiche, azioni mimiche, caratterizzazioni burlesche di personaggi (l'atleta millantatore, lo spacciatore di intrugli miracolosi, il ladro di frutta, insomma "macchiette"). Le esibizioni buffonesche di Susarione ad Atene, non raccontavano una storia compiuta, erano rappresentazioni senza capo né coda.
Pulcinella viene da questa tradizione di commedia di piazza, senza strutture, senza narrazione in senso proprio, una successione di "numeri" e di "gag" come diremmo oggi, che ebbe una grande importanza nel fissare una serie di tipi (maschere) e di situazioni divertenti. Questo genere di teatro, con fini più di intrattenimento che artistico, sopravvisse, anche quando la drammaturgia teatrale vera e propria si era codificata da secoli. Non c'era un vero e proprio copione, ma una semplice traccia, un canovaccio a volte davvero minimo, come nella seguente scenetta che così Nicoletta Capozza nel suo Tutti i lazzi della Commedia dell'Arte (Dino Audino Editore, 2006) traduce in lingaggio moderno: Pulcinella va a comprare un vaso da notte per il padrone. Coviello gli dice che mettendoselo in testa potrà conoscere i fatti di chiunque. Pulcinella mette la testa nel vaso da notte. Coviello fa lazzi, poi gli fa lo sgambetto e fugge. Pulcinella cade, fa lazzi ed esce di scena.
Il breve testo, come si vede, indica : (1) i personaggi in scena, (2) il percorso degli eventi dal principio alla fine e (3) le occasioni comiche. Dialoghi e lazzi (cioè gags) sono lasciati all'invenzione dei commedianti.
Commenta Nicoletta Capozza: "Il comico crea continuamente, non ha mai niente di già totalmente dato, la sua improvvisazione, benché fondata sulla perfetta conoscenza del tipo, è comunque messa in discussione ogni volta, perchè ogni volta diverse sono le modalità entro le quali si trova ad agire."
Questo modello è ancora attuale? Ne abbiamo già accennato nella lezione sul comico.
Vincenzo Cerami autore di parecchie sceneggiature per Benigni, ha diverse volte puntualizzato che il suo lavoro consiste principalmente nel fornire situazioni sulla base delle quali il comico possa scatenare la sua verve creativa. Ha detto anche che si tratta inoltre di fissare dei "binari", dunque dei limiti, e su questo punto torneremo in seguito. Per il momento concludiamo che il lavoro dello sceneggiatore, come quello degli autori dei mini-soggetti e dei canovacci per le rappresentazioni della Commedia dell'Arte, è nel genere comico, da un lato di offrire delle opportunità stabilendo una situazione di base di per sé divertente, dall'altro di fissare dei limiti perché l'improvvisazione non finisca totalmente fuori tracciato, non produca a sua volta situazioni che da gag diventino narrative, cioè sconfinino in derivazioni che poi richiederebbero ulteriori sviluppi e dunque non consentirebbero una "chiusura".
Esaminiamo ora la forma di un testo compiuto. Lo Ione di Euripide. Non mi soffermo sulla vicenda, piuttosto complessa, nè sullo stile che unisce tragedia e commedia fino alla parodia più dissacrante, accompagnandola con musiche e numeri di danza. In quest'ultima sezione del corso, infatti mi limiterò a considerare la pura forma del testo.
Il testo dello Ione elenca anzitutto i personaggi (soltanto i nomi, senza ulteriori indicazioni). Poi definisce la scena con una sintetica didascalia: La scena in Delfi. In fondo, il tempio di Apollo, davanti al tempio un altare e varie stele. Il frontone del tempio è ornato di bassorilievi. Da un lato un boschetto di lauri.
Nel testo, in alternanza ai dialoghi e ai cori (prima, durante e dopo), compaiono succinte indicazioni utili alla messa in scena e alle azioni rappresentate.
Entra Ione seguito da alcuni ministri del tempio. Indossa belle vesti, porta sulla spalla un arco, e stringe una frasca d'alloro ornata di bende, che gli serve a spazzare l'adito sacro del tempio.
Ci sono, a inframezzare la recitazione verbale, notazioni volte a chiarire a chi sta parlando Ione (ai ministri) e alle sue azioni (Dà di mano alla frasca d'alloro; depone la frasca d'alloro, prende un'anfora d'oro e versa acqua sul pavimento; come colpito da un rumore improvviso, alza gli occhi verso il cielo; dà di mano all'arco e allefrecce).
Come potete vedere, si comincia a delineare la forma della Sceneggiatura:
1. Dove è ambientata la scena e come è strutturata.
2. Chi entra in scena (e in seguito chi ne esce).
3. Come è vestito il protagonista e di quali attrezzi è dotato.
4. Quali azioni essenziali compie il protagonista (a chi si rivolge, quali gesti compie, come usa gli oggetti che porta con sé).
Si precisano queste cose non soltanto per chiarezza narrativa (nei confronti del pubblico), ma anche per prescriverle ai reparti (scenografia, costumi, attrezzeria) e all'interprete (ciò che dice acquista maggior senso attraverso i gesti che compie e il suo atteggiamento). Si scrive ciò che deve esserci, non ciò che potrebbe esserci. Non si esclude affatto che la scena, i costumi, il movimento in scena, possano essere arricchite, ma si sottolinea ciò che è obbligato, per motivi di natura narrativa.
Noterete in particolare un dettaglio prezioso: se si mette qualcosa addosso o in mano a un personaggio non è per un vezzo gratuito, ma perchè la userà nel corso della scena. Il testo precisa come e quando.
Si tratta insomma di indicazioni vincolanti, ma sommarie. Si evita di scendere in dettagli minuti. Si dice che Ione ha belle vesti, ma non le si descrivono, per tipo, colore o altro, come si farebbe in un romanzo. Si dice che sparge acqua a terra, da un'anfora d'oro (il che comporta e spiega la sacralità del gesto) ma non si dice se lo fa di getto o un po' per volta, se lo fa prima di parlare o mentre parla, e non si dice quando deve finire e posare l'anfora (questo è intuibile e ovvio e non richiede d'essere puntualizzato). Dunque in parte si precisa e in parte si lascia alla libera interpretazione.
Inoltre non si scrive, perchè sarebbe superfluo, quanto è chiaramente intuibile.
Questo è un utile insegnamento anche a riguardo del lavoro letterario. In un romanzo può essere caratterizzante precisare dei gesti o delle azioni di un personaggio nel corso di un dialogo, ma questo non vuol dire che se prende in mano un bicchiere di vino e lo sorseggia mentre parla, poi si debba per forza specificare che a un certo punto lo posa. Se in seguito il personaggio ha le mani occupate da qualche altro oggetto, è di per sè evidente che avrà posato il bicchiere. Non accumulate indicazioni ovvie, lasciate spazio all'intuitività del lettore.
La moderna sceneggiatura cinematografica si fonda ancora su questa antica misura. Nelle didascalie (cioè nelle descrizioni) si sottolineano le cose essenziali. Si prescrive soltanto ciò che è indispensabile e funzionale al racconto.
Nella commedia e nel teatro comico sono in genere più numerose le indicazioni rivolte all'attore. Aristofane, ad esempio, nella commedia Gli Acarnesi, indica in testa o in corso di dialogo: monologa tragicamente; con piglio oratorio; gridando; con voce e piglio da spaccamontagne; si stuzzica la gola con la penna; feroce. Insomma indica toni e intenzioni, suggerisce gesti significativi che caratterizzano quel certo personaggio in quel momento.
L'alternanza dei toni è fondamentale in una commedia. L'attore va aiutato a capire (la garanzia che capisca da solo non c'è) che una certa battuta va detta ironicamente, un'altra in tono irato, un'altra ancora sbraitando. Sono, come noterete, indicazioni di mutamenti improvvisi di tono e d'umore, cioé di eccessi. In una tragedia rincorrere gli eccessi è caratteristica degli attori cani, in commedia invece è fondamento della recitazione. Un attore drammatico (che rappresenta di solito, come ho segnalato nella relativa lezione, un personaggio "elevato") deve guardarsi dal diventare enfatico, un commediante (che rappresenta in genere un "uomo comune") deve invece guardarsi dall'apparire qualsiasi.
Le segnalazioni per l'attore dunque hanno lo scopo precipuo di fornirgli i "binari" di cui abbiamo parlato, cioé dei limiti entro cui muoversi, nella sua interpretazione. Il personaggio eroico deve contenersi, per non assumere caratteristiche da trombone che lo renderebbero retorico o addirittura ridicolo. Se dunque non precisiamo niente, vuol dire che non richiediamo di accentuare. Il personaggio comune caratteristico della commedia deve invece assecondare l'emotività, per non precipitare in un realismo triste e patetico. Sta all'attore trovare un equilibrio, la nostra segnalazione deve però essere precisa e inequivocabile. Sarebbe sbagliato scrivere: incazzato, ma non troppo.
O è incazzato o non lo è. Precisato che deve esserlo, starà all'attore cercare la misura giusta e più efficace.
Non scrivete mai quelle segnalazioni contraddittorie che sono tipiche della letteratura.
In letteratura, il lettore deve forgiarsi un'immagine mentale del personaggio.
Sottolinearne le contraddizioni può aiutare chi legge a non costruirsi un'immagine troppo unilaterale e definita che poi magari l'andamento della storia smentirebbe. Il personaggio di Harry Potter sulle pagine del romanzo è accortamente mantenuto abbastanza neutro, in modo che sia più semplice per i diversi lettori identificarsi con lui. In cinema si tratta invece di darne un'interpretazione che anzitutto è incarnata nel fisico dell'attore, ma che anche nell'andamento drammaturgico deve essere sempre coerente agli avvenimenti. Ciò che in un romanzo viene lasciato alla libera interpretazione del lettore, in cinema è consegnato all'interprete e al punto di vista di chi lo mette in scena e lo fa agire.
Ne consegue che il lavoro dello scrittore di romanzi, è molto diverso dal lavoro dello sceneggiatore. Il primo scrive per sollecitare il lettore a formarsi una propria immagine del personaggio, degli ambienti e delle situazioni; il secondo contribuisce a definire questa immagine, cioè deve sceglierne/suggerirne una tra le tante possibili. Il rapporto non è, come in romanzo, tra autore e pubblico. In un copione, tra l'autore del testo e il pubblico, ci sono dei tramiti: l'attore che interpreta il personaggio e chi mette in scena il testo.
Noi non dobbiamo descrivere l'attore, ma il personaggio, nei suoi tratti essenziali, e aiutare l'attore a comprenderlo passo passo, attraverso piccole ma precise indicazioni sui suoi gesti (funzionali e/o espressivi) e i suoi toni (esplicitare il tono, chiarisce il senso della battuta e il registro dell'interpretazione). Là dove la battuta è inequivocabile, come il tono con cui deve essere pronunciata, non c'è bisogno di precisare nulla. Non fate i professorini, perchè otterreste solo di irritare l'attore vincolandolo alla vostra interpretazione soggettiva, che è puramente teorica, non fisica. Non dilungatevi in spiegazioni psicologiche e motivazionali, perchè si presterebbero a interpretazioni molteplici e invece di chiarire confonderebbero.
La psicologia di un personaggio in un testo drammaturgico si deve capire da ciò che dice il personaggio, da come lo dice, e da ciò che il personaggio fa. L'attore va aiutato in corso di copione, non con delle complesse premesse dove spiegate il personaggio nei suoi tratti distintivi e nelle sue contraddizioni. Mettetelo in scena, il personaggio, e precisate quel che va precisato mentre lo fate agire.
Lo stesso vale per le indicazioni ai reparti e quelle di regia. Lo sceneggiatore rimarca l'indispensabile, ma deve guardarsi attentamente dal fornire indicazioni prescrittive sotto il profilo estetico, perchè questo lavoro non gli compete.
In conclusione: per assegnare dei limiti agli altri, dovete imparare a limitare voi stessi. In una buona sceneggiatura non si deve scrivere nulla di inutile, di puramente esornativo, nè tantomeno di controproducente, supponendo a torto che la messa in scena sia semplicemente un'esecuzione di una vostra idea puntigliosamente precisata fino allo sfinimento. Esagerare con le indicazioni porta a un unico risultato: verranno ignorate.
Lezione Lxi - Nascita E Fondamenti Del Copione Teatrale - di Gianfranco Manfredi
I GENERI: LA COMMEDIA
a) Le origini
Il Comos ( da cui si pensa origini la parola Commedia) era una Festa in onore di Dioniso, dio del vino e dell’ebbrezza. Il verbo comazein , in greco, significa infatti “far baldoria”. Aristotele osserva però, nella Poetica, che i Megaresi, presumibili creatori della Commedia, chiamavano i loro villaggi Comi. Secondo lui dunque la parola Commedia indica il fatto che queste rappresentazioni originavano dai villaggi, e passavano di villaggio in villaggio, mentre non erano tenute in gran conto nelle città. Aristotele considerava la Commedia anche come il genere teatrale più antico, o quanto meno, precedente alla Tragedia. Non trattandosi di rappresentazioni colte, ma estremamente popolari, furono meno documentate e dunque le loro caratteristiche originarie sono avvolte dal mistero. Paradossalmente questo mistero è stato accentuato dal fatto che i libri della Poetica di Aristotele dedicati all’analisi della Commedia, sono andati perduti. Tuttavia qualche traccia di questa analisi è accennata in alcuni passi della Poetica, per esempio nel capitolo II, dove Aristotele distingue tra rappresentazioni che hanno al loro centro personaggi migliori di noi (Tragedia) e personaggi ordinari, simili a noi, o addirittura inferiori (Commedia). Da un lato, cioè, il racconto delle Divinità , di uomini straordinari, Re, Eroi, individui eccezionalmente esemplari nel bene o nel male, dall’altro il racconto di personaggi come noi, dalla vita estremamente comune, tipi immediatamente riconoscibili in qualsiasi comunità , incarnazioni di ruoli quotidiani e famigliari. Questo non significa che in una commedia non possano apparire anche personaggi illustri, ma che questi personaggi vengono essi stessi rappresentati per i tratti che li rendono simili alle persone comuni. In particolare, ci interessano i loro vizi, le loro debolezze, le loro meschinità, le loro ridicolaggini , la loro “bruttezza” fisica e morale, più che le loro virtù, la loro forza, la loro grandezza, l’austerità e la serietà, la bellezza fisica e morale.
(In questa differenza d’origine, si può dunque anche leggere la fonte di quel pregiudizio secondo cui la rappresentazione tragico-drammatica sia più “elevata”, della Commedia e del Comico, tradizionalmente pensati come generi più “bassi”. Questo luogo comune estetico ha un’evidente origine “di classe” , nasce cioé dalla contrapposizione tra il pubblico aristocratico, colto ed elitario delle città e il pubblico popolare, ignorante, “volgare” delle campagne e dei villaggi. La Storia ha fatto giustizia di questo luogo comune, ma la Storia dei Premi Cinematografici ancora no: a tutt’oggi è molto più facile che venga premiato con l’Oscar un film drammatico che un film comico).
Nel suo saggio Il Teatro dalle origini ai nostri giorni (Universale Laterza, 1967) Léon Moussinac scrive:
“Il Comos delle feste rurali, così popolare, col suo corteo di personaggi seminudi e semiebbri, mostruosamente mascherati, dai gesti lubrichi, urlanti canzoni oscene e scagliando ingiurie, interruppe un giorno la sua sarabanda… si può immaginare il capo del corteo salire su un palchetto, togliersi la maschera e improvvisare davanti alla folla per dire il suo parere sui fatti politici.” Insomma, alle origini , nello spettacolo popolaresco, tutti i generi cosiddetti “minori” erano fusi: la farsa, l’orrore, il musicale, l’osceno, la satira di costume e politica.
(Sia detto per inciso: solo degli ignoranti possono sostenere che quando un comico si mette a parlare di politica uscendo dal suo ruolo di mero “buffone” allora non fa più satira, ma invettiva. L’invettiva è infatti parte costitutiva del ruolo del comico, fin dalle origini. Altra riflessione a margine: certi spettacoli contemporanei che tutti noi siamo portati a pensare come “nuovi” hanno in realtà un’origine antichissima: quando Moussinac cita lo “scagliare ingiurie”, si riferisce a una vera e propria gara (agon) di insulti, proprio come quella tra rapper cui assistiamo nel film 8 Mile (2002) con Eminem).
Uno dei più antichi, se non il più antico commediante di Atene fu Susarione. I suoi spettacoli erano senza capo né coda, una pura collezione di lazzi, buffonerie, scenette realistiche e mimiche. Da qui nacquero, ben prima di una narrazione sistematica e strutturata, i primi personaggi: un venditore di intrugli miracolosi (il cerretano) cioè il dottorone che coprendosi dietro un linguaggio pseudo-scientifico imbroglia le persone, il ladro di frutta ( prototipo del delinquente simpatico che ruba solo per sopravvivere), il goffo atleta millantatore di grandi imprese (prototipo del contaballe incallito, il classico Capitan Fracassa), il tipo che vuole apparire colto e pretende di usare un linguaggio forbito compiendo un’infinità di strafalcioni (come nella comicità di Nino Frassica o di Addolorata). E ancora: il Vecchietto (Pappos, cioè il nonno) di volta in volta arguto, rincoglionito, arzillo o invalido, ridicolo o arcigno. Lo Stupido, in tutte le varianti: dal “bietolone di mamma sua”, al nesci, cioè il finto stupido che finge di non vedere e non sentire, ma s’accorge di tutto. E poi: il Mangione, l’Ubriacone, il Pauroso (vittima anche di spaventi autentici, per esempio di fronte a serpenti mostruosi), il Dormiglione.
“ Da questa specie di monologhi-macchiette” scrive Ettore Romagnoli nella sua Prefazione alle Commedie di Aristofane (Zanichelli 1961) “ ebbe origine una specie di farsa che le notizie più tarde chiamano commedia di piazza.”
Se prima accadeva che tutti questi tratti burleschi potessero anche unirsi e sfumare l’uno nell’altro grazie all’interpretazione di un solo attore, con il diffondersi della Commedia di Piazza, gli attori raggruppandosi a recitare insieme furono portati ad esagerare ciascuno certe caratteristiche a contrasto con quelle altrui. Nacquero così i diversi ruoli. Le storie vere e proprie nascono dopo, da una codificazione dei Tipi.
Ho molto insistito in queste lezioni sul primato dei personaggi. E’ dalla creazione dei personaggi (e dei Tipi fondamentali) che prende forma il racconto vero e proprio. I personaggi non sono cioè derivati dalla vicenda, ma al contrario non c’è vicenda che non sia vicenda di personaggi. La definizione del personaggio e del suo carattere è preliminare al racconto.
b) I Ruoli nella Commedia
Aristofane è stato il primo a legare insieme in un’unica azione, i personaggi e i singoli elementi compositivi della Commedia in una struttura unitaria. Vediamo in breve un paio di trame.
Nelle Nuvole, Strepsiade, un contadino ossessionato dai debiti procuratigli da un figlio scansafatiche (Fidippide) che gioca alle corse dei cavalli, lo manda al Pensatoio (la scuola di Socrate) nella speranza di farne un ragazzo colto, educato e serio, formato a un ruolo sociale di assoluto riguardo e di sicuro avvenire (l’avvocato). Ma Fidippide adopera le tecniche retoriche di persuasione apprese alla scuola per umiliare il padre, non esitando nemmeno a picchiarlo, per poi infinocchiarlo convincendolo che questo suo comportamento è giusto: Fidippide in fondo non fa che restituire al padre le botte ricevute da piccolo .
In Lisistrata , le donne stanche di guerra, decidono uno sciopero del sesso nei confronti dei loro bellicosi mariti, per costringerli a fare la pace.
I temi civili e politici sono fondamentali nel teatro di Aristofane. I ruoli non sono semplicemente i Tipi Buffi, ma i ruoli famigliari e sociali (figlio/padre, mogli/mariti, allievi/insegnanti, colti/ignoranti) . Il “buffo”, ciò che rende Commedia la narrazione, sta nel capovolgimento dei ruoli abituali.
In questo modo la Commedia si forma come narrazione di un paradosso: da un lato si codificano i personaggi in ruoli ben differenziati e distinti, dall’altro i personaggi stessi finiscono per capovolgere i ruoli sociali, mostrandocene l’inconsistenza.
Il capovolgimento e lo scambio di ruoli giunge al suo apogeo con il teatro di Plauto, vero fondatore della “Commedia degli Equivoci”.
Nei Menecmi, due gemelli separati alla nascita si ritrovano da adulti nella stessa città e il fatto che siano identici all’aspetto, per quanto diversissimi di carattere, scatena una serie di equivoci. Su questa base Shakespeare scrisse la Commedia degli Errori e Goldoni I due gemelli veneziani.
Anche in Anfitrione, lo schiavo Sosia è al centro di una serie di scambi di “sembianze” .
Questo ruolo dello schiavo furbo che ricorrendo a tutti i trucchi possibili riesce a risolvere le difficili imprese assegnategli dal suo padrone, non senza procurarsene vantaggi personali, è molto presente in Plauto ed è una perfetta rappresentazione del carattere da Commedia (uomo comune) in contrapposizione al carattere da Tragedia (eroe e semidio). Possiamo leggerne l’eredità anche nel personaggio del Tenente Colombo: un umile funzionario di polizia, apparentemente rustico e ingenuo, in realtà astutissimo, che combatte (e vince) contro personaggi autorevoli, ricchi, famosi e socialmente protetti, cioè il rappresentante del Popolo contro quello del Potere.
I ruoli, il passaggio trasformistico tra i ruoli, la lotta tra i ruoli come manifestazione/metafora della più larga lotta sociale, è questo il tema dominante della Commedia.
c) La Commedia nel cinema
Un attore divorziato, per poter trascorrere del tempo con i figli, si finge un’anziana governante (Mrs.Doubtfire).
Due musicisti jazz braccati dai gangster, si travestono e riescono a trovare un impiego fuori città in un’orchestra di sole donne (A qualcuno piace caldo).
Un attore disoccupato si finge donna per recitare in una situation comedy che ha un ruolo femminile scoperto (Tootsie).
Una cantante da night assiste a un omicidio e la polizia per nasconderla la mescola alle suore di un convento (Sister Act).
L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Tutte queste commedie cinematografiche si incentrano, come si vede, su uno scambio di ruoli e sul gioco degli equivoci. Anche la trama sembra la stessa: Sister Act ha la stessa partenza di A qualcuno piace caldo. Il protagonista di Mrs. Doubtfire, anche se per un motivo affettivo e non lavorativo, usa lo stesso escamotage del protagonista di Tootsie, a sua volta identico a quello della coppia di jazzisti di A qualcuno piace caldo. Eppure nessuno può negare che questi quattro film siano tutti molto diversi tra loro.
I canovacci della Commedia tendono a ripetersi, sono i contesti, gli ambienti, le situazioni, le rappresentazioni dei ruoli che cambiano.
Lo sviluppo di trame del genere ha uno schema praticamente obbligato:
1. Prologo. Si presenta il protagonista. Di lui dobbiamo conoscere non solo la professione, ma le convinzioni (in genere è una persona molto motivata, contenta del proprio ruolo) . Dobbiamo anche sottolineare certi suoi difetti che possono rendercelo simpatico . Non è quasi mai una persona importante, ma comune, e nient’affatto virtuosa.
2. Nasce una complicazione. Per l’urgenza di risolverla il protagonista cambia ruolo, si trasforma in un’altra persona che spesso ha un ruolo opposto al suo. Dall’iniziale disagio, passa alla stabilità: riesce a farsi accettare. Anzi tutto gli va miracolosamente meglio. Ma la stabilità raggiunta è minacciata dagli equivoci che si sono accumulati, e che hanno uno sviluppo sempre più complesso e ingovernabile.
3. Epilogo conclusione. Si tratta in genere di una baraonda finale, in cui tutti i personaggi sono in scena. Lo smascheramento/ soluzione si celebra in pubblico.
Sembra facile, ma non lo è affatto.
La situazione “buffa” ( data dal capovolgimento di ruolo) non è il punto d’arrivo, ma il punto di partenza. Quello che lo sceneggiatore deve raccontare è il groviglio di equivoci che nasce dallo scambio di ruoli iniziale.
Si tratta di escogitare situazioni divertenti a catena, secondo un meccanismo che è identico a quello che Hitchock usò per i suoi film di suspense. Cioè: lo spettatore conosce cose che i personaggi ignorano. Ridiamo della loro ignoranza e dalla facilità con cui cadono vittime dell’apparenza.
Nel caso di Tootsie, per esempio, lo spettatore sa che Tootsie è in realtà un uomo, mentre tutti gli altri personaggi credono che sia una donna.
Hitchock usa questo meccanismo tipico da commedia, ma lo stravolge e lo capovolge in pura tensione: in Psycho, noi sappiamo che la madre pazza di Norman Bates è stata chiusa in cantina e dunque tremiamo quando un altro e inconsapevole personaggio, cercando di nascondersi, va a rifugiarsi proprio in cantina. Però in Psycho il pubblico non sa e non deve sapere la cosa fondamentale e cioè che la madre pazza è lo stesso Norman Bates travestito.
Insomma: come si è accennato nella scorsa lezione, il “racconto del mistero”, anche quando rivela molto agli spettatori, si fonda su un segreto che non deve venire assolutamente rivelato se non nelle ultime scene. Nella commedia invece tutto deve essere rivelato e trasparente al pubblico. Il pubblico dovrà solo chiedersi: come diavolo farà il protagonista a uscire da un tal ginepraio di equivoci?
Il protagonista suscita la nostra simpatia perché passando attraverso una serie infinita di peripezie spesso si smarrisce nel finto ruolo che impersona fino a non sapere più che parte giocare e come liberarsi dalla sua stessa trama di inganni. Tutti questi passaggi psicologici del protagonista sono inscindibili da ciò che accade, devono essere raccontati . Ciò che accade insomma non è l’unica cosa che dobbiamo raccontare, ma anche come ciò che accade cambi il nostro protagonista, rendendolo una persona migliore e finalmente accettata dagli altri.
In genere il finale di commedia ci mostra che la salvezza del protagonista non starà nel continuare a nascondersi, ma proprio nello svelarsi di fronte a tutti. Solo allora, quando il suo castello di carte rischia di crollare miseramente, lui potrà davvero vincere e farsi accettare. In una commedia, fin dai tempi di Plauto, la simulazione e l’inganno producono un successo, una vittoria. Sono il modo attraverso cui si può giungere alla giustizia e alla verità, cioè alla fine degli inganni reciproci. In un thriller, invece, l’inganno teso dall’assassino agli altri personaggi e allo spettatore, in genere fallisce e viene punito. (Dico in genere perché non sono pochi i film , come ad esempio il recente Saw , in cui invece l’ingannatore vince e resta impunito).
La Commedia, che pare prendere in giro dal principio alla fine i “valori”, le “certezze”, la presunta saldezza dei ruoli sociali, ha quasi sempre una soluzione morale. Questa soluzione morale non sta nel punire, ma nel comprendere, non sta nel rimettere ordine, ma nel cambiare l’ordine.
Insomma attraverso il divertimento, la Commedia ci propone l’utopia di una società più mite, più disponibile, che sappia felicemente trasgredire ai ruoli prestabiliti. Se la morale comune, prestabilita, si fonda sul moralismo, la vera moralità si fonda sul riconoscimento delle nostre debolezze e della nostra capacità di cambiamento. Non dipende dai ruoli, ma da come sappiamo interpretarli. Questa verità deve trasmettersi dal protagonista a tutti gli altri personaggi (e ovviamente al pubblico). L’utopia non sarebbe tale se non diventasse patrimonio pubblico. Ecco perché l’epilogo di una Commedia è quasi sempre una scena collettiva, in cui compaiono tutti i personaggi.
Questo non significa che la Commedia non possa avere anche un andamento e un esito meno “buonista” e più disturbante. La Commedia come abbiamo visto, nasce da una sorta di brodo primordiale di generi “dionisiaci”, che con il tempo si distinguono: alcuni diventano indipendenti e autonomi ( il Comico, l’Horror, il Porno, il Musical), altri restando all’interno dei confini della Commedia, ne sviluppano però un’infinita serie di varianti e di sfumature.
d) La Commedia è una cosa seria
“La Commedia funziona così: si crea una situazione, poi si fanno agire e reagire i personaggi alla situazione e tra di loro. In una commedia, i personaggi non scherzano, non vogliono far ridere: devono credere a ciò che fanno, altrimenti la situazione diventa forzata, troppo voluta, e spesso, poco divertente.” (Syd Field). L’esempio offerto a questo proposito da Syd Field è Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi, premio Oscar per la sceneggiatura. Field lo definisce “ a classic film comedy”. Per la verità si tratta di un film molto poco classico, anzi del tutto fuori dagli schemi, una “black comedy” inabituale per il cinema italiano. La “Black Comedy” è una sorta di variante grottesca della Commedia , che mette al centro della narrazione eventi più degni di una tragedia: tradimenti, complotti, conflitti coniugali e famigliari, crimini e omicidi anche efferati. Appartengono a questo sotto-genere film come Arsenico e Vecchi merletti (1944) di Frank Capra, La signora Omicidi (1955) di Alexander Mackendrick, Getta la mamma dal treno (1987) e La guerra dei Roses (1989) di Danny DeVito. Field però si serve dell’esempio, e in particolare dell’interpretazione di Mastroianni , per sottolineare che in una Commedia “i personaggi sono intrappolati in una rete di circostanze e svolgono il loro ruolo con esagerata serietà.” In proposito, Field cita anche questa “sentenza” di Woody Allen : “In una commedia recitare in modo divertente è la cosa peggiore che puoi fare.”
Questa è un’indicazione molto importante per lo sceneggiatore. Il protagonista di una commedia non deve essere necessariamente un comico, anzi questo è un pericolo. Non dobbiamo pensarlo come personaggio comico. Sono le circostanze, la situazione che costruiamo, a produrre divertimento, ma il protagonista non si diverte affatto, è troppo coinvolto, non sta giocando , sta cercando di salvarsi la reputazione e persino la pelle. Analizzeremo in un’altra lezione la specificità del cinema comico, qui ci limitiamo a richiamare il modello Susarione, cioè la serie di gag senza capo né coda. Il genere comico è totalmente anarchico, non sopporta strutture troppo vincolanti di racconto, la storia è solo un lieve pretesto per unire un numero comico al successivo, il protagonista entra ed esce dalla parte e a volte persino dal suo ruolo di attore/interprete con assoluta libertà, con l’unica preoccupazione di sostenere un certo ritmo: come avviene per un solista jazz, insomma. La Commedia invece costruisce degli intrecci molto complessi, il protagonista deve affrontare problemi molto seri, salvarsi da situazioni estreme che possono travolgerlo da un momento all’altro. E’ dunque lui stesso, come scrive Field, esageratamente serio.
L’esempio limite che si può fare è Oltre il Giardino (1979) di Hal Ashby. Peter Sellers che interpreta il ruolo di Chance, un giardiniere mentalmente ritardato che viene scambiato per un grande esperto di economia, mantiene per tutto il film un’espressione stralunata, da alieno gentile. Mentre scorrono i titoli di coda, il regista ci mostra dei ciak non riusciti nei quali si vede Sellers che non riesce a frenarsi e scoppia a ridere. Nella conduzione del suo personaggio, ciò non era in alcun modo possibile, sarebbe stato un errore. Chance alla fine, con il suo totale candore, si rivela una sorta di creatura metafisica ( cammina sulle acque). Il film fa molto ridere, senza che nessuno rida mai sullo schermo. Anzi, i personaggi, tutti i personaggi, agiscono, parlano con una serietà estrema. Tutte le battute che si pronunciano, non sono umoristiche per chi le pronuncia, lo sono per noi spettatori, perché la situazione,il contesto, ciò che sappiamo (e che i personaggi ignorano) ce le fa apparire tali. Dicevo che siamo ai limiti estremi della Commedia, quasi inarrivabili (anche se un film come Forrest Gump è andato molto vicino a questo risultato).
Per riassumere: dal brodo primordiale dei generi non-tragici esce una forma di spettacolo più costruita che dagli spunti puramente farseschi degli inizi, sviluppa una costruzione e una struttura quasi ferrea. Questa struttura però consente di liberare toni, stili, sfumature diversissime tra loro.
La Commedia può essere molto popolare, anche esplicitamente volgare (tipo American Pie, per intenderci) , può essere indirizzata alla satira di costume, alla polemica politica e sociale, può anche arrivare ad esprimere una filosofia di vita, e persino un sentimento poetico dell’esistenza, come in Oltre il Giardino. La scelta del tono è dunque fondamentale. Il protagonista e gli eventi che scegliamo di mettere in scena costruiscono uno stile e insieme vengono condizionati da questa scelta di stile, cioè tutti gli elementi della rappresentazione devono restare coerenti.
ESERCIZIO – Tra i tanti film citati in questa lezione, vi suggerisco di vedere più volte e di smontare nelle sue singole parti, Tootsie (1982) di Sydney Pollack .
Distinguete anzitutto i Tre Atti (prologo e presentazione del protagonista/ nascita e sviluppo della complicazione/ Epilogo).
Di ogni singolo atto, appuntatevi gli episodi che scandiscono la narrazione. Insomma ricostruite la scaletta del film, evento per evento.
Scrivete su due colonne, da un lato le situazioni, dall’altro l’evoluzione psicologica del protagonista, cioè uno specchietto comparativo di come la sequenza di eventi influenzi il suo carattere.
Scegliete una scena esemplare, quella che preferite, e ricostruite il gioco degli equivoci, il modo in cui lo sceneggiatore li accumula, come li fa arrivare vicini alla zona di rischio (per il protagonista) e come riesce ad allontanarsene. Distinguete, in questa scena, gli equivoci verbali da quelli fisici o di fatto (dovuti alla situazione).
Studiate attentamente l’epilogo cioè la scena dello smascheramento finale, di fronte a tutti.
So che in genere nelle scuole di scrittura, si parte subito da esercizi di scrittura che possono essere efficacemente discussi in gruppo , ma insisto che questo lavoro andrebbe sempre accompagnato allo studio strutturale dei film, cosa che di solito viene troppo trascurata. Quando si sta scrivendo una Commedia questo studio di struttura non può assolutamente essere considerato secondario. Come ho cercato di mostrare, ciò che costituisce una commedia è il passaggio da una struttura fissa e quasi obbligata, a uno stile, cioè al nostro modo di usare questa struttura, in coerenza con il tipo di protagonista e con ciò che abbiamo scelto di raccontare. Prima di poter compiere queste scelte stilistiche è necessario che la struttura di base ci sia diventata famigliare.
12° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
Distinguiamo alcune funzioni essenziali:
1. Funzione espressiva
La parola, l’espressione verbale, sono sempre in rapporto con il comportamento, con lo stato emotivo particolare del personaggio in un certo momento della storia, non sono cioè un testo puramente scritto (letterario) ma una comunicazione verbale che ci rivela molto del personaggio. Ci rivela la sua origine (dall’inflessione), il suo livello culturale (dalla vastità del vocabolario, dai termini scelti, dalla proprietà o meno del linguaggio), il suo atteggiamento nei confronti degli altri e della vita non in termini ideologici, ma come “psicologia in atto” (uso o meno dell’ironia, concisione o verbosità, giudizi meditati o frettolosi, timidezza o spudoratezza, franchezza o simulazione, eccetera) .
Prendiamo come esempio un dialogo tratto dal film La Febbre del Sabato Sera (1977) sceneggiatura di Norman Wexler, ma prima vediamo la descrizione che Wexler ci dà del protagonista Tony Manero.
“ Il suo modo di camminare per strada è una performance. Tony ha diciotto anni, quasi diciannove, è alto, ben proporzionato, si muove con studiata disinvoltura e una punta di spavalderia. Ha un bel volto e quando è rilassato suscita un’istintiva simpatia che lo rende amabile. La sua personalità acquista luce dal contesto, lo fa spiccare sugli altri ( prodigo di buoni consigli con gli amici, sicuro e macho con le donne). In famiglia è imbronciato e cocciuto: rispetta i genitori, ma non si fida gran che di loro, prevede in anticipo le loro domande e le loro critiche nei suoi confronti. Spesso appare pensoso, ma se gli si chiede a cosa stia pensando, non sa dirlo. Vive in un eterno presente, il futuro per lui si limita al prossimo week end in discoteca. Tuttavia ci sono dei momenti , rari e privati, subito rimossi, in cui avverte qualche vaga preoccupazione sull’insieme della sua vita. Mangia, di fretta e con indifferenza, meccanicamente, senza provarne piacere, dando così l’impressione non d’essere un ghiottone, ma un insaziabile affamato che tuttavia non si cura del cibo se non come mero alimento. E’ un ballerino superbo, forte e pieno di grazia, si muove fluido e preciso, con una presenza notevolissima e una bravura indubitabile. In pista, si fermano tutti per guardare lui. E’ l’indiscusso re della compagnia”.
Come si vede, prima di fare agire e parlare il suo personaggio, Wexler si preoccupa di caratterizzarlo nei dettagli. Non è un caso che questi dettagli comincino dal modo di camminare e di muoversi, che includano il suo modo di mangiare … insomma si comincia dalla “fisicità” per fondare su di essa le caratteristiche psicologiche e il suo modo di “rapportarsi” con gli altri.
Passiamo alla descrizione che Wexler ci fa della sua partner Stephanie Mangano.
“ Stephanie, vent’anni, altezza media, slanciata, con un volto intenso e attraente, lunghi capelli neri con la scriminatura centrale, è in affannosa ricerca di cambiare se stessa , eliminando le tracce delle sue origini popolari nel quartiere di Bay Ridge e di rimodellarsi in una donna sofisticata, esperta delle cose del mondo, o quanto meno di tutto ciò che lei considera alla moda. Di fatto è un’amabile simulatrice, a mezzo tra due identità diverse, piena di arie e supponente, sempre in cerca di far colpo al di là di quanto le è possibile, una frustrata… ma in qualche modo riscattata da un senso giocoso e ironico del ruolo che recita e da una naturale disposizione all’ingenuità, alle gaffes, a una sostanziale trasparenza del suo comportamento. La cosa più importante è che la sua dolcezza di fondo e il suo coraggio ce la rendono simpatica anche quando le sue parole o azioni risultano offensive.”
Chiariti così i personaggi, il dialogo tra loro non diventa altro che l’espressione delle reciproche caratteristiche.
SCENA / BAY RIDGE STREET Esterno Sera
Tony e Stehanie a passeggio.
STEPHANIE: Dove lavoro io, vedo gente straordinaria… così… diversa dalla gente di Bay bridge.
TONY: Gli snob invece degli slob (in gergo per : zoticoni)
STEPHANIE: Cosa?
TONY: Bay Ridge non è la parte peggiore di Brooklyn... non è mica un inferno…
STEPHANIE: No, però non è Manhattan . Tu non hai idea di come sia diverso, di come cambi tutto di là del fiume. La gente è fantastica, gli uffici sono fantastici, le segretarie fanno tutte lo shopping da Bonwit Taylor. Persino gli intervalli di pranzo sono fantastici. Ti lasciano anche un paio d’ore per seguire i tuoi interessi… abbiamo visto, ho visto… Giulietta e Romeo di Zeffirelli.
TONY: E’ di Shakespeare. L’ho studiato a scuola.
STEPHANIE (facendo sfoggio di cultura): Zeffirelli era il regista. Della pellicola, voglio dire... il film.
TONY: Romeo avrebbe anche potuto aspettare un attimo. Non doveva prendere quel veleno così alla svelta.
STEPHANIE (sulla difensiva): E’ così che prendevano il veleno a quei tempi.
La scena continua in un caffè e gli elementi qui tracciati vengono approfonditi e dilatati con un vivace tono da commedia, ma noi possiamo anche fermarci qui per rimarcare alcune cose.
1. Dobbiamo fare incontrare i due personaggi e questo incontro è un’occasione per conoscerli nelle loro differenze.
2. Si va subito al punto con un giudizio in cui Stephanie cerca di differenziarsi dal suo quartiere. Parla apparentemente di un tema generico , ma esprime se stessa.
3. Tony scherza, non la prende molto sul serio, anche se evita di prenderla apertamente in giro o di polemizzare. Anche Tony rivela se stesso: non è un bullo da quattro soldi, rispetta la ragazza, cerca di capire le sue convinzioni senza ritenersi implicitamente offeso.
4. Lei alla prima obiezione scherzosa, già fatica a reggere il gioco. Non riesce a simulare fino in fondo. E’ un’ingenua e fa anche simpatia con questo suo atteggiamento.
5. E’ Stephanie ad avere le battute più lunghe. Tony agisce di rimessa con brevi notazioni, a contrasto con l’impacciata verbosità di lei. Stephanie usa sempre gli stessi aggettivi: pronuncia la parola beautiful ( che ho tradotto “fantastico”) indifferentemente per le persone, gli uffici, persino gli intervalli di lavoro.
In conclusione: il modo di parlare , l’uso del linguaggio, sono estrinsecazioni di un personaggio, devono dunque essere sempre coerenti al personaggio. In un dialogo tra due personaggi le differenze di linguaggio tra i due si devono notare, perché sono parte della differenza dei caratteri.
Non fate parlare i personaggi tutti nello stesso modo. Anche se si tratta di personaggi dello stesso quartiere, dello stesso ambiente sociale, dello stesso livello culturale, si tratta tuttavia di individui diversi e questa loro diversità deve venire espressa in quello che dicono e nel modo in cui lo dicono. Ciò che dicono e anche quello che non dicono è rivelatorio del loro atteggiamento.
2. Funzione informativa
In un dialogo si forniscono anche informazioni al pubblico sulla storia. Questa funzione tuttavia deve essere usata con grande parsimonia e ben regolata. Nella tragedia greca un ruolo codificato è quello del messaggero che per esempio giunge in scena a raccontare com’è andata una battaglia. In cinema è molto rischioso usare questo espediente perché in cinema gli eventi si mostrano, non si narrano a parole, tanto meno eventi di grande potenzialità spettacolare, come una battaglia. Tuttavia, dare sinteticamente delle informazioni può essere molto utile a stringere i tempi della narrazione e a offrire qualche coordinata essenziale.
Prendiamo ad esempio questa battuta del detective privato Sam Spade nel film Il Falcone Maltese (1941) sceneggiatura di John Huston.
SCENA – SALOTTO DELL’APPARTAMENTO DI SPADE. Interno Giorno.
Spade al telefono.
SPADE: Pronto… c’è il Sergente Polhaus? … sì… sono Sam Spade ( attesa). Ciao, Tom… senti, ho qualcosa per te. Le cose stanno così: Thursby e Jacobi sono stati uccisi da un certo Wilmer Cook… sì, sui vent’anni, un metro e sessanta. Vestito grigio di lana, soprabito grigio , camicia con il colletto morbido, cravatta chiara di seta. Lavora per un certo Kasper Gutman. Cura questo Gutman. Pesa più di cento chili… è coinvolto anche quel Cairo… sì… adesso stanno andando al Hotel Alexandria ma sono pronti a tutto quindi vedi di muoverti… non credo che si aspettino di venire pizzicati… stai attento quando affronti il ragazzo… Proprio così. Molto. Beh, buona fortuna, Tom.
Come si vede, l’informazione non viene in questo caso fatta filtrare all’interno di un dialogo, ma viene comunicata proprio per tale. Come un’informazione. Il detective parla con un poliziotto e segue regole di comunicazione chiare e svelte, con dati segnaletici. Tutto è rigoroso ed essenziale. Si dà per scontato che il poliziotto sappia valutare l’importanza dell’informazione senza bisogno che Spade la sottolinei troppo e la precisi maggiormente.
Prendiamo ora un altro caso, in cui un personaggio racconta a un altro un evento cui non abbiamo assistito e che non ci viene mostrato. Il seguente dialogo è tratto dal film Conoscenza Carnale (1971) , sceneggiatura di Jules Feiffer. Sono in scena Jonathan e Sandy, compagni di stanza al college negli anni 40, all’epoca entrambi ancora vergini.
SCENA- CAMPUS Esterno Notte
Jonathan e Sandy camminano lungo la strada che conduce al loro dormitorio. Foglie secche sul terreno.
JONATHAN: E allora?
SANDY: Mi ha detto di toglierle la mano dalla tetta.
JONATHAN: E allora?
SANDY: Le ho detto che non volevo.
JONATHAN: E allora?
SANDY: Mi ha detto che non capiva come facevo a trovarlo divertente se a lei non andava.
JONATHAN ( disgustato) : Gesù!
SANDY: Così io le faccio: credevo di piacerti.
JONATHAN: Sì?
SANDY: E lei fa: mi piaci per altri motivi.
JONATHAN: Altri motivi?!
SANDY: Così io le ho spiegato perché ne sentivo proprio bisogno…
JONATHAN: Cioè cosa le hai detto?
SANDY: Beh… che per me era la prima volta.
JONATHAN: La prima volta cosa? Cosa hai detto esattamente?
SANDY: Beh, di preciso non ricordo… che lei era la prima ragazza che avevo provato a toccare.
JONATHAN: Le hai detto così?
SANDY: Ho sbagliato?
JONATHAN: Io non l’avrei fatto.
SANDY: Lei così è stata più carina .
JONATHAN: Più carina in che senso?
SANDY: Mi ha messo la mano sulla sua tetta.
JONATHAN: Vuoi dire che tu gliel’hai messa e che lei ce l’ha lasciata.
SANDY: No, lei l’ha presa e me l’ha messa sopra.
JONATHAN: Te l’ha presa così… e te l’ha messa qui?
SANDY: Proprio così. Non sapevo più che pensare.
JONATHAN: No , eh?
SANDY: Voglio dire… era una cosa amichevole tra noi… e lei di colpo è diventata un tantino aggressiva.
JONATHAN: E poi?
SANDY: Le ho chiesto se era vergine.
JONATHAN: Stai scherzando!
SANDY: Ho sbagliato? … Comunque , sì, lo è.
JONATHAN: Lo dice lei. Cos’hai rimediato alla fine? Una mano sulle tette o due?
SANDY: Mi ha messo anche l’altra mano sull’altra tetta.
JONATHAN: Ti ha messo su… tutte e due le mani? Due mani?
SANDY: Sì, così io le ho detto: e tu con le tue mani cosa ci fai?
JONATHAN: No, non gliel’hai detto!
SANDY: Mi è scappato!
JONATHAN: E allora?
SANDY: Lei… per essere precisi… mi ha tirato fuori l’uccello.
JONATHAN: Che contaballe! E poi? E poi?
SANDY: L’ha fatto.
JONATHAN: Ha fatto cosa?
Sandy fa il gesto della masturbazione con la mano, ghignando.
JONATHAN: Sei un contaballe! Davvero ti ha fatto… ?
Sandy salta su e giù eccitato. Scoppiano a ridere tutti e due.
In questa scena Feiffer (lo sceneggiatore) mostra a contrasto i due personaggi: Jonathan (interpretato nel film da Jack Nicholson) personaggio potenzialmente sciovinista e sessista, cinico nei confronti delle donne, e Sandy ,(interpretato da Art Garfunkel) più convenzionale e anche un po’ stupidotto, tuttavia non certo uno che si tira indietro per troppa timidezza. Nel dialogo, Sandy sta informando Jonathan su come è andato un suo incontro con una ragazza. Contravvenendo apparentemente alla regola per cui gli avvenimenti al cinema vanno mostrati, non semplicemente riferiti, Feiffer in realtà sottolinea quello che lui vuole raccontare, cioè non l’incontro sessuale in sé, ma il modo diverso in cui i due amici affrontano il problema della loro verginità. Sono loro i protagonisti. La ragazza è un pretesto, è un’occasione per conoscere i due amici a confronto. Non è importante mostrarla, anzi sarebbe incongruo. Ritroviamo questa tecnica di dialogo in molti film di Scorsese e di Quentin Tarantino (tanto per fare due esempi) : i personaggi si raccontano storie vissute. Queste storie non vengono mostrate, nemmeno in FLASH BACK, perché non sono il vero oggetto della narrazione. L’oggetto sono e restano i personaggi, il loro modo di raccontare e di interagire. Si parte da un contenuto di tipo informativo ma in realtà lo si usa in funzione espressiva. Quando in un film avete necessità di far raccontare un fatto, ricordatevi sempre che il vero oggetto della narrazione sono i personaggi che in quel momento assumono la funzione di narratori. Sandy, nella scena che abbiamo esaminato, non è un messaggero , cioè il semplice e neutro latore di una notizia, ma è un protagonista che attraverso il racconto di un’esperienza vissuta esprime se stesso, il suo carattere.
3. Funzione enunciativa
In un dialogo i personaggi possono anche esporre i propri punti di vista su un qualche argomento o chiarire i propri progetti e le proprie intenzioni. Fate attenzione perché anche questo ha stretta attinenza con la descrizione che stiamo dando del personaggio. Evitate di usare il personaggio per mettergli in bocca opinioni vostre , di voi che scrivete. Le opinioni devono sempre essere quelle di quel tipo di personaggio, servono a farcelo comprendere meglio.
Prendiamo ad esempio alcuni giudizi tranchant dell’anziana attrice Norma Desmond, una celebrità del muto ormai decaduta, nel film Viale del Tramonto (1950) sceneggiatura di Charles Brackett e Billy Wilder. Nella scena, l’anziana attrice incontra un giovane sceneggiatore (Gillis).
GILLIS: Il vostro volto non mi è nuovo. Voi siete Norma Desmond. Facevate molti film. Eravate grande.
DESMOND: Io sono grande. E’ il cinema che è diventato piccolo.
GILLIS: Sì, qualcuno deve avere sbagliato qualcosa...
DESMOND: E’ morto. Finito. C’era un tempo in cui in questo lavoro avevamo addosso gli occhi dell’interno mondo. Ma non era abbastanza. Oh no! Loro volevano anche le orecchie. Così hanno aperto le loro boccacce e cominciato a parlare, parlare, parlare….
GILLES: Ecco perché si vende il pop corn. Te ne prendi una scatola e ti ci tappi le orecchie.
DESMOND: Colpa dei caporioni, nei loro begli uffici! Prendevano gli idoli e li infrangevano. I Fairbanks, i Chaplin, i Gilbert, i Valentino. E adesso cosa gli è rimasto? Delle nullità… un pugno di ranocchi incolori che gracidano!
Più tardi, Norma parla a Gillis di un suo progetto di sceneggiatura.
NORMA: Quanto dev’essere lunga una sceneggiatura, oggi? Cioè… quante pagine?
GILLIS: Dipende dal film… se è Paperino o Giovanna d’Arco .
NORMA: Questo sarà un film molto importante. L’ho scritto io stessa. Ci ho messo degli anni.
GILLIS ( guardando la pila di fogli sul tavolo): Qui ce n’è abbastanza per sei film importanti.
NORMA: E’ la storia di Salomè. Credo che lo dirigerà De Mille.
GILLIS: Uh-uuh
NORMA: Abbiamo fatto molti film, insieme.
GILLIS: E voi reciterete nel ruolo di Salomè?
NORMA: E chi sennò?
GILLIS: Chiedevo. Non sapevo che stavate progettando un rientro.
NORMA: Odio quella parola. E’ un ritorno. Un ritorno ai milioni di persone che non mi hanno mai perdonato d’aver abbandonato lo schermo.
Le opinioni di Norma sul cinema, i suoi progetti folli. Il personaggio, comparso nel film mentre sta seppellendo la sua scimmia in giardino, grazie al dialogo non viene presentato semplicemente come una pazza, ma come una donna con ferme opinioni e con progetti. Il cinismo con il quale lo sceneggiatore disoccupato Gillis le dà corda fa da contrappunto . Anche in questo caso, in cui nel dialogo si pronunciano giudizi e si enunciano intenzioni, non ci si discosta dalla prima ed essenziale funzione del “parlato”, quella espressiva.
4. Funzione dialettica
In un dialogo si mettono a confronto almeno due personaggi. Abbiamo visto in tutti gli esempi precedenti come questi due personaggi inevitabilmente finiscano per contrapporsi . Certo, non è strettamente indispensabile che i loro punti di vista si scontrino, uno dei due personaggi (come nel caso di Jonathan) può sollecitare l’altro, oppure (come nel caso di Gillis) assecondare l’altro, eppure nel confrontarsi si mostrano diversi. Insomma un dialogo mette sempre in scena una dialettica tra due punti di vista differenti. Se un personaggio dice la sua e tutti gli altri si limitano a dargli ragione, non siamo più in presenza di un dialogo, ma di un monologo assertivo. La funzione di un dialogo è dunque fondamentalmente espressiva, ma non unilaterale. Un dialogo ci mostra più spesso di quanto non accada nella vita reale (popolata da dialoghi tra sordi) personaggi che si ascoltano l’un altro, che si prendono più o meno sul serio, e che ribattono alle parole degli altri. Anche quando uno dei due personaggi all’apparenza si limita a fare da spalla , anche se , come Jonathan, continua a ripetere semplicemente: “ E allora?” , nella sua insistenza, nel suo chiedere maggiori dettagli , dice implicitamente:”io sono qui e sono diverso da te” . Bisogna stare molto attenti a non aderire troppo ad un personaggio, lasciando agli altri un mero ruolo di supporto, o di passiva complicità. Un dialogo vive di contrapposizione. La scena in cui Sam Spade parla al telefono, non richiede contrapposizione alcuna e dunque non ha alcun bisogno di mostrarci l’interlocutore. Ma se noi vediamo l’interlocutore, dobbiamo dargli un ruolo, una presenza attiva. Il suo intercalare ha anche il risultato ritmico di spezzare le battute dell’altro, di impedire che i dialoghi diventino discorsi (come nella tradizione teatrale e letteraria ).Il tempo del Discorso, non è un tempo cinematografico. Come abbiamo osservato nella precedente lezione, il montaggio accorcia il tempo degli eventi reali. Il parlato in cinema vive anch’esso di montaggio. Senza alternanza di battute, fermiamo il ritmo. Possiamo farlo se è un effetto consapevole che vogliamo dare. Ma se invece crediamo che consentire a un personaggio di dire tutto quello che ha da dire di filato , possa abbreviare il tempo complessivo della scena, beh allora ci sbagliamo clamorosamente. La somma di molte piccole frasi scambiate risulta comunque più veloce di un monologo. Le interruzioni non sono pause, sono un elemento ritmico (accenti che conferiscono dinamica all’espressione verbale) e sono un elemento dialettico grazie al quale ciascun personaggio prende luce e rilievo dall’altro, pur esprimendo se stesso.
ESERCIZIO
Utilizzate l’esempio proposto in questa lezione (da La Febbre del Sabato Sera). Scrivete i profili dei due personaggi protagonisti della vostra scena di dialogo e fate in modo che il dialogo esprima le loro caratteristiche.
Fin dalla prima lezione ho sottolineato la necessità di stilare dei profili dei vostri personaggi. Pochi però lo hanno fatto. In genere preferite passare subito alla sceneggiatura delineando alcune scene. In questo modo però finite per scoprire il vostro personaggio in corso d’opera cioè man mano che lo scrivete e accumulate incoerenze che poi vi ritroverete a dover correggere.
In tutti i manuali si insiste su soggetto/scaletta/trattamento/sceneggiatura come fasi principali del lavoro dello sceneggiatore. Ma è indispensabile anche concentrarsi sul profilo dei personaggi, che anzi dovrebbe essere la fase preliminare a tutte le altre. Quando avete scritto il profilo dei vostri personaggi, tenetelo sempre in vista mentre sceneggiate e verificate sempre che i comportamenti, le azioni, il modo di parlare e di esprimersi, corrispondano alle caratteristiche che voi stessi avete fissato di quel certo personaggio. Può capitare che scrivendo vi venga in mente una svolta, una correzione, un’integrazione al personaggio. Allora correggete il profilo, ma tenetelo sempre come guida, perché questa correzione avrà necessariamente la sua influenza su tutte le scene in cui compare il personaggio. Tony Manero, nel film succitato, balla anche quando cammina .Non dobbiamo far capire che è un ballerino nato solo nella sua scena di ballo in discoteca. Il ballo pervade tutta la sua vita. E’ il suo modo di muoversi che appare tanto naturale, sottolinea lo sceneggiatore, quanto studiato. Se non tenete presente l’unità del personaggio, il vostro personaggio diventerà una sorta di Frankenstein che in una scena si comporta e si esprime in un modo e in un’altra in un altro, e l’attore che lo interpreta avrà di conseguenza grossi problemi nel dare coerenza a un simile personaggio. Oppure può capitarvi di fare esprimere il vostro personaggio in modo neutro e meramente funzionale, senza caratterizzazione alcuna. In questo modo perderà qualsiasi caratteristica distintiva ed esporrete l’attore a dubbi anche più grandi nell’interpretarlo: per caratterizzare una battuta troppa neutra, magari gli conferirà un’ironia che non avevate affatto previsto, oppure drammatizzerà eccessivamente una battuta casuale e da non sottolineare troppo.
Tutto quello che si scrive in una sceneggiatura, non serve a voi che scrivete, ma ai reparti: al regista, agli attori, ai costumi, allo scenografo, al direttore della fotografia eccetera. Ciascuno di essi leggerà la scena dal suo punto di vista per capire come renderla al meglio nell’ambito del proprio ruolo. Di conseguenze le indicazioni devono essere molto precise e non offrire il destro a interpretazioni troppo varie e “libere” , altrimenti l’insieme della scena perderà ogni coerenza narrativa. Ora: l’asse della coerenza narrativa è rappresentato dai personaggi . Delineare bene i personaggi è il fondamento della narrazione. E il dialogo ,in quanto espressione dei personaggi, non può risultare efficace se non vi è costantemente chiaro chi sono le persone che stanno parlando.
APPENDICE – Il dialogo nei fumetti
Molte delle cose dette sopra a proposito della sceneggiatura cinematografica valgono anche per una sceneggiatura a fumetti. Il confronto è estremamente utile anche per chi si interessa solo di sceneggiatura cinematografica, perché certe caratteristiche sopra richiamate risultano addirittura esaltate in fumetto, altre invece sono opposte. Prenderò come base i fumetti Bonelli in quanto più assimilabili al cinema: i tempi della narrazione sono più dilatati rispetto a un fumetto Marvel , le azioni sono descritte in sequenza, le scene di dialogo sono più ampie . Inoltre i fumetti Bonelli di ultima generazione usano un linguaggio meno classicamente “da fumetto” e più vicino alle sfumature della lingua parlata usata nel cinema.
1.Quando avete necessità di una lunga scena di dialogo tra due o più personaggi, anzitutto cercate di suddividerla in due o più scene, cioè in ambienti diversi. Se riesaminate la scena di dialogo tratta da La febbre del Sabato Sera, noterete che è suddivisa in due scene diverse (come del resto quella di Viale del Tramonto): una all’esterno e un’altra all’interno. Nella prima i personaggi si muovono passeggiando , nella seconda sono seduti in un bar uno di fronte all’altra. Il dialogo è continuato, come se si trattasse di un’unica scena, ma differenziare gli ambienti permette di renderla visivamente più mossa, meno monotona e di variare le inquadrature. In fumetto questo è anche più importante, in quanto si tratta di disegni: non abbiamo a disposizione né attori , né movimento. Il rischio di una rappresentazione troppo statica è dunque molto più elevato.
2.Ha grande importanza che i due personaggi dialoghino davvero, cioè che uno dei due non si limiti a una presenza da bella statuina. Anche questa è un’esigenza più forte nel fumetto che in cinema. Normalmente in un film, una scena di dialogo tra due persone sedute a un tavolo, si gira così: prima si gira un master, cioè un’inquadratura in cui i due personaggi appaiono insieme nell’ambiente e recitano la scena dal principio alla fine. Poi si rigira la stessa scena in favore di uno dei due personaggi . Poi la si rigira a favore dell’altro. (Le inquadrature possono essere differenziate: PP dei due personaggi distinti, oppure con presenza in quinta di spalle dell’interlocutore, o master più stretti in cui i due personaggi si vendono entrambi ma più isolati dall’ambiente). Anche in questo caso però si gira l’intera scena: il personaggio che parla non viene ripreso solo quando parla , ma anche quando ascolta. Quest’ultimo si chiama “piano d’ascolto” e permette di far interagire i personaggi. Un personaggio anche se non parla, può essere espressivo per le reazioni che suscitano nella sua espressione muta le parole dell’altro. Inoltre, è molto monotono in cinema continuare a staccare ripetitivamente tra uno che parla e l’altro che risponde. Il montatore avrà più chance se potrà alternare il totale del master con i PP, i campi e controcampi, i piani in cui gli attori parlano e quelli in cui ascoltano. Tutto ciò muove la scena e le conferisce ritmo, e inoltre aiuta a mascherare possibili errori , ad eliminare pause di troppo o a inserirne se necessario, eccetera. In un fumetto questo movimento va reso sulla tavola, badando a non ripetere nella stessa tavola vignette identiche e badando anche a non creare effetti fastidiosi come ad esempio due vignette sovrapposte con piano identico anche se i personaggi rappresentati nella vignetta cambiano. La vignetta, al contrario di un’inquadratura cinematografica che è disposta nel tempo, prima o dopo le altre, è disposta nello spazio, cioè (nella tavola) insieme alle altre e una rappresentazione grafica monotona e ripetitiva ha in genere un effetto sgradevole. In un fumetto lo sceneggiatore è in certo modo anche regista della messa in scena, deve cioè precisare le inquadrature ( cosa che non è costretto a fare in una sceneggiatura cinematografica) se non altro per dare al disegnatore una traccia di impostazione della tavola nel suo insieme. Vi basterà guardare con attenzione delle scene di dialogo in un fumetto Bonelli per capire le varie tecniche che si usano, spesso mutuate dai campi/controcampi caratteristici del cinema, ma spesso più libere (per esempio con totali dall’alto, o con fondo bianco, in cui magicamente l’ambiente sparisce) per ottenere una maggiore varietà grafica nella pagina.
3. Le esigenze di sintesi proprie della battuta cinematografica, in un fumetto sono anche più stringenti. Le parole in un fumetto sono disegnate dentro la nuvola (il balloon) che è un elemento grafico esso stesso per il quale va previsto quando si disegna, uno spazio apposito. E’ evidente che se il balloon è troppo pieno di parole, diventa talmente grande che copre buona parte del disegno o costringe a effetti bruttissimi per esempio di balloon drappeggiati attorno alla testa e alle spalle del personaggio oppure a colonne di balloon in cui lo stesso dialogo viene suddiviso in singole frasi, ma con la conseguenza esteticamente poco piacevole di raffigurare sulle teste dei personaggi dei cono gelato a palle sovrapposte . Un balloon che ospiti più di trentacinque parole ( inclusi gli articoli) finisce per nuocere al disegno dei personaggi e della scena, mangiandosi gran parte dello spazio disponibile. Dunque se avete necessità di fare dire una lunga battuta a un personaggio, dovrete comunque badare a suddividerla non solo in più balloon, ma in più vignette. D’altro canto anche un eccesso di piani d’ascolto (con balloon da fuori campo) è un effetto sgradevole in fumetto . Dunque è buona regola in un dialogo che il personaggio principale non sia il solo a parlare, ma anche all’altro siano date occasioni di interruzione, di commento, di richiesta di chiarimento o di supporto al ragionamento fatto dall’altro. I monologhi esaltano la staticità: in fumetto (che è di per sé statico) abbiamo esigenza di cambiare le inquadrature più spesso che in cinema, evitando le ripetizioni.
ESERCIZIO – Quando in un fumetto si deve scrivere una scena di dialogo, ci si può anche occupare delle inquadrature in un secondo momento. Cioè: scrivete il dialogo, con botte e risposte, quasi si trattasse di un dialogo quotidiano, tra due personaggi reali che sviluppano una conversazione. Non preoccupatevi in questa fase della misura e della lunghezza della scena. Scritto questo primo brogliaccio, sintetizzatelo: togliete le frasi di passaggio, quelle che comportano ragionamenti troppo complessi, quelle più digressive rispetto all’argomento centrale. In altre parole cercate di concentrarvi sul contenuto fondamentale della conversazione e asciugate di conseguenza il primo testo. Dopo aver fatto questo, riprendete di nuovo il testo del dialogo da capo e cercate di condensare ancora, cioè di verificare se ogni singola battuta che avete scritto può venire espressa con meno parole. Questo riguarda anche la coloritura espressiva della frase. Una metafora, un’espressione particolarmente ficcante rendono sempre di più di un freddo ragionamento. Il linguaggio deve essere molto chiaro ed inequivocabile. Dato che in fumetto non abbiamo a disposizione degli attori e che è molto difficile per un disegnatore rendere le minime sfumature dell’espressione di un volto, è bene che le parole da sole , puramente scritte, senza che se ne possa udire il tono, siano trasparenti: una frase ironica dev’essere esplicitamente ironica nella scelta stessa delle parole usate, è meglio se risulta buffa piuttosto che “sottilmente ironica” perché la sottigliezza sarà sempre molto difficile da cogliere dal disegno. Se il vostro personaggio pronuncia una battuta commuovente, è importante che sia il testo stesso a commuovere. Se il disegnatore non darà una particolare accentuazione al volto del personaggio ( che so, una lacrima che scende , uno sguardo rivolto in basso, il capo chino, la fronte corrugata eccetera ) l’effetto che avete voluto dare resterà comunque nel testo. Anzi spesso non è consigliabile caricare troppo l’espressione del personaggio perché potrebbe dar luogo ad effetti un po’ ridicoli: stupori, perplessità, isterismi, ghigni, che certo fanno parte dell’iconografia fumettistica, vanno però regolati a seconda di quanto avviene. L’eroe non può stupirsi allo stesso modo di fronte a un evento del tutto prodigioso o ad un evento semplicemente inatteso. Il dialogo (o i pensieri) aiutano indubbiamente a precisare l’intensità emotiva , accentuandola o stemperandola dove necessario.
Una volta sintetizzato così il dialogo, cominciare a suddividerlo in vignette, per capire bene quante tavole occupa la scena. Un numero eccessivo di tavole di dialogo nello stesso ambiente, diminuisce le chance del disegnatore e lo costringe a infinite capriole per non ripetersi . Per disegnare qualcos’altro, a volte ci si trova costretti a passare all’esterno e vedere i balloon dei personaggi che dialogano spuntare da una finestra, oppure ad inquadrare la scena in campo lungo con i due personaggi che dialogano sullo sfondo e delle comparse in PP. Questo tipo di scelte sono sempre molto discutibili in quanto distraggono l’attenzione. Il volto o il gesto di una comparsa in PP può diventare indebitamente protagonista a scapito dei personaggi protagonisti. Lo stesso vale per gli oggetti . Il disegnatore può divertirsi a disegnare in PP un vaso cinese graficamente molto elaborato, con i due protagonisti che chiacchierano sul fondo. Ma perché mai un vaso dovrebbe essere protagonista della scena? Se nella stessa scena questo dettaglio di scenografia ha un’importanza narrativa ( per esempio per farci capire che si tratta di un locale cinese di una certa eleganza, oppure perché successivamente quel prezioso vaso verrà spaccato) allora ha un senso metterlo. Se invece è una pura belluria da ornamento, una furbizia per evitare di stare sempre sui personaggi, allora questo dettaglio è soltanto distraente . E’ molto meglio, di fronte a una scena di dialogo che si sviluppa per parecchie pagine, cercare altre soluzioni: per esempio quella già indicata di suddividere il dialogo in più ambienti con i personaggi in movimento, oppure abbreviando ancora la scena fino a raggiungere una dimensione accettabile in termine di numero di pagine. Qui ovviamente si aprono delle alternative, diverse a seconda dello stile del fumetto e dell’autore : su Tex un dialogo in un interno può durare anche più di otto pagine, su Magico Vento è molto raro che una scena di dialogo in un ambiente duri più di due pagine, al massimo può arrivare a quattro. Vale qui , per lo spazio, quanto detto nella lezione precedente per il tempo. Lo spazio nel fumetto, non ha solo il valore grafico prima ricordato, ma corrisponde anche a un tempo diverso di lettura. E’ ovvio che se il lettore deve leggere molti balloon, impiegherà per quelle pagine più tempo di quanto non ne impieghi per delle tavole di pura azione senza balloon o con pochissimi balloon. Certo se queste tavole sono particolarmente interessanti sotto il profilo visivo, il lettore si soffermerà di più sulle immagini, ma in linea di massima nelle tavole in cui ci sono molte battute da leggere, il tempo di lettura necessario è più ampio di quelle in cui prevale il colpo d’occhio. Insomma: un fumetto con pochissimi dialoghi può apparire senz’altro più vivace di un fumetto con molti balloon, però il lettore si troverà a finirlo molto prima e potrebbe restare deluso per non aver letto abbastanza.
Scrivendo un fumetto è sempre bene tenere equilibrato il tempo di lettura. Dialoghi e azione vanno bilanciati con cura. Esagerare in dialoghi e spiegazioni, rallenta e stanca. Esagerare in azione lascia l’impressione che il racconto latiti o sia stato sbrigato troppo in fretta. In linea di massima vanno riservate più pagine all’azione, rispetto a quelle riservate al dialogo, se non altro perché le prime vengono lette più in fretta. Dunque uno stile equilibrato non è ad esempio otto tavole di dialogo e otto tavole d’azione. Le pagine di dialogo dovrebbero essere la metà. Naturalmente, ripeto, ciò attiene alle scelte stilistiche dell’autore, non è una regola valida per tutti e in tutti i casi, né vale per tutte le storie. Tenete però presente che una scena di dialogo come quella di Jonathan e Sandy in Conoscenza carnale è quasi impossibile da realizzare in fumetto: diventerebbe immobile, di una ripetitività grafica insopportabile e troppo lunga alla lettura. Un continuo botta e risposta a piccole frasi, in fumetto comporta una moltiplicazione delle vignette all’eccesso, oppure un’alternanza di balloon a gelato tra i due protagonisti che non si adatta alle caratteristiche grafiche di tutti i fumetti e che oltretutto comporta una distonia espressiva: il dialogo si sviluppa, mentre i due protagonisti restano espressivamente fissi. Se in cinema il rapido botta e risposta esalta i valori ritmici e accorcia, in fumetto accade esattamente il contrario. E’ particolarmente sintomatico sottolineare questo se si tiene presente che lo sceneggiatore di Conoscenza Carnale, Jules Feiffer, è anche un grande autore di fumetti. I fumetti di Feiffer sono egualmente molto dialogati, ma se li confrontate al suo film, non potrete non rilevare che in essi il dialogo risulta maggiormente condensato, in poche battute essenziali ed esemplari.
Prendo un altro esempio da un vecchio libretto che ho ritrovato , pubblicato nel 1959, quando ormai era già diffuso, con l’otto millimetri, il cinema amatoriale. All’epoca i ragazzi che si procuravano una piccola macchina da presa non si accontentavano più di usarla per immortalare matrimoni, nuove nascite, gite famigliari e scene varie di vita tra amici e parenti . Nasceva il film maker dilettante che già provava a girare dei piccoli film di pochi minuti, film in genere muti, perché pochi possedevano una camera con registratore e un proiettore sonoro. Questi piccoli film erano il più delle volte improvvisati, senza alcuna sceneggiatura. Manualetti come questo di Leopold Eugeen Vermeiren ,intitolato Brevi spunti e sceneggiature per i vostri film (Biblioteca del Cineamatore, Edizioni del Castello, Milano) si proponevano non solo di suggerire delle brevi sceneggiature, ma di mostrare praticamente come scriverle. Nel breve sketch filmato che ho scelto tra gli altri (alterandolo un pochino per stringere e per maggiore efficacia “didattica”) , si racconta l’attesa che precede un appuntamento galante.
- (PP) Interno di un salotto. Un orologio segna le cinque meno cinque. Accanto all’orologio sta una fotografia di Rosetta. Una mano la prende.
- (PP) Enrico , un tipo piuttosto corpulento, vestito molto bene come per un appuntamento galante, guarda teneramente la fotografia. Poi guarda l’orologio.
- (CL) Enrico va alla tavola apparecchiata a festa per due, sulla quale stanno bicchieri, vino e liquori. Nel mezzo c’è una grande torta.
- (CM) Con meticolosa cura, il tenore ritocca la decorazione della tavola e guarda di nuovo l’orologio.
- (PP) L’orologio segna le cinque meno due minuti.
- (CM) Enrico diventa po’ impaziente. Va alla finestra e guarda la strada.
- (PP) Un orologio alla parete segna le cinque precise.
- (CM) Enrico cammina nervosamente su e giù per la stanza. Guarda il suo orologio da polso, poi l’orologio da parete, poi di nuovo la fotografia di Rosetta.
- (PP) L’orologio segna alcuni minuti dopo le cinque.
- (PPP) La mano di Enrico tamburella nervosamente sul tavolo.
- (PP) Fuori dalla porta. Un dito preme il campanello.
- (PP) Nell’appartamento. Il volto di Enrico si rischiara felice.
- (CM) Enrico corre veloce alla porta.
- (PP) Appare oltre la soglia un ragazzo dell’Ufficio Telegrafico.
- (CM) Enrico , sconcertato, ritira un telegramma.
- (CM e PP) Di nuovo nel salotto. Enrico ha aperto il telegramma e lo sta leggendo. Lo abbassa, deluso e afflitto. Guarda verso la tavola imbandita.
- ( CM) La tavola imbandita.
- (CL) Enrico attraversa lentamente la stanza. Legge ancora una volta il telegramma. Si ferma di fronte alla fotografia.
- (PP) La mano di Enrico prende la fotografia di Rosetta e la gira verso la parete.
- (CM e PP) Enrico va alla tavola imbandita e si siede lentamente. Il suo sguardo vaga sulla tavola. Si versa un liquore. Poi prende un pezzo di torta.
- (PP) Enrico mangia la torta. Il suo sguardo è assente. Poi si concentra sulla torta. E’ buona.
- (PP) L’orologio segna le cinque e dieci minuti.
- (CL,CM, PP alternati) Enrico sta mangiando avidamente. Metà della torta se n’è già andata. L’espressione di Enrico è di intensa soddisfazione. Si è tolto la giacca e la cravatta, libero da ogni formalità. E continua ad abboffarsi.
In questa e altre scenette molto semplici, il primo scopo dell’autore del manualetto è insegnare come si scaletta una situazione, come si può scandire il tempo, e come alternare inquadrature molto semplici ( Primo Piano, Campo Medio,Campo Lungo) per dare un ritmo a una scena che in tempo reale risulterebbe noiosa. Come potete vedere, il tempo cinematografico non è tempo reale. Gli stacchi ci permettono la sintesi. L’insistenza sugli orologi segnala il passare dei minuti. Ma dieci minuti sono per il pubblico passati in pochi secondi. Ogni stacco ci ripresenta il protagonista in una situazione emotiva cambiata: da attesa fiduciosa ad attesa nervosa, da attesa delusa a delusione compensata. Abbiamo raccontato, senza bisogno di dialoghi, l’evoluzione degli stati d’animo del protagonista e anche il suo carattere: in fondo la sua vera passione è mangiare, della fidanzata poteva anche fare a meno.
Tuttavia questo è anche un tipico esempio di cosa fare quando non ci si può fidare degli attori, che nel caso di un film amatoriale non sono dei professionisti. In questo caso, staccare spesso e usare molti dettagli consente di evitare quei passaggi intermedi, da uno stato emotivo all’altro, che solo un attore esperto sarebbe in grado di esprimere. Se riprendiamo l’esempio fatto sopra a proposito della nostra scena della casalinga, difficilmente un attore dilettante saprebbe sintetizzare in un’unica posizione, in uno sguardo nel vuoto, lo stato d’animo del personaggio. In questo caso dunque, usare la telefonata permette una maggiore resa. Sarebbe velleitario cercare intensità espressiva in chi non può darla. Infine, riguardo all’uso abbastanza esasperato, nell’esempio di Enrico, dei primi piani, va osservato che al contrario di quanto si potrebbe pensare, il primo piano non è per un attore professionista il climax della sua performance. Un bravissimo regista di film western all’italiana ( Giulio Petroni) si trovò in Tepepa a girare con Orson Welles che interpretava nel film il ruolo del cattivo. Ora, nel cinema classico americano, i primi piani sono rari: vengono usati per particolari sottolineature, e in genere sono riservati ai protagonisti. Un bel primo piano, all’epoca, richiedeva anche una preparazione molto accurata delle luci . Il primo piano di una diva, destinato a fare di lei un’icona, poteva comportare anche una giornata intera di preparazione. Non era cosa da sbrigare al volo. Era un ritratto. Welles restò dunque stupito dalla quantità di primi piani girati alla svelta da Petroni , primi e primissimi piani per di più riservati spesso a semplici comparse e a figuranti. Ne chiese il motivo: “Perché tutti questi primi piani?” E Petroni osservò giustamente: “Il primo piano drammatizza. Anche un attore cane sembra un bravo attore.” L’abuso dei primi piani che si fa nelle novelas televisive non è soltanto dovuto ad ovvi motivi di dimensione dello schermo, ma anche al fatto che stringendo sulle facce, anche un attore poco espressivo risulta efficace.
Ora analizzeremo invece un altro caso. Un caso dove ci si può fidare degli attori (e del regista). Una scena che non può certo venire definita come di pausa o d’attesa e nemmeno come semplice approfondimento della psicologia del personaggio. Una scena molto complessa, tratta dalla Dolce Vita di Fellini. E’ la famosa scena finale. Sulla spiaggia c’è un mostruoso pesce morto che desta la curiosità di tutti. Ciascuno ha la sua reazione: stupore, indifferenza, divertimento, persino tenerezza. E il protagonista? Gli sceneggiatori scrivono:
- Marcello non sa staccare il suo sguardo da quello del pesce. Si direbbe che lo guardi come un messaggio da decifrare, giunto a conclusione di una nottata vuota e persa, o forse a conclusione di tutto.
Saggiamente, gli sceneggiatori ( Fellini, Flaiano, Pinelli, Rondi) non fanno esprimere verbalmente questo sentimento dal protagonista. Gli altri personaggi lo hanno fatto. Lui no. Non perché Marcello sia dipinto come un antisociale o un introverso. Ma perché Marcello stesso non ha parole per definire la sua emozione di fronte all’indecifrabile sguardo/messaggio del pesce. Sarebbe stata una pacchianata se Marcello avesse mormorato: è la fine di una nottata vuota, la fine di tutto… ( e quante pacchianate del genere si fanno nei film, soprattutto quando si vogliono sottolineare a tutti i costi i significati presunti “alti”!) Proseguiamo.
- Marcello si allontana di qualche passo. E’ sempre più nauseato, stanco, forse oppresso da oscuri presentimenti, da un’angoscia accumulata e che ora sembra stia toccando il fondo. Qualcosa però lo distrae…
- Sono piccole, dolci figure femminili apparse sulla spiaggia, dalla pineta. Si direbbero bambine. Esse si avvicinano al mare, tranquille, sicure, allegre,come sono le ragazze quando stanno in compagnia.
- Come sollevato da quella vista, Marcello le osserva attento, attratto, quasi già con un lieve sorriso sulle labbra. Si sentono le loro voci gaie e un po’ sciocche.
- Marcello, che aguzza lo sguardo come se ne riconoscesse una, getta via la sigaretta e va loro incontro con le mani in tasca.
-Sono di fronte.
- Marcello le sta a guardare con un mezzo sorriso. Tutte lo sorpassano occhieggiando e sorridendo, tranne una. Resta ferma davanti a Marcello: è timidissima, eppure lo guarda diritta negli occhi, educata e sicura.
Com’è stata narrata fin qui la scena in sceneggiatura? I tempi sono scanditi sui passaggi emotivi del protagonista rispetto a ciò che vede. Le definizioni di questi stati d’animo sono chiare eppure , se ci fate caso, sono molti i “forse” , i “sembra” , i “quasi” . Ciò definisce anche lo stile della rappresentazione: si vuole esprimere qualcosa di sottile, di indeterminato, qualcosa che non si è ancora fissato nella mente del protagonista e che tanto meno deve venire impresso nella mente del pubblico. Tanto sono inequivocabili nei loro giochi le ragazzine, tanto è, per contrasto, smarrito il protagonista . E di questo smarrimento noi spettatori dobbiamo essere partecipi. Tutto ciò può essere espresso perfettamente in un tempo “sospeso” e con una scena muta. Non bisogna avere paura delle scene mute. Sono cinema, come e spesso più delle scene fittamente dialogate. I problemi per la sceneggiatura iniziano infatti da qui. Da quando i due (Marcello e la ragazza) si parlano.
MARCELLO: Tu… come ti chiami?
PAOLA( stupita, ma lievissimamente, come se egli già lo dovesse sapere) : Paola !
MARCELLO: Ma noi… mi pare…ci conosciamo…
Paola accenna di sì, più volte, molto decisa, con la testa, con un sorriso tra trionfante e impacciato.
MARCELLO: Sai … che non mi viene in mente…
PAOLA: Lavoravo a Tor Vaianica… portavo da mangiare alla signora…
MARCELLO ( con allegra sorpresa) : Ah, sì… adesso mi ricordo: Paola…
Tutti e due sono stranamente lieti dell’incontro: c’è qualcosa di profondamente gioioso nella loro espressione.
MARCELLO: E cosa fai qui?
PAOLA (con naturalezza): Lavoro.
( ma si sente obbligata a precisare)
Qui alla Pensione Amalfi…
( e furbescamente nella sua assoluta ingenuità)
Si guadagna di più!
Paola ha un sorriso.
(Con un guizzo)
Adesso io e le mie compagne siamo venute a farci un bagno…
Guarda impaziente, infantile, allegra,verso le sue compagne, che tirandosi su le sottane, alcune, altre in costume, stanno bagnandosi le gambe poco più in là.
Si vede che ha molta voglia di raggiungerle, di stare con loro, di divertirsi con loro.
Marcello però ha ancora qualcosa, non sa nemmeno lui cosa, da dirle. Vorrebbe trattenerla.
MARCELLO: Aspetta…hai visto cosa hanno pescato? Vieni a vedere…
Priva di vero interesse per la cosa, ma incapace di dire no all’uomo, Paola lo segue verso il gruppo dei pescatori.
Il gruppo si è frattanto diradato. Gli amici di Marcello si stanno allontanando dall’altra parte, lungo la spiaggia. E alcuni pescatori sono già chini ad arrotolare le reti, al loro lavoro quotidiano.
Il pesce è ancora lì, sotto il sole. Ma ormai è superato: è un povero pescione morto.
Anche il suo occhio è come spento, forse perché camminandogli accanto, qualcuno gli ha fatto cadere sopra un po’ di sabbia.
MARCELLO: Vedi?
Paola guarda un momento il pesce : poi – benché sempre gentile e sorridente – alza lievemente le spalle come a mostrare che di quella bestia le importa poco.
PAOLA: E’ un pesce.
E, con un guizzo improvviso, corre verso le sue compagne. La sua corsa è un po’ esagerata ed è piena di una dolce goffaggine infantile. Correndo si volta un attimo verso Marcello , come per scusarsi, con inconscia crudeltà.
PAOLA: Addio!
Rimasto lì accanto al pesce, Marcello è incerto: non sa se seguirla, chiamarla…
MARCELLO (a voce quasi bassa): Paola!
Ma Paola corre, corre verso le sue compagne. A un certo punto si ferma, si toglie le scarpe, e continua a correre scalza.
Marcello si muove lentamente, andandole dietro. Essa è già laggiù, nella luce freschissima della mattina, che entra in acqua, raggiungendo le sue amichette. Si sentono le loro voci,le loro lunghe risate un po’ scioccherelle che non finiscono mai.
Marcello è preso da una profonda , inesplicabile commozione: ma non sa nemmeno lui se è per dolore o per gioia, per disperazione o speranza.
Così raggiunge il punto dove Paola ha lasciato le sue scarpe. Egli si china e le tocca; poi le prende in mano.
Sono delle povere, graziose scarpine da poche lire, un po’ scalcagnate.
La commozione di Marcello è struggente.
Guarda laggiù, nel mare fermo e luminoso, le ragazzette che impazzano felici misteriose messaggere di una nuova vita.
Così termina il film. Che la scena sia ben scritta non c’è dubbio. Eppure… guardatevi il film. La scena non c’è più. O meglio è stata radicalmente cambiata. Così descrive il cambiamento l’aiuto regista di Fellini Giancarlo Romani:
Il finale è il cambiamento più importante. Marcello, stanco e svuotato, si stacca dal gruppetto intorno al pesce e va a sedere sulla sabbia poco lontano. A questo punto Paola, che sta giocando con altre bambine oltre la foce di un piccolo fiume, lo vede e lo chiama. Marcello non la riconosce e il rumore del mare gli impedisce di sentire quello che lei gli grida. Così i due sulle due rive del fiume, si guardano a lungo sorridendo e cercando di capirsi con la mimica. (…) Finché la pittrice tedesca si stacca dal gruppo degli amici e prende Marcello per mano riconducendolo tra loro.
( Questo testo, come il testo della sceneggiatura, sono stati tratti dal libro La Dolce Vita, a cura di Tullio Kezich, Cappelli Editore 1959).
Insomma: da una scena molto parlata, con un lungo dialogo, a una scena muta e simbolicamente molto più efficace: i due sono separati da un fiumiciattolo, non possono raggiungersi, non riescono a sentirsi, vorrebbero comunicare, ma è impossibile. Non solo per il rumore del mare: sono troppo diversi. Quella allegra ingenuità, per Marcello è seducente, ma inattingibile. Una sua amica lo riporta nel gruppo.
Non si torna più sul pesce, ormai è veramente passato, non è più importante. La ripetizione sarebbe stata troppo voluta, forzata. Non c’è più la commozione, un po’ troppo patetica e retorica, di Marcello. Tutta la scena viene concentrata su un unico momento simbolico: Marcello non potrà mai ritrovare l’innocenza. Non ha neppure il tempo per rifletterci, per dolersene. E’ un fatto. Viene portato via e lui si lascia trascinare. Non può andare altrove.
Cosa se ne può dedurre? I dialoghi possono a volte spiegare troppo e così presumendo, aggiungere, divagare, allontanarsi dal centro espressivo, dire cose che non servono a niente ( lavoro alla pensione Amalfi), e venire sottolineati/contrappuntati troppo didascalicamente da immagini simboliche inequivocabili: il pesce non stupisce più nessuno, è un povero pescione morto; le scarpine di Paola raccolte da Marcello, trascinano metafore (ingenuità=povertà=semplicità); la commozione di Marcello comporta una presa di coscienza un tantino tardiva e ipocrita, una piangina da paradiso perduto che certo si attaglia poco al personaggio finora descritto e pare quasi una concessione a quel moralismo che il film di per sé rigetta. Se l’innocenza dev’essere “nuova innocenza”, qualcosa di indefinibile che sorge , allora non deve essere spiegata ricorrendo al passato, non può essere rimpianta. La speranza non sta in un ritorno agli antichi valori smarriti.
Di nuovo, il segreto è la sintesi. Bisogna stare molto attenti a non voler dire troppe cose, perché si rischia di sommergere l’unica che conta veramente. E’ la situazione di per sé che dev’essere esemplare. Se la si spiega troppo, la sua magia sfugge. Basta lasciar parlare le immagini. C’è un detto popolare che recita: “ A furia di togliere foglie da un carciofo alla fine non resta niente.” Carmelo Bene giustamente rovesciò il detto: “ A furia di togliere qualcosa resta.” Il lavoro del cinema è questo: giungere all’essenziale, fosse pure questo essenziale l’inafferrabilità di una visione. Certo non si può chiedere a uno sceneggiatore esordiente di pervenire subito a questo risultato. Ma fin dal principio è bene tenere in mente che per scrivere un buona sceneggiatura, bisogna imparare a togliere, a sottrarre. Non dovete dimostrare di saper scrivere tanto, ma di saper scrivere quello che conta, di centrare sempre il focus espressivo. Date un ritmo, un divenire alla scena. Non cercate di simulare il tempo reale, trovate il tempo giusto di quella scena. Non è indispensabile raccontarla inquadratura per inquadratura. Lo stile americano ( cui si ispirava il manualetto di Vermeiren sopra citato) è molto utile per conferire un ritmo al racconto e per farvi familiarizzare con la dinamica della “narrazione per immagini”. Lo stile classico italiano (come si può vedere dalla sceneggiatura di Fellini) è ricco di indicazioni per gli attori e di sfumature letterarie, molto attento nel precisare il senso di una scena, più libero nel non-suggerire inquadrature, ma d’altra parte ha anch’esso bisogno di tempi e scansioni precise, non può diventare (come purtroppo sta diventando da anni) un puro canovaccio. Il senso che volete dare alla scena e ai suoi singoli momenti dev’essere molto chiaro sulla carta. Può anche essere sbagliato, si potrà revisionare con una riflessione successiva. Ma è bene che sia preciso. Se il tracciato è chiaro, sarà chiaro anche nei suoi inciampi. Si presterà ad essere discusso e migliorato, anzi stimolerà gli attori e il regista in questa direzione. Se è indeterminato e vago produrrà sbagli molto più gravi, frutto dell’improvvisazione del momento, sbagli o passi falsi che poi non si potranno più correggere.
ESERCIZIO- In molti dei contributi e delle prove di sceneggiatura che mi giungono da voi, risulta evidente una scarsa attenzione all’immagine, tanto che basta leggere i dialoghi per capire la storia. Ma un film non è una sequenza di dialoghi . Il cinema nasce in assenza di dialoghi. Provate a riprendere in mano quello che avete scritto e pensate per un momento d’essere tornati all’epoca del muto. Fate in modo che siamo le immagini e quello che accade (o non accade) a raccontare la storia. Provate a narrare la stessa scena senza il dialogo.
La prossima lezione sarà dedicata ai dialoghi ed esamineremo cos’è un dialogo cinematografico e in cosa si differenzi dal dialogo scritto di un romanzo o dai dialoghi e/o pensieri di un fumetto.
9° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
Uno dei più strenui detrattori del Metodo Syd Field che abbiamo analizzato nella scorsa lezione è il regista/autore brasiliano Ruy Guerra, che insegna cinema all’Università di Rio de Janeiro e lamenta, come molti autori europei del resto, l’influenza dominante di certi modelli industriali americani di narrazione cinematografica. Alla base dell’insegnamento di Ruy Guerra ci sono acute riflessioni sullo spazio e sul tempo nel racconto cinematografico. Qui lasciamo perdere lo Spazio che attiene a scelte di tipo registico più che di sceneggiatura e ci concentreremo sul Tempo. ,Traggo le informazioni dal documentario/intervista A linguagem do Cinema purtroppo non disponibile in italiano, ma se qualcuno di voi conosce il portoghese (o legge le didascalie in inglese) può trovarlo tra i contenuti speciali del Dvd Opera do Malandro (Coinceito Audiovisual), un musical del 1985 con musiche di Chico Buarque. Ruy Guerra osserva anzitutto che in un film, qualsiasi film, anche il più realistico, di realistico non c’è nulla. Di fronte alla proiezione di un film noi assistiamo ai fatti con una percezione assolutamente diversa da quella che abbiamo nella vita normale. Le diverse immagini sono inquadrate da più punti di vista (nella realtà noi ne abbiamo uno solo): la continuità e l’ordine tra questi differenti punti di vista è frutto del lavoro di montaggio. E’ inesatto sostenere che noi vediamo il film attraverso la macchina da presa. Noi vediamo un unico spettacolo che è il risultato della mescolanza di punti di vista differenti (inquadrature diverse), esperienza che non ci è dato vivere nella realtà e nemmeno sul set. Nel montaggio si attua una sintesi tra molti punti di vista, anche opposti (campo/controcampo) e tra tutti i punti di vista “girati” alcuni vengono scartati. Sullo stesso tema, ma da un’angolatura differente, anche Sergio Citti ebbe a dire: “appena si dice azione, la verità è finita.” Il regista romano, proprio lui per il quale le etichette di realismo, neo-realismo, realismo grottesco, si sono sprecate, voleva con ciò intendere che un film, qualsiasi film, non è una riproduzione della realtà, ma la raffigurazione di una realtà fittizia che ha regole diverse da quelle della vita quotidiana. Di questa realtà fittizia fa parte il Tempo del cinema, che non è lo stesso della vita reale. Nella vita reale, in cinque minuti non riusciamo a farci nemmeno un caffè, in un film in cinque minuti possono accadere moltissimi avvenimenti. Gli eventi in una sceneggiatura non potete raccontarli con i tempi della vita reale, bisogna stringere, concentrarsi sul momento focale della scena, sintetizzare il dialogo cercando la massima efficacia in poche righe. In altri casi, una sequenza che in sceneggiatura descrivete in due righe, può venire dilatata per esigenze espressive. Voi scrivete per esempio: “Lo Sceriffo attraversa la Main Street deserta”, ma ciò può dar luogo nel film a un’alternanza di inquadrature che ci fanno vivere la tensione del momento, la solitudine dello sceriffo, la desolazione di una città già fantasma, anche se il peggio deve ancora venire. E il ticchettio inesorabile di un orologio scandisce l’attesa rendendola più angosciosa. (Il film è High Noon, cioè Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann, 1952).
Esercizio - Infilate il VHS di un film qualsiasi nel vostro lettore e fatelo andare ad avanzamento veloce. Vedrete che mentre certe scene riuscite a coglierle, altre diventano illeggibili perché l’alternanza delle inquadrature nel montaggio è troppo rapida. Quasi sempre, sono le scene d’azione ad esigere un numero maggiore di punti di vista (e di inquadrature) montati in modo serrato.
Questo significa che il tempo di un film non è affatto uniforme: una scena ferma di dialogo tra due personaggi seduti al tavolo di un bar può durare di più di una scena d’azione nella quale all’improvviso delle bande criminali fanno irruzione nel bar e scatenano una sparatoria (un maestro di questa alterazione dei tempi è Michael Cimino, il film è Year of the Dragon del 1985). La durata del dialogo rispetto all’azione, non significa affatto, narrativamente, che il dialogo è più importante di quanto accade dopo. Il dialogo è dilatato perché ciò conferisce più potenza all’inferno che si scatena successivamente. Il contrasto tra questi due tempi rende trascinante l’intera scena. Essere presenti sui set dove si girano i film è un’esperienza che tutte le scuole di sceneggiatura giustamente raccomandano agli sceneggiatori debuttanti perché si abituino a capire cos’è un film in concreto, nel suo farsi giorno dopo giorno, frammento dopo frammento. Ma altrettanto utile, forse anche di più, è per un aspirante sceneggiatore frequentare una sala di montaggio per capire quale lavoro si fa sul ritmo delle immagini, sui tempi della narrazione ( e quante sequenze si scorciano per ottenere una resa più efficace). Il lavoro dello sceneggiatore è più vicino a quello del montatore (il quale monta le immagini con la sceneggiatura sotto mano) che a quello del regista. A sua volta il regista spesso si trova a ripensare una scena scritta e a girarla in un altro modo perché ha in mente un certo montaggio, un certo tempo della narrazione. Se lo sceneggiatore è consapevole di queste esigenze, potrà scrivere una sceneggiatura più adeguata.
2. Tempi del dialogo
Umberto Eco, nelle postille al Nome della Rosa e in diverse interviste, ha sostenuto che il suo romanzo si prestava particolarmente al cinema, perché scrivendolo aveva immaginato i dialoghi in tempo reale. Ad esempio si era raffigurato il cortile di un convento con una certa lunghezza e nel suo romanzo aveva condotto il dialogo tra due monaci nel tempo (reale) del loro percorso lungo il cortile. Secondo Eco, questo è cinema. No, questo è il contrario del cinema. Il cinema non basa i suoi tempi sui tempi reali, ma sul tempo scandito dal montaggio (e preparato in sceneggiatura). Questo Tempo non ha nulla, ma proprio nulla di realistico. Riguardo specificamente al dialogo, ciò non vuol dire che il dialogo debba diventare un puro codice, un linguaggio neutro e/o di maniera, telegrafico e rivolto soprattutto a fornire informazioni essenziali alla comprensione della storia. Anche se la realtà del cinema è altra cosa rispetto alla vita, un film racconta comunque i rapporti tra persone, non tra burattini. Quando uno sceneggiatore scrive un dialogo “neutro” senza caratterizzazioni oppure troppo letterario, si sentirà quasi sempre dire dall’attore che deve interpretarlo: “adesso devo mettermelo in bocca”, il che significa che l’attore cercherà di fare propria la battuta, di darle un’espressività consona al proprio personaggio, un contento emotivo più evidente, di cambiarla rendendola meno scritta e più parlata. Nei “parlati” della vita reale ci sono una quantità di pause, ripetizioni, interruzioni, parentesi. Di rado il discorso è univoco, centrato su un obiettivo definito, spesso circoscrive un problema, ma non va dritto al suo centro. Questo nei dialoghi di un film risulterebbe noiosissimo: presumere che si possa tranquillamente trasferire un dialogo quotidiano in una scena cinematografica è in linea di massima sbagliato. Ma sarebbe sbagliato anche spogliare il linguaggio da ogni senso di veridicità, facendo adoperare ai personaggi una lingua di pura convenzione che non esiste in nessuna conversazione reale. Inflessioni, caratterizzazioni, pause,vanno sfruttate perché sono preziose sotto il profilo della veridicità e dell’espressività. Sui problemi del dialogo torneremo più avanti, ma suggerisco fin d’ora un esercizio utile ai fini di individuare i giusti tempi di un dialogo.
Esercizio – Infilatevi un registratore in tasca e registrate una conversazione di nascosto. E’ meglio se non siete coinvolti nella conversazione, anzi l’ideale sarebbe che le due o più persone che stanno conversando e che state registrando fossero per voi dei perfetti sconosciuti. In questo modo vi mettete dal punto di vista di uno estraneo (lo spettatore) che cerca di capire non solo i contenuti della conversazione, ma la personalità di chi sta parlando, i retroscena, cioè quel non detto che tra le persone che dialogano è dato per assodato, ma che noi non conosciamo affatto. Trascrivete la conversazione. Vi renderete conto anzitutto che una banalissima conversazione può nella realtà durare quanto un film intero, e poi che in molti passaggi il contenuto non è affatto chiaro, che la comunicazione spesso divaga, si avvita, che si impiegano troppe parole, qualche volta anche sbagliate, per esprimere concetti semplici. Noterete però che qua e là nel dialogo affiorano delle vere perle espressive: linguaggio non scritto e neppure abituale perché legato alla personalità di chi parla, ma capace di rendere una situazione, uno stato emotivo, in poche, efficaci parole. E i punti in cui l’altro interrompe, per sollecitare chiarimenti, per obiettare, non sono casuali. Nella conversazione tra due persone non c’è solo la comunicazione di un contenuto “oggettivo”, ma vi si esprime la relazione tra due caratteri, il loro interagire. Adesso prendete la trascrizione della conversazione e cominciate a ridurla, in modo da concentrarla progressivamente sul suo contenuto espressivo essenziale. Se una conversazione a tavola nella vita può durare per tutta la durata del pasto, in cinema sarà una scena di un minuto. Non è un semplice riassunto/sintesi che dovete fare, ma una specie di “dado”: il brodo c’è lo stesso, ma concentrato. Dicendo che il brodo c’è lo stesso, voglio intendere che le pause, le caratterizzazioni, le incertezze, le asperità di una normale conversazione devono restare, ma in un tempo ristretto. Il brodo va in qualche modo “solidificato”. Ma state anche bene attenti a non perdervi quelle “perle” che di per sé sono delle “epigrafi” , sono “scolpite”, cioè sanno rendere efficacemente il contenuto essenziale (della conversazione come del rapporto in atto tra le persone che conversano) attraverso una metafora, un motto, una definizione colorita che può assumere un valore esemplare (es: “i furbetti del quartierino”). E’ importante imparare dalle conversazioni reali, essere ladri di linguaggio. Proprio perché la lingua di un film è parte di una narrazione, cioè di una realtà fittizia, è essenziale che risulti credibile e che conservi quella stessa capacità di inventare linguaggio che è propria delle conversazioni quotidiane . Il doppiaggio ci ha abituati a un linguaggio di codice estremamente lontano dalla vita reale, una lingua che nessuno parla. Ma se ascoltate lo stesso dialogo in originale scoprirete facilmente quanto sia più ricco di sfumature, di inflessioni e di “veridicità” (insisto su questo termine perché “veridico” è in cinema l’unico possibile equivalente di “vero”). Se scrivete i dialoghi di un film scansate con cura la tentazione di scrivere nella lingua generica del doppiaggio: scrivendo nella nostra lingua, dobbiamo usare la lingua delle persone che ci circondano. La lingua è nostra in quanto collettiva, ri-conoscibile.
3. I tempi emotivi
Che la narrazione cinematografica debba essere rapida (abbiamo a disposizione un’ora e mezza o due per raccontare la nostra storia, non possiamo farla durare quanto pare a noi) non significa affatto che debba essere frettolosa e superficiale. Prendiamo ad esempio due film, molto diversi e lontani tra loro. Il primo è The Penalty di Wallace Worsley, con Lon Chaney (1920). E’ stato di recente pubblicato in Dvd dalla Kino Video e se anche lo ordinate in edizione originale senza conoscere l’inglese… è un film muto, dunque potete godervelo lo stesso. Se sapete l’inglese, però, è meglio perché nel Dvd , tra i contenuti speciali, c’è una Scene Comparison cioè un confronto tra le pagine del romanzo (da cui il film è tratto), quelle corrispondenti della sceneggiatura e le scene/inquadrature realizzate nel film. Questo confronto vi farà capire perfettamente i passaggi tra le differenti versioni della stessa storia (romanzo, sceneggiatura, film). (I film muti, sia detto per inciso, non vanno trascurati, perché la scansione dei tempi della narrazione cinematografica inizia da lì. E lì si sono affrontate e vinte le battaglie in teoria più impossibili: ad esempio trarre un bellissimo film da un complesso capolavoro letterario come L’Uomo che ride, senza neppure potersi avvalere dei dialoghi. Altro che chiacchierate in tempo reale!). Il secondo film è invece molto più recente e apparentemente non ha nulla a che vedere con il primo. E’ L’Uomo Ragno di Sam Raimi. Ma come cercherò di mostrarvi confrontando due scene di questi due film, ci sono regole della narrazione per immagini che a ottanta e passa anni di distanza non sono cambiate e che hanno a che fare con l’argomento di questa lezione: il Tempo del Cinema. E in particolare con un aspetto: come rendere i passaggi emotivi che caratterizzano lo sviluppo di un’azione.
a) The Penalty
Lon Chaney interpreta nel film uno spietato gangster incattivito con il mondo intero perché quand’era ragazzo, dopo un incidente che gli era occorso, un giovane medico inesperto, lo aveva curato con frettolosa imperizia, amputandogli le gambe. A distanza di anni, Chaney scopre che la figlia del medico (ormai diventato un rispettato professionista), appassionata scultrice, cerca un modello per un scultura molto particolare: un busto di Satana. Chaney riesce a farsi prendere come modello, in fondo chi meglio di lui: non solo è una figura davvero diabolica, ma è per tragica ironia un busto umano vivente. Chaney vuole attuare una sua strategia vendicativa: affascinare la figlia del dottore, magari suscitando la sua pietà, per legarla a lui e vendicarsi così dell’operazione subita da parte del padre della ragazza (il piano in realtà è più intricato, ma qui è inutile addentrarsi nella storia). La scena che analizziamo è assai complicata. Ormai il lavoro è quasi finito. La ragazza dice al suo modello: “Come posso ringraziarvi per l’aiuto che mi avete dato?” Lui ha un fremito, quasi di tenerezza ( dunque si è innamorato!) e ne resta confuso. Risponde: “A lavoro finito, restiamo in contatto.” Lei ha uno sguardo perplesso e diffidente. Lui si lancia in un’appassionata dichiarazione d’amore. Lei ne resta sorpresa e raggelata. Prova sentimenti contrapposti : incredulità, spavento, pietà… finché scoppia in una risata isterica. Lui incupisce. I suoi lineamenti si distorcono in un’espressione di odio. Cerca di afferrare la ragazza e cade a terra. Si risolleva inferocito e si trascina verso di lei che fugge atterrita per poi bloccarsi sulla soglia, in ansia. “Quasi istantaneamente “ (precisa la didascalia) lui realizza d’aver perso il controllo, rivelando la sua natura malvagia e i suoi scopi vendicativi. Finge di sentirsi male, simula un’intensa sofferenza interiore, prende tempo cercando di rimediare all’errore commesso. Si batte il petto e si proclama disperatamente infelice, chiede perdono per aver pensato a lei come oggetto dei suoi impossibili desideri. Lei si calma. Lui spiega che la risata di lei per lui è stata come acido versato sulle ferite interiori. Scruta l’effetto delle sue parole. Lei si torce le mani, a disagio. Gli spiega d’aver riso nervosamente: lui l’aveva spaventata. Rientra nella stanza. Lui capisce d’avercela fatta. Di nuovo le chiede perdono.
Siamo dunque di fronte a un’azione molto barocca e difficile da rappresentare (nel Dvd potete confrontarla con la corrispondente descrizione del romanzo e con la prima traccia di sceneggiatura) dove si passa per stati d’animo contrapposti e per contrapposte azioni: è tutto un esprimere e un dissimulare. Quanto tutto ciò sia ben lontano dalla vita reale dovrebbe esservi evidente: nella realtà un simulatore contiene le sue emozioni, sempre, qui invece non si contiene affatto: è sincero quando si infuria, è esageratamente teatrale quando finge, è esplicito nei passaggi perché le sue passioni intime si rivelano nelle espressioni del suo volto e nel suo atteggiamento. Questa non è solo la grammatica del cinema muto, è la grammatica del cinema: didascalie o meno, l’interiorità va esteriorizzata perché il pubblico possa capire. L’atto rivela l’animo, il discorso interiore , i pensieri intimi, si fanno esteriori, manifestandosi in comportamenti ed espressioni. La scena è condotta su una dinamica emotiva. Nella sua brevità, non trascura nessun singolo passaggio. C’è in questa scansione sequenziale minuta qualcosa del fumetto: un congelare i singoli istanti in frammenti inequivocabili, ciascuno di quali descrive figurativamente un meccanismo psicologico in atto. Se l’azione è rapida, non è tuttavia sbrigativa. Ogni singolo passaggio viene espresso in un tempo concentrato. Non si cancella la dinamica psicologica, la si esplora per rapidi frammenti.
b) L’Uomo Ragno
Il giovane Peter Parker manifesta all’improvviso i suoi superpoteri. Non essendo ancora consapevole d’essere diventato un Uomo-Ragno, è talmente sconvolto dalla scoperta che fugge e si nasconde in un vicolo. L’espressione del suo volto rivela che non ha capito cosa gli è accaduto e che se lo sa chiedendo. Si guarda il polso, dove ha una strana cicatrice a forma di ragnatela. Là dove è stato punto da un ragno, è rimasto uno strano arrossamento della pelle. Cambia l’inquadratura, ora è più all’alto, con in PP una grossa ragnatela. Peter alza il capo e la guarda. Ha un sospetto. Torna a guardarsi la mano. L’inquadratura adesso è un macro-ingrandimento quasi da microscopio.Notiamo delle bizzarre inflorescenze che spuntano dai pori della mano di Peter: non sono esattamente peli, somigliano a zampe di ragno, con appendici prensili. Peter appoggia il palmo della mano contro il muro. Avverte che i suoi polpastrelli hanno acquisito un tocco “da ventosa”. Comincia a risalire il muro. Ci riesce. Esulta.
Come vedete, anche se siamo in un film sonoro, abbiamo anche qui una sequenza muta, persino più muta di quella di The Penalty, perché senza didascalie e perché c’è un solo personaggio in scena, in preda a turbamenti interiori. Uno sceneggiatore distratto probabilmente lo avrebbe fatto parlare da solo, perché esprimesse ad alta voce il suo sconcerto “cosa mi sta succedendo?” , “cos’è questa cicatrice?” “Sì, qui è dove mi ha punto il ragno” eccetera. Ma la sequenza avrebbe perso efficacia. Noi pubblico dobbiamo vedere quello che vede Peter Parker e fare lo stesso ragionamento che sta facendo lui. Così la rappresentazione è veramente efficace. Anche qui, come in fumetto, ogni singolo passaggio viene mostrato, ogni azione corrisponde a un tempo psicologico, a un ragionamento. Le singole fasi, dallo sconcerto iniziale alla riflessione, dalla rivelazione all’esultanza finale, ci sono tutte. Nulla di tutto ciò è realistico: nel tempo reale passare da un trauma alla scoperta che ciò che ci è capitato e che ci ha spaventato è invece una nuova opportunità, un potere acquisito di cui essere fieri e felici, è un processo molto lungo e complesso. Qui viene sbrigato in un minuto. Eppure è verosimile, ci appare tale, perché nessun passaggio viene trascurato. Questo è il tempo concentrato del cinema.
Esercizio – Riprendete il vostro protagonista. Qualunque sia il percorso narrativo che avete previsto per raccontare la sua storia, ci sarà senz’altro (deve esserci) un momento in cui il protagonista entra in conflitto non solo con le difficoltà esterne, ma anche con se stesso. E’ un momento cruciale, in cui egli affronta le proprie contraddizioni e le supera dopo un conflitto interiore. Provate a scandire i singoli momenti, le fasi di questo conflitto. In altre parole , scalettate una singola scena , frammentandola in istanti, e cercate di esprimere in ciascuno di questi istanti la soluzione che si fa largo nella mente del protagonista. Potrebbe essere una scena a due (le esitazioni, gli avanti e indietro, i passi falsi in una dichiarazione d’amore), oppure un “a solo” (cosa devo fare? Come posso uscire dalla situazione problematica in cui mi trovo). Ma ricordate che questo conflitto dev’essere “esternato”, espresso in atteggiamenti esteriori che rendano chiaramente decifrabile al pubblico il percorso psicologico attraversato dal protagonista. In sceneggiatura, precisate i singoli passaggi. Non si tratta tanto di fornire indicazioni all’attore, ma di scandire la scena perché il racconto risulti verosimile ed efficace.
8° Lezione di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com
E’ un po’come alla scuola guida. Le lezioni che insegnano i componenti e il funzionamento del motore, possono venire considerate da chi le segue noiose e superflue: “Sono qui per imparare a guidare. Insegnami i comandi e i segnali stradali da rispettare, non mi interessa come l’auto funziona in sé, nei suoi meccanismi. Se non funziona bene o se si scassa ci penserà il meccanico.”
1. La curva dell’attenzione
Durante il servizio militare ebbi occasione di assistere alla proiezione di un filmato didattico prodotto dalla NATO. Sorprendentemente, ogni tanto il filmato veniva interrotto dall’apparizione di Mickey Mouse che suonava la tromba per risvegliare l’attenzione assopita degli spettatori. Ci venne in seguito spiegata la teoria che stava alla base di questa “trovata”. L’attenzione del pubblico ha un ciclo di circa venti/venticinque minuti. Parte abbastanza sostenuta e raggiunge il suo picco dopo i primi sette/dieci minuti, poi cala costantemente fino a raggiungere il minimo dopo, appunto, venti/venticinque minuti. Se la lezione continua oltre questo limite, l’attenzione risale mantenendosi abbastanza costante per altri venticinque minuti, ma non raggiunge mai l’apice dei primi dieci minuti. Lo sforzo di un comunicatore, dunque, deve essere duplice: usare i primi dieci minuti per fissare le informazioni fondamentali nella mente dello spettatore, e poi rallentare la caduta dell’attenzione, mantenendola alta con piccole “scosse”, “svolte narrative” o “colpi di scena”. Dato che i militari non vanno tanto per il sottile, il trucco escogitato ( l’apparizione divertente di Topolino e lo squillo improvviso di tromba) presuppone che a quel punto l’allievo (dopo il bombardamento informativo dei primi dieci minuti) abbia ormai le palpebre semi-abbassate e stia per crollare nel sonno. E’ evidente che siccome alla base dei processi di attenzione c’è la motivazione del soggetto, un conto è assistere per obbligo a un noioso filmato didattico, tutt’altro conto è andare al cinema, pagare il biglietto per uno spettacolo che si è scelto, e, in un ambiente raccolto che non consente molte distrazioni, assistere a un film che si presuppone di proprio gradimento. Tuttavia la Curva dell’Attenzione è stata presa molto sul serio dagli studiosi delle tecniche di comunicazione verbale, dai pubblicitari , dai produttori di programmi televisivi e, in misura crescente nel corso degli anni dal cinema americano, sempre più orientato all’Industria dell’Intrattenimento, più che alla creazione artigianale/artistica . Prendiamo ad esempio un film recente: Van Helsing di Stephen Sommers, che pare in preda a una vera ossessione di “mantenimento dell’attenzione”, cosa che si crede di ottenere con l’accumulo di scene d’azione al limite della congestione, supportate da musiche roboanti. E’ questo per la verità, un eccesso che può facilmente portare all’effetto contrario. I vecchi maestri dell’horror sapevano bene che le punte massime di tensione si ottenevano con il silenzio. Esagerare gli effetti visivi e acustici può condurre lo spettatore a una sorta di sonno ipnotico: il cervello, per difendersi dall’aggressione,”stacca” e lo spettatore si addormenta. Supporre che l’attenzione possa essere mantenuta alta con continue e aggressive “trovate” invece che con l’interesse del racconto e una sapiente regolazione dei ritmi narrativi, è pericolosissimo per chi fa cinema. Nelle scuole di sceneggiatura americane hanno però preso piede nel tempo teorie di segmentazione di ogni istante del racconto che sempre più rigidamente fanno riferimento agli studi sull’attenzione, prescrivendo passaggi obbligati di racconto al fine di stimolare costantemente il pubblico. La più celebre e influente di queste teorie è dovuta a Syd Field, lettore di sceneggiature e consulente di molte grosse major, docente di numerosi corsi per aspiranti sceneggiatori e autore di diversi libri e manuali sul tema. Ne potete trovare una puntuale spiegazione, con esercizi,nel suo libro The Screen-writer’s Workbook ( Exercises and Step-by-Step Instructions for Creating a Successful Screenplay) (Dell Publishing) , che qui di seguito analizzeremo sinteticamente e criticamente. Già fin dal titolo, comunque, risulta molto chiaro che per Syd Field, il successo di un film risiede in una sceneggiatura che applichi in ogni suo segmento delle precise regole di comunicazione.
2. Il metodo di Syd Field
a) Il modello base
Syd Field definisce un modello base di film: durata due ore circa di proiezione, suddivise in centoventi scene, dunque della durata media di un minuto. E un minuto di narrazione visiva corrisponde all’incirca ad una pagina di sceneggiatura. Dunque la lunghezza media di una sceneggiatura di un film di due ore, è di circa centoventi pagine.
Nulla da eccepire, fin qui. Un simile modello può venire definito “medio” ormai da molti anni, anche se il cinema delle origini conosceva una varietà molto maggiore di format ,varietà che l’attuale produzione di film in video sembra poter riportare in auge. Comunque, a questo modello possiamo tranquillamente attenerci.
Una prima istruzione si può già ricavare: i tempi narrativi di un film sono molto stretti e concentrati. Non dimenticate mai che dovete raccontare la vostra storia in un paio d’ore. Un film non è un romanzo che può durare quanto pare a voi. Ogni fase del racconto deve venire sviluppata in riferimento al tempo globale della narrazione. In sostanza: evitate di scrivere scene troppo lunghe. I tempi di un film, anche del più realistico dei film, non sono affatto “realistici”, non imitano cioè quelli della vita reale, li ricreano. Quando scrivete una scena, buttatela pure giù come vi viene, ma poi controllate quante pagine vi ha preso, rileggetela da capo figurandovela nel suo svolgersi, recitatene i dialoghi ad alta voce, cronometrate la sua durata. Se la scena si prolunga per troppi minuti , se occupa troppe pagine, cancellate tutto quanto è superfluo concentrandovi sul suo contenuto essenziale, su quel che serve veramente al racconto e sulle punte espressive. Se, per esempio, tutte le volte che un personaggio viene a contatto con un ambiente, voi lo fate entrare, ci descrivete il modo in cui si presenta agli altri, ciò che fa e che dice, e poi concludete con la sua uscita dall’ambiente e magari proseguite con una scena di passaggio in cui si sposta da questo all’ambiente successivo, be’ tutto questo risulterà alla fine di una lentezza mortale, ammorbante per lo spettatore. Meglio mostrare il nucleo dell’azione già in corso, eliminando testa e coda. Inoltre evitate, se non strettamente indispensabile, di allineare le scene con un ordine prevedibile e scontato. Luis Bunuel disse: “Se alla conclusione di una scena un personaggio dice all’altro: ci vediamo all’Hotel Ambassador, la scena successiva non può essere ambientata all’Hotel Ambassador. Dovunque, ma non lì.” Questo genere di raccordi tra scena e scena possono essere comodi e a volte anche utili, ma se insistiti, finiscono per negare una regola fondamentale del cinema: il racconto procede a stacchi. Su questo punto torneremo in seguito.
b) Suddivisione della sceneggiatura
- I Tre Atti
Syd Field suddivide una sceneggiatura in tre momenti fondamentali, cioè tre Atti. Nel Primo Atto, la presentazione del /dei protagonisti e della situazione (d’ambiente e di tema); nel Secondo Atto lo sviluppo, cioè il complicarsi della vicenda con l’ingresso di altri personaggi e con l’insorgere di conflitti e difficoltà; nel Terzo Atto, lo scioglimento, cioè da un lato il compimento delle premesse implicite nell’inizio, dall’altro il superamento delle difficoltà incontrate in senso positivo (il protagonista ce la fa) o negativo ( il protagonista soccombe).
Si può osservare che la divisione di un racconto in questi tre momenti, non è specifica del cinema, ma può applicarsi a molte altre forme di racconto ( musicale, letterario, teatrale) . Ogni racconto, ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Questa è certamente una struttura fondamentale, anche se bisognerebbe aggiungere che non è affatto, al contrario di quanto comunemente si crede, l’unica forma possibile di racconto. La struttura di un racconto può essere, ad esempio, anche circolare ( nel caso in cui il finale riproduca l’inizio) , oppure per frammenti, o anche trasgredire un ordine narrativo cronologico con un prima e un poi, o ripercorrere sempre la stessa vicenda, ma da diversi punti di vista, a partire dai quali la vicenda non ci appare mai come la stessa. Non è nemmeno infrequente che il racconto resti totalmente aperto e non si concluda affatto. Tuttavia la divisione in tre atti resta la struttura fondamentale di un racconto e specie in chi comincia ad affrontare i problemi della scrittura, è consigliabile attenervisi se non altro per dare un ordine alle idee e alle diverse fasi del racconto. Dunque quando pensate una storia e ne scrivete il soggetto, tenete sempre presente questa tripartizione e fissate in modo chiaro quali debbano essere l’inizio, lo sviluppo e la conclusione. Questo primo schema non esclude che in corso di scrittura voi poi non possiate cambiare questo previsto a priori per le singole parti. Per molti scrittori è molto più importante la scrittura stessa che la programmazione, cioè per questi scrittori le linee fondamentali di una storia emergono nel concreto, mentre la storia viene scritta. E’ scrivendo che spesso vengono in mente sviluppi e svolte che a freddo non avevamo previsto. Altri scrittori invece non riescono proprio ad andare avanti se non hanno chiaro fin dal principio il percorso complessivo degli eventi, per loro la scrittura è l’esecuzione di un progetto. Nessuno può sostenere che sia migliore uno scrittore del primo tipo o uno scrittore del secondo tipo. Questo non ha nulla a che fare con l’Oggetto Racconto, ha invece a che fare con il Soggetto Scrittore . Finché non avete scoperto bene che tipo di scrittore siete, è saggio mantenere una via mediana e cioè: scrivete una scaletta di quanto vi proponete di raccontare, a partire dai tre momenti fondamentali ( inizio, sviluppo e conclusione) e mettendo in ordine, all’interno dei singoli momenti, le diverse cose che prevedete debbano accadere, ma non applicate troppo rigidamente questa scaletta e all’occorrenza cambiatela se dalla scrittura concreta emergono in voi idee e spunti che vi spingono a modificare (con maggiore o minore radicalità) il progetto originario.
Tuttavia questa suddivisione in Tre Atti, come si è osservato al principio, non ci dice ancora nulla sulla specificità del racconto cinematografico e dunque Syd Field non si limita a questa prima indicazione, spingendosi oltre, nell’esame scrupoloso di ogni singolo Atto ( nella sua specificità cinematografica) e delle diverse fasi narrative all’interno di ogni singolo Atto.
Qui le indicazioni diventano estremamente minute e richiederebbero troppo spazio per essere esaminate. Mi limiterò dunque ai cenni fondamentali, rinviando chi fosse interessato ad approfondire, al testo sopra segnalato di Syd Field.
- Equilibrio delle parti
Anzitutto Syd Field ripartisce così i tempi dei tre Atti. Primo Atto , dalla scena 1 alla scena 30. Secondo Atto, dalla scena 31 alla scena 90. Terzo Atto dalla scena 91, alla scena 120. Cioè nell’equilibrio generale, lo sviluppo (il Secondo Atto) deve occupare pari spazio al Primo e al Secondo Atto sommati. Cioè significa , come indicazione agli aspiranti sceneggiatori, che la Presentazione non deve prolungarsi troppo, per non tradire l’attesa del pubblico che si entri nel cuore della vicenda vera e propria, e che la conclusione non deve essere “sbrodolata” . Anche qui, come indicazione di massima può risultare utile, ma non sta scritto da nessuna parte che obbligatoriamente un racconto cinematografico debba essere scandito così e con questi tempi. Né è obbligatorio che il racconto debba essere per forza equilibrato nelle sue parti, questa è una scelta che riguarda l’autore, è un fatto eminentemente stilistico che non può venire prescritto, pena la riduzione di ogni autore ad esecutore di progetti industriali pre-formattati nei dettagli.
Ora: è proprio questa seconda opzione che viene scelta da Syd Field,il quale proseguendo nell’esame dei singoli Atti, prescrive ad esempio, nel caso del Primo, una ulteriore tripartizione: tre momenti di dieci minuti ciascuno, dedicati alla progressiva individuazione del focus narrativo, cioè dai primi dieci minuti in cui necessariamente la presentazione è più generale e generica, ai secondi dieci minuti in cui si individuano con maggiore precisione il carattere del protagonista e il tema da narrare (quello che ci interessa di più tra i tanti possibili), al terzo segmento in cui si stringe ancora di più su un protagonista che ha ormai definito il suo obiettivo e sul nucleo centrale della vicenda.
Ma Syd Field non si ferma a questo. Prescrive ai suoi studenti di stendere una scaletta estremamente precisa e dettagliata, al punto da suddividere la vicenda nei suoi singoli istanti, cioè tutte le cose che devono accadere, una per una, ciascuna da appuntare su un foglietto separato e numerato. Si prescrive anche un certo numero di foglietti per ogni segmento dell’ Atto, in modo da poter assegnare un ritmo preciso e ordinato alla narrazione.
Esaminerò nella prossima lezione alcune reazioni degli autori di cinema a questo modo di intendere e di organizzare il lavoro di scrittura, qui per non rendere troppo astratto il problema, ho cercato di sottoporre la indicazioni di Syd Field a una verifica sperimentale, cui egli stesso invita i suoi allievi.
Cioè per stabilire se queste indicazioni servano davvero a individuare il Modello Vincente di racconto, cioè la Sceneggiatura di Sicuro Successo, ho scelto abbastanza a caso quattro film, di epoche, di stile e di genere molto diversi tra loro, ma tutti egualmente premiati da un indubbio successo sia sul piano commerciale che su quello dell’apprezzamento estetico. Ho esaminato questi film al videoregistratore, cosa che ciascuno di voi può fare, per vedere se effettivamente il loro modo di scandire la vicenda corrisponda allo schema tracciato da Syd Field.
- A qualcuno piace caldo ( di Billy Wilder)
Il film inizia come un film d’azione tipicamente gangsteristico: inseguimenti, sparatorie, irruzioni della polizia in bische. Dopo una decina di minuti così, si presentano i due protagonisti (due musicisti di jazz) Jack Lemmon e Tony Curtis che scappano nel corso di una retata e poi cercano, invano, un altro ingaggio. Al quindicesimo minuto, apprendono che l’unico ingaggio possibile è in un’orchestra femminile. L’altra protagonista del film, Marilyn Monroe, compare solo al minuto 24 (in singolare coincidenza, si può osservare, con la prevedibile flessione della curva dell’attenzione. Nel caso, bastano altre curve a risollevare subito il pubblico).
Grosso modo si può affermare che questo film non smentisce affatto il modello di Syd Field, anche se presenta una sua indubbia originalità per esempio presentandoci un lungo prologo d’azione, quasi che non si trattasse affatto di una commedia, ma di un film di gangster. Nei primi dieci minuti , i veri protagonisti non ci sono neppure. Questo film è dunque un prezioso esempio di come lo schema possa ( debba, direi) venire interpretato con la massima libertà creativa e non venir inteso come una “gabbia” entro la quale incastonare gli avvenimenti.
- L’esorcista ( di William Friedkin)
Dopo un misterioso flash urbano iniziale (notturno, su una casa normale, ma immersa in un’atmosfera spettrale) il film si sposta su un lungo prologo assolato nell’Iraq del nord, dove sono in corso scavi archeologici nel corso dei quali Max Von Sidow rinviene una statuetta di un demone e ha in seguito oscure premonizioni e visioni, si torna poi con uno stacco brutale allo scenario metropolitano. Dopo questi primi dieci minuti di racconto, ci vengono presentati i personaggi della madre di Reagan e di Reagan stessa ( un ragazzina posseduta dal demonio, ma non lo sappiamo ancora) . La madre è un’attrice e sta studiando un copione per la scena che dovrà girare il giorno dopo e , verso l’alba, viene destata da strani rumori che sembrano provenire dalla soffitta. Reagan, appura la madre, non si è svegliata e pare dormire placidamente nel suo letto. Il film prosegue con un tono di racconto del tutto anti-avventuroso, come una normale storia di vita quotidiana. Il percorso narrativo è reso in modo non lineare , anzi del tutto spiazzante, quando vediamo che il film in cui la madre di Reagan recita, è un film tipicamente anni 70 sulla Contestazione. Il racconto prosegue molto lentamente da qui in poi, facendoci intendere che Reagan soffre di qualche misterioso disturbo che richiede esami clinici, ed è solo dopo 45 minuti di film che questo genere di disturbi si manifesta in un’azione davvero inquietante: Reagan appare in camicia da notte nel salotto dove sua madre intrattiene degli ospiti e piscia sul tappeto.
Questo film non prolunga il prologo oltre i dieci minuti e in questo senso, ma solo in questo senso, può venire letto alla luce dello schema di Syd Field, ma poi prosegue con uno stile narrativo tutto suo, che spiazza continuamente il pubblico con salti di genere e di ritmo, quasi fosse un montaggio di film diversi, e che prima di entrare nel vivo della vicenda prolunga la nostra attesa a dismisura.
Il rigido schema di Syd Field è inapplicabile alla lettura di questo film.
- Il sorpasso ( di Dino Risi)
I protagonisti compaiono fin dai titoli di testa e ci vengono presentati nel contesto di una Roma deserta, in piena estate. La svolta del decimo minuto è rappresentata dall’uscita dei due da Roma, a bordo di una veloce macchina sportiva. La guida di Vittorio Gassman è così disinvolta che il suo compagno di viaggio Jean Louis Trintignant, osserva: “ Sono nelle mani di un pazzo!”. Si entra insomma nel pieno della vicenda, con una scena che è già una premonizione dell’incidente stradale che chiuderà drammaticamente il film. Ma questo il pubblico non lo sa ancora, non può ancora leggere questa scena e quella battuta come un “segnale”, perché questo evento è raccontato in assoluta fluidità con quelli che lo precedono e lo seguono. In altre parole, il pubblico non ha alcuna chiara percezione che il racconto sia entrato in una nuova fase. Non c’è nessun colpo di scena , nessun salto narrativo, nessun “cambiamento apparente di genere” che ci segnali che stiamo entrando in un’altra fase del racconto. Il sorpasso ci insegna qualcosa di molto prezioso: lo sceneggiatore deve avere una scaletta ( senza una scaletta che già prevedesse quel finale, la scena dell’uscita da Roma con l’auto che strombazza e va a gran velocità e la battuta di Trintignant non sarebbero state significative) , ma il pubblico non deve essere costretto a riconoscerla. La struttura di una narrazione deve essere ben presente a uno sceneggiatore consapevole, ma il pubblico non deve necessariamente accorgersene, anzi in una narrazione fluida è bene che non la avverta neppure.
- Shrek ( di Andrew Adamson e Vicky Jenson )
Nei primi dieci minuti si presentano l’Orco Shrek (protagonista del film) e il suo asino, in una scena molto animata in cui li vediamo vittime della persecuzione e della paura di contadini superstiziosi.
Dopodiché quando ci spostiamo nel rifugio di Shrek il film svolta presentandoci una vera e caotica irruzione di personaggi di favole diverse: la Bella Addormentata, il Pifferaio Magico, Cappuccetto Rosso eccetera. Il vero tema del film è appunto “il mondo delle favole” che visto come un insieme, anarchicamente mischia racconti separati in un’unica narrazione, avventurosa , ironica e parodistica.
Anche questo film corrisponde solo in modo molto libero alla scaletta di Syd Field.
- In conclusione
Dagli esempi di cui sopra, risulta insomma chiaramente che ( si faccia o meno riferimento alla curva dell’attenzione) il criterio secondo cui dopo dieci minuti di film si deve entrare nel vivo della vicenda e far “decollare” la narrazione, non è senza fondamento. Ma che prescrivere uno stile di narrazione punto per punto, minuto per minuto, oltre a violentare la libertà stilistica del narratore, non è affatto di per sé garanzia né di Successo, né di Qualità. Casca a fagiolo una citazione di Piaget, il grande pedagogo, che ha tra l’altro studiato attentamente i meccanismi dell’attenzione nei bambini: “Ascoltare una sinfonia è ben più che ascoltare una serie di note musicali separate”. In altre parole il ritmo , la fluidità, l’equilibrio oppure gli squilibri che vogliamo introdurre in una narrazione, non attengono affatto alle singole parti della narrazione e non possono venire stabiliti a priori, pena una semplificazione letale della comunicazione espressiva. Filosoficamente il problema può venire accostato al celebre paradosso di Zenone della Freccia Ferma. Cioè , se si considera il tracciato compiuto dalla freccia scoccata, essendo esso composto da un insieme infinito di punti, c’è sempre un punto che dovrà venire attraversato dalla freccia prima del successivo, dunque la freccia non si muove affatto e il suo movimento è pura apparenza. Ora: una pellicola cinematografica è composta da fotogrammi e il movimento è appunto frutto di un’illusione. Fotogrammi di per sé immobili, proiettati a un certo ritmo,vengono percepiti dall’occhio in una sequenza mobile. Ma se noi facciamo il procedimento inverso e frammentiamo il movimento nelle sue singole componenti, fino al singolo fotogramma, il risultato di questo modo di procedere è che il film non esiste più! Il singolo fotogramma , di per sé, non ha neppure la dignità estetica di una fotografia, in quanto non è fatto per essere visto nella sua singolarità, ma in sequenza.
Dividere la sceneggiatura in singoli istanti parcellizzati, può avere l’effetto, del tutto rovinoso, di distruggere il movimento, la fluidità narrativa, la percezione del racconto come un unicum. In altre parole, se l’assunto di Syd Field era quello di educare i suoi studenti a un racconto unito ed equilibrato, il risultato è l’opposto: un racconto macchinale che procede a scatti, prevedibile in ogni sua fase ( se non altro perché visto applicato pedissequamente in centinaia e centinaia di film) , senza vere alterazioni di ritmo e senza movimento alcuno. Il Motore Immobile.
-Esercizio: come affrontare la Scaletta.
Il consiglio che mi sento di dare agli sceneggiatori esordienti è dunque di studiare sì una partitura del film nei suoi momenti essenziali, ma di non applicare una struttura troppo rigida e vincolante al racconto.
Ci sono ben altri vincoli strutturali di cui un film deve tenere conto e questi li vedremo nella prossima lezione.
Nell’attesa, cominciate comunque ad esercitavi a scrivere una scaletta della vostra storia, dividendola in tre atti al fine di poterla intendere come un percorso d’insieme nel quale ogni momento (ogni cosa che deve succedere) sia pensato in rapporto con il tutto e con la durata complessiva. Ma tenete anche in conto che quasi mai la scaletta coincide con il momento ispirativo di un film. Lo stimolo per un racconto può essere fornito anche da una sola scena, da un singolo momento espressivo. A uno sceneggiatore molto di rado capita di incontrare un regista che gli racconti una storia nel suo completo percorso. Molti registi, non necessariamente “visionari”, possono dirvi: nel film deve esserci questo, e vi raccontano una situazione. Per esempio, per riferirsi a un noto film di Dario Argento: il protagonista assiste a qualcosa di terribile, vorrebbe chiudere gli occhi, ma non può, perché le sue palpebre in qualche modo sono bloccate. Al regista interessa raccontare questa situazione angosciosa. Il punto è come arrivarci, come collocarla nell’insieme del film, come elaborarla ( studiando ad esempio come poter realisticamente bloccare le palpebre del protagonista o a quale evento terribile egli venga fatto assistere e da chi, perché eccetera). Insomma : il più delle volte in partenza ( quando si pensa a un film) non c’è affatto, non c’è ancora un racconto, ma c’è una situazione fortemente emotiva, attorno alla quale costruire racconto. Spesso queste situazioni sono molte di più di una e dunque occorre scoprire come legarle tra loro in un racconto unitario. Se parto da singoli momenti climax, situazioni fortemente espressive, e poi costruisco il racconto, allora la scaletta è il risultato di un’elaborazione di elementi sparsi da approfondire e chiarire. Dunque i famosi foglietti da mettere in fila possono anche essere scritti prima della scaletta e approfonditi ben più che in una riga essenziale. I momenti dominanti di un film possono venire intesi non come scansioni del racconto, ma come momenti fondanti del racconto. In questo caso, il racconto dipende da loro, non sono loro a dipendere dal racconto.
Schematizzando: un modo di raccontare è partire dalla storia e poi piazzare ogni tanto un Mickey Mouse che suona la tromba, giusto per dare qualche scossa al pubblico. Resta però il fatto che in questo modo la forzatura si avverte, perché Mickey Mouse non c’entra nulla con la storia che sto raccontando. Anzi la storia di per sé potrebbe venire raccontata senza Mickey Mouse, se fossi in presenza di un pubblico molto motivato che non ha bisogno alcuno d’essere costantemente risvegliato.
Un modo completamente opposto di raccontare è: la storia mi serve solo per arrivare a Mickey Mouse, che è comunque la parte più divertente del film, più Mickey Mouse ci sono, meglio è, la storia è mero pretesto.
E infine c’è un modo più “equilibrato” di raccontare, che non consiste affatto nel dedicare un minutaggio fisso alle singole parti di un film, ma nell’articolare la narrazione fluidamente in modo che ( come nell’esempio del Sorpasso) i singoli episodi e gli scatti narrativi di un film non siano semplicemente assemblati e neanche siano percepibili come momenti distinti dal pubblico. Lo sceneggiatore deve avere in testa una struttura, ma il pubblico deve assistere a una storia, mentre la struttura può benissimo risultargli invisibile. E la storia è altrettanto importante dei singoli elementi che la compongono e la scandiscono. L’insieme e i singoli momenti si tengono l’un l’altro.
Non intendo dare un giudizio di merito su queste tre procedure, ciascuna a suo modo legittima, ma mostrare che il cosa e il come raccontare non sono mai riconducibili a un unico modello.
Cosa voglio raccontare? E’ la prima domanda da porsi: riguarda la scelta del tema centrale, la definizione del protagonista, del genere, di quello che mi preme mostrare, anche di singole scene o situazioni. E’ una fase libera e anarchica, da affrontare con la massima carica esplorativa, senza preoccuparsi di incongruenze, passi falsi, digressioni . In cinema è la fase in cui “si va a ruota libera” , occupata da lunghe conversazioni anche senza centro apparente, anche apparentemente improduttive, ma assolutamente fondamentale per trovare un’intesa tra sceneggiatori, tra questi e il regista e/o il produttore e/o l’attore protagonista. E’ la fase in cui anche lo sceneggiatore attraversa il caos per afferrare gli elementi veramente essenziali su cui fondare il proprio racconto.
La seconda è: Come voglio raccontare? Quale ritmo, quale stile espressivo esprime meglio il senso ( non solo contenutistico, anche emotivo) di questo film? Anche questa fase è esplorativa. Non la si decide semplicemente a priori ma sperimentando nel concreto la scrittura, per esempio, come suggerito dalla prime lezioni di questo corso, provando a presentare il protagonista , studiando il modo più efficace di rappresentarlo in una situazione definita. Questo genere di esercizio è quello che avete fatto scrivendo la prima scena del vostro film e sottoponendola a revisioni fino a trovare la versione per voi più convincente e corrispondente al racconto che avete in testa. Le scelte che fate nei primi dieci minuti di film, vi condizioneranno per tutto il racconto. Una falsa partenza non è recuperabile, va ripensata e riscritta.
Soltanto dopo aver chiarito a voi stessi e con il regista questi aspetti fondanti del film allora potete passare alla stesura di una scaletta che rappresenti un primo ordine da dare agli elementi del racconto e che vi funzioni da modello di riferimento nel corso della sceneggiatura vera e propria.